Epilogo
Era
successo. Sofia era morta la notte di Natale, nello stesso
istante in cui il Salvatore nasceva. Era terribilmente ironico tutto
ciò. Ciò che l'aveva ridotta in lacrime nel suo
letto d'ospedale,
però, era stato il non poter essere al suo fianco nel
momento in cui
chiudeva gli occhi sul mondo, a tenere la sua piccola manina
scheletrica.
Sofia
era nata sottraendole inconsapevolmente sei anni di vita, ed
era morta per ridarglieli. C'era qualcosa di incredibilmente ingiusto
in tutto ciò. Per questo aveva continuato ad urlare tutta la
notte,
fino a che un sordo dolore al petto non l'aveva costretta a smettere;
non le cinghie, non i medici e quelle loro dannate siringhe, ma il
dolore. Il dolore per la morte di una figlia che in realtà
aveva
fatto di tutto per salvarla, senza dirle nulla. Ora riusciva a
spiegarsi molte cose, tra cui anche il significato dei suoi sguardi
apparentemente apatici. E la donna volle rivivere tutti quei momenti
nella sua mente, in una sorta di atto autolesionista; volle
ricordarli uno per uno, e piangere per ognuno di essi fino a sentire
le tempie martellare per lo sforzo.
Probabilmente
divenne veramente pazza, alla fine. I medici non la
rilasciarono mai, non le permisero di presenziare nemmeno al funerale
della sua bambina. Si chiese mille volte, da dietro le sbarre della
sua stanza, mentre guardava il cielo, dove potessero averla sepolta.
Amava immaginare una piccola lapide bianca con scritte dorate a
fianco a quella del suo amato e defunto marito, morto così
presto da
non poter nemmeno conoscere la loro piccola Sofia; se li immaginava
incontrarsi e conoscersi in Paradiso, nei rari momenti di
lucidità
durante i quali si accorgeva di avere ancora abbastanza forza per
piangere.
Con
sé, la donna aveva portato le pietre che la sua piccola
Sofia
aveva collezionato grazie a quel maledetto gatto. Con
regolarità,
ogni domenica, la donna le tirava fuori dal cassetto e le disponeva
sul materasso, fra le coperte, affiancandoci anche i cinque turchesi
che le erano rimasti da quella fatidica mattinata. E fu proprio di
domenica che quel gatto apparve di nuovo.
Il
felino era sgusciato fra le sbarre, atterrando con un salto
elegante sulla sedia posta sotto di esse, e l'aveva guardata con quei
maledetti occhi gialli, contro cui lei aveva lanciato tutte le
possibili maledizioni negli anni passati. Era troppo stanca per farlo
anche in quel momento, però. Lo guardò con
rassegnazione, notando
ironicamente quanto fosse ingrassato in quegli anni, e come quella
sua abitudine di portarsi dietro un fazzoletto con una pietra fosse
rimasta immutata.
La
pietra, che il felino buttò sul letto, si rivelò
essere un
turchese. Il sesto, quello che gli aveva lanciato contro. La donna lo
prese in mano, muovendosi con esasperata lentezza. Calcolò
mentalmente gli anni passati dalla morte della sua bambina.
Sorrise
amaramente.
“Sono
già passati sei anni. Sei venuto a mietere la mia anima,
maledetto gatto?”
Il
gatto non si mosse, ma i suoi occhi risposero per lui; ora la
donna poteva vederci l'Inferno in quei sue specchi gialli, non
più
solo parole. Il felino voleva darle un assaggio di ciò che
l'aspettava.
Si
mosse con estrema lentezza, scendendo dal letto a piedi nudi. Si
affacciò un'ultima volta oltre le sbarre, facendo passare
una mano e
un braccio. Stava scendendo la notte, notò, e le luci
colorate della
città che si vedevano dalla sua stanza sembravano volerle
ricordare
il giorno della morte della sua piccola Sofia. Era uno dei rari
momenti di lucidità, quello, per cui non si stupì
di veder cadere
sul muretto bianco della finestra qualche lacrima. Stringendo nella
mano il sesto turchese, la donna si girò verso il felino.
“E
va bene: facciamola finita, demonio.”
“Mi
dispiace molto, signore: sua moglie è stata trovata
stamattina, impiccata nella sua stanza d'ospedale. Abbiamo tenuto
alta la guardia per un certo periodo, pensavamo fosse fuori pericolo,
ma...”
L'uomo
dai capelli neri si prese la testa fra le mani, sconvolto e
distrutto dalla notizia. Pensò alla piccola Sofia, che stava
aspettando fuori da quella stanza di poter vedere la mamma dopo due
mesi, e al fatto che non l'avrebbe mai più potuta vedere.
“Ha...
sofferto?” chiese con voce tremante.
Il
medico si aggiustò gli occhiali sul naso, sospirando
indeciso.
“Pare
che fosse preda di una delle sue solite allucinazioni quando
si è soffocata. Non sappiamo quanto ci abbia messo per...
esalare
l'ultimo respiro, signore.”
L'uomo
si passò una mano sul viso, asciugando le lacrime che,
copiosamente, gli rigavano le guance scavate dalla stanchezza. Ancora
una volta il pensiero andò alla sua piccola Sofia, e a cosa
le
avrebbe detto. Si chiese come poteva essere accaduto tutto
ciò, per
l'ennesima volta. Il medico lo guardò con l'indecisione ben
evidente
negli occhi, poi finalmente si decise.
“Devo
chiederle una cosa.”
“M-mi
dica, dot-tore.”
“Da
quanto tempo e da quando sua moglie soffriva di queste
allucinazioni?”
L'uomo
si prese qualche secondo per riordinare le idee, poi, con
bocca asciutta e umettandosi continuamente le labbra, rispose al
medico con voce ancora singhiozzante.
“E'
cominciato tutto quando dodici anni fa ho perso il lavoro. Rita
aveva paura che non saremmo più riusciti a riprenderci
economicamente – aveva paura della povertà, ed
è entrata in
paranoia. In più era appena nata Sofia...” Si
fermò un attimo per
riprendere il respiro. “Rita non voleva Sofia. Cercava di non
darlo
a vedere, riempiendola di premure come avrebbe fatto, secondo lei,
una madre normale, ma non riusciva a non darlo a vedere.
Così ha
finito per entrare in depressione e... dopo un po' di tempo ha
cominciato ad avere le allucinazioni: la trovavo la notte stesa per
terra con una coperta, nella camera di nostra figlia, con gli occhi
sbarrati e rivolti alla finestra; mormorava qualcosa ogni tanto, e
nominava spesso un gatto e il nome di nostra figlia.”
Il
medico, che aveva preso appunti in silenzio, fece un cenno
d'assenso.
“Capisco.
Mi risulta che prima di ricoverarla l'avete tenuta in
casa per circa sei anni, è corretto?”
“Sì.
Pensavamo che si sarebbe potuta riprendere... ma dopo sei
anni non ce l'ho più fatta. Mi distruggeva vederla ridotta
in quello
stato. Addirittura non mi guardava più, non mi vedeva
più... come
se per lei fossi morto.”
Il
medico sfogliò un rapporto.
“Sono
state trovate delle pietre preziose sul letto di sua moglie,
signore.”
L'uomo
dai capelli neri si tirò su di scatto, sorpreso.
“Oh.
Allora le aveva ancora con lei...”
“Sa
cosa potevano significare per la signora, o se avevano qualche
ruolo particolare nelle sue allucinazioni?”
L'uomo
deglutì.
“Gliene
regalavo una, a lei e a nostra figlia, ogni tanto. Rita ha
sempre amato le pietre preziose, fino ad esserne ossessionata. Per
lei avevano ognuna un significato... La sua pietra preferita era il
turchese. Era anche la mia, perché era il colore dei suoi
occhi.”
A
quel punto la voce dell'uomo si spezzò, e con la testa fece
segno
di non farcela più.
Il
dottore, quindi, lo congedò facendogli le sue condoglianze.
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