14
Aprile 2010, soffitta.
Non ho mai avuto la più
pallida idea di come si cominci un diario, e vorrei continuare a non
saperlo, dato che non ho troppa voglia di scriverlo. Mi spiego, non
sono una persona stupida ed insulsa, di quelle che non leggono mai
libri e che non sono a proprio agio mentre tengono una penna in mano,
tutt'altro.
Odio questo genere di cose, le trovo ridicole, lo
faccio soltanto perché me lo ha ordinato il mio
psicanalista, e i
consigli dello psicanalista vanno sempre seguiti, soprattutto del mio
psicanalista, che è russo, alto almeno due metri e ha la
stessa
stazza di un armadio a tre ante cui una famiglia numerosa ha dovuto
aggiungere una quarta anta per il nipotino in arrivo. Il mio
psicanalista lo conosco da circa tre anni, e da circa tre anni non
è
cambiato di una virgola, svariate volte ho pensato che si trattasse
di un Highlander piuttosto che di un comune mortale, ma le mie sono
tutte tesi che non vanno oltre la semplice supposizione.
Ad ogni
modo, siamo qui per parlare di me, non del mio psicanalista: sono
laureato in fisica nucleare, sono un appassionato di letteratura e
filosofia. Mi chiamo Noah Pattinson e ho un problema con
l'alcool.
Con problema non intendo una di quelle cose leggere, che
dopo una delusione amorosa diventano tipiche di chi non riesce a
superare la solitudine e ad affrontarla. No, io non sono
così
debole. Purtroppo sono una persona molto abile, e a causa di questa
mia abilità sono anche una persona capace di crearsi i
problemi più
insensati, stupidi e complicati dell'intero New England.
Vivo a
New York, una di quelle poche città in cui i turisti
arrivano e
pensano che la vita sia talmente meravigliosa da non consentire ai
suoi abitanti di avere problemi. Ebbene, credo di essere l'eccezione
che conferma la regola. Tanto per cominciare sono disoccupato, o
meglio, faccio il cameriere nel locale più malfamato del
Bronx,
mentre penso alla mia sudatissima laurea appesa nella mia camera. Non
ho uno straccio di donna, piuttosto una serie di piccole avventure
destinate a finire ancor prima che iniziassero e che vorrei lasciarmi
alle spalle una volta per tutte. Ad essere sincero non ho nemmeno mai
capito cosa intenda oggigiorno la gente con il termine
“innamorarsi”,
è un genere di sentimento al quale io non sono troppo
abbietto.
Mia
sorella Bessie mi accusa spesso di essere troppo imperniato col
misticismo e l'esasperazione religiosa da non avere nemmeno il tempo
di preoccuparmi per questo genere di cose (ovviamente lei è
sposata,
ha tre figli meravigliosi e un marito le regala mazzi di rose rosse
la Domenica mattina). A volte stento a capire per quale assurdo
motivo Bessie mi consideri così: io non sono una persona che
va a
messa, né una di quelle che non riescono a prender pace nel
letto se
prima non hanno recitato almeno per quindici minuti le preghiere,
però riesco a infilare Gesù in ogni discorso,
persino quando si
parla di andare a fare la spesa. Per conto mio, dunque, non condivido
la sua squallida opinione, forse troppo generale e
frettolosa.
Oltretutto io e Bessie possiamo parlare soltanto per
telefono (come sono costretto a fare anche con il resto della
famiglia, o quasi) quindi non posso nemmeno accusarla di avere un
giudizio sbagliato su di me, alla fine io e lei ci conosciamo come
possono conoscersi due tizi che si vedono per la prima volta in
metropolitana e che tra una fermata e un'altra hanno solo il tempo di
scambiarsi un paio di battute riguardo alla politica o alle
dimensioni dell'ultimo topo che hanno visto alla stazione centrale.
Il resto della famiglia, comunque, conta attualmente di altri
quattro maschi, oltre a me, e tre femmine. Nove figli in tutto, dato
che Matthew è morto tre anni fa, investito da un taxi nel
Queens. La
verità è che a New York gli incidenti sono
all'ordine del giorno:
prendiamo un tassista medio, che deve portare una coppia di tedeschi
dal J. F. K. a Manhattan, più precisamente a Soho. Se non
vuole che
i due tedeschi debbano pagare circa trecento dollari e che quindi lo
uccidano con una violenza atroce, deve sbrigarsi e cercare il modo
più breve e veloce per portarli a destinazione. I pedoni in
tutto
questo hanno il sacrosanto dovere di attraversare
la strada
lesti come un giaguaro, perché la loro vita vale almeno
quanto
quella di uno sventurato tassista.
La mia famiglia ovviamente non
ha mai condiviso questo mio punto di vista, tuttavia non riesco
nemmeno a biasimarla. Secondo loro Matthew è stato soltanto
una
povera vittima, un martire, e il tassista un assassino che, dato che
non era americano, ma di Santo Domingo, è stato accusato di
omicidio
colposo e rinchiuso in cella in quattro e quattro otto.
Se
Matthew oggi fosse vivo, avrebbe trentaquattro anni e sarebbe il
secondo figlio dopo Michael. Michael ne ha trentasei, e vive a Miami.
È una specie di aspirante scrittore di quarta categoria, che
per il
momento è ancora alla ricerca della sua musa ispiratrice e
quindi
cambia residenza con la stessa velocità con cui gli Stati
Uniti
riescono a scatenare una guerra. Credo che Michael sia tra i miei
fratelli quello al quale mi rivolgo più spesso,
probabilmente perché
è l'unico con la capacità di ascoltarmi quando
parlo per ore senza
mai fermarmi, anche se spesso e volentieri ho pensato che nel
frattempo, mentre io gli raccontavo la mia vita filo e per segno, lui
se ne andasse al bagno o a prepararsi un caffè. Ma in
realtà tutti,
a partire da Bessie, per finire a me o a Claire, adoriamo Michael e
vediamo qualcosa di diverso in lui; c'è chi lo considera un
mentore,
chi uno psicologo, un unicorno pezzato o magari un comodino, ma
Michael sarà sempre qualcosa che muta forma mano a mano che
si scava
nel cuore di ciascun fratello o sorella.
Dopo Michael, e
naturalmente Matthew, c'è Bessie. Bessie ha
trentatré anni, vive in
Europa, più precisamente a Liverpool, e ogni giorno non fa
altro che
ripetere con entusiasmo quanto sia meraviglioso vivere in quelle
città, che dovrei fare le valigie e lasciare questo
continente che
sembra abbrutirmi e andare a vivere con lei.
“I bambini hanno un
letto a castello”, mi ha detto una volta, “potresti
vivere nella
loro stanzetta!”
Come se trascorrere le notti con tre mocciosi
di cui non ricordo il nome, e francamente nemmeno il sesso, fosse il
sogno di una vita che si avvera.
Il marito di Bessie è un
cronista sportivo, si chiama Arthur, e guadagna un sacco di soldi.
Non ha una laurea in fisica nucleare (anzi, sono
più che
certo che non abbia affatto una laurea), e guadagna
un sacco
di soldi.
Dopo Bessie c'è Carla, l'attrice. Tra le tre sorelle
Carla è stata decisamente la più difficile da
trattare, per i miei
genitori, e la più stravagante. Tanto per cominciare, al
liceo aveva
i capelli blu elettrico e una specie di chiodo sul mento, al college
si era iscritta per studiare storia dell'arte, ma dopo nemmeno due
mesi è scappata via con un francese che aveva conosciuto
mentre lui
era a New York per lavoro. Grazie al fotografo francese (di cui al
momento mi sfugge il nome) ora Carla vive a Lione, ed è
addirittura
riuscita ad accaparrarsi qualche particina quasi importante in uno di
quei film che poi hanno vinto il Festival di Cannes e ad apparire
perfino sui teleschermi americani. Io la trovavo irriconoscibile,
aveva i capelli biondi e non c'era la minima traccia del fantomatico
chiodo sul suo mento.
Oliver ha trent'anni e vive nel New
Hampshire con sua moglie. Dopo aver cercato per anni che si liberasse
il posto alla cattedra di inglese all'università di Boston
ha
preferito volare basso e insegnare letteratura in un liceo di
Merrimack, una cittadina abbastanza sconosciuta e che, si vocifera,
abbia un gusto del macabro da poter vantare il miglior Halloween
degli Stati Uniti d'America.
Adesso mi fa un po' invidia parlare
di David, dato che io e lui siamo praticamente agli antipodi. David
è
un ragazzone ben piazzato, che è stato tre volte campione di
nuoto
al liceo, era il capitano della squadra di pallanuoto e aveva una
miriade di ragazze che gli correvano dietro come oche e che lui non
ha mai guardato nemmeno con la coda dell'occhio, perché
diceva di
essere innamorato solo e unicamente della sua Susan. Oggi vive a
Brooklyn, fa il giornalista ed è sposato con una sciacquetta
mezza
canadese.
Fortunatamente dopo David c'è Andrew, che è
decisamente il più simpatico della famiglia (beh... Dopo di
me
chiaramente). Andrew è palesemente e senza dubbio gay. In
casa se ne
sono accorti tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo ad alta voce,
quasi come se si trattasse di un anatema che ha sconvolto la
famiglia. Solo Claire, la più piccola della compagnia, ha
osato
chiedergli durante un pranzo del Ringraziamento, se fosse innamorato.
Mia madre ha rischiato quasi di morire soffocandosi con un osso di
tacchino. Andrew ha ventisette anni e anche lui vive a Manhattan, per
questo motivo è il membro della famiglia che riesco a vedere
più
spesso. Non rifiuto mai i suoi inviti a cena, lui e il suo compagno,
Charlie, cucinano da Dio.
Due anni dopo Andrew sono nato io, in
auto, mentre mio padre era bloccato nel traffico e mia madre aveva le
contrazioni. Ho corso il rischio di non respirare dopo la nascita,
dato che non c'era nessun medico nel raggio di un paio di Avenue e
tre Street. Fortunatamente però sono vivo e vegeto, seduto
sul
pavimento della mia soffitta a scrivere un diario mentre Puck, il mio
labrador e fratellastro acquisito, graffia contro la porta.
L'ultima
della famiglia è Claire, la seconda artista dopo Carla. Ha
diciannove anni e sembra essere la futura promessa dell'American
Ballet. Una carriera che ha ottenuto grazie a svariati colpi di
fortuna e, modestamente, al buon occhio del sottoscritto. Claire era
una ballerina nata e nessuno in famiglia se n'era accorto,
probabilmente Andrew al giorno d'oggi sarebbe stato abbastanza
sveglio per farlo, ma all'epoca era ancora un bambino un po' tonto e
che guardava con sdegno i soldatini e le macchinine, perché
le
Barbie erano decisamente più interessanti.
Forse per uno sforzo
di gratitudine al più giovane di tutti i suoi fratelli
maggiori,
Claire è l'unica che rinuncerebbe a mille impegni di lavoro
pur di
venirmi a trovare il più spesso possibile. E ogni volta
può
constatare, con grande disappunto di Bessie, alla quale riferisce
praticamente tutto, che trova libri dappertutto, ma che la dispensa
rimane costantemente vuota, che faccio dormire Puck sul divano dove
di regola dovrebbero stare le persone, che non rispondo mai al
telefono e lei ogni volta ha il terrore che io sia morto per aver
infilato un dito nella presa dell'elettricità o qualcosa del
genere.
Naturalmente lei e tutti gli altri sanno del mio psicanalista e
della situazione un po' precaria. Nessuno prende la cosa alla
leggera, ma ovviamente è trattata un po' come è
trattata
l'omosessualità di Andrew, cioè alla stregua di
un tabù. Non è un
problema per me che lo sappiano, e non è un problema che mia
madre,
nelle sue interminabili telefonate, a un certo punto mi chieda, con
il tono di voce più basso che riesca a fare, se sono stato
dallo
psicologo. Quella domanda per me è un sollievo,
perché preannuncia
la fine della conversazione.
Mia madre è, o meglio, era,
insegnante di letteratura in una scuola privata di Manhattan.
Naturalmente (e con nostra grande sfortuna) le è rimasta
l'abitudine
di trattare con i suoi figli come se fossero degli alunni, e spesso
rimprovera a Claire il fatto di non aver potuto finire il liceo a
causa del balletto. A nessuno di noi interessano le sue proteste,
quindi Claire non risulta mai offesa dalle parole di nostra madre.
Brett, questo è il nome di mia madre, ha sessantaquattro
anni, per
gli amici cinquantaquattro, ed è la tipica madre che ha il
coraggio
di mettersi a sistemare la camicia nei pantaloni di suo figlio
più
che ventenne in pubblico e alla luce del giorno, pur di vederlo in
perfetto ordine. E credetemi, è vero e io sono la povera
vittima.
La
verità è che mi trovavo a Central Park con tutta
la mia famiglia,
eccetto mio padre e Matthew, che non ci sono più, e io e
Claire
avevamo pattinato sul ghiaccio. Ora, qualunque essere umano, eccetto
ovviamente la signora Brett Pattinson, dovrebbe di regola scomporsi
un pochino mentre pattina su venti metri per venti di ghiaccio in
compagnia di un'altra cinquantina di persone. Ma per mia madre non
c'è mai limite al buon costume. Stavo uscendo, e lei mi ha
afferrato
per un braccio con la stessa forza un lottatore e ha cominciato a
infilarmi le mani nei pantaloni sotto lo sguardo divertito dei miei
fratelli e quello a dir poco allibito degli estranei. È
ovvio ora,
che il caso clinico sia lei, non io, e che c'è un motivo se
ho
bisogno di vedermi con uno psicanalista, no?
Dopo quell'episodio
ho sempre evitato di farmi vedere a meno di una trentina di metri
dalla pista di pattinaggio artificiale, onde evitare che qualcuno
potesse per caso (e sfortunatamente) riconoscermi.
Credo che
questo aneddoto basti a descrivere e a far capire la cura maniacale
che Brett ha dei suoi figli e che non ci siano problemi se adesso
decidessi di parlare un po' di mio padre (o meglio, di citare anche
lui più per giustizia se non per altro, dato che
differentemente dai
miei fratelli maggiori, io non ho passato molto tempo con
lui).
Montag Pattinson nacque nell'Iowa, suo padre era un pompiere
e suo figlio si beccò quel nome a causa della sua passione
per
Fahrenheit 451. Montag ne è il protagonista e a sua volta
è un
pompiere, ma nella sua città gli incendi non vengono spenti,
ma
appiccati. Mi piacerebbe dire altro su questo meraviglioso capolavoro
letterario o giù di lì, ma mi sono sempre
rifiutato di leggere quel
libro, dato che ho sempre trovato estremamente stupida l'idea di dare
al proprio figlio il nome di un personaggio inesistente. Sì,
lo so,
sono un caso clinico. Distruttivo e cinico.
Ad ogni modo, Montag
si trasferì a New York all'età di ventinove anni,
quindi sono
passati circa quarant'anni da allora, e lavorava nella polizia. Non
so dire come si siano conosciuti lui e Brett, dato che quella donna
ha la strana abitudine di cambiare versione ogni volta che ne parla e
che l'unica costante tra una storia è l'altra è
il romanticismo,
condito da un'atmosfera stracolma di stelle cadenti, violini e magari
gattini bianchi e adorabili.
A Brett i gattini piacciono da
morire, ogni volta che ne vede uno in televisione mi domanda se non
sia carino, e quando le rispondo che è
“più che simpatico” e
“carino quanto Dio ha voluto che fosse carino”, lei
sembra
confusa, ma accetta comunque la mia opinione.
Tornando a Montag, è
morto che io avevo sette anni e mia sorella Claire uno, durante una
sparatoria nel Bronx. I ricordi che ho di lui riguardano qualche
domenica feriale, durante la quale ci portava a vedere le partite di
football, o un paio di passeggiate a Central Park, una delle quali mi
procurò la minuscola cicatrice che ho ancora ora sulla
fronte. Stava
portandomi sulle spalle e aveva scavalcato la recinzione che divideva
il viale ciclabile dai prati con gli alberi acquistati dai
newyorchesi, e a un certo punto si era messo a correre. Mia madre
strillava di stare attento, perché avrebbe potuto cadere a
far male
a entrambi; i fratelli, fino a David, battevano le mani e ridevano
estasiati, i più grandi si allontanavano cercando di fingere
che
quello non fosse loro padre.
A un certo punto, bum!, e mi ritrovo
sdraiato nell'erba e le foglie secche. Montag non si era accorto di
un ramo piuttosto basso e io ci ero finito contro, rischiando una
commozione cerebrale. I milioni di controlli cui fui sottoposto (per
volere di Brett, più che di mio padre) dimostrarono che
fortunatamente non era successo niente, e riuscii a cavarmela con un
paio di punti. Questa storia viene tramandata ancora oggi ai figli di
Bessie, per esempio, ai quali mia sorella racconta di uno zio che ha
una cicatrice a forma di Florida sulla testa. Secondo Andrew la forma
è quella di una torta al formaggio (non so perché
al formaggio, ma
lui sostiene che si tratti esattamente di una torta al formaggio), a
me sembra il fegato di un cane morto.
Al di là delle divagazioni
sulla mia cicatrice (che vorrei specificare, è piccola e
discreta,
molto semplice da nascondere sotto una ciocca di capelli), nella mia
famiglia la perdita di Montag non fu sentita molto, né
pianta fino
alla nausea (eccetto per Brett, ma lei potremo giustificarla). Il
fatto purtroppo ci colse all'improvviso e nessuno poté
goderne a
pieno.
Michael era stato così entusiasta dopo il diploma che se
n'era letteralmente scappato in Europa a fare un viaggio
“ristoratore” con alcuni tra i suoi ex-compagni e
l'aggiunta di
Matthew e Bessie (inviata da Brett nella speranza che potesse far
tornare i suoi figli a casa vivi e con una fedina penale
possibilmente pulita). La ristorazione del viaggio consisteva nel
repentino cambiamento di albergo e nel migrare da uno stato all'altro
per visitare più città possibili nel giro di un
mese (io ci avevo
guadagnato una maglietta del Barcellona, ma non essendo molto
interessato al calcio, finii per regalarla a mia volta a Claire, che
a sua volta la cedette – quasi a malincuore – a uno
dei suoi
amori in età adolescenziale).
Carla, come ho già detto, aveva
uno spirito libero e quello era il periodo in cui aveva abbracciato
la cultura Zen, e quindi comprò Dimitri Mendeleev, convinta
che in
realtà quel labrador beije col naso rosa fosse la
reincarnazione di
Montag. Oliver appoggiò mia sorella, insistette per comprare
un
collare a Dimitri Mendeleev e impose di incidere su una targhetta
d'oro che quel cane era il capostipite della famiglia Pattinson in
tutto il suo splendore.
David pianse un pochino, ma più per il
carro armato che aveva amorevolmente riposto nella bara (semmai suo
padre avesse avuto bisogno di difendersi contro qualche vicino di
tomba cattivo) che per il genitore defunto.
Andrew aveva nove
anni, e come me fissava il volto pallido senza capire che cosa fosse
successo di preciso, a un certo punto mi disse soltanto che da quel
momento si sentiva cambiato, e poi non parlò per un mese.
Uno
psicologo spiegò che Andrew non aveva perso la parola e che
il suo
non era un problema a livello mentale, semplicemente, il bambino non
sentiva il bisogno di parlare per il momento, quindi preferiva stare
in silenzio. Parlò per la prima volta dopo trenta giorni
esatti,
quando eravamo seduti a tavola, e mi chiese di passargli l'acqua.
In
quel periodo la mia reazione fu strana, all'inizio di stupore, poi di
paura, e infine finii per accorgermi che il cambiamento
fondamentalmente era stato percettibile solo in Brett, divenuta tutto
d'un tratto leggermente più taciturna e molto protettiva, e
che
Montag non mi mancava quasi per niente. Il mio unico e concreto
ricordo di lui, oggi, è questa cicatrice a forma di fegato
di cane
morto.
Credo che passare in rassegna tutta la schiera di figli che
Brett e Montag hanno messo al mondo con orgoglio fosse indispensabile
per cominciare la mia storia, per quanto possa risultare noioso. Ad
ogni modo, in questo diario si susseguiranno racconti e ricordi,
mescolati con pagine di vita quotidiana, non necessariamente in
ordine cronologico. La maggior parte di essi, ovviamente,
riguarderà
me, dato che questo lo dice il mio psicanalista. Ma avrei parlato di
me anche se lui non lo avesse specificato, del resto non vedo
perché
dovrei togliermi di qui.
Il
secondo capitolo di questa FanFiction è già
bell'e pronto, ma sono
ancora molto indecisa se pubblicarlo o meno! Si vedrà dalle
recensioni, e da ciò che ne pare a voi di questa storia...
Io me ne
torno a studiare chimica inorgnanica. (:
|