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Autore: ballerinaclassica    05/12/2010    7 recensioni
Le note a fondo pagina sono esteticamente poco piacevoli, le virgole stanno diventando troppe e il mio psicologo vuole questo maledetto diario completo e pieno di affettuosità da dar la nausea entro il prossimo anno.
Mi sento in trappola, e dire che stavo cercando di smettere di bere!
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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14 Aprile 2010, soffitta.



Non ho mai avuto la più pallida idea di come si cominci un diario, e vorrei continuare a non saperlo, dato che non ho troppa voglia di scriverlo. Mi spiego, non sono una persona stupida ed insulsa, di quelle che non leggono mai libri e che non sono a proprio agio mentre tengono una penna in mano, tutt'altro.
Odio questo genere di cose, le trovo ridicole, lo faccio soltanto perché me lo ha ordinato il mio psicanalista, e i consigli dello psicanalista vanno sempre seguiti, soprattutto del mio psicanalista, che è russo, alto almeno due metri e ha la stessa stazza di un armadio a tre ante cui una famiglia numerosa ha dovuto aggiungere una quarta anta per il nipotino in arrivo. Il mio psicanalista lo conosco da circa tre anni, e da circa tre anni non è cambiato di una virgola, svariate volte ho pensato che si trattasse di un Highlander piuttosto che di un comune mortale, ma le mie sono tutte tesi che non vanno oltre la semplice supposizione.
Ad ogni modo, siamo qui per parlare di me, non del mio psicanalista: sono laureato in fisica nucleare, sono un appassionato di letteratura e filosofia. Mi chiamo Noah Pattinson e ho un problema con l'alcool.
Con problema non intendo una di quelle cose leggere, che dopo una delusione amorosa diventano tipiche di chi non riesce a superare la solitudine e ad affrontarla. No, io non sono così debole. Purtroppo sono una persona molto abile, e a causa di questa mia abilità sono anche una persona capace di crearsi i problemi più insensati, stupidi e complicati dell'intero New England.
Vivo a New York, una di quelle poche città in cui i turisti arrivano e pensano che la vita sia talmente meravigliosa da non consentire ai suoi abitanti di avere problemi. Ebbene, credo di essere l'eccezione che conferma la regola. Tanto per cominciare sono disoccupato, o meglio, faccio il cameriere nel locale più malfamato del Bronx, mentre penso alla mia sudatissima laurea appesa nella mia camera. Non ho uno straccio di donna, piuttosto una serie di piccole avventure destinate a finire ancor prima che iniziassero e che vorrei lasciarmi alle spalle una volta per tutte. Ad essere sincero non ho nemmeno mai capito cosa intenda oggigiorno la gente con il termine “innamorarsi”, è un genere di sentimento al quale io non sono troppo abbietto.
Mia sorella Bessie mi accusa spesso di essere troppo imperniato col misticismo e l'esasperazione religiosa da non avere nemmeno il tempo di preoccuparmi per questo genere di cose (ovviamente lei è sposata, ha tre figli meravigliosi e un marito le regala mazzi di rose rosse la Domenica mattina). A volte stento a capire per quale assurdo motivo Bessie mi consideri così: io non sono una persona che va a messa, né una di quelle che non riescono a prender pace nel letto se prima non hanno recitato almeno per quindici minuti le preghiere, però riesco a infilare Gesù in ogni discorso, persino quando si parla di andare a fare la spesa. Per conto mio, dunque, non condivido la sua squallida opinione, forse troppo generale e frettolosa.
Oltretutto io e Bessie possiamo parlare soltanto per telefono (come sono costretto a fare anche con il resto della famiglia, o quasi) quindi non posso nemmeno accusarla di avere un giudizio sbagliato su di me, alla fine io e lei ci conosciamo come possono conoscersi due tizi che si vedono per la prima volta in metropolitana e che tra una fermata e un'altra hanno solo il tempo di scambiarsi un paio di battute riguardo alla politica o alle dimensioni dell'ultimo topo che hanno visto alla stazione centrale.
Il resto della famiglia, comunque, conta attualmente di altri quattro maschi, oltre a me, e tre femmine. Nove figli in tutto, dato che Matthew è morto tre anni fa, investito da un taxi nel Queens. La verità è che a New York gli incidenti sono all'ordine del giorno: prendiamo un tassista medio, che deve portare una coppia di tedeschi dal J. F. K. a Manhattan, più precisamente a Soho. Se non vuole che i due tedeschi debbano pagare circa trecento dollari e che quindi lo uccidano con una violenza atroce, deve sbrigarsi e cercare il modo più breve e veloce per portarli a destinazione. I pedoni in tutto questo hanno il sacrosanto dovere di attraversare la strada lesti come un giaguaro, perché la loro vita vale almeno quanto quella di uno sventurato tassista.
La mia famiglia ovviamente non ha mai condiviso questo mio punto di vista, tuttavia non riesco nemmeno a biasimarla. Secondo loro Matthew è stato soltanto una povera vittima, un martire, e il tassista un assassino che, dato che non era americano, ma di Santo Domingo, è stato accusato di omicidio colposo e rinchiuso in cella in quattro e quattro otto.
Se Matthew oggi fosse vivo, avrebbe trentaquattro anni e sarebbe il secondo figlio dopo Michael. Michael ne ha trentasei, e vive a Miami. È una specie di aspirante scrittore di quarta categoria, che per il momento è ancora alla ricerca della sua musa ispiratrice e quindi cambia residenza con la stessa velocità con cui gli Stati Uniti riescono a scatenare una guerra. Credo che Michael sia tra i miei fratelli quello al quale mi rivolgo più spesso, probabilmente perché è l'unico con la capacità di ascoltarmi quando parlo per ore senza mai fermarmi, anche se spesso e volentieri ho pensato che nel frattempo, mentre io gli raccontavo la mia vita filo e per segno, lui se ne andasse al bagno o a prepararsi un caffè. Ma in realtà tutti, a partire da Bessie, per finire a me o a Claire, adoriamo Michael e vediamo qualcosa di diverso in lui; c'è chi lo considera un mentore, chi uno psicologo, un unicorno pezzato o magari un comodino, ma Michael sarà sempre qualcosa che muta forma mano a mano che si scava nel cuore di ciascun fratello o sorella.
Dopo Michael, e naturalmente Matthew, c'è Bessie. Bessie ha trentatré anni, vive in Europa, più precisamente a Liverpool, e ogni giorno non fa altro che ripetere con entusiasmo quanto sia meraviglioso vivere in quelle città, che dovrei fare le valigie e lasciare questo continente che sembra abbrutirmi e andare a vivere con lei.
“I bambini hanno un letto a castello”, mi ha detto una volta, “potresti vivere nella loro stanzetta!”
Come se trascorrere le notti con tre mocciosi di cui non ricordo il nome, e francamente nemmeno il sesso, fosse il sogno di una vita che si avvera.
Il marito di Bessie è un cronista sportivo, si chiama Arthur, e guadagna un sacco di soldi. Non ha una laurea in fisica nucleare (anzi, sono più che certo che non abbia affatto una laurea), e guadagna un sacco di soldi.
Dopo Bessie c'è Carla, l'attrice. Tra le tre sorelle Carla è stata decisamente la più difficile da trattare, per i miei genitori, e la più stravagante. Tanto per cominciare, al liceo aveva i capelli blu elettrico e una specie di chiodo sul mento, al college si era iscritta per studiare storia dell'arte, ma dopo nemmeno due mesi è scappata via con un francese che aveva conosciuto mentre lui era a New York per lavoro. Grazie al fotografo francese (di cui al momento mi sfugge il nome) ora Carla vive a Lione, ed è addirittura riuscita ad accaparrarsi qualche particina quasi importante in uno di quei film che poi hanno vinto il Festival di Cannes e ad apparire perfino sui teleschermi americani. Io la trovavo irriconoscibile, aveva i capelli biondi e non c'era la minima traccia del fantomatico chiodo sul suo mento.
Oliver ha trent'anni e vive nel New Hampshire con sua moglie. Dopo aver cercato per anni che si liberasse il posto alla cattedra di inglese all'università di Boston ha preferito volare basso e insegnare letteratura in un liceo di Merrimack, una cittadina abbastanza sconosciuta e che, si vocifera, abbia un gusto del macabro da poter vantare il miglior Halloween degli Stati Uniti d'America.
Adesso mi fa un po' invidia parlare di David, dato che io e lui siamo praticamente agli antipodi. David è un ragazzone ben piazzato, che è stato tre volte campione di nuoto al liceo, era il capitano della squadra di pallanuoto e aveva una miriade di ragazze che gli correvano dietro come oche e che lui non ha mai guardato nemmeno con la coda dell'occhio, perché diceva di essere innamorato solo e unicamente della sua Susan. Oggi vive a Brooklyn, fa il giornalista ed è sposato con una sciacquetta mezza canadese.
Fortunatamente dopo David c'è Andrew, che è decisamente il più simpatico della famiglia (beh... Dopo di me chiaramente). Andrew è palesemente e senza dubbio gay. In casa se ne sono accorti tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo ad alta voce, quasi come se si trattasse di un anatema che ha sconvolto la famiglia. Solo Claire, la più piccola della compagnia, ha osato chiedergli durante un pranzo del Ringraziamento, se fosse innamorato. Mia madre ha rischiato quasi di morire soffocandosi con un osso di tacchino. Andrew ha ventisette anni e anche lui vive a Manhattan, per questo motivo è il membro della famiglia che riesco a vedere più spesso. Non rifiuto mai i suoi inviti a cena, lui e il suo compagno, Charlie, cucinano da Dio.
Due anni dopo Andrew sono nato io, in auto, mentre mio padre era bloccato nel traffico e mia madre aveva le contrazioni. Ho corso il rischio di non respirare dopo la nascita, dato che non c'era nessun medico nel raggio di un paio di Avenue e tre Street. Fortunatamente però sono vivo e vegeto, seduto sul pavimento della mia soffitta a scrivere un diario mentre Puck, il mio labrador e fratellastro acquisito, graffia contro la porta.
L'ultima della famiglia è Claire, la seconda artista dopo Carla. Ha diciannove anni e sembra essere la futura promessa dell'American Ballet. Una carriera che ha ottenuto grazie a svariati colpi di fortuna e, modestamente, al buon occhio del sottoscritto. Claire era una ballerina nata e nessuno in famiglia se n'era accorto, probabilmente Andrew al giorno d'oggi sarebbe stato abbastanza sveglio per farlo, ma all'epoca era ancora un bambino un po' tonto e che guardava con sdegno i soldatini e le macchinine, perché le Barbie erano decisamente più interessanti.
Forse per uno sforzo di gratitudine al più giovane di tutti i suoi fratelli maggiori, Claire è l'unica che rinuncerebbe a mille impegni di lavoro pur di venirmi a trovare il più spesso possibile. E ogni volta può constatare, con grande disappunto di Bessie, alla quale riferisce praticamente tutto, che trova libri dappertutto, ma che la dispensa rimane costantemente vuota, che faccio dormire Puck sul divano dove di regola dovrebbero stare le persone, che non rispondo mai al telefono e lei ogni volta ha il terrore che io sia morto per aver infilato un dito nella presa dell'elettricità o qualcosa del genere.
Naturalmente lei e tutti gli altri sanno del mio psicanalista e della situazione un po' precaria. Nessuno prende la cosa alla leggera, ma ovviamente è trattata un po' come è trattata l'omosessualità di Andrew, cioè alla stregua di un tabù. Non è un problema per me che lo sappiano, e non è un problema che mia madre, nelle sue interminabili telefonate, a un certo punto mi chieda, con il tono di voce più basso che riesca a fare, se sono stato dallo psicologo. Quella domanda per me è un sollievo, perché preannuncia la fine della conversazione.
Mia madre è, o meglio, era, insegnante di letteratura in una scuola privata di Manhattan. Naturalmente (e con nostra grande sfortuna) le è rimasta l'abitudine di trattare con i suoi figli come se fossero degli alunni, e spesso rimprovera a Claire il fatto di non aver potuto finire il liceo a causa del balletto. A nessuno di noi interessano le sue proteste, quindi Claire non risulta mai offesa dalle parole di nostra madre. Brett, questo è il nome di mia madre, ha sessantaquattro anni, per gli amici cinquantaquattro, ed è la tipica madre che ha il coraggio di mettersi a sistemare la camicia nei pantaloni di suo figlio più che ventenne in pubblico e alla luce del giorno, pur di vederlo in perfetto ordine. E credetemi, è vero e io sono la povera vittima.
La verità è che mi trovavo a Central Park con tutta la mia famiglia, eccetto mio padre e Matthew, che non ci sono più, e io e Claire avevamo pattinato sul ghiaccio. Ora, qualunque essere umano, eccetto ovviamente la signora Brett Pattinson, dovrebbe di regola scomporsi un pochino mentre pattina su venti metri per venti di ghiaccio in compagnia di un'altra cinquantina di persone. Ma per mia madre non c'è mai limite al buon costume. Stavo uscendo, e lei mi ha afferrato per un braccio con la stessa forza un lottatore e ha cominciato a infilarmi le mani nei pantaloni sotto lo sguardo divertito dei miei fratelli e quello a dir poco allibito degli estranei. È ovvio ora, che il caso clinico sia lei, non io, e che c'è un motivo se ho bisogno di vedermi con uno psicanalista, no?
Dopo quell'episodio ho sempre evitato di farmi vedere a meno di una trentina di metri dalla pista di pattinaggio artificiale, onde evitare che qualcuno potesse per caso (e sfortunatamente) riconoscermi.
Credo che questo aneddoto basti a descrivere e a far capire la cura maniacale che Brett ha dei suoi figli e che non ci siano problemi se adesso decidessi di parlare un po' di mio padre (o meglio, di citare anche lui più per giustizia se non per altro, dato che differentemente dai miei fratelli maggiori, io non ho passato molto tempo con lui).
Montag Pattinson nacque nell'Iowa, suo padre era un pompiere e suo figlio si beccò quel nome a causa della sua passione per Fahrenheit 451. Montag ne è il protagonista e a sua volta è un pompiere, ma nella sua città gli incendi non vengono spenti, ma appiccati. Mi piacerebbe dire altro su questo meraviglioso capolavoro letterario o giù di lì, ma mi sono sempre rifiutato di leggere quel libro, dato che ho sempre trovato estremamente stupida l'idea di dare al proprio figlio il nome di un personaggio inesistente. Sì, lo so, sono un caso clinico. Distruttivo e cinico.
Ad ogni modo, Montag si trasferì a New York all'età di ventinove anni, quindi sono passati circa quarant'anni da allora, e lavorava nella polizia. Non so dire come si siano conosciuti lui e Brett, dato che quella donna ha la strana abitudine di cambiare versione ogni volta che ne parla e che l'unica costante tra una storia è l'altra è il romanticismo, condito da un'atmosfera stracolma di stelle cadenti, violini e magari gattini bianchi e adorabili.
A Brett i gattini piacciono da morire, ogni volta che ne vede uno in televisione mi domanda se non sia carino, e quando le rispondo che è “più che simpatico” e “carino quanto Dio ha voluto che fosse carino”, lei sembra confusa, ma accetta comunque la mia opinione.
Tornando a Montag, è morto che io avevo sette anni e mia sorella Claire uno, durante una sparatoria nel Bronx. I ricordi che ho di lui riguardano qualche domenica feriale, durante la quale ci portava a vedere le partite di football, o un paio di passeggiate a Central Park, una delle quali mi procurò la minuscola cicatrice che ho ancora ora sulla fronte. Stava portandomi sulle spalle e aveva scavalcato la recinzione che divideva il viale ciclabile dai prati con gli alberi acquistati dai newyorchesi, e a un certo punto si era messo a correre. Mia madre strillava di stare attento, perché avrebbe potuto cadere a far male a entrambi; i fratelli, fino a David, battevano le mani e ridevano estasiati, i più grandi si allontanavano cercando di fingere che quello non fosse loro padre.
A un certo punto, bum!, e mi ritrovo sdraiato nell'erba e le foglie secche. Montag non si era accorto di un ramo piuttosto basso e io ci ero finito contro, rischiando una commozione cerebrale. I milioni di controlli cui fui sottoposto (per volere di Brett, più che di mio padre) dimostrarono che fortunatamente non era successo niente, e riuscii a cavarmela con un paio di punti. Questa storia viene tramandata ancora oggi ai figli di Bessie, per esempio, ai quali mia sorella racconta di uno zio che ha una cicatrice a forma di Florida sulla testa. Secondo Andrew la forma è quella di una torta al formaggio (non so perché al formaggio, ma lui sostiene che si tratti esattamente di una torta al formaggio), a me sembra il fegato di un cane morto.
Al di là delle divagazioni sulla mia cicatrice (che vorrei specificare, è piccola e discreta, molto semplice da nascondere sotto una ciocca di capelli), nella mia famiglia la perdita di Montag non fu sentita molto, né pianta fino alla nausea (eccetto per Brett, ma lei potremo giustificarla). Il fatto purtroppo ci colse all'improvviso e nessuno poté goderne a pieno.
Michael era stato così entusiasta dopo il diploma che se n'era letteralmente scappato in Europa a fare un viaggio “ristoratore” con alcuni tra i suoi ex-compagni e l'aggiunta di Matthew e Bessie (inviata da Brett nella speranza che potesse far tornare i suoi figli a casa vivi e con una fedina penale possibilmente pulita). La ristorazione del viaggio consisteva nel repentino cambiamento di albergo e nel migrare da uno stato all'altro per visitare più città possibili nel giro di un mese (io ci avevo guadagnato una maglietta del Barcellona, ma non essendo molto interessato al calcio, finii per regalarla a mia volta a Claire, che a sua volta la cedette – quasi a malincuore – a uno dei suoi amori in età adolescenziale).
Carla, come ho già detto, aveva uno spirito libero e quello era il periodo in cui aveva abbracciato la cultura Zen, e quindi comprò Dimitri Mendeleev, convinta che in realtà quel labrador beije col naso rosa fosse la reincarnazione di Montag. Oliver appoggiò mia sorella, insistette per comprare un collare a Dimitri Mendeleev e impose di incidere su una targhetta d'oro che quel cane era il capostipite della famiglia Pattinson in tutto il suo splendore.
David pianse un pochino, ma più per il carro armato che aveva amorevolmente riposto nella bara (semmai suo padre avesse avuto bisogno di difendersi contro qualche vicino di tomba cattivo) che per il genitore defunto.
Andrew aveva nove anni, e come me fissava il volto pallido senza capire che cosa fosse successo di preciso, a un certo punto mi disse soltanto che da quel momento si sentiva cambiato, e poi non parlò per un mese. Uno psicologo spiegò che Andrew non aveva perso la parola e che il suo non era un problema a livello mentale, semplicemente, il bambino non sentiva il bisogno di parlare per il momento, quindi preferiva stare in silenzio. Parlò per la prima volta dopo trenta giorni esatti, quando eravamo seduti a tavola, e mi chiese di passargli l'acqua.
In quel periodo la mia reazione fu strana, all'inizio di stupore, poi di paura, e infine finii per accorgermi che il cambiamento fondamentalmente era stato percettibile solo in Brett, divenuta tutto d'un tratto leggermente più taciturna e molto protettiva, e che Montag non mi mancava quasi per niente. Il mio unico e concreto ricordo di lui, oggi, è questa cicatrice a forma di fegato di cane morto.
Credo che passare in rassegna tutta la schiera di figli che Brett e Montag hanno messo al mondo con orgoglio fosse indispensabile per cominciare la mia storia, per quanto possa risultare noioso. Ad ogni modo, in questo diario si susseguiranno racconti e ricordi, mescolati con pagine di vita quotidiana, non necessariamente in ordine cronologico. La maggior parte di essi, ovviamente, riguarderà me, dato che questo lo dice il mio psicanalista. Ma avrei parlato di me anche se lui non lo avesse specificato, del resto non vedo perché dovrei togliermi di qui.






Il secondo capitolo di questa FanFiction è già bell'e pronto, ma sono ancora molto indecisa se pubblicarlo o meno! Si vedrà dalle recensioni, e da ciò che ne pare a voi di questa storia... Io me ne torno a studiare chimica inorgnanica. (:

   
 
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