The best day - extra 1
Lo
so...probabilmente vi state chiedendo se questo non sia un sogno... ma
invece è una bellissima realtà. sono tornata su questa
storia con un nuovissimo extra. Non so quanti ne farò, né
se a questi ne seguiranno altri, ma sentivo che qualcosa mancava e
poteva essere aggiunto. Se c'è qualcosa che credete possa essere
approfondito, non esitate a dirmelo. Approfitto per ringraziarvi delle
recensioni all'epilogo di questa storia, e mi auguro non ne farete
mancare nemmeno qui.
Vi lascio alla lettura...
Extra 1
La prima notte - P.O.V. Robert
Dio sono padre!!! Sono un papà!!!
Non riuscivo a spiegarmi come fosse
possibile. Ero passato come in un flash dall'essere un scapolone
impenitente ad essere un padre. Nel mezzo del flash c'erano una moglie
fantastica, un matrimonio e un batuffolino tutto rosso e piangente che
era appena uscito dalla sua pancia.
Certo aveva fatto parecchio casino
per venire al mondo. Ha rovinato la festa che tutti stavamo facendo in
suo onore ... o semplicemente aveva deciso di voler partecipare anche
lei ai festeggiamenti e diventare la guest star dell'evento.
Decisamente aveva già un spiccato senso dell'umorismo noir,
così tipico di noi inglesi, nonostante i pochi minuti di vita,
che non mi sarei insospettito più di tanto se il semplice latte
materno non le fosse bastato. Le avrei fatto provare del té e,
perché no, un goccio di Lager che non ha mai fatto male a
nessuno e mette tutti di buon umore.
Mentre lo staff della sala parto
aiutava Kristen nella fase post-parto e visitavano la piccola per la
prima volta decisi che era arrivato il momento di tirare il fiato un
attimo dopo la corsa delle ultime ore e andare ad annunciare la nascita
della piccola alla mia famiglia. Mi disfai di tutto quell'abbigliamento
verde, che faceva tanto stile E.R., mi diressi in sala d'attesa.
Feci appena in tempo ad aprire la
porta a spinta con una spalla, che mi trovai in mezzo alla calca di
parenti che non c'era stato verso di rimandare a casa e che avevano
letteralmente trasferito il baby shower da casa mia al reparto di
Ginecologia-Ostetricia del St. Mary's Hospital. Mia madre, mio padre e
le mie sorelle erano in prima fila e, accavallandosi nella
conversazione l'un l'altro, non capii una delle domande che mi
rivolgevano.
"Sshhhhhh!!!" fui costretto a blaterare a grandi gesti per farli tacere.
Finalmente intorno a me si
creò un varco abbastanza largo sufficiente, da consentire a
tutti di sentirmi e a me di respirare.
"è una bambina!" esclamai
felice e sollevato come se mi fosse stato levato di dosso un macigno.
Lasciai che si impossessassero (sarebbe meglio usare l'espressione
estirpare con violenza) del mio cellulare con cui, furtivamente, ero
riuscito a scattare una foto della piccola prima che ce la portassero
via. Se non me l'avessero restituito poco male ... non avevo voglia
proprio di sentire nessuno per successive ventiquattro ore.
Effettivamente lo stress accumulato
durante quelle ore, che erano passate senza quasi accorgemene, si
faceva sempre più pressante: infatti era ormai sera, anzi notte
avanzata, ed ora mi sentivo decisamente stanco. Ma non avrei lasciato
Kristen da sola per tutto l'oro del mondo; era la nostra prima notte da
genitori, dovevamo trascorrerla insieme. Perciò, sarei stato
comodo anche su una poltroncina, nella stanza che le avrebbero
destinato.
Dopo le congratulazioni, gli abbracci
e i baci reciproci, un'infermiera venne ad informarci che avevano
portato Kristen in stanza, probabilmente da una via secondaria,
certamente più consona visto che altrimenti sarebbe stata
aggredita da tutto il parentado in attesa. Così, con mio grosso
piacere, tutta quella marmaglia di parenti ed amici fu costretta a
tornarsene a casa, a bocca asciutta, e permisi solo a mia madre di
restare, per aiutarmi a sistemare la biancheria di Kristen e tutti i
festoni che quegli scalmanati avevano depositato in sala d'attesa.
"Allora ..." mi sussurrò,
avvolgendomi le spalle e appoggiandosi a me, mentre ci incamminavamo
nella corsia buia e silenziosa del reparto. Tutte le neo mamme
riposavano e noi ci godevamo un po' quel silenzo per assaporare meglio
la gioia del momento "... com'è?"
Non avevo dubbi sul significato della
domanda. Era impaziente di conoscere sua nipote e francamente non
vedevo l'ora anch'io di conoscerla meglio. Non sapevo proprio cosa
rispondere alla sua domanda, perché l'avevo vista talmente di
sfuggita che non avevo fatto in tempo a fissare nella mia mente il suo
volto. Ricordo un batuffolino tutto rosso, sporco di sangue e rimasugli
placentari, avvolto in un telino verde e che l'ostetrica, per tenerla
stretta a sé, aveva dovuto chiudere bene le braccia altrimenti
sarebbe caduta. Sapevo solo una cosa e non esitai a dirgliela:
"è proprio piccola!"
Entrambi ci lasciammo andare ad un sorriso pacato e sereno.
Purtroppo non potevo dire altro: non
ero mai stato abile nel descrivere le persone, figuriamoci farlo dopo
averla vista per un nano secondo. Il cellulare era morto nel frattempo
e lei non aveva potuto vedere la piccola foto tutta tremolante che le
avevo fatto: per l'emozione non ero stato in grado di tenere il
telefono ben fermo e l'obiettivo non aveva messo bene a fuoco la
bambina.
Non avevo idea di che colore fossero
i suoi occhi, chiusi stretti stretti a causa della luce accecante che
l'aveva accolta in sala parto, non avevo potuto cogliere cenni di
somiglianza nel suo volto perché aveva stretto contro il viso i
suoi pugnetti e li sfregava contro il piccolo nasino. Avrei dovuto
cogliere la possibilità di vederla meglio mentre era tra le
braccia di Kristen, ma le lacrime involontariamente iniziarono a
rigarmi il volto e ad offuscare la mia visuale.
Ero padre ed era la sensazione più bella del mondo.
Entrammo quietamente in stanza,
Kristen era già profondamente addormentata e non mi presi la
pena di svegliarla o distrurbarla. Aveva davvero faticato tanto e per
un attimo mi presi la briga ringraziare il "Signore del piano di sopra"
per aver lasciato alle donne un'incombenza simile ed avermi fatto
nascere uomo. Conoscendomi non avrei resistito più di cinque
minuti al dolore e avrei costretto i medici a farmi l'epidurale o
passare direttamente al taglio cesareo.
Ma nonostante tutta la fatica non
aveva perso quella sua bellezza naturale, quei tratti di ragazzina un
po' ingenua tuttavia non più così acerba, un piccola
donna alla scoperta del mondo. La sua femminilità stava venendo
fuori sempre di più e mi resi conto che ogni giorno amavo una
donna diversa eppure costantemente meravigliosa. Mia madre e mi
lasciò sederle accanto per un po', occupandosi lei del riordino,
e mi fermai un attimo a guardarla, beandomi del silenzio e della semi
oscurità.
Ma si sa che la calma non è fatta per durare a lungo, specialmente quando le cose vanno tanto bene, come in quella notte.
"Signor Pattinson?" una voce
accompagnò l'ombra che si era avvicinata alla porta della
stanza. La penombra che avevamo creato per meglio far riposare Kristen
e la luce dei neon del corridoio creava un dislivello nella visuale che
non mi permetteva di distinguere bene il mio interlocutore.
"Sì?" domandai di rimando. Fui costretto ad alzarmi e
raggiungere sull'uscio quello che sembrava un dottore; oltretutto non
fece alcun tentativo di avvicinamento, rispettando il riposo di mia
moglie. Era un'uomo sulla trentina: capelli castani, aspetto
tremendamente ordinato ed elegante, nonostante avessimo superato la
mezzanotte e di solito a quest'ora anche negli ospedali ci si lascia
andare a piccole pennichelle. Lo seguii titubante, sotto lo sguardo
attento e ansioso di mia madre, mentre mi faceva strada verso il
corridoio, portandomi in disparte, compresi, dalle orecchie di mia
madre.
"Sono il dottor Martin,
specializzando del reparto di Neonatologia ..." strinsi di rimando la
sua mano, non capendo cosa stesse accadendo. Il suo saluto mi
sembrò troppo formale per essere quello rivolto ad un
neo-papà, e di solito tutti erano ben più affabili in
tali circostanze. "Sono stato incaricato dal dottor Couney di venire
qui da lei. Al momento è lui che si sta occupando di sua figlia.
Ma non si preoccupi, è in più che ottime mani"
Aspettate un momento. Mia figlia? Cosa c'è che non va?
"Non...non capisco. Mi può
spiegare cosa è successo?" chiesi, ma non riuscii a nascondere
la leggera flessione nervosa della mia voce.
"Sua figlia è nata pre-termine
signor Pattinson" mi rispose quel medicuccio, dal fare un po'
sufficiente, come se dietro a quelle sue parole ci fosse la cosa
più scontata del mondo da capire. Ci misi poco effettivamente a
capire quell'ovvietà, il passaggio che avevo perso, e ricollegai
il terrore di Kristen in sala parto. La piccola era nata alla 33esima
settimana di gestazione, mancavano ancora 7 settimane al termine
naturale della gravidanza, tutte estremamente importanti per la sua
salute e, come ci era stato spiegato nei mesi precedenti, più il
parto avveniva in anticipo, più ogni settimana era decisiva per
la sopravvivenza del nascituro.
Sopravvivenza.
Mi sentii le gambe cedere, come se
tutto lo stress e la stanchezza che accumulavo da giorni - riprese,
viaggio e parto senza chiudere occhio che per un paio d'ore in tutto -
si fossero coalizzati contro di me e avesse deciso di schiacciarmi,
stritolarmi e soffocarmi in quell'istante. Mi appoggiai stremato alla
parete del corridoio, scorrendo una mano sul mio viso. Non era finito
niente. Anzi il peggio era appena iniziato.
Vidi, con la coda dell'occhio, mia
madre affacciata dalla porta della stanza che ci osservava in
apprensione. Anche il dottore se ne accorse e concordammo che fosse il
caso di salire in reparto e controllare la situazione.
"Stai con lei" dissi a mia madre,
afferrandole forte le mani. Avevo bisogno di tutta la forza che poteva
darmi. "Ma cosa è successo?" domandò. Non ebbi né
il tempo né la forza di rispondere.
Salii le scale accanto al Dr. Martin
rivolgendogli tutte le domande che a cascata filtravano dalla mia
mentre alla mia bocca, senza nemmeno aspettare che mi rispondesse e
varcammo la soglia della neonatologia nello stesso turbine di
iperattività che mi circondò appena capii quali potessero
essere le condizioni di mia figlia. Mentre, in una zona filtro, mi
preparavano nuovamente ad entrare in una zona quanto più sterile
possibile, il dr. Couney, strutturato di Neonatologia, prese il posto
della giovane recluta e decise finalmente che era il caso che io
sapessi qualcosa di più sulla salute ma soprattutto sulla vita
di mia figlia.
"Signor Pattinson" mi spiegò
senza tanti giri di parole "sua figlia ha dei polmoni poco sviluppati
che non le permettono di respirare come dovrebbe."
Rimasi di sasso. Non mi diede il
tempo di proferire parola che subito continuò con la sua
spegazione. Oltretutto non avevo proprio forza di dire nulla.
"Senza entrare nel dettaglio o
spiegarle cose che comunque sono troppo tecniche sua figlia al momento
non produce una proteina che è fondamentale per il corretto
funzionamento dei polmoni. Di conseguenza la piccola si trova in una
situazione di insufficienza respiratoria che porta scompensi all'intero
organismo"
Non ero un luminare di medicina, ma
quelle poche parole chiave che estrapolai dall'intero discorso
bastarono per mettermi in allarme. Più che in allarme. Eppure
non riuscivo a pensare a nulla, a niente che fosse bello o brutto,
avvertivo solo tanto vuoto e buio intorno a me. Mi sentivo
completemente svuotato, eppure con un macigno sulle spalle. Morire
sarebbe stato un sollievo che avrei tanto voluto concedermi o almeno
svenire e lasciare che tutto accadesse a mia insaputa. Avrei perso la
mia piccola? Le avevo dato la vita e avrei dovuto dirle addio? Erano
gli unici interrogativi che ronzavano come vespe velenose nella mia
mente e pungevano al cuore indebolendolo battito dopo battito. No, mi
sforzai di rispondere a me stesso, nel ventunesimo secolo i padri non
seppelliscono i propri figli e non certo accadrà a me.
"Posso vederla?" chiesi in un lampo
di lucidità. Mantenendo un rispettoso silenzio mi lasciarono
entrare nella grande stanza dov'era la mia cucciola.
Non ero mai stato in stanze simili
prima di allora ma dai pochi telefilm ospedalieri che avevo visto aveva
tutta l'aria di essere una specie di terepia intensiva in miniatura. Al
posto dei letti c'erano una serie di incubatrici ed i pazienti che li
ospitavano erano uno più piccolo dell'altro. Perché tanto
dolore? La nascita è la cosa più bella che possa esistere
al mondo; perché deve essere oscurata dalla malattia? Cos'hanno
fatto questi piccoli da essere già puniti col dolore, a
poche ore di distanza dalla loro nascita?
Camminavo tra quelle piccole cullette
termine alla ricerca di una in particolare, senza sapere esattamente
cosa cercare. Sapevo che dovevo andare da mia figlia, eppure quegli
esserini sembravano tutti uguali e la sofferenza li rendeva in un certo
senso tutti figli miei: avrei voluto stringerli tutti, portarli tutti
con me, via dal dolore e dalla sofferenza.
"Da questa parte" una voce femminile,
dolce, giovane e squillante, mi indicò una culletta in fondo
alla stanza, dov'era adagiata una bimba. Il cartellino sull'incubatrice
portava la scritta Baby Pattinson. Eccola.
Il mio cuore fu preso d'assalto da
fiamme che divamparono in pochi secondi, eppure non c'era niente che le
domasse; fu così che venne ridotto a brandelli. Era la mia
bambina, e non potevo sopportare di assistere a quella scena. Era in
un'incubatrice, attaccata ad una serie di fili e tubicini che
controllavano i suoi parametri vitali e l'aiutavano a respirare.
Dormiva, apparentemente beata: non era certo l'immagine di una bambina
malata, al di là delle sue piccole dimensioni.
"Ci scusi" mi disse la piccola
infermierina bionda che mi accompagnava "ma non sapevamo che nome
avevate scelto per la bambina, così ci siamo limitati a scrivere
il cognome"
Già, nella fretta non l'avamo
deciso, ed in quel momento mi sembrava l'ultima delle priorità.
"è proprio necessario?" le chiesi, senza staccare gl'occhi
dall'incubatrice. "No, non per il momento ..." mi disse. Non volli
assolutamente indagare il significato che quella sua frase potesse
avere e mi limitai a dirle, gentilmente, che poteva lasciare la scritta
che c'era, aggiungendo però anche il cognome di Kristen.
L'avevamo fatta in due, era giusto che ci fosse anche lei, e se il
diritto non ci consentiva il doppio cognome, nei nostri cuori sapevamo
che lei era la perfetta congiunzione dei nostri interi. Ed anche il
nome l'avremmo scelto insieme.
Allora pensai che Kristen era
completamente all'oscuro di quanto stesse accadendo e mi faceva ancor
più male pensare a cosa avrei dovuto dirle al suo risveglio e
come avrei dovuto farlo. Mi si spezzava già il cuore ad
immaginare la sua reazione, e ancora di più mi uccideva sapere
di doverle infliggere un nuovo dolore.
Ma ogni cosa a suo tempo e quello era
il momento da dedicare alla nostra creatura. A Kris avrei pensato al
mattino, al suo risveglio.
Come facevo a non ricordare quel
volto d'angelo. Nonostante fosse piccola e anche abbastanza gracilina,
era l'identico ritratto di sua madre anche se, probabilmente, il biondo
della mia famiglia aveva avuto il sopravvento, visto che di capelli non
ne aveva nemmeno l'ombra. Avrei voluto svegliarla per vedere i suoi
occhi, ma aveva bisogno di riposare.
In quel momento tutti avevano bisogno
di riposare, tutti tranne me, evidentemente. Ero completamente solo.
Anche in quella stanza ero stato lasciato solo. Un moto di rabbia e di
sconforto mi montò da dentro e dovetti frenarlo come meglio
potevo perché non era né il momento né il luogo
per farsi prendere da certi raptus. Mi aggrappai a quella culla con le
mie mani, lascia che le unghia sfogassero senza fare danni la mia
frustrazione sul plexiglass per poi battervi contro con un leggero
pugno.
Un beep intermittente mi permise di
riavermi da quello stato di trance e mi fece rendere conto che col mio
leggero movimento avevo, non solo svegliato la bambina, ma avevo anche
scatenato una reazione negativa nel suo piccolo cuoricino.
"Signor Pattinson ma cosa ha fatto?"
mi chiese l'infermiera di guardia, accompagnata dal medico di turno,
che immediatamente controllò le condizioni della mia cucciola.
Mi feci da parte e mi sentii piccolo piccolo, nulla in confronto a
ciò che mi circondava, un pericolo nella misura in cui le avevo
fatto del male. Avrei dovuto difendermi dalla accusa che mi era stata
rivolta, reagire di fronte a quella crisi d'impontenza che aveva preso
il sopravvento, dimostrare che ero un uomo fatto e finito, ormai pronto
ad assumersi le proprie responsabilità. Invece non fui capace di
fare altro che abbassare il capo, sommessamente, e lasciar svolgere il
proprio lavoro a chi ne sapeva più di me.
Mi diressi fuori dalla sala e, nella
zona filtro, scatenai la furia che avevo represso poco prima, gettando
a terra tutto quello che mi passava per le mani e tirando calci agli
armadietti del personale. Se avessi trattenuto le lacrime probabilmente
sarei stato più uomo, ma avevo bisogno che qualcuno si
accorgesse di me, che mi stesse a sentire, che mi dicesse qualcosa.
Tutti si aspettavano qualcosa da me, una risposta, ma non ero in grado
di fare niente e quella era l'unica reazione possibile. Non ce la
facevo più. Mi accasciai a terra, le mani a coprire il volto.
Dopo pochi istanti udii un rumore di
passi intorno a me e un corpo venne ad accovacciarsi al mio fianco.
Riconobbi la sagoma matura e importante del dr. Couney; assomigliava a
Dean, la mia guardia del corpo.
Lo guardai e mi guardai intorno: certo che avevo combinato un macello.
"mi scusi dottore" mi affrettai a
scusarmi, con riacquistata lucidità "ripagherò tutti i
danni che ho fatto, stia tranquillo ..."
"Oh lo credo bene!" rispose lui, con
un leggero sorriso stampato sulle sue labbra. "Sa come faccio a vivere
ancora?" mi chiese "come faccio a fare ancora questo lavoro dopo 20
anni, a sorridere ancora quando entro qui dentro e vedo questi piccoli,
mentre a casa o due bambini che scoppiano di salute?". Lo guardai,
perplesso, e scossi la testa. Era un'uomo estremamente colto eppure
così umile, che si era abbassato al mio livello, condividendo e
confessando una parte così intima di sé. "Perché
spero e credo" continuò "che tutti i bambini che sono di
là diventeranno grandi e forti come i miei figli e perché
queste lacrime che vedo in lei e in tutti gli altri padri, mi creda,
domani si trasformeranno in un sorriso. Stia tranquillo, sua figlia
starà bene ... e ora torni da lei. La sta aspettando ad occhi
sgranati"
Non me lo feci ripetere due volte ed
entrai con grinta e sperenza in quella sala. La stanchezza sembrava
essere svanita con le lacrime che mi avevano rigato il volto. Tornai
dalla mia creatura e la vidi che mi guardava, bella come sua madre il
giorno che ci siamo incontrati, con dei grandi occhi che mi scrutavano,
domandandosi e domandandomi cos'erano quegli occhi rossi ed ancora un
po' lucidi che avevo. E i miei occhi erano finiti sul suo piccolo volto
e sembravano dirmi: tranquillo papà, sono forte.
"Sei forte davvero piccola mia"
sussurrai al vetro freddo, baciandolo come se potessi arrivare alle sue
guance. Allora, solo avvicinandomi bene, intravidi i segni della
malattia: il fiato corto, il viso un po' cianotico. Ma al contempo mi
confortava sapere che erano leggermente visibili, a riprova del fatto
che il peggio era passato e non poteva che andare meglio.
"La stiamo aiutando con la
respirazione" mi disse il dottor Couney "ed abbiamo iniziato la terapia
con il Surfactante, la proteina che le manca. Il suo peso ci conforta
abbastanza: è piccola, ma c'è di peggio, e se
sopporterà il latte materno non credo che ci vorrà molto
per toglierla dalla culla termica"
Non volli chiedere altro; non volli
sapere per quanto ne avremmo avuto e i dettagli di terapie o analisi.
Per il momento mi bastava sapere che sarebbe andato tutto a posto e che
la piccola sarebbe tornata a casa con noi. Quando, era proprio
irrilevante.
Stessi a guardarla un altro po'
mentre si addormentava, provando a canticchiarle una melodia a caso, e
non potei fare a meno di innamorarmi di lei e dei suoi grandi occhi
color del mare. Era scritto nel mio destino, innamorarmi di donne dagli
occhi grandi e belli come la luna.
Erano quasi le 4 del mattino, era
trascorso molto più tempo di quanto ne avessi percepito scorrere
addosso. Lasciai il reparto e tornai da Kristen. Mi sentivo ... non lo
so più come mi sentivo. Stanco? Forse.
Mia madre mi venne incontro quando
varcai la porta della stanza e capii che doveva essersi informata
perché iniziò a rivolgermi mille domande e accanto a lei
c'era mio padre. Non la sentii e mi rivolsi a lui, che era rimasto in
silenzio, sulla poltrona, accanto a Kristen. "Dorme?" gli chiesi,
mentre si alzava. Chissà quante ne aveva sopportate in silenzio
e discrezione negli anni, quante cose si era tenuto dentro e per
quante, di nascosto, aveva pianto. Gli avevo sempre voluto bene, lo
avevo sempre stimato, ma mi trovai a provare per lui un nuovo rispetto.
Mi arpionai al suo collo con le braccia, avevo bisogno di sentirlo
vicino. Mi diede delle leggere pacche sulla spalla e mi fece accomodare
sulla poltrona. Notai di sfuggita, nonostante la leggera
oscurità, le sue guance di porpora e gli occhi luccicanti.
"Accomodati figliolo, riposa un po'" feci come mi aveva detto.
"Dovresti andare a casa, e dormire
per almeno mezza giornata" mi rimproverò mia madre "sto io con
Kristen, lo sai che mi fa piacere"
"Lo so" le risposi, chiudendo
gl'occhi e lasciandomi andare un po' "ma non ci penso nemmeno, le devo
essere accanto quando si sveglia. Andate voi."
"Come sta?" mia madre non riuscì a trattenersi. "Non sta bene mamma" fui realista "ma è forte e guarirà".
Lei e mio padre si scambiarono una
serie di occhiate e compresi che lui aveva capito la situazione senza
tante spiegazioni. Presero quelle quattro cianfrusaglie che dovevano
riportare a casa e mi lasciarono solo.
Da lontano il Big Ben segnava le 4 e
mezza e lasciai che il respiro di mia moglie fosse l'ultimo rumore
prima di sprofondare nei sogni.
à bientot
Federica
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