~
Dolceamara medicina
L era
seduto sul letto, le ginocchia strette al petto come suo solito.
Un braccio esile, coperto dalla manica di una maglietta bianca troppo
larga, nella quale il bambino sembrava scomparire, cingeva
distrattamente le sue gambe.
Watari
entrò nella stanza – l’ennesima
camera d’albergo in cui toccava loro sostare – con
un vassoio ricolmo, e gettò un’occhiata quasi
penetrante al ragazzino. Viaggiavano senza tregua da un bel
po’ di tempo, costretti dall’insaziabile
necessità di L di occuparsi di casi sempre più
difficili, ma questa era la prima volta in cui il bambino si ammalava.
Nonostante
l’aspetto gracile e l’aria smunta,
infatti, aveva un sistema immunitario davvero formidabile.
Il
freddo delle cinque del mattino nell’aeroporto,
però, non aveva risparmiato nemmeno lui.
L
si raddrizzò vivamente all’entrata
dell’uomo.
Quillsh
Wammy, come fondatore di numerosi orfanotrofi, sapeva bene
quanto i bambini piccoli tendono a spaventarsi anche per una lieve
influenza, per il semplice fatto che non capiscono a fondo cosa stia
succedendo, perché il loro corpo si comporti in maniera
diversa rispetto al solito, perché la loro testa si faccia
più pesante e la loro fronte inizi a bruciare.
L,
però, non sembrava minimamente inquieto. Ciuffi corvini
dei capelli scompigliati gli ricadevano sugli occhi
d’inchiostro, sul visetto che presentava
un’espressione evidentemente indifferente, se non per una
traccia di fastidio.
Con
l’emicrania che sembrava scavare le sue tempie, infatti,
non riusciva a concentrarsi come avrebbe voluto sulla ricerca del
colpevole.
Watari
camminò sino al tavolino posizionato poco lontano dal
letto, e vi posò sopra il vassoio. Con la coda
dell’occhio, notò che L tendeva il collo per
controllare i suoi movimenti, forse desideroso di ricevere al
più presto uno di quei dolci che tanto gli piacevano.
L’uomo
non riuscì ad impedirsi un lieve sorriso al
pensiero del bambino che affondava i denti in una fetta di torta al
cioccolato, al ricordo della maniera con la quale afferrava –
lestamente ma anche con una certa cautela – i bastoncini dei
lecca-lecca.
Tese
la mano a prendere la pastiglia bianca appoggiata accanto al
bicchiere pieno d’acqua che torreggiava sul vassoio, e la
fece cadere nel liquido. Immediatamente, la pillola iniziò a
frizzare e a sciogliersi, vorticando nel bicchiere.
Watari
lo afferrò e si voltò, per poi dirigersi
in direzione di L.
Il
bambino fissò quel che rimaneva della pastiglia senza
dire nulla, ma la sua espressione la diceva lunga sulla sua voglia di
mandar giù quell’amara soluzione.
Quando
Watari gli allungò il bicchiere, strinse maggiormente
il braccio attorno alle gambe, senza dar cenno di voler prendere quel
calice.
«Immagino
che tu voglia tornare a lavorare al più
presto» commentò Watari, con gentilezza, di fronte
all’aperta reticenza del bambino.
L
tentennò, nell’evidente lotta tra la sua
razionalità che gli suggeriva di prendere
l’aspirina e l’infantile rifiuto di assaggiare
quella sostanza così biancastra e scoraggiante.
«Lo
sai che con il mal di testa è più
difficile ragionare» aggiunse Watari, sempre con lo stesso
tono incoraggiante e cortese.
Il
bambino spostò sull’uomo i propri occhi neri,
quindi dovette riconoscere la verità in quelle parole. Tra
l’altro, l’alta temperatura corporea con la quale
si trovava a dover fare i conti lo stordiva, cercando di convincerlo a
lasciare il capo ciondoloni su una spalla e a chiudere le palpebre,
abbandonandosi al sonno.
Ma
L non voleva dormire.
C’era
troppo lavoro da fare, ancora.
«D’accordo»
accettò quindi,
dopo qualche istante. «Però, Watari»
aggiunse, con quell’inflessione ragionata e tremendamente
adulta che si insinuava sempre nella sua voce infantile, «sai
bene che è meglio avere la pancia piena, prima di prendere
un’aspirina». E i suoi occhi andarono a cercare con
inequivocabile insistenza verso i dolci posati sul tavolo.
Wammy
sorrise di nuovo. Non poté farne a meno.
Con
altri infanti sarebbe stato facile optare per un ricatto del genere
“manda giù la medicina e poi potrai avere tutte le
caramelle che vuoi”, ma con L non era possibile dettare
condizioni. Era il bambino che, con autorità spiazzante,
stabiliva i termini del gioco.
Per
un attimo, l’uomo si domandò se fosse
così a causa dell’indiscutibile intelligenza che
brillava nei suoi occhi neri o a causa del profondo affetto che lui
provava nei confronti di quello scricciolo dallo sguardo impenetrabile.
«Hai
ragione» commentò, con una nota
divertita che gli guadagnò un’occhiata curiosa da
parte del piccolo.
Andò
a prendere il vassoio e tornò presso L,
posando il piatto di portata sul materasso. Il braccio del bambino
scivolò via dalle ginocchia, mentre L si voltava a guardare
i dolci ora accanto a lui. Allungò una mano, afferrando
senza esitazione un krapfen ricoperto di zucchero. Lo portò
velocemente alla bocca, dove il dolce sparì in pochi
bocconi, lasciando una traccia di crema sulle labbra del bambino.
Watari
si disse che, se non altro, l’influenza non
l’aveva privato dell’appetito.
Quando
una brioche e una ciambella ebbero subito la stessa sorte del
krapfen, l’uomo domandò, pacato: «Credi
che adesso la pancia sia abbastanza piena?»
L
rifletté un momento. «Non ancora»
decise infine, chinandosi a prendere un pasticcino, per poi passare ad
un cannolo e all’unica fetta di torta ai mirtilli presente
sul vassoio.
Quando
anche una sfogliatina e un croissant furono andati ad allietare
lo stomaco del bambino, L poté dirsi soddisfatto.
«Adesso sì» dichiarò, alzando
gli occhi indecifrabili – così diversi da quelli
di un fanciullo normale – su Watari.
L’uomo,
per tutta risposta, gli porse il bicchiere che aveva
ripreso in mano.
L
lo ricevette con un gesto che male celava la sua diffidenza, una
lentezza forse dovuta alla sua natura schiva, o forse
all’improvviso dubbio riguardante il suo effettivo desiderio
di mandar giù quella roba.
Scrutò
attentamente la superficie dell’acqua,
soffermandosi sulla polverina biancastra che galleggiava lì
in alto, esaminando le minuscole bollicine che la riempivano.
Infine,
però, avvicinò il bicchiere alle labbra e
ne bevve il contenuto a sorsi energici, senza indugiare.
Watari
riprese il bicchiere nella mano sinistra. L guardò
l’uomo dritto in volto. Le sue labbra si incresparono.
«Bleah»
disse, con indifferenza e una chiarezza
assurda, prima di aggiungere, serio: «Le medicine sono troppo
amare, Watari».
L’uomo
rise. Forte, di cuore, sotto gli occhi un
po’ oltraggiati del bambino, che aveva unicamente voluto
constatare un dato di fatto.
Quando
la sua risata si spense, Quillsh Wammy conservò nello
sguardo una vena di divertimento.
Allungò
la mano destra verso L – la prima reazione
del bambino fu d’irrigidirsi istintivamente – e
diede una carezza a quella selva di capelli neri e disordinati.
«Se
anche questa fosse una medicina, un augurio di
guarigione, come la mettiamo?» si informò, una
volta ritirato il braccio.
L
non esitò, prima di rispondere. Lo fece con sicurezza,
come risolvendo uno di quegli enigmi in cui amava perdersi.
«Allora non tutte
le medicine sono amare».
Spazio dell’Autrice:
Okay. Questa storia non ha senso ._.
Era da un po’ che volevo scrivere una storia su L bambino con
la febbre. Poi un pomeriggio ho avuto un’emicrania
allucinante, e mentre fissavo l’aspirina che avrei dovuto
scolare è nata l’idea per questa One-Shot.
Perché, anche ammettendo che non tutte le storie vanno in
profondità, questa non ha nemmeno un briciolo di
significato… (titolo compreso).
Sono solo L e Watari, e non so nemmeno se sono venuti fuori verosimili
(la classica OOC-fobia, immagino).
Grazie a chi leggerà e a chi eventualmente
recensirà =)
[Sì, oggi la mia autostima è a livelli
sorprendenti]
|