La
foresta fittissima era così silenziosa che si sarebbe
riusciti a
sentire il respiro degli animali selvatici che la abitavano, e persino
quello
dei demoni leggendari che vegliavano su quelle terre.
I
cespugli bassissimi, l’erba, il bambù, persino
l’acqua: era tutto di
un verde abbagliante.
E
verdi erano gli occhi accigliati di un bimbetto ancora più
selvatico
delle tigri signore della macchia.
-
Tu sei diverso da me. Di-ver-so. – scandì, con un
ché di trionfale.
Il
bambino che gli stava di fronte sembrava mille volte più
piccolo di
lui, rannicchiato com’era a proteggersi dalle sue parole.
-
No, nnno! – protestò.
-
Non ti daranno mai l’armatura d’oro! –
- E
invece sì! – Sion strinse i pugnetti
già sorprendentemente forti
per darsi un’aria risoluta. – Me lo ha detto il mio
maestro! –
-
Ah sì? E ti ha detto anche che sei uno scherzo della natura?
–
Gli
fu addosso prima che Sion avesse il tempo di reagire, gli artigli
sfoderati e le zanne in mostra nel suo sorriso già troppo
malizioso per la sua
età.
-
Dimmelo! Avanti! –
Gli
afferrò i capelli con violenza, dando qualche strattone a
mò di
monito.
- Devi dirmi cosa sono!
–
comandò tirandogli ancora più forte i capelli.
– No! –
strillò il piccolo
Sion con tutta la voce che aveva in corpo.
Aveva le lacrime agli
occhi,
e il faccino ridotto ad una maschera di rabbia e di orgoglio ferito.
Allora, Doko lo prese per
il
mento, e lesto premette il pollice sopra uno dei due segni che Sion
aveva al
posto delle sopracciglia.
Lo vide chiudere gli occhi
di
riflesso, e vacillare.
- Lo vedi? –
ghignò,
esaltato. – Lo vedi che sei strano? Non sono sopracciglia,
queste. –
- Sì che lo
sono! –
- No, invece. Secondo me
sono
dei simboli magici che ti ha fatto qualcuno. Dei sigilli.
Perché non me lo
dici, Sion, da brav- –
Ma, con suo sommo stupore,
Sion non c’era più.
Anzi, meglio dire che
c’era
ancora, ma una manciata di metri più in là,
nascosto dietro un grosso albero
tutto contorto. Cercava di spiarlo senza farsi vedere, ma i suoi
capelli erano
un po’ troppo vistosi per non essere notati.
Doko fece due occhi grandi
come pigne, e per un momento non seppe nemmeno lui cosa dire.
- Cos- –
Il fatto che Sion avesse
assunto un’aria molto allarmata, però, quasi lo
deliziò.
Lentamente tese le mani in
avanti. Lo inquadrò fra i palmi aperti. Lo puntò.
- Che cos’hai
fatto, appena
ora? –
- Niente. Proprio niente.
–
- Proprio niente?
–
Non era altro che un gioco.
Il gioco sleale e sbilanciato di un cucciolo di tigre che artiglia un
povero
agnellino per maltrattarlo un po’. Magari, pretendendo di non
mettergli nemmeno
paura.
In un attimo
l’ebbe raggiunto,
e stava già per ricominciare a tirargli i capelli, quando si
accorse che Sion
singhiozzava. La paura, la rabbia e l’umiliazione erano
ancora lì, disegnati
sul suo volto di bambino, eppure con quella stessa espressione ribelle
ed
impotente riusciva a piangere-
E da quegli occhi enormi
potevano colare solo lacrime grosse come ciliegie.
Doko si morsicò
forte il
labbro inferiore. All’improvviso pensò che le
strane sopracciglia di Sion non
gli importavano più così tanto. Non gli importava
sapere se fossero sul serio
sopracciglia o no, o se fossero dei simboli magici che soltanto lui
poteva
portare, perché era un po’ più eletto
fra tutti gli eletti.
Non gli importava, no.
avrebbe barattato volentieri tutto quel mistero con le sue lacrime.
- Scusa. –
mormorò
dolcemente. – Non avrei dovuto essere così
cattivo. –
Doko possedeva un dono
raro.
Così piccolo, sapeva già chiedere scusa con il
cuore. Sion tirò su col naso,
colpito dall’intensità della sua franchezza.
- Vuoi ancora essere mio
amico? –
Sion , che era piccino
piccino, si strinse goffo a lui. Aveva un visino paffuto e sveglio, e
le guance
gonfie come due piccole melagrane.
- Però.
– comandò, serio. –
Tu devi promettermi che sarò il tuo amico più
prezioso, e che giocherai solo
con me. –
-D’accordo.
– promise,
facendogli qualche carezza ai capelli maltrattati.
- Mh. Allora ti perdono. Da
oggi in poi, mi vorrai sempre bene, non mi farai più i
dispetti e ti allenerai
con me. –
-
E tu? Mi vorrai bene anche tu? –
-
Io sì. – Sion fece di sì con la testa,
serio come solo un bambino può essere,
quando parla di cose importanti. Quando si è piccoli, dire
“per sempre” è come
fare un patto con l’universo, perché si hanno
ancora così tanti anni da vivere
che quel “per sempre” è quasi letterale.
-
Allora, diventeremo Cavalieri insieme. –
-
Ma se hai detto che… -
-
Non lo penso davvero secondo me, sei forte abbastanza da mandare in
polvere
tutte le stelle del cielo. Però, devi crescere, Sion,
perché sei un po’ troppo
piccolo. –
-
Sì. – promise Sion, con slancio. –
Sì, te lo prometto, crescerò. E, Dokoyo? Ti
faccio anche un’altra promessa. –
-
Ah sì? –
-
Sì. Ti prometto che un giorno ti dirò che cosa
sono questi. – disse,
indicandosi la fronte. – Adesso non posso, perché
è un segreto. Quando saremo
grandi, lo dirò solo a te. –
-
Va bene. Allora, io mi preparo a mantenere il segreto. Comincio
già adesso a
scavare un buchetto dove nasconderlo, così quando me lo
dirai, fra qualche
anno, il buco sarà così profondo che nessuno
potrà mai vedere che cosa ci avrò
nascosto dentro. –
Attorno
a noi c’era il verde accecante del
bambù, con le sue foglioline appuntite che io sapevo far
suonare e tu no.
Quelle ingiallite e cadute a terra crepitavano come tanti piccoli
fuocherelli
sotto i tuoi piedini che correvano via svelti da me.
La tua schiena era
piccola
e stretta, e nascosta da tutti quei capelli, che se per caso una foglia
ancora
fresca di bambù vi si impigliava ti regalava una luce ancora
nuova. Eri
piccolissimo, tutto occhi, ed emanavi la potenza di un dio. Io,
segretamente,
pensavo che nemmeno l’Olimpo di cui tanto mi parlava il mio
maestro sarebbe
stato una degna dimora per te.
Che tempi felici.
Che tempi lontani.
Poi, accadde che
tu
diventasti l’Olimpo stesso. Altissimo, sacro, bello da farmi
tremare il
respiro. E dorato.
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