Disclaimer. Sherlock e i suoi personaggi sono
di proprietà degli aventi diritto, BBC e duo Moffat-Gatiss in primis.
L’autrice del racconto qui sotto non li possiede in alcun modo, la
traduttrice idem. Sono certa che siamo entrambe molto tristi per
questo. *annuisce sconsolata*
(Traduzione a cura di Madame Butterfly
- link al permesso di traduzione qui
- la storia originale la potete trovare a questo
indirizzo.
E ricordatevi che l'originale è sempre la versione migliore quindi, se
sapete l'inglese, siete caldamente invitati a leggerla =D)
3.
VENERDI'
Fu necessario attendere fino alle 11 del mattino successivo perché
Sherlock finalmente ricomparisse. John era stato multitasking per tutta
la mattina: un occhio lo teneva sul paziente di fronte a lui e il resto
della sua attenzione era focalizzato sul navigare ossessivamente tra i
notiziari per trovare una traccia che gli permettesse di scoprire dove
fosse andato Sherlock. Non ce n'erano, e non c'erano neanche
aggiornamenti sul suo blog. Aveva appena ricaricato la pagina per
quella che doveva essere la quinta volta quando arrivò un gradito bip
dal suo telefono.
MESSAGGIO RICEVUTO
E’ APPENA COMPARSO DAVANTI ALLA MIA PORTA. M
A: MYCROFT HOLMES
GRAZIE A DIO. STA BENE? JW
MESSAGGIO RICEVUTO
STA ANCORA RONZANDO COME LA PROVERBIALE VUVUZELA. NIENTE CHE NON POSSA
GESTIRE, LE ASSICURO. M
A: MYCROFT HOLMES
OTTIMO. GLI DICA CHE E’ NEI GUAI PER ESSERE SCOMPARSO! JW (PS BUONA
FORTUNA)
John si risedette sulla sua sedia e sorrise, un po' per il sollievo e
un po' divertito dal pensiero di Mycroft costretto ad avere a che fare
con Sherlock nel suo stato caffeinoso. D'altro canto, se Mycroft era
tutto quello che Sherlock diceva di lui - il Governo Britannico, i
Servizi Segreti Britannici e la CIA - era certo che potesse farcela con
suo fratello minore e un semplice eccesso di Red Bull.
Passò circa mezz'ora prima che il suo telefono squillasse.
John lanciò uno sguardo di scuse alla sua attuale paziente al di là
della scrivania, guardando giù verso il suo cellulare e sollevando un
sopracciglio all'ID del chiamante.
IN ARRIVO: MYCROFT HOLMES
Cancellò la chiamata, decidendo che qualunque cosa fosse poteva
attendere per dieci minuti finché fosse finito il colloquio con la sua
paziente; aveva sempre pensato che fosse maleducazione ignorare le
persone che gli stavano vicino per rispondere ad un telefono che suona;
odiava particolarmente quando era in fila e la commessa tirava su il
telefono invece di servire. Avrebbe richiamato Mycroft in un secondo
momento, pensò, prendendo una penna e iniziando a buttar giù sintomi
sul blocco di fronte a lui.
Tutti i telefoni della clinica iniziarono a squillare simultaneamente.
John fissò il telefono sulla sua scrivania, inorridito dalla cacofonia
prodotta dai differenti squilli provenienti da ogni direzione. La sua
paziente - Mrs. Higgins, che era un'adorabile vecchietta e non si
meritava un simile disturbo – iniziò ad agitarsi, nervosa. Aveva appena
allungato una mano ad afferrare il telefono quando tutti si zittirono
bruscamente e, circa trenta secondi più tardi, Sarah fece irruzione
dalla porta.
"John, devi andare," disse con urgenza, aggiungendo un rapido, "Mi
spiace molto, Mrs. Higgins," quando notò che era con un paziente.
"Che c'è?"
"C'è un certo Mr. Mycroft Holmes," disse lei, sollevando un
sopracciglio. "Un tuo amico? Dice che devi andare a casa sua
immediatamente, per ordine del Governo Britannico."
"Oh, non dirà sul serio..." iniziò John.
"L'ho pensato anch'io, all'inizio, ma ha faxato tutta la relativa
documentazione," disse lei, sembrando scoraggiata, "Ad ogni fax
dell'edificio, in realtà. È definitivamente una cosa ufficiale. John,
chi è quel tipo?"
La povera Mrs. Higgins sembrava terrorizzata. John si strofinò gli
occhi, stancamente.
"Il fratello di Sherlock, lui è - be', una rottura di scatole, ad
essere sinceri, ma sembra sia un tratto di famiglia."
Sarah sorrise leggermente, apparendo ancora un po' preoccupata. John
sbatté il pugno sulla scrivania, sentendosi improvvisamente arrabbiato.
"Dannazione, Sarah, sono al lavoro, non posso scapparmene via ogni
volta che lo dice uno dei fratelli Holmes."
"Non sembra che tu abbia scelta..." disse lei, dubbiosa.
"Non puoi far funzionare l'ambulatorio con un dottore in meno! Non
posso piantare tutti in asso, è ridicolo. Gli telefonerò e gli farò
sapere che non sto andando da lui, e-"
La porta si aprì all'improvviso e un uomo in completo scivolò dentro,
con una valigetta in mano. John e Sarah si voltarono a guardarlo e lui
diede ad entrambi uno sguardo di apprezzamento.
"Dottor Watson," disse, consultando un piccolo notepad che teneva in
mano, "E dottoressa Sawyer."
Si girò a guardare l'anziana signora seduta dall'altra parte della
scrivania rispetto a John, e consultò nuovamente il suo notepad.
"Mrs. Emelia Higgins, nata nel 1934, 47 Lower Inhedge, vedova. Un
gatto, Bess."
John batté le palpebre.
"Chi diavolo è lei?" chiese, quasi temendo la risposta. L'uomo sorrise
all'istante.
"Il suo sostituto, dottor Watson," disse, offrendo la mano a Sarah,
"Dottor Mark Dryer, guardia medica. Le darò una mano nella clinica con
le persone che rimangono mentre il qui presente dottor Watson è
occupato con... affari di stato."
"Affari di stato!" esclamò John, alzandosi dalla sedia, "È solo
Sherlock che fa l'idiota come al solito e Mycroft che non è capace di-"
"Attento," disse l'uomo, assottigliando gli occhi. John si bloccò e
prese un respiro profondo. Sarah lo stava osservando, dubbiosa. Capì di
essere stato sconfitto.
"Ok, ok," disse, alzando le mani in segno di resa, "Sto andando.
Presumo ci sia una macchina orribilmente sinistra che mi aspetta fuori."
L'uomo gli rivolse quello che sembrava la traccia di un sorrisetto, e
fece un gesto verso la porta, congedando John dal suo stesso ufficio.
Lui sospirò e si incamminò verso l'uscita della clinica - colleghi e
pazienti che lo guardavano incuriositi - fino all'inevitabile limousine
nera posteggiata boriosamente fuori dalla porta.
Il viaggio non durò molto; la casa di Mycroft era nel centro di Londra,
da qualche parte vicino all'Embankment, ma non fece caso al nome della
strada. Appena a un tiro di schioppo da Westminster, gli parve, quindi
poteva trovarsi tra quei due posti. Era una casa signorile ma compatta
- John ricordò che Sherlock gli aveva menzionato che Mycroft aveva
residenze sia in città che fuori - con un ordinato prato all'inglese
sul davanti. John notò che un paio di alberelli del viale erano stati
sradicati, quasi come se un piccolo tornado fosse passato in quella
zona. Sospettò di non essere troppo lontano dalla verità.
Il maggiore dei fratelli Holmes lo salutò sulla porta, tenendo stretta
una tazza di tè in entrambe le mani con un'espressione stravolta sul
volto.
"Dottor Watson," disse, suadente, "Entri. Grazie per essere venuto con
così poco preavviso."
"Non è che avessi scelta," borbottò John, togliendosi il cappotto, "Io
ho un lavoro, lo sa? Ho dei doveri."
"Ah, ma il suo primo dovere è verso il suo paese, naturalmente," disse
Mycroft, "Come militare, sono certo che comprende."
"Non sono sicuro che questo sia davvero-"
"Lo è," disse Mycroft con fermezza, guidando John lungo uno spazioso
corridoio, "Il paese ha bisogno di me e io ho bisogno- be’, quello di
cui certamente non ho bisogno, dottor Watson, è questo."
Spalancò la porta della stanza di fronte a loro. John batté le
palpebre. Sembrava essere un ufficio, pensò, tranne che gli uffici di
solito non erano completamente coperti di fili di lana incrociati.
Dalla stanza proveniva anche uno strano rumore di qualcosa di
trascinato, e John fece un passo avanti per fare cautamente capolino
con la testa dalla porta.
L'intera camera era stata arrangiata con qualche sorta di spago, teso
attraverso la stanza come un'enorme ragnatela e attorcigliato intorno
ad ogni centimetro di mobile che poteva vedere: gambe di sedie, lampade
da tavolo, serrature delle finestre. Nel bel mezzo di tutto questo
stava Sherlock, che piroettava stranamente e si contorceva tra i fili,
facendosi largo attraverso la stanza. John diede un leggero colpo di
tosse e Sherlock si bloccò a metà mentre faceva il limbo sotto un filo,
riconoscendolo.
"John!" disse, con il volume della voce troppo alto per l'aspetto tetro
della stanza in cui si trovava, "Dottore, Dottore, Dottore, così tanti
dottori, un solo John, stavo pensando - entra."
Gli occhi di Sherlock erano scuri e sembrava costantemente allarmato,
come se le cose nella stanza si stessero lanciando verso di lui tutte
in una volta. Continuò a muoversi tra le corde, i suoi movimenti
aggraziati ma frenetici, più coordinati di quanto avessero il diritto
di essere, con così tanta Red Bull in corpo e così poco sonno. John si
voltò impotente verso Mycroft, che scosse la testa.
"È così da quando è arrivato qui, temo. E non ho idea di dove sia
stato, quando glielo chiesto ha solo detto che stava 'pensando'. Non
sono convinto che lui stesso lo sappia. Dottor Watson, ho davvero
bisogno di riavere indietro il mio ufficio."
John annuì, facendosi forza e avanzando un poco nella stanza,
piegandosi per evitare una corda.
"Che stai facendo, Sherlock?" chiese, con una leggera trepidazione
nella voce.
"Allenandomi. Laser," disse Sherlock, "In caso serva. Dovresti far
pratica anche tu, mi aspetto che sarai lì."
"Sarò lì - scusa, quando sarò lì?"
Sherlock si voltò, evitando per un pelo di attorcigliarsi con le gambe,
e guardò fisso John.
"Sempre, John, ovviamente, e specialmente
se ci saranno dei laser. Sarà particolarmente pericoloso, cosa che
entrambi sappiamo ti diverte. Non hai dormito bene, perché? Potrei fare
delle ipotesi ma temo che le mie conclusioni sarebbero errate; molti
dei miei schemi mentali sembrano un po'... contorti, al momento, hanno
perso eleganza. Come te - è la camicia di ieri, quella?"
"Come sai che - Non ti ho mai visto ieri, Sherlock," disse John,
accigliandosi.
Sherlock emise una bassa risatina.
"Cieco come una talpa e le tue deduzioni non sono migliori. Perché
credi che semplicemente perché non hai visto qualcuno, quel qualcuno
non abbia visto te?"
John aprì la bocca, poi il significato delle parole di Sherlock lo
colpirono, insieme ad una discreta quantità di rabbia.
"Tu mi hai visto ieri?! Sherlock, ero preoccupato per te, eri
scomparso! Il tuo cellulare era morto! Se mi hai visto, potevi almeno
farmi sapere che stavi bene, che diavolo stavi-"
"No, no no, fartelo sapere avrebbe invalidato l'intero esperimento;
così è stato un discreto successo, anche se è ambiguo in certe aree;
dannazione. Nessun gruppo di controllo, capisci, nessun controllo, oh,
nessun controllo per niente, temo," fece una pausa per ridacchiare
maniacalmente, passandosi una mano fra i capelli ispidi, "Non hai
dormito, perché non hai dormito?"
"Senti, vieni fin qui così posso controllarti le pulsazioni," disse
John, nel tono più fermo che riuscì a raccogliere, "Ho intenzione di
tenerti sotto controllo tutti i giorni di questo tuo stupidissimo
esperimento; la devi piantare di andare a spasso - vieni qui."
Sherlock gli rivolse uno sguardo per un momento, poi eseguì una serie
di improvvisi piegamenti, salti e giravolte, in qualche modo evitando
tutti i fili e approdando di fronte a John.
"Eccomi qui, John. John. Salve," disse, incombendo su di lui con ancor
meno riguardo del solito per lo spazio personale. C'erano delle
occhiaie sotto i suoi occhi, che lucevano stranamente, e benché il suo
corpo sembrasse scoppiare di energia, John pensò che non sarebbe andato
avanti molto prima di crollare di nuovo.
"Erm, sì. Salve."
Iniziò controllando nuovamente i segni vitali del suo amico, che
sembravano più o meno gli stessi dell'ultima volta, nonostante fosse
possibile che le sue pupille apparissero anche più scure e più
dilatate, il suo respiro un po' più rapido. Condussero un qualche tipo
di mutuo esame molto strano, fermi lì sulla porta dell'ufficio di
Mycroft; gli occhi di Sherlock vagavano su di lui e catalogavano ogni
cambiamento dall'ultima volta che l'aveva visto, mormorando in
continuazione tra il respiro. John premette le dita sul suo collo,
testando le sue pulsazioni, e fu sorpreso quando lui inspirò con un
sibilo e si tirò indietro.
"Scusa," disse John automaticamente, "Scusa, io- probabilmente senti un
po' di sovraccarico sensoriale al momento, giusto?"
Sherlock si limitò a guardarlo stranamente, socchiudendo gli occhi.
Piegò la testa di lato.
"È normale?"
"Va tutto bene," disse John, rassicurante, mentre ricordava a se stesso
che nessuno di loro sapeva più cosa significava la parola 'normale',
"Hai solo bisogno di calmarti e di concederti un po' di riposo.
Andiamo, torniamo a Baker Street, ci facciamo una bella tazza di- be',
magari per te solo latte."
Sherlock annuì, e con un balzo improvviso lo oltrepassò e si trovò
nell'anticamera, dove Mycroft stava ancora aspettando, guardandoli con
attenzione.
"Adesso John mi porta a casa, Mycroft,"
disse, nella voce una spruzzata di pesante sarcasmo che era presente
ogni volta che i due fratelli si vedevano, "Saluta Mamma da parte mia
quando la vedi."
"Lo farò," disse Mycroft, esaminandosi le unghie, "Sarà molto lieta di
sentire che hai finalmente trovato una balia.”
Sherlock gli rivolse un'occhiataccia.
"Lui non è la mia balia, lui è..." iniziò, prima di lasciar cadere la
frase mentre cercava di aprire il portone d'ingresso e lo trovava
chiuso. Lo fissò con furia e poi iniziò a raspare freneticamente i vari
catenacci e serrature sulla porta nel vano tentativo di aprirli. Si
voltò verso John, il viso scioccato.
"John, c'è un problema con questa porta."
Quindi si girò verso Mycroft, sospettosamente.
"Che cosa gli hai fatto?"
Mycroft fece un passo avanti e fece slittare un catenaccio, senza
fatica, poi aprì facilmente la porta. Sherlock la fissò, sembrando
totalmente disorientato.
"Un trucco ingegnoso!" esclamò, poi si precipitò fuori dalla casa e giù
per i gradini, John che gli correva dietro. Lo raggiunse al cancello
del giardino, ma solo perché Sherlock si fermò bruscamente e si voltò a
guardarlo in faccia.
"Dove stiamo andando?" disse, il volto confuso.
"A casa, Sherlock. Ricordi?"
"Oh!"
John voltò il suo amico e lo spinse fuori attraverso il cancello,
diretti all'enorme macchina che stava ancora attendendo per riportarli
entrambi a Baker Street. Avevano fatto un paio di metri quando Sherlock
si bloccò di nuovo.
"Che c'è adesso?" chiese John. Sherlock lo guardò con curiosità, come
avesse notato solo in quel momento che era lì.
"Dove sono stato?"
John emise un gemito e lo spinse nella macchina, chiedendosi se la
perdita di memoria fosse un normale effetto collaterale di un eccesso
di Red Bull o solo uno sherlockiano, e se avrebbe mai capito
esattamente dove fosse stato il suo coinquilino negli ultimi due giorni.
"Siediti e basta, Sherlock. Avrai un sacco di tempo per dedurre dove
sei stato nelle ultime 48 ore dopo che ti sarai fatto una buona, lunga
dormita. E molta acqua. E assolutamente niente stimolanti di nessun
genere."
"Oh, noioso."
"Sì, be', a dire il vero ad alcuni di noi piace un po' di tedio nella
vita, ad alcuni di noi non piace dover ammanettare il proprio
coinquilino alla sedia solo per tenerlo fermo - non ho intenzione di
chiederti come hai fatto a liberarti, comunque - alcuni di noi vogliono
poter trascorrere almeno un giorno
di lavoro senza dover spendere metà della giornata agitandosi o
lasciando tutto a metà, ad alcuni di noi piace avere soggiorni che non
sono coperti di grani di caffè e giochi in scatola e lana di pecora -
che comunque vedrai di pulire domani, Sherlock, mi stai ascolt-"
Cambiò posizione sul sedile della macchina per guardare il suo amico,
che si era allungato con braccia e gambe divaricate sul sedile opposto,
come al solito sembrando come se si fosse messo di proposito in una
posa il più drammatico possibile.
Sherlock si era addormentato in fretta, sbavando piano sulla sciarpa.
SABATO
John si svegliò nel silenzio, e immediatamente andò nel panico al
pensiero che Sherlock se ne fosse scappato via di nuovo. Lo aveva
lasciato svenuto sul divano la notte prima, dopo aver arrancato su per
le scale con il suo corpo inconscio; il suo amico sembrava a pezzi,
pensò, con occhiaie sotto gli occhi e la pelle grigiastra. Era riuscito
a svegliarlo abbastanza da costringerlo a bere dell'acqua, poi aveva
trascinato via il piumino dalla camera di Sherlock e glielo aveva
rimboccato addosso, sul divano.
Sembrava perfettamente fermo, ed era certo che avesse semplicemente
bisogno di dormire, ma John sentì ugualmente un leggero senso di colpa
nell’andarsene di sopra a dormire nella propria camera; contemplò
perfino l'idea di sistemarsi sul divano al fianco di Sherlock, giusto
per poterlo tenere d'occhio durante la notte. Alla fine, comunque, il
conforto del suo letto lo chiamò e lui salì stancamente le scale, mai
così grato che l'indomani iniziasse il fine settimana.
Ora si trascinò giù dal sopraccitato letto e gettò un'occhiata alla
sveglia sul comodino. Era passato mezzogiorno, notò con sorpresa;
normalmente sarebbe stato svegliato ore prima dallo stridio del violino
di Sherlock o dal rumore di una qualche non identificabile esplosione.
Ad essere onesti, normalmente di suo si svegliava più presto di così,
ma era stata una settimana sfibrante.
Scese quatto quatto le scale, preoccupato di quanto poteva trovare. Si
era ricordato di nascondere il caffè rimasto? Era abbastanza sicuro che
Sherlock fosse alla fine del suo esperimento ma magari sperava troppo.
Sherlock era esattamente dove lo aveva lasciato, disteso sul divano,
addormentato. John emise un sospiro di sollievo e si lasciò cadere
sulla sedia che aveva di fronte.
Sherlock aprì un occhio.
"Mi annoio."
John sbuffò.
"Di già? Ti sei appena svegliato! Come è possibile che ti annoi?"
Sherlock sorrise e si inclinò nella sua posizione preferita, mezzo
capovolto. John sentì uno strano senso di déjà-vu.
"Ho fatto dei sogni davvero insoliti, sai," disse Sherlock, torcendosi
per guardarlo, "C'eri anche tu."
John annuì vagamente al suo coinquilino e accese la tivù.
"Allora presumo che l'esperimento sia finito?" chiese con tono
noncurante.
"Quale?" chiese Sherlock, pigramente, appoggiandosi in grembo il
violino e pizzicando le corde senza guardarle.
"Be', quello con la - quello con la Red Bull, Sherlock, c'era più di
esperimento?!"
Sherlock fece spallucce e si tirò dritto sul divano.
"Sempre, John," mormorò, fissandolo con quello sguardo intento e
curioso che John aveva sempre trovato sia esasperante che emozionante,
"Necessito di qualcosa con cui occupare il tempo, dopotutto."
John sospirò e cambiò canale. Odiava la tivù del sabato pomeriggio.
"Perché non puoi occupare il tuo tempo come una persona normale?" brontolò.
Sherlock inclinò la testa da un lato e tirò fuori una lunga nota dal
violino.
"E cosa fanno le persone normali?"
"Cose normali," disse John, stringendosi nelle spalle, "Non so.
Jogging. Lavorare a maglia. Cucinare."
Sherlock sollevò lo sguardo all'ultima, un lampo di interesse in fondo
agli occhi.
"Ah, cucinare," disse, gustando quel termine sulla lingua, con
curiosità, "Questo è interessante."
Si alzò all'improvviso della sua postazione e agguantò il cappotto,
legandosi intorno la sciarpa, mentre prendeva la strada per la porta.
"Vado al negozio, vuoi qualcosa?"
"Latte. Cornetti. Aspetta, tu
stai andando a fare la spesa?! Non vai mai a fare la spesa, perché vai
a fare la spesa?"
Sherlock spalancò la porta e rivolse a John un enorme, spaventoso
sorriso.
"Ingredienti," disse, e sparì giù per le scale.
John sentì il proprio stomaco stringersi dal nervosismo.
Avrebbe finito per pentirsene.
FINE.
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Note della traduttrice. Ho
postato questo ultimo capitolo con un ritardo spaventoso e per questo
chiedo scusa a tutti, ci sono stati degli imprevisti :\ Ringrazio
infinitamente l'autrice per avermi concesso di tradurre questa sua
divertentissima fic, ringrazio tutti coloro che hanno
letto/commentato/inserito questa storia in una lista. Grazie mille
*inchino*.
Inoltre ringrazio enormemente Francesca, alias sailor_jup88 per aver tradotto i vostri commenti e avermi così permesso di spedirli all'autrice, visto che ho un periodo assurdo e non trovavo il tempo di farlo io. Ti amo, Fra! <3
(P.S. Uno dei fattori che mi ha spinto ad amare questa fic è il
capitolo finale, che trovo sì divertente ma anche tenero: l'avete
capito, vero, qual'era il secondo esperimento di Sherlock? ;D)
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