Russie mon Amour
Takao
si allentò la cravatta entrando nella sua camera da letto;
era terminata, per lui, un’altra mattinata di lavoro, - l’ultima, grazie al
cielo, visto che aveva concluso l’affare, - e adesso poteva ritenersi
grandemente soddisfatto.
Posò la cartelletta accanto
all’armadio e, sospirando, si buttò sul letto: era distrutto, quella mattina si
era dovuto svegliare qualche minuto prima delle sette, e non aveva nemmeno dormito
bene… Urgeva recuperare.
Certe persone si meravigliavano ancora
del fatto che lui, che in passato era stato tutto beyblade,
ozio e cibo, adesso fosse un gran lavoratore, un uomo affidabile e sicuro di
sé, ma era così.
Aveva un lavoro che gli piaceva
tantissimo, la moglie più bella del mondo, e viveva in Francia, a Parigi.
Certo, talvolta il Giappone gli mancava, ma con Karen, di viaggi intorno al
mondo non ne mancavano mai, quindi non poteva certo dire di annoiarsi.
Amava la sua vita, sua moglie, il
suo lavoro. Era un uomo fortunato.
“Ehi, quando sei tornato?” Karen comparve
poco dopo, avvolta nella vestaglia di seta bianca, i capelli biondi lasciati
sciolti sulle spalle che le conferivano un’aria pressoché sensuale.
“Da poco.” mormorò, andandole
incontro e prendendo a baciarle le spalle; la sentì ridere e rovesciare la
testa indietro, ma gli si sottrasse subito dopo, risoluta.
“No.” aveva un’aria strana: era
luminosa, solare, ma pareva anche in attesa di qualcosa. “Sai, Hilary è appena
arrivata, la sono andati a prendere Max e Maryam.”
“Mmm…” Takao non ne voleva proprio sapere di smettere di baciarla:
il suo collo aveva un profumo così buono, ed era così liscio…
“E dai!” la donna rise,
spingendolo via delicatamente. “Stavo dicendo che è appena arrivata, la sono
andati a prendere e Nadja mi ha detto che Daphne trama qualcosa... Non sei
contento?”
Takao
sbuffò. “Kary, tra moglie e marito…”
“Sì, lo so, ma non mi arrendo.
Non manca molto prima che io e te dovremmo andarcene,
e prima di levare le tende vorrei esser d’aiuto a Kai,
in qualche modo.”
“In realtà ho concluso
l’affare oggi.” le rivelò lui.
Lei annuì. “Me l’avevi detto
ieri. Ah, sai cosa? Anche io ho concluso un certo
affare oggi.” assunse un’aria pensierosa. “No, per la verità necessità ancora
di qualche mese… Diciamo pure che sono in trattativa…”
Il giapponese sbatté le palpebre.
“Eh?”
“Ma sì, per concluderlo,
questo affare, mi ci vorranno un paio di mesi. Nove,
all’incirca.” sorrise largamente, gettandogli le braccia al collo. “Sono
incinta, babbeo! Ora è più chiaro?”
Takao
dapprima la guardò senza dire alcunché, poi scoppiò a
ridere, e ricambiò l’abbraccio. “Non ci credo…” sussurrò, dopodiché le stampò
un lungo bacio sulle labbra. “Ti amo.” le sillabò, sulla bocca.
Lei intrecciò le sue dita con
quelle di lui. “Anch’io ti amo.” e, appoggiando la testa sulla spalla del
marito, si ritrovò ad augurare la stessa gioia a due testoni di sua conoscenza.
Gwen
aveva ventotto anni, ed era la classica rosa inglese: bionda con gli occhi
azzurri, minuta, lentiggini sul volto, svolgeva il suo lavoro da segretaria con
passione, anche perché aveva avuto la fortuna, anni prima, di trovare un capo
simpatico, affidabile e divertente: Hilary Tachibana,
l’avvocato che, in quegli ultimi anni, si stava
davvero facendo conoscere per la sua bravura, a Londra.
Certo, in quei giorni era mancata
per motivi familiari ed era dovuta partire su due piedi dovendo
chiudere lo studio, ma erano cose che potevano accadere.
Quello che Gwen
non si aspettava, era al ritorno, di trovare il suo capo così cambiato.
Era sempre stata allegra,
divertente, affabile, piena di energie, ed erano queste qualità che avevano
contribuito alla sua scalata sociale, ma quel giorno pareva non esserci
completamente. Stava nel suo studio a fissare il computer con occhi sbarrati,
come se non sapesse cosa fare, e aveva trangugiato un caffè dopo l’altro.
Solitamente era lei che si
occupava di revisionare i suoi scritti al pc, visto che – come aveva ammesso Hilary stessa, ridendo –
era una vera nullità al computer, e sapeva fare soltanto le cose base, ma quel giorno
pareva non riuscisse a fare nemmeno quelle.
“E’ tutto a
posto? Posso aiutarla?” bussando timidamente al suo
studio, decise di rompere quel silenzio devastante. Fortuna che non vi
erano clienti.
“Oh, Gwen…”
sbattendo lentamente le palpebre, si riscosse in maniera minima: era intenta ad osservare un ciondolo che, prontamente, ricacciò in tasca.
“Non sono riuscita a scrivere nemmeno una riga sul divorzio Stevenson – Brady… Oggi non ho proprio testa.”
La bionda si ravviò una ciocca
dietro l’orecchio. “Se si sente male può andare a
casa.” propose, scrollando le spalle. “Ci penso io a chiudere qui, sul serio.”
Hilary si morse le labbra,
pensandoci un po’ su. “Sai cosa?” sospirò lentamente.
“Temo di… Aver bisogno della… Dottoressa Bennett.” sospirò, come se stesse
ammettendo una verità scomoda. “Vedi se c’è un posto libero
il prima possibile, per piacere, anche oggi… Ma ne dubito.”
Gwen
annuì. “A qualunque ora?”
“Sì, sì. Ne ho… proprio bisogno. Dille che è un’emergenza.”
Daphne
aveva in braccio Daisy, e, rilassandosi mentre le faceva le treccine, guardava
sua zia sfornare una torta al cioccolato.
Liz e
Sam erano appena andate via dopo averla riabbracciata
e salutata, in quel momento si stava dedicando alla famiglia.
“E’ pronto il tè, zia?” mettendo
per terra la bambina, raggiunse il posto dove si
trovava la donna per vedere se aveva bisogno di aiuto.
“Sì, tra un po’ la teiera
dovrebbe fischiare…” Maryam dispose la torta su un
vassoio. “Prendi le tazze, per favore.”
“Certo.” portando il tutto in sala
da pranzo, trovarono Daisy che tentava di arrampicarsi su per una sedia; una
volta fatta sedere accuratamente la bimba, iniziarono
il rituale inglese delle cinque.
“Ora stai meglio?” la donna le
porse una fetta di torta. “Eri così nervosa ieri sera, non ti ho mai vista così arrabbiata con tua madre...”
Daphne
le lanciò una lunga occhiata neutrale. “Sto meglio, ma non vuol dire che sia
più calma.” fece notare.
“Lo zio ti ha spiegato come sono
andate le cose, e scommetto che quando sono andata a dormire mamma vi ha pure
detto delle cose che non so, cose che mancano al mio puzzle.” qui sospirò. “Ma non cambio idea: sta
rovinando la vita a tutti. Quattordici anni fa aveva
ragione lei, ora no.”
Maryam
sorseggiò il suo tè a lungo, prima di parlare, dopodiché la fissò dritta negli
occhi. “Quando affronti determinate cose, nella vita, hai paura che ritornino.”
spiegò. “Io credo che Hilary tema non solo per se stessa, ma anche per te e Nadja. Poi c’è un fattore non da
sottovalutare.”
Daphne
corrucciò le sopracciglia. “Cioè?”
“Non sa ancora cosa prova per tuo
padre.”
“Ma se si vede lontano un miglio
che si amano!”
La donna sorrise. “La gente vede
chiaramente negli altri, ma non riesce a vedere altrettanto chiaramente in se
stessa.”
La ragazzina dapprima restò
attonita, poi sorrise. “Lo sai, zia, mi sei mancata.”
“Oh, non ne dubito.”
Mao si ravviò i capelli chiari,
lasciati liberi di ricadere sulla schiena.
Sin da ragazzina li aveva sempre
avuti lunghi fino ai gomiti, ed erano sempre stati la sua particolarità, il suo
vanto. Ora che ragazzina lo era un po’ meno, li aveva accorciati fino un po’
sotto le spalle, sempre lunghi ma molti centimetri di meno rispetto a vent’anni
prima. Un po’ una via di mezzo tra quello che era stata e quello che era.
Karen le aveva dato
appuntamento in quel pub dove, sere prima, si erano incontrate anche con
Hilary. Solo a ripensare alla bruna sentiva una morsa allo stomaco.
Si diceva che le amiche ci
dovessero essere sempre, che dovessero essere leali,
che non dovessero giudicare… Su quest’ultima cosa non si trovava molto
d’accordo. O meglio: secondo lei, aveva delle eccezioni: quando
la migliore amica di una vita sta per fare una stronzata colossale, come si faceva
a starsene zitta e muta?
Con molta pazienza era riuscita a
non farle un casino, e a dirle quella frase, il giorno in cui era venuta a casa
sua a salutarla, ma non sapeva neanche dove avesse
trovato la forza.
Forse se le avessi detto di più… Magari…
Ricacciò con forza quest’ultimo
pensiero: Hilary era una donna fortemente indipendente,
e altamente testarda; se decideva una cosa, non cambiava idea nemmeno se la si
supplicava in ginocchio, a meno che non capiva lei di avere sbagliato.
Ed era su quello che dovevano
puntare.
Dovevano far capire a Hilary che
lei amava Kai,
che si appartenevano,
accidenti.
“Ehi, sei qui da molto?” una Karen stretta in un tubino viola le si parò davanti,
sorridendole.
Mao, che sorseggiava un sex on
the beach, mise da parte il drink per abbracciarla. “No, solo cinque minuti. Ciao, comunque.”
La bionda si sedette sullo
sgabello, e richiamò il barista, ordinando della coca cola. “Allora, che mi
racconti?”
Guardandola con occhi sospettosi,
la cinese mescolò il suo cocktail con la cannuccia. “Io niente, tu, signora coca cola?”
Karen, ricevendo la lattina,
diede al barista una banconota, dicendogli sbrigativamente di tenere il resto.
“Sono incinta!” esclamò, con un sorriso enorme sulle labbra.
Mao batté le mani, scendendo
dallo sgabello ed andandola ad abbracciare. “Cielo,
come sono contenta!”
“L’ho scoperto due giorni fa, e
non dovrei essere di molto…” spiegò, mordendosi le labbra, contenta. “Appena
torniamo in Francia prenderò l’appuntamento con la
ginecologa.”
L’altra assunse un’aria delusa.
“Ah, già. Andrete via…”
Karen sospirò. “Takao ha concluso il suo affare, e
io l’ho pregato di rimanere qui qualche altro giorno. Vorrei vedere come si
evolvono le cose tra Kai e Hilary. Vorrei tornare a
Parigi contenta davvero, senza pensieri, godendomi spensieratamente la
gravidanza.”
Mao sorseggiò il cocktail. “Ma se continua così…”
“Io sono ottimista.” la bionda sorrise. “Nadja mi ha
spiegato cosa lei e Daphne hanno
organizzato in questi giorni per far mettere insieme i due. Le
gemelle sono diaboliche.”
“Sì, ma serve un altro piano altrettanto diabolico per far
crollare Hilary.”
“A quanto pare Daph ce l’ha.” Karen sorrise. “E io non
ho nessuna intenzione di partire con un pensiero in più per Parigi. E quando mi metto in testa una cosa…”
Per Gillian
doveva essere ora di pranzo, ma quando aveva ricevuto, ore prima, una
telefonata da parte di Gwendolen Richards, la
segretaria di una delle sue clienti più datate,
per così dire, non aveva esitato a comunicarle quell’orario e a far arrivare
Hilary Tachibana il più presto possibile.
“Ho ordinato thailandese, spero
ti piaccia.” la rossa estrasse dei pacchettini da un sacchetto. “Il ristorante
a due isolati da qui cucina del cibo davvero ottimo. Prego.”
porgendole un pacchetto, che l’altra prese quasi meccanicamente, Gill prese a
mangiare. “Ti ascolto.”
“Ho lo stomaco chiuso.” Hilary
mise da parte il cibo. “Non faccio che pensare a lui, e alla litigata, a tutto
quello che mi dicevano tutti, e… Tu non stai capendo nulla.”
“Non molto in effetti, no.”
asciugandosi le mani su un tovagliolo, Gill si sistemò ben benino gli occhiali
dalla spessa montatura.
“Sono andata a Mosca. E’ stato
fantastico, mi sono innamorata di quella città, si è come… fatta perdonare.”
“In che senso?”
Sospirando, Hilary cacciò fuori
dalla tasca un ciondolo e prese a giocarci nervosamente, lanciandogli qualche
occhiata di tanto in tanto. “Beh, quattordici anni fa la odiavo, custodiva dei
ricordi orribili con Kai, Cindy e tutto il resto, ma
ora… Ho ritrovato Takao, Karen, Mao… E anche lui.”
Gillian
mangiucchiò un pezzetto di pollo. “Devo dedurre che l’hai ritrovato in un modo
un po’ diverso da come hai ritrovato gli altri amici?”
Arrossì. “Alla fine siamo finiti
a letto insieme. Vedessi, dicevo a Karen e Mao che si sbagliavano, che
costruivano castelli in aria, che la vedevano rosa, invece…”
“Invece avevano ragione?”
“Beh, a quanto pare sì.” arrossì,
e, non riuscendo a sollevare lo sguardo, prese a mordersi le labbra, trovando,
a quanto pareva, molto interessante quel misterioso
ciondolo. “Dopo che abbiamo fatto l’amore è successo
una cosa strana: nonostante tutto il tempo passato a ripetermi che era un
errore, che ero una madre e che dovevo pensare alle gemelle e non a me, che non
ero un ormone ambulante… Ho gettato queste cose nel cesso, automaticamente. Era
come se Kai mi attirasse sempre di più. Avevo voglia di essere sua, sua soltanto, di fare l’amore tutto il
giorno, sempre…” sospirò, ravviandosi i capelli. “Non mi capisco.”
“Cos’è successo?”
“Nadja
ha avuto una gara di beyblade, e l’ha vinta. Per
tutto il giorno non ci siamo potuti vedere, tranne, poi, la sera successiva,
quando abbiamo brindato, e stavamo per dedicarci un po’ a noi. Ma lui ha
cominciato a dire che voleva una famiglia, che voleva tornare con me… E io mi spaventata a morte.”
Gillian
si asciugò le labbra con tovagliolo, aggrottando la fronte. “Perché?”
“Perché non voglio ridiventare
depressa!” sbottò. “E’ così difficile da capire?” gemette. “Non so se con lui
sarei felice, ma so che stare con lui è difficile.”
“Hilary.”
accavallando le gambe, la dottoressa sorrise brevemente, facendole cenno di
fermarsi. “Tu non cadrai nuovamente in depressione.”
Sbattendo gli occhi, la bruna la
fissò come se non le credesse. “Cosa?”
“Esatto. Hai seguito un percorso
invidiabile in questi anni, e hai una vita serena. Io credo che il problema sia
un altro. Ti ha detto dove andrete a vivere?”
“Ecco!” sobbalzò, come se si
fosse ricordata di un particolare importante. “Ha parlato di trasferirmi, ma
io… Perché diavolo dovrei trasferirmi? Sto bene a
Londra, sto benissimo! Ho il mio
lavoro, Max, Maryam…”
Inarcando un sopracciglio, l’altra
notò qualcos’altro. “Saresti disposta a lasciarli?”
Ritrovandosi a boccheggiare,
Hilary non seppe cosa dire. “Io non… No!”
“Forse il problema potrebbe
essere anche questo, non credi?” concedendole un sorriso, Gillian
scrollò le spalle. “Sei mia paziente da anni, so quanto tu sia legata ai
coniugi Mizuhara e so quanto hanno fatto per te. Ma
se tu dovessi tagliare il cordone ombelicale?”
“Perché dovrei farlo?”
ritrovandosi improvvisamente accaldata, prese di scatto un tovagliolo, con il
quale si tamponò la fronte.
“Per un motivo qualsiasi. Valido, ovviamente.” precisò. “Il che non vuol dire non vedersi mai più. Significa…
Diverso da ora.”
Hilary stette a
pensare per un bel po’, e all’improvviso nella stanza tutto quello che
si udì fu il ticchettio dell’orologio: le due donne si fissarono a lungo; la
rossa, sicura di sé e sorridente, la bruna, timorosa e spaventata.
“Non lo so.” esalò infine.
“Credi che Kai
sia una valida ragione per tutto questo?” incalzò. “Ricorda che il lavoro potrai ricominciarlo da un’altra parte. Ma ricorda, Hilary:
non ha senso mentire a se stessi.”
“Perché mentire?” ridacchiando e
abbassando lo sguardo, lanciò il tovagliolo sul tavolo. “Non lo amo, punto.”
“Mi fai un favore? Ecco. Pensa a
tutto quello che senti quando sei in sua compagnia. Emozioni, sensazioni,
pensieri… Tutto. Poi mi rispondi. Abbiamo tutto il tempo. Chiudi
anche gli occhi, se vuoi.”
La donna emise un lungo sospiro,
dopodiché il ricordo di quegli occhi viola la strinse a sé con tanta forza da
farla irrigidire.
Ricordò i suoi baci, il modo in
cui le loro bocche si incastravano alla perfezione, la
loro maniera appassionata di fare l’amore, nella quale i loro corpi parevano
fondersi insieme, quasi fossero fatti apposta per combaciare… E i suoi sorrisi,
i suoi bronci che lei trasformava in risate, il modo in cui la sua mano si
stringeva alla sua, e anche come la faceva disperare… O anche quando faceva lo
stronzo, il che era poi così sexy, perché se da un lato avrebbe voluto
schiaffeggiarlo, dall’altro il desiderio di baciarlo era ancora più forte…
E poi abbassò lo sguardo al
ciondolo di Rei e Mao e spalancò occhi e bocca, non sapendo se ridere o
piangere.
La verità le piovve addosso come
una cascata, facendola impallidire inevitabilmente: innamorata, lei era innamorata di Kai
Hiwatari.
E qualunque cosa avesse fatto per
fuggire sarebbe stata inutile, perché non vi era soluzione. Lo amava
disperatamente, follemente e veramente, e la cosa stupida, ma davvero stupida sarebbe stata farsi
frenare dalla razionalità e dalle paure.
“Oddio…” inghiottendo a vuoto, fu
capace soltanto di portarsi una mano alla bocca, mentre con l’altra osservava
meglio quella collana.
Furbi, quei due. Di certo
sapevano con cosa darle le giuste imbeccate.
“Cos’è?” sporgendosi per vedere, Gillian ammirò la collanina e il ciondolo dello yin e dello yang.
“Me l’hanno regalato Mao e Rei. Non hanno detto, ma ora ho capito cosa volevano dire: secondo la
tradizione cinese sono i due opposti per eccellenza, come fuoco e acqua, bene e
male, ma l’uno non può esistere… senza
l’altro.” concluse, con voce roca. “E’ così.”
“Quindi
sai cosa devi fare.” Hilary annuì.
Quando Rei andò a villa Hiwatari per vedere come procedeva la situazione, trovò una Nadja imbronciata che si
preparava per andare agli allenamenti di beyblade, e
Karen e Takao che si coccolavano a vicenda,
acciambellati sul divano.
Kai era
nel suo studio, tra scartoffie e documenti vari, a controllare le buste e i
pagamenti della palestra.
“Doveri e oneri di un dirigente,
eh?” appoggiato al muro, non aspettò nemmeno che l’amico lo invitasse ad entrare: ormai lo conosceva abbastanza per sapere che non
l’avrebbe mai fatto. Kai Hiwatari
non si formalizzava a tanto.
“Già.” rispose, laconico.
“Allora, zietto, come hai preso la
notizia?”
Kai
mise via un documento particolarmente sostanzioso e scrollò le spalle. “Una
buona nuova fa piacere, di tanto in tanto.”
“Se lo vuoi sapere, a me fa senso
pensare a Takao padre.” fece,
ridacchiando. “Chiederò a Karen di filmarlo mentre cambia i pannolini.”
L’altro sorrise
appena. “Se te lo stai chiedendo, sto bene.” inarcando
le sopracciglia, lo guardò con aria di sfida. “Non mi impiccherò
da nessuna parte.”
“Non che io lo temessi.” Rei scrollò le spalle. “La storia la so, non sono qui per
fartela raccontare un’altra volta. Sono qui per dirti solo
una cosa.” fece, alzandosi. “Tu le hai proposto di trasferirsi e lei si
è arrabbiata.” Kai incrociò le braccia al petto. “E
se fossi tu ad andare da lei?”
Maryam
prese i piatti, stando bene attenta a posizionarli sulla
tavola: l’ora di cena era arrivata e quella sera aveva ordinato la pizza, che
stava aspettando solo di essere mangiata.
Daphne,
da quando era tornata, non era felicissima, più che altro si era mostrata
preoccupata e nervosa, ma lei e Max avevano assicurato alla ragazza che
avrebbero parlato alla madre quanto prima. Capivano che era una situazione
intricata che andava risolta.
“Passami il piatto.” fece, nella
direzione del marito.
“Zia, ci penso io. Tu siediti.” Daphne squadrò il pancione al terzo trimestre abbondante di
Maryam e si alzò, distribuendo velocemente i tranci
di pizza. “Buon appetito.” quando si avvicinò alla sedia, il campanello venne suonato con energia. Tutti si guardarono, sorpresi.
Hilary in genere smetteva di lavorare un’ora più tardi, quindi…
E invece era proprio
lei, e pareva aver fatto spese, a giudicare dalla quantità di sacchetti che si
era portata dietro.
“Ciao.” si fece
strada verso la sala da pranzo, rivolgendo un sorriso a tutti; pareva nervosa,
e anche leggermente sulle spine. “Oggi è stata una giornata particolare. Sono stata da Gillian.”
Sentendo nominare la sua
analista, l’attenzione di tutti venne concentrata su
di lei in toto. “Hai avuto dei problemi?” Hilary andava regolarmente da lei, ma
era raro che ci andasse senza appuntamento, come quel giorno.
“Sì.” dichiarò, dopo qualche
secondo di silenzio. “Con me stessa. E lei… E’ stata davvero
grande, perché ha districato l’enorme massa dei miei pensieri.” fece, con un
sospiro.
“Io… Io sono
innamorata di Kai, e mi dispiace averci messo tanto a
capirlo. O ad accettarlo, fate voi.” lo disse
con un filo di voce, quasi timida.
“Finalmente!” trillò Daphne, raggiante.
“Alleluja!”
fece eco Max, alzando gli occhi al cielo mentre Maryam
le sorrideva, complice.
“Mammina, siamo contenti?”
chiedeva Daisy, mangiucchiando la pizza e sporcandosi il faccino.
“Sì, amore, tantissimo.” la donna
rinunciò a pulirle
il visetto, pensando che se lo sarebbe sporcato nuovamente due secondi dopo.
“E ora?” Daphne
andò dalla madre, stampandole due sonori baci sulla guancia.
“Oh, per schiarirmi le idee ho
fatto shopping…” ridacchiò, nervosa. “Sapete, in Russia fa freddo…” Max e Daphne batterono le mani, e a loro si unì la piccola Daisy,
anche se non capiva il perché. “Ho paura…”
“L’amore fa paura.” Maryam la fissò negli occhi. “Ma
capisci che ne vale la pena quando trovi certi abbracci.” allo sguardo
interrogativo della donna, lei sorrise, sibillina. “Perché ci sono braccia che son più casa di casa
mia.”
Hilary la fissò per qualche
istante, confusa, poi decise di lasciar perdere.
“Sentite, ho bisogno dell’aiuto di tutti quanti, perciò organizziamoci. Ho un
piano, e per metterlo in atto ho fatto una telefonata. Daphne?
Prepara la valigia: si parte tra qualche ora. Max? Mi
accompagni all’aeroporto?”
Lui sorrise. “A tua
disposizione.”
Nadja
si svegliò presto l’indomani, e non fu sorpresa di trovare suo padre con tanto
di valigia in mano; lei, del resto, era già vestita di tutto punto, ma fu
divertente quando, alla vista del suo trolley, vide lui inarcare le
sopracciglia.
“Dove pensi di andare?”
“Tipo nella tua stessa direzione…
Mi dai un passaggio?” lo disse senz’ombra di sfida, fu una frase buttata lì,
per caso, ma carica di significato.
Si fronteggiarono per un po’, poi
l’uomo cedette, perché si incamminò verso la porta,
lasciandogliela aperta.
Per quelle occasioni, tipo andare
ad un party esclusivo, o pigliare l’aereo, prendevano
sempre la limousine. Dava nell’occhio, ma era necessaria, se non volevano
lasciare la Jaguar
incustodita.
Il viaggio durò meno di un’ora,
un’ora che la ragazza trascorse guardando fuori dal
finestrino e pensando a tutto; la sua vita soleva essere semplice, liscia,
lineare. Invece era bastato un viaggio a Parigi per scombinargliela
completamente.
Daphne
era entrata nella sua esistenza come un tornado, avevano scoperto di essere
gemelle, e da lì avevano architettato quel piano pazzo per conoscere i
rispettivi genitori. E poi… dalla conoscenza al farli tornare insieme?
Oddio, ma come ci siamo arrivate?
Quasi sorridendo, pensò a tutte
le avventure affrontate, tutte le risate, le chiacchiere, tutte le volte in cui
con Daphne si erano chiuse nella loro stanza ad
architettare i loro piani…
E ora… Siamo qui.
Si sorprese di notare quanto
fosse nervosa, quanto fosse anche cambiata rispetto a
settimane prima. Era un po’ più spigliata, più vivace, si era… Tachibanizzata, ecco.
Con sorpresa, si rese conto che Daphne e sua madre le mancavano tantissimo, e che non
vedeva l’ora di riabbracciarle.
Spero solo vada tutto bene.
La limousine si fermò proprio
sulla pista, di fronte ai jet privati in partenza e in
arrivo, e loro due scesero subito dopo.
Una hostess trafelata arrivò
immediatamente, accogliendoli. “Signor Hiwatari, salve. Il suo jet atterrerà tra cinque minuti, la preghiamo
di attendere da questa distanza.”
Kai la
guadò come fosse pazza. “Il mio jet doveva partire,
non arrivare.” sibilò.
Quella sbatté gli occhi. “C-Così
mi è stato riferito dalla torre di controllo.” balbettò.
“Papà, rilassati.” Nadja decise di intervenire per non far rischiare ad una povera hostess innocente il licenziamento. “E
aspettiamo.”
Quello la squadrò attentamente.
“C’entri qualcosa?”
“Potrei.” fece, imitando il tono
laconico di marca Hiwatari. “E ora, se non ti
dispiace, dovremmo attendere un volo.”
“Nadezda,
che diamine-”
Ben sapendo che quando la
chiamava con il suo nome intero le cose erano gravi, la ragazza decise di
intervenire con un sorriso. “Guarda, quello è l’aereo.” scrollò le spalle,
indicando un punto, in alto. “Non ci resta che attendere qualche secondo.”
Kai
seguì il tragittò del jet con il cuore in gola, pur stando
attento a mantenere l’aria distaccata che si riservava sempre di mostrare all’esterno.
Quando, minuti più tardi, da lì
scese una Daphne che cacciò
un urlo di gioia e corse ad abbracciare la gemella, facendola girare… Restò
paralizzato, si sentiva come ingessato, inamidato, assolutamente bloccato e
sconvolto.
“Senza parole, Hiwatari?” Hilary scese le scale con una lentezza che
pareva misurata. Indossava un cappotto di pelliccia color panna, e trascinava
con sé una sostanziosa valigia.
Le gemelle ridacchiarono. “E’
diventato di sale.”
“Voi state zitte, malefiche!” la
donna fece finta di prendersela con loro, arricciando il naso. “Ne avete
combinate abbastanza.”
“Ma per
prenotare jet privati in modo da essere qui in meno tempo ti serviamo, eh?” Nadja incrociò le braccia al petto, facendola ridere.
“Dai, andiamo, lasciamoli ai loro
affari.” fece Daphne. “Chissà se i negozi degli
aeroporti sono davvero più cari come si dice…”
Uscite dalla visuale, Hilary si
avvicinò a Kai, sorridendogli. “Battuto sul tempo.”
si morse le labbra. “Okay, per una volta.” vedendo che non rispondeva, lo fissò
dritto negli occhi. “Ti ho sorpreso?”
“Lo fai sempre.” il tono di lui era neutro, l’espressione indecifrabile.
“E non sempre positivamente, lo
so.” annuendo, la donna sbuffò. “Abbiamo avuto una storia… complicata. E siamo… complicati.”
dicendo nuovamente la parola, ridacchiò. “Ma
sai cosa? Forse queste ore lontane da te sono state un bene. Ho
capito tante cose.”
“Tipo?”
“Avevo paura di cadere nuovamente
in depressione, e quando mi han confermato che non è possibile, beh, wow, è
stato una preoccupazione meno.” notando che l’espressione tesa di lui si
scioglieva man mano, lei continuò, un po’ più sicura.
“E poi mi hanno fatto capire che
avevo uno spasmodico senso di attaccamento a Max e Maryam…
Non sai quanto hanno fatto per me, e sarà difficile star lontana da loro, ma…
E’ giusto tagliare il cordone ombelicale.”
“E il tuo lavoro?”
“Una scusa.” ammise, e le
guancie le presero fuoco. “Posso fare l’avvocato dovunque e… Beh, all’inizio mi
preoccupavo anche per Daphne, ma lei sarebbe contenta
se si potesse fare e…”
“Si potesse fare cosa?” con un
sorrisetto particolarmente irritante, Kai incalzò nel
punto dolente con tenacia e astuzia.
Le guancie di Hilary divennero
color mattone. “Guarda, un tempo ti avrei ricoperto di
insulti per questo.” decise di prenderla con ironia, ridacchiando. “Ma ti conosco, e so che a modo tuo mi stai facendo pagare tutto
quello che hai dovuto passare. Quindi okay, ci sto.”
si schiarì la voce, mordicchiandosi le labbra.
“Apri bene le orecchie, Hiwatari: io ti amo.”
scandì, mordendosi le labbra. “Beh, se la proposta è ancora valida, per me va
bene. Che tu decida di andare a vivere qui, a Tokyo, a Londra, in Papuasia, non mi importa. Ci sei
tu? Ci sono le mie bambine? Beh, allora va bene.”
Kai
ridacchiò, distogliendo lo sguardo, e lasciando la donna inebetita che,
dapprima lo fissò, incredula, poi gli schiaffeggiò la spalla.
“Cioè, io mi dichiaro e tu mi
ridi sopra? Ma che stronzo!”
Stava per mettere le braccia
conserte, offesa, ma una sua mano venne fermata da
quella di lui, che le bloccò il polso. I suoi occhi vennero
attirati da due pozze color ametista, e quando incontrò un sorriso dolce come
il miele, il suo cuore rischiò di sciogliersi come burro.
“Ti amo.” le sussurrò. “Casa è dove ci sei tu, non importa il luogo.”
Quando le sue labbra trovarono
quelle di lei, Hilary capì cosa aveva voluto dire.
In quegli anni si erano separati,
avevano visto altre persone, le avevano frequentate, ma nessuna mai avrebbe
potuto prendere il posto l’uno dell’altra.
Si appartenevano, erano l’una il pezzo mancante del puzzle dell’altro, e
potevano negarlo, ma non per questo la realtà sarebbe cambiata.
In quattordici anni erano
maturati, forse un po’ cambiati, e per due gemelle dispettose si erano
ritrovati lì, a Mosca, quella città che aveva avuto l’ardire di farli dividere
e che adesso si stava facendo decisamente perdonare.
E, in quell’istante, mentre
suggellavano con un bacio la tacita promessa di non dividersi mai più e di
realizzare la famiglia che tanto volevano, Hilary capì
perché, stretta in quell’abbraccio, labbra contro labbra, quello era il posto
che poteva dichiarare casa.
Perché ci sono braccia che
sono più casa di casa mia.
Era vero.
Fine.
Ooooh.
*.*
Ed eccoci qui, dopo ben quindici settimane, a mettere la parola
fine a questa storia che, per me, è stata molto importante. Che dire? Spero
davvero non vi abbia deluso: ci sono state alcune recensioni che minacciavano
Hilary di morte semmai si fosse recata lei da lui ma,
vedete… Ci ho riflettuto e riflettuto, e qui davanti avete quella che Kai lo tratta peggio di tutti, in qualità di autrice (xD) però… Oh, andiamo: si sono incontrati a metà strada!
*ç* Lui stava per andare da lei, mollando tutto! Solo che, ho pensato: con
tutti i casini che hanno, forse verrebbe male a lui lasciare la scuola di bey,
mentre Hila ha un lavoro autonomo… Mmm… Quindi è solo
per questo motivo che ho fatto spostare lei e non il contrario, altrimenti l’Hiwatari chiappesode avrebbe mosso il culone,
parola mia. u___u
Comunque, spero davvero che come
conclusione vi sia piaciuta e… Beh, che altro dire? Vi auguro una buona pasqua (e la auguro pure a me, visto che prevedo
già come andrà a finire… .-.) e delle
belle vacanze.
Non disperategioite
troppo, e vi consiglio di segnare il primo Maggio sul calendario…
Perché?
…
Ma
perché è festa, ovvio. ;D (come no)
Un bacione, vi adoro tutti,
Hiromi