II
II
Camminavo svelto
lungo il vialetto dell’ingresso. L’umidità della
notte aderiva alla maschera, rendendola gelida e viscida. La sentivo
sposarsi sugli zigomi, sulla fronte, sul mento, trattenuta a malapena
da quel che restava di un Adesivo.
Desideravo solo poter mettere piede in casa, levarmi le
vesti da battaglia e sedermi accanto alla vetrata, sorseggiando un
cordiale mentre la mia Elanor si prendeva cura di me. Le avrei
raccontato del duello con l’Auror, sbucato all’improvviso
per contrastarci; delle molte vite mietute e delle parole di lode di
Lord Voldemort per la nostra nottata di caccia. Lei avrebbe ascoltato
rapita, seduta sulle mie ginocchia, provvedendo a mantenere pieno il
bicchiere fino all’ora in cui ci saremmo coricati. Accennai un
sorriso, subito cancellato dal rumore di un passo strascicato.
Dietro di me arrancava il ragazzino, col respiro
strozzato e l’andatura incerta. Stava curvo in avanti,
rattrappito sotto ad un mantello fattosi improvvisamente troppo grande
e pesante. La stoffa strisciava per terra, imbrattandosi di polvere e
sporcizia. La sua maschera sporgeva in bilico fra le pieghe del manto,
precipitando a terra di quando in quando. Ogni volta che l’aveva
persa, aveva impiegato interi minuti per raccoglierla ed infilarla di
nuovo in quella tasca troppo stretta. Ormai era malridotta quanto le
sue vesti. Era privo di dignità.
Non avevo mai visto tanta mancanza di rispetto verso le
nostre insegne. Nessun Mangiamorte degno di quel titolo avrebbe osato
mostrare una simile trascuratezza prima e, soprattutto, dopo una notte
di combattimenti. Ci saremmo vergognati di quell’aspetto da
accattone Babbano. L’essere un Mangiamorte significava mettere in
chiaro la superiorità del nostro sangue sugli indegni, in ogni
modo, con ogni mezzo. Incluso l’aspetto.
Dover portare a casa mia un marmocchio piagnucoloso,
con la tunica bagnata di piscio e chiazzata di sangue e vomito, mi
mandava in bestia. L’aver quasi rotto il naso a Lucius, che se la
ghignava allegramente in un angolo, non mi aveva dato alcun sollievo,
così come non l’avevano sortito le rassicurazioni di mio
fratello riguardo “l’onore di offrire ospitalità ad
un rampollo Purosangue, sì caro al Maestro”.
Per chi mi avevano preso? Per una balia, forse? Black
non sapeva badare a sé stesso e dovevo sentirmi obbligato a
pensarci io? Ridicolo, semplicemente ridicolo. Aveva una famiglia, che
badassero loro a lui!
E poi, cos’aveva di tanto speciale? Era solo un
borioso viziato che guardava tutti dall’alto in basso peggio di
Narcissa, capace solo di profondersi in montagne di belle parole, bei
modi, galanterie leziose che potevano abbindolare le donne. Aveva
dimostrato chiaramente quanto poco valesse in battaglia. Sguardo perso,
mano tremante, ginocchia cedevoli. Inutile. Dannoso. Pericoloso. Ecco
cos’era: pericoloso. Ciascuno di noi Mangiamorte rappresentava un
pericolo per Mezzosangue, Nati Babbani e Babbani, non per gli altri
accoliti. Lui invece era un pericolo per tutti. Amici e nemici. Far
affidamento su una bacchetta insicura era da sconsiderati.
Perché gli avevano permesso di ricevere il Marchio? Sarebbe
stato molto meglio lasciarlo a farneticare nella sua soffice bambagia,
servito e riverito dai suoi stupidi elfi, lontano da noi e dalla nostra
guerra.
Ad un tratto lo udii incespicare e cadere. Non mi
voltai, né rallentai il passo, ma dopo pochi metri fui costretto
ad arrestarmi. Stava rimettendo, contorcendosi a terra. Avrei voluto
sapere cosa stesse spargendo sulla ghiaia, visto che aveva vomitato
subito dopo la morte del suo “amico” e un altro paio di
volte in un angolo della cripta dove ci eravamo riuniti dopo
l’attacco. Milord aveva assistito con un sogghigno malevolo a
quell’increscioso spettacolo, per poi avvicinarlo. Gli aveva
parlato sottovoce, perché il discorso restasse fra loro due
soli. Poco importava cosa gli avesse detto, dubito si trattasse
d’incoraggiamenti o condoglianze per la sua perdita.
Tornai suoi miei passi, la mano serrata con forza sulla
bacchetta. La mia voce attraversò la maschera, assumendo una
sfumatura metallica e tagliente.
«Alzati» intimai disgustato.
Lui rimase accucciato, biascicando qualcosa contro i
sassolini pallidi quanto la sua faccia. Era una sorta di minuscolo
grumo nero e frignante, scosso dalla tosse e dai singulti. Repressi a
fatica l’istinto di prenderlo a calci lì dov’era,
sfogando la mia collera sulle frasche di un cespuglio poco lontano. Mi
rifiutai d’imbrattare ulteriormente gli stivali e di sprecare
anche un solo briciolo di magia per punire una creatura più
infima persino di un elfo domestico.
«Alzati!» ordinai, più arrabbiato.
Black dondolò sulle ginocchia, scosso dai
singhiozzi. Le sue frasi erano un miscuglio di sillabe prive di senso e
di suoni. Mi ricordarono un cerbiatto che avevo ucciso la primavera
precedente: per un caso fortuito l’avevo ferito di striscio e
questi era riuscito a fuggire per un po’, prima
d’accasciarsi ed invocare soccorso disperatamente. Era stato un
piacere zittirlo.
Le dita accarezzarono il legno di quercia, desideroso
di ripetersi, ma l’ossequio alle richieste di mio fratello mi
frenava. E dietro a queste, c’erano gli occhi venefici di Lord
Voldemort, che impedivano alla mia gola di proferire
l’incantesimo ferale.
«Ho detto alzati!» gridai.
Finalmente riuscì a raddrizzare la schiena, ma
rimase inginocchiato, le braccia che ciondolavano inerti lungo i
fianchi. Piangeva ancora. Dove Merlino trovava tutta quell’acqua
e la voglia di continuare a disperarsi?
«Come avete potuto… lui… lui poteva…» balbettò con voce rotta.
I miei occhi divennero due fessuro gelide dietro le orbite vuote della maschera.
«Cosa? Esserci utile? Non capisci nulla, stupido idiota!»
Black scosse con forza il capo, facendo oscillare
quella deliziosa chioma corvina per cui tante sue amichette di Hogwarts
avevano spasimato e provato invidia. Forse non possedeva il fascino del
reietto di famiglia, ma ne condivideva l’impronta estetica.
«Era solo un verme. Da schiacciare e sprofondare nella melma da cui proveniva».
«Era mio amico!» gridò, scattando in piedi.
Arretrai di un passo, squadrandolo con ribrezzo mentre
ricadeva floscio e affondava le mani nella ghiaia. Non era solo la
mancanza di decenza nel suo comportamento o il moccio che gli colava
sulle labbra mescolato alle lacrime, era soprattutto la sua insensata
ottusità ad infastidirmi.
Ero sicuro che, dopo quella notte, i miei compagni e
Milord avrebbero prestato attenzione alle mie rimostranze, convenendo
che il giovane Black andava tenuto lontano dalla mischia e, se
possibile, anche dai nostri affari in generale. Lo avremmo rispedito
dalla sua vociante mammina, a nascondersi nella sua stanza e a
maledirsi per non essere un uomo bensì l’esempio del
disonore.
«Non dovevate… potevamo salvarlo… lui… Calvin…»
S’interruppe, tirando poco elegantemente su col
naso. Un fremito di gioia mi percorse. Vedevo la sua algida immagine
sgretolarsi: l’affascinante e presuntuoso Purosangue che piegava
i cuori delle dame e le simpatie dei nobiluomini spariva rapido,
lasciando il posto ad una creatura insignificante. Avevo sempre odiato
il modo in cui la sua sola presenza riuscisse a calamitare su di
sé sguardi e pensieri. Non che abbia mai invidiato lo charme
della sua casata - noi Lestrange non abbiamo tratti di pari eleganza e
avvenenza -, ma preferivo la sostanza all’involucro. E quella
notte, vedevo confermata la mia teoria, dato che in quella scatola non
c’era assolutamente nulla.
Sollevai la maschera, perché potesse vedermi bene in faccia mentre lo deridevo.
Aveva gli occhi lucidi e dilatati dall’orrore al
punto tale da sembrare molto più grandi del normale. Qualunque
strega si sarebbe sciolta in lacrime di commozione, correndo ad
abbracciarlo e confortarlo. Un giovane mago provato oltre misura
dall’impatto con un mondo che credeva ben diverso, quasi
idilliaco, se visto da dietro le finestre di Grimmauld Place. Persino
Bellatrix, che notoriamente disapprovava strepiti e piagnistei - sia
che si trattasse di vittime o Magiamorte - aveva avuto un moto
d’incertezza nel vederlo in quelle condizioni. Non si poteva
certo assistere ad uno spettacolo del genere e restare insensibili. No,
su questo concordavo. Ero totalmente disgustato dalla mancanza di spina
dorsale di quel rammollito e godevo di ogni istante della sua
prostrazione.
Un basso uggiolio mi fece voltare. Lungo il viale
avanzava zoppicando una sagoma bianca. Era uno dei nostri levrieri
russi, Norios. La pelliccia, un tempo soffice, ora si sfaldava in
batuffoli disordinati che ondeggiavano con ritmo impari ad ogni passo.
Avevo pensato di abbatterlo, ma lo strenuo attaccamento alla vita che
aveva mostrato mi avevano portato a cambiare idea. Inoltre, mia moglie
diceva con orgoglio che le cicatrici sul muso e sul fianco gli
conferivano un’aria nobile e solenne.
Norios sedette al mio fianco, levando al cielo il muso
affusolato. Il torace magro si gonfiava e contraeva ad un ritmo
identico a quello dei polmoni di Black. Tuttavia, l’ansare
spasmodico di Norios era una gioia per i miei occhi, perché
testimoniava la smisurata estensione della sua fedeltà nei
confronti del padrone che l’aveva graziato. Nei patetici rantoli
di Black non scorgevo alcunché.
Allungai la mano sul capo dell’animale, che scodinzolò adorante.
«Questo cane è vecchio e stanco, ha
un’anca distrutta da una zuffa con un cinghiale. Non riesce
neppure ad acchiappare un Vermicolo e i suoi morsi non fanno alcun
danno. Eppure vale molto più di te, stupido ragazzino. Lui sa
cos’è l’onore» conclusi, calciandogli addosso
la ghiaia.
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