capitolo 16 rivisto
Lo guardò, restando in silenzio qualche secondo incapace
di profferire parola.
"…niente di più… fattibile
in breve tempo?"
"Non scherzare, dai. Sono serio." sospirò
Camus. "Non riesco a pensare ad altro che a te con la bimba in braccio,
lì, vicina al camino. Pensavo che questa vita potrei viverla
sempre senza alcun
problema perché comunque avrei te al mio fianco. Facciamo un
altro
bambino."
"Non ho mica detto no." rispose Mei.
Camus spronò i cavalli.
"… so che hai appena avuto il lavoro e che con un
eventuale bambino potresti avere problemi…"
"Il lavoro non è un problema." rispose, pensando alla donna
incinta
che aveva visto al dojo e che, come spiegato da Sheng, si occupava del
corso di
Qi Gong e Medicina Tradizionale. "La gravidanza non è un
motivo valido per
il licenziamento, ringraziando gli Dèi."
"E allora…? Se il problema è lo spazio in casa,
potremmo anche trasferirci altrove… a nord di Parigi, vicino
al Bois de
Boulogne, ci sono bellissime villette su più piani
che…"
"Non voglio lasciare quell'appartamento… è troppo
importante per te."
rispose Mei. A dire il vero, non trovava obiezioni valide per non
prendere in
considerazione quella richiesta: entrambi avevano un lavoro,
guadagnavano
abbastanza per mantenere un altro bambino e per vivere decorosamente. I
problemi
ai quali pensava Mei erano di diversa natura: sarebbe rimasta a casa
fino a un
certo punto, dopodiché avrebbe ripreso a lavorare e Camus
avrebbe dovuto badare
al bambino mentre lei lavorava. "Come farai col bambino quando
riprenderò
a lavorare? Un neonato prosciuga le energie."
Camus sentì un barlume di speranza scaldargli il petto.
"Ci sarebbe Freya a darmi una mano, lei non andrà a
lavorare." rispose subito. "E comunque ci so fare con i bambini, lo
sai."
"Su questo non nutro alcun dubbio." rispose
Mei. "Ma hai idea di che cosa significa svegliarsi ogni tre ore per la
poppata e dormire nei ritagli di tempo?"
"Imparerò."
Sorrise nel vedere la sua espressione.
"Hai idea di quanto mi stai rendendo felice?"
"E tu hai idea di che cosa significherà, per te,
avere a che fare con me, incinta?"
Le cinse le spalle con un braccio, tirandola maggiormente
a sé.
"Sarà una passeggiata." asserì, scoccandole un
sorriso.
"No, non ne hai idea." sospirò Mei,
capitolando. "Ti verranno i capelli bianchi."
"Li tingerò."
Fermò i cavalli davanti all'isba, per permettere a Mei di
entrare più agilmente in casa senza prendere troppo freddo,
sul volto ancora il
sorriso a trentadue denti di poco prima.
"Vai dentro, qui ci penso io."
Mei si alzò, scrollando via il leggero nevischio che era
rimasto attaccato alle gonne.
"In due si fa più in fretta." rispose,
sporgendosi verso l'interno della trojka con l'intenzione di aiutarlo a
portar
dentro le provviste.
"Proprio non ti riesce di ascoltarmi, eh?"
Camus scosse la testa, rassegnato, sentendo l'aria abbassarsi di un
paio di
gradi. "Sta per arrivare brutto tempo."
"Nevicherà?"
"Spero di no, sarebbe ancora troppo presto. Le prime nevicate di solito
arrivano intorno al 30, 31 agosto, non prima… tuttavia sta
arrivando il vento e
non è proprio il caso, per te, di rimanere qui fuori col
rischio di beccarti
una polmonite."
Mei puntò le braccia sui fianchi.
"Perché, fin'ora non ho rischiato?" domandò,
inarcando un sopracciglio. "Lo sentivo, il freddo, sai?"
Camus scese dalla trojka con un balzo.
"Ne hai percepito una minima parte." la corresse.
"Perché c'era il mio Cosmo a proteggerti."
Sgranò gli occhi incredula.
"Ah… quella
era la minima parte?"
Come prima a Kobotec, Camus l'aiutò a scendere dalla trojka.
"Agosto è il mese meno freddo dell'anno, ci sono
settimane dove le temperature sono così basse che
raggiungono i meno quaranta
gradi."
"Accidenti."
"Pensa che in pieno inverno il latte è venduto in forme, come il formaggio."
"Adesso mi stai prendendo in giro."
"Ti assicuro che è la verità." le disse,
sospingendola all'interno dell'isba. "Sistemo i cavalli e arrivo. Resta
qui."
Nel mentre Mei ravvivò il fuoco nel camino, pensando alle
parole di Camus: una richiesta più che legittima,
considerando anche che
entrambi si sentivano più che pronti per avere un altro
figlio.
Lo sentì trafficare oltre la porta che dava sul locale
che fungeva da stalla e si alzò dirigendosi in cucina
maledicendo il nervosismo
che, non sapeva perché, l'aveva colta appena entrata in
casa. Camus entrò
fischiettando qualcosa e sistemando le provviste al loro posto.
"Allora, ti piace qui?"
Come luogo dove staccare la spina qualche giorno
sicuramente sì. Viverci in pianta stabile, sicuramente no.
"E' come vivere all'epoca della mia trisnonna.
Bisogna esserci abituati." rispose, vaga.
Era una vita ovviamente diversa da quella che conduceva
da quand'era nata: persino al Goro-Ho c'era acqua calda corrente,
elettricità e
gas costanti.
"Questo è sicuro. Però come ti ho detto prima,
sarebbe una vita che
personalmente sarei disposto a vivere. Entrando in casa ti ho sentita
trafficare
in cucina e ti ho guardata. Vestita così mi sei sembrata una
di quelle donne
dei dipinti del diciannovesimo secolo e… oh, prendimi per
stupido, pensavo
d'essere tornato indietro nel tempo. Ed è stata una bella
sensazione." le
spiegò. "Mi rendo anche conto, però, che non
è una cosa possibile, intendo
l'idea di vivere qui."
"Per brevi vacanze è fattibile, ma a dirla tutta non
credo di potermi adattare alla mentalità maschilista del
luogo. Da dove
provengo ce n'è già abbastanza."
Sorrise.
"Beh, in effetti le donne del luogo non ricoprono
certo incarichi come insegnanti di arti marziali…"
"No, non è solo per questo. E' che la mentalità
pare
essere rimasta all'epoca vittoriana, capisci? Donnine timorate,
silenziose,
miti… assoggettate totalmente ai loro uomini. Io non
sarò mai niente di tutto
ciò. Ho studiato e sudato parecchio per essere
ciò che sono e per godere dei
diritti che mi sono guadagnata. Per entrare in un certo argomento,
sarei capacissima
di farmi trovare nuda in casa, quando rientri dal villaggio o dalla
stalla…
anzi, avrei voluto farlo poco fa ma sei rientrato troppo in fretta e
queste
sono cose che richiedono una certa preparazione."
Camus sorrise sornione, afferrando il cappotto pesante.
"Quanto tempo ti occorre, esattamente?" le
domandò, facendola ridere.
"Lascia stare quel cappotto, sciocco."
"Non avrei
mai pensato di trovare fotografie del genere da Nazar. Non ci avevo mai
fatto
caso, eppure quel tabellone è sempre stato lì."
Camus posò le foto sul tavolo
badando a non sgualcirle. "Non… non dire a Hyoga che i suoi
nonni si sono
disinteressati di lui e di Natassia. Soffrirebbe per delle persone che
valgono
meno di niente."
Mei gli porse la
tazza con il mors -che Kirill, su ordine di Zoya, aveva dato loro in un
fiasco-
a mo' d'accompagnamento per i biscotti rustici che stavano mangiando
come
dessert.
"Non c'era
nemmeno bisogno di dirmelo, sai? Non ho l'abitudine di ferire le
persone in
questo modo. Neanche Hyoga."
"A proposito…
andate davvero d'accordo voi due, vero? Cioè… non
è una mera finzione messa in
atto per mettermi a tacere, dico bene?" domandò Camus.
"Nessuna
finzione." ribatté Mei, piccata.
"Non te la
prendere. Per me è una cosa molto importante altrimenti non
insisterei su
quest'argomento." Camus le prese una mano tra le proprie.
Sospirò. "Proverò
a raccontarti una cosa: fa un po' male ricordare certe cose, ma
farò uno sforzo.
Quando ho visto Hyoga la prima volta aveva circa l'età di
Lixue e io avevo a
malapena tredici anni. Avevo finito l'addestramento già da
tempo e lui era il
secondo allievo affidatomi…"
"Bambini affidati ad altri bambini."
Camus annuì,
quindi continuò.
"Quelli come
noi smettono di essere bambini nel momento in cui vengono strappati
alle madri.
Comunque, tornando a Hyoga… quando lo portarono qui era
scarno, pallido e con
un febbrone da cavallo: all'orfanotrofio dove aveva vissuto dopo la
morte della
madre l'avevano trattato alla stregua di un animale, abituandolo al
peggio della
vita: parlava poco, non si fidava di nessuno. Nazar, il sant'uomo che
hai
conosciuto oggi, andò fino al paese vicino in piena notte e
con una tormenta
pazzesca, a chiamare un medico." Camus si fermò un istante
per bere, perso
nei ricordi. "Ora so per certo che non era esattamente un medico, ma un
ciarlatano da fiera di paese, quello che qui definiscono sciamano...
per molti versi, te ne sei già accorta, Kobotec è
ancora piuttosto retrograda. All'epoca però mi mise una
paura tale addosso, che
ancora la rammento: entrò qui, diede un'occhiata a Hyoga e
mi disse di non
farmi illusioni, che difficilmente avrebbe superato la settimana
perché la sua
febbre era troppo alta e qualcosa gli impediva di guarire... i suoi astri sono oscuri, Maestro.
Liberatevi di lui o la sua sventura ricadrà anche su di voi! Non dormii per due notti,
nella costante
paura che Hyoga potesse morire sotto il mio naso mentre dormivo.
Fortuna volle
che il figlio maggiore di Nazar, quello emigrato in Canada per
studiare,
tornasse a casa in quel periodo per visitare i genitori e su richiesta
di suo
padre venne a visitare Hyoga. Mi disse che era messo parecchio male,
debilitato
da una forma di bronchite acuta causata dal freddo e da un'influenza
mai
curata, ma che non era in pericolo di vita… non ancora
almeno."
Mei ascoltò tutto in silenzio, mogia.
"E come hai fatto a curarlo?"
Quel posto all'apparenza dimenticato dagli Dèi non era di
certo come Parigi, dove c'era una farmacia ad ogni angolo.
"E' stata una bella sfida." convenne Camus.
"Maksim, cioè il figlio di Nazar, non aveva
granché con sè, mi diede un
flacone di antipiretici che migliorarono appena un po' la situazione.
La
guarigione fu lunga, ricordo che mi disse di preparargli degli infusi
di aglio,
timo, artiglio del diavolo e non-ricordo-cos'altro nel latte."
"Aglio? Nel latte? Mia madre ci metteva il miele,
nel latte." Mei fece una smorfia. "Se la tosse era particolarmente
brutta ci metteva quello di castagno, ma l'aglio, mai. Bleah."
"Beh, non fu piacevole avere nell'aria più allicina
che ossigeno, ma gli intrugli servirono allo scopo." rispose lui,
ridacchiando. "Non ti ho raccontato tutto questo per tediarti, quanto
per
provare a farti capire anche solo minimamente quanto bene voglio a quel
ragazzo,
e quanto ne ho voluto anche a Isaak. Per me sono come figli, capisci?"
Annuì ma non replicò, preferendo tacere piuttosto
che
evocare il passato e con esso i brutti ricordi. Si schiarì
la voce, iniziando a
rassettare casa per tenersi occupata.
"Se il tempo tornerà tranquillo ti porterò al
Bajkal, prima di tornare a Parigi." promise Camus, di punto in bianco.
"Anche se non so quanto conviene sperarci, pare essere peggiorato nelle
ultime due ore."
Il tempo, esattamente come pronosticato, verso sera cambiò
in peggio: il cielo non era ancora carico di neve, ma le temperature si
erano
abbassate ancora e soffiava un vento gelido che Mei sentiva sibilare
anche
attraverso i doppi vetri delle imposte.
Chiuse il libro dopo essersi resa conto di aver riletto
la stessa riga per la quinta volta.
L'agitazione di quel pomeriggio era svanita ma qualcosa
le impediva di concentrarsi. Al contrario, Camus pareva piuttosto preso
dalla
propria lettura; seduto sul divano –le aveva lasciato la
poltrona, più vicina
al fuoco-, girava regolarmente le pagine, l'espressione rilassata, ma
concentrata sul libro.
Si concesse qualche minuto per osservarlo, soffermandosi
su quei tratti eleganti che tanto amava, finché lo sguardo
di Camus si spostò
dal libro per posarsi su di lei con curiosità proprio mentre
lei scattava una
foto.
"Ti sei girato… peccato, avevi una bella espressione
assorta…" sospirò Mei, spegnendo la reflex di
Camus e posandola con
attenzione sul tavolo, insieme al libro.
"Vai già a dormire? E' presto!"
Mei gli posò un bacio sul collo dopo avergli scostato i
capelli.
"Non proprio." rispose, vaga. "Non fare
tardi."
"N-no, finisco il capitolo e arrivo." rispose,
rabbrividendo.
"Fa' con calma." si sentì rispondere; corrugò
la fronte, guardando Mei avviarsi alla scaletta con uno strano
luccichio negli
occhi.
"…Mei."
sussurrò a mo' d'ammonimento, la voce roca.
"Sali tra cinque minuti, Cam. Non uno di più, non
uno di meno." lo fermò lei. "Voltati, finisci il tuo
capitolo, per
adesso. Voltati, ho detto."
Fece come richiesto e rimase in assoluto silenzio,
ascoltando i passi di Mei prima sulla scaletta, quindi sulle assi del
piano
superiore.
Finisci il tuo
capitolo, gli aveva detto.
Sì, come no. E chi andava a pensare al libro, dopo quello
scambio di battute e dopo una certa, inevitabile reazione fisica?
Per qualche minuto non avvertì nient'altro che il respiro
affrettato e il battito accelerato del proprio cuore, quindi, ancora la
voce di
Mei.
"I cinque minuti stanno per scadere."
Si alzò dal divano teso e con una certa
difficoltà a muoversi,
notando una serie di oggetti –indumenti- a terra e sulla
scaletta: i vestiti
che Mei aveva indossato quel giorno.
"Dammi qualche secondo, sono in condizioni un po'
particolari." le rispose, salendo al piano superiore: lo stava
aspettando
distesa prona sul letto, svestita nonostante la temperatura non proprio
ideale
della stanza.
"Alla fine ho impiegato solo cinque minuti,
visto?"
"Sono costretto ad avvisarti che io non sarò così
veloce."
*
Avevano trascorso parte della notte l'uno tra le braccia dell'altra,
provando a mettere in cantiere quel bambino che entrambi desideravano e
tutto
era andato bene fino a quel momento, finché quel dannato
incubo che sapeva
perseguitare Mei –senza conoscerne il contenuto- non si era
presentato così, di
colpo.
Camus se ne accorse subito, non appena sentì il respiro di
Mei farsi affannoso nel cuore della notte: sarebbero presto arrivati
anche i
tremiti e le urla, testimonianza che qualcosa a lui incomprensibile la
stava
ancora tormentando.
Scostò la tenda dalla piccola finestrella giusto in tempo
per vederla gesticolare nel sonno, lamentandosi come se quel che stava
vedendo
lo stesse vivendo sul serio, proprio in quel momento.
"Mei?" sussurrò. Lei iniziò a piangere,
lasciandolo indeciso sul da farsi. Lo chiamò più
volte, nel sonno, con la voce
sempre più carica di angoscia. "Mei, sono qui!"
Si accorse di non avere la più pallida idea di cosa fare.
Svegliarla o lasciarla dormire aspettando che l'incubo scemasse?
Lo invocò ancora una volta, terrorizzata da qualcosa, e
stavolta la vide posarsi una mano sul cuore, il respiro sempre
più affannato,
come se stesse rantolando.
A quel punto, pensò a un infarto. Quante
probabilità
c'erano che si manifestasse anche in soggetti sani come Mei?
"Mei, svegliati. Va tutto bene, sono qui!" le disse.
"So che mi senti, svegliati!"
Blaterò qualcosa che non riuscì a capire e
spalancò gli
occhi, vitrei. Stavolta, l'afferrò per le spalle,
scuotendola per strapparla al
sonno.
"MEI!" gridò, emanando involontariamente il
Cosmo.
Si svegliò, finalmente, dopo vari interminabili secondi,
con un rantolo che gli ricordò quello di una persona rimasta
troppo a lungo
sott'acqua che riemerge pochi attimi prima della fine: gli occhi
tornarono
svegli e brillanti, il battito cardiaco quasi regolare.
"Cam?"
Pieno di sollievo, Camus affondò il volto nel petto di
Mei.
"Pour
Athéna, quelle frayeur. Quelle peur tu
m'a fait essayer, bon sang!" Per Athena che spavento. Che
paura mi hai
fatto provare, dannazione!
"Non avevamo stabilito che in questi giorni avremmo
parlato cinese per aiutarti con la pronuncia?" scherzò,
sentendolo agitato
come raramente accadeva.
Gli accarezzò la testa, tentando di capire che cosa fosse
successo e perché fosse così sconvolto: avvertiva
il suo cuore battere furioso
senza capirne il motivo.
"Cos'è successo?" gli domandò, mentre le
tornavano in mente frammenti del solito incubo. "Oh no. Ho di nuovo
avuto
l'incubo."
"Oui."
"Ho parlato nel sonno?"
"Parlato non
è il termine più appropriato."
obiettò Camus.
Si coprì il volto con le mani.
"Quando ti
deciderai a trovar pace? Quando, benedetta ragazza?"
"Di chi stai parlando?"
Mei si alzò, infilandosi la vestaglia di velluto pesante
di Freya che durante la notte era scivolata giù dal letto.
"Un secondo, Camus, ho bisogno di qualcosa di
forte." gli rispose, avviandosi alla scaletta.
"Semmai sono io ad averne bisogno, credevo stessi
avendo un infarto!" la seguì lui.
La vide premersi le mani sulla testa, con una smorfia di
dolore.
"Ah, quanto rimpiango la tisana di Shunrei in
momenti come questo…" disse. "Quanto la
rimpiango… ti rivolta lo
stomaco, ma ti scaccia via qualunque problema, dal mal di testa
all'influenza."
"Addirittura?" Camus frugò in un pensile. "Dovrei
avere dei fiori di malva da qualche parte, ma non ne sono
sicuro…"
"No, lascia stare… fossi a casa mi farei un bagno,
ma qui non c'è l'acqua calda. Pazienza, passerà."
"Un bagno? Potevi dirlo, scaldo subito l'acqua."
"Ma no, lascia stare, davvero. Prima che si scalda,
il mal di testa è bello che andato." rispose Mei.
"Facciamolo dopo,
ti va?"
"Dopo? Insieme?"
Mei sorrise divertita.
"Che cosa scandalosa,
nevvero? Io e te in una tinozza, insieme." lo prese in giro. "Che
domande, ovviamente intendevo insieme."
Le rispose con un gran sorriso, spillando acqua dal
samovar.
Mei tenne la tazza bollente tra le mani per scaldarle,
prima di dare una lunga sorsata al tè, lo sguardo fisso su
un punto imprecisato
della stanza mentre i pensieri tornavano all'incubo.
"Degél?" azzardò Camus, dopo un po'.
"No." rispose Mei, riscuotendosi. Alzò lo
sguardo posandolo casualmente su di lui. "Per l'amor del cielo, mettiti
qualcosa addosso, mi distrai."
Camus afferrò i jeans da una pila di vestiti sul divano,
si sedette e l'invitò a sedersi accanto a sé.
"No, Degél non c'entra, povera anima." riprese
Mei. "La natura di quegli incubi è strettamente personale.
Al Goro-Ho,
come in qualunque altro posto al mondo, circolano delle particolari
credenze tipicamente
locali alle quali uno è liberissimo di non
credere… nel tuo caso, so per certo
che sarà così, ma tieni presente che ogni
leggenda ha sempre, al suo interno,
un fondo di verità…"
"Mettimi alla prova."
"La prima volta che feci questo sogno,
se così lo vogliamo chiamare, fu il giorno immediatamente
successivo alla scalata del Santuario, dopo la mia visita, quando tu e
gli
altri Saint…" si interruppe; le era sempre difficile
pronunciare ad alta
voce certe cose.
"…eravamo morti?"
"I miei complimenti per il tuo tatto." sbottò
Mei.
"Scusami, non t'interromperò più."
"Sulle prime lo attribuii allo shock e al dolore
infinito provato nel vederti freddo e disteso su quel tavolo e non ci
feci
caso. Poi però, l'incubo divenne ricorrente: ogni notte la
stessa scena… stesso
inizio, stessa fine... finché tempo
dopo rifeci lo stesso sogno, ma… sognando una diversa
versione
dell'accaduto."
Camus corrugò la fronte, ma non la interruppe,
lasciandola libera di proseguire.
"Ne parlai con Dohko, ero molto spaventata e non
sapevo che cosa pensare a riguardo. Lui mi ascoltò
pazientemente e mi fece
raccontare esattamente tutto ciò che avevo visto sperando
che, parlandone,
l'incubo in qualche modo non tornasse più a tormentarmi. In
effetti non fu più
ricorrente, tuttavia continua a ripresentarsi di tanto in tanto."
"Prova a raccontarlo anche a me."
Si prese il volto tra le mani.
"Oddéi, come faccio a raccontartelo…?"
"Levando le mani dalla faccia, tanto per iniziare.
Su, racconta. Che cosa vedi in questo incubo?"
Mei si schiarì la voce, quindi chiuse gli occhi,
riportando alla mente immagini che conosceva anche fin troppo bene.
"Nella prima versione dell'incubo mi sveglio in un
posto che tutt'ora non so riconoscere, addirittura non so nemmeno se
esiste.
Avverto chiaramente il mio corpo intorpidito, e ci metto un po' a
tirarmi su.
Scendendo delle scale mi accorgo che sono totalmente incrostate di
ghiaccio e
istintivamente mi aggrappo alla ringhiera per non scivolare. Solo dopo
aver imboccato
un corridoio a me familiare mi accorgo di trovarmi all'undicesima casa:
stavolta corro senza curarmi di scivolare, sento il respiro accelerare
ogni
volta, sapendo con inquietante certezza che cosa troverò
nella sala
principale." spiegò Mei, riaprendo poi gli occhi, lucidi. "E
trovo
te, a terra."
"…"
"Poi di questo stesso incubo c'è anche il finale
alternativo, quello che
di solito mi fa svegliare di colpo, gridando come
se mi stessero aprendo in due, almeno, a detta di Shiryu:
arrivo nella sala principale, e il freddo è così
intenso che persino i pensieri
paiono sul punto di cristallizzarsi. Solo che una volta arrivata in
sala, tu…
sei ancora vivo! Sei pallido e freddo come un blocco di ghiaccio e io
tento con
ogni mezzo di salvarti la vita ma non ci riesco
perché… muori tra le mie
braccia!" spiegò ancora Mei, asciugandosi gli occhi con il
dorso di una
mano. "Allora grido e… di solito, mi sveglio a quel punto."
"Oh, Mei."
"Aspetta, aspetta… la seconda versione dell'incubo
è
ancora più strana, sai? Non è facile da spiegare
o da capire perché in verità
nemmeno io la capisco: a differenza dell'altro, stavolta mi sveglio in
sala.
Intorno a me c'è solo ghiaccio, di sicuro molto freddo,
ma… stranamente non lo
avverto. Mi accorgo di fluttuare
sulla sala, come Degél, come se fossi uno spirito. Ti rialzi
a fatica, ti vedo
arrancare su per le scale con molta difficoltà, fino a
trascinarti a forza in
questa stanza dove vedo il mio cadavere a terra, piegato in posizione
fetale… e
tu…" si bloccò, notando un luccicone solcare la
guancia di Camus.
"Cosa c'è?"
"… io cerco di gridare, ma per qualche ragione non posso
farlo."
concluse per lei. "Questa era la cosa che temevo potesse succedere se
fossi rimasta con me, quella volta. La stanza che vedi è in
realtà la soffitta
dell'undicesima casa. Io ci avevo anche pensato, sai, a nasconderti da
qualche
parte, ma poi? Sarebbe finita esattamente così…
quest'incubo l'ho avuto per
diverso tempo…" Camus si soffiò il naso, gli
occhi rossi. "E ogni
volta era una stilettata. Non capisco come abbiamo fatto ad avere lo
stesso
incubo."
"Ecco, secondo le leggende del Goro-Ho che mi ha
raccontato Dohko, ognuno di noi nasce con otto anime: la nostra, quella
che cioè
abita il nostro corpo, e altre sette sparse in giro per lo Spazio e il
Tempo,
che abitano altrettanti corpi."
"Perché otto?"
"Beh, l'otto è un numero fortunato, da noi. Comunque
queste anime vivono… come dire… "
"In dimensioni parallele?"
"All'incirca. Ma dato che non ci è possibile
incontrare fisicamente questi alter ego, non possiamo sapere se vivono
nella
nostra stessa epoca o in altri secoli o anche in altre ere, non ci
è dato
sapere se sono tutt'ora viventi o no, non possiamo conoscere niente di
quel che
le riguarda. Tuttavia, a soggetti particolarmente sensibili,
può capitare di
entrare in connessione con una o più di loro. Dohko mi disse
che, poiché sono capace
di interagire con gli spiriti, probabilmente questo incubo era un'eco
di vita
vissuta da una di quelle anime che, ha percepito il nostro stato
d'animo e ha
voluto condividere quanto vissuto."
Camus parve pensarci su un istante.
"Cioè… correggimi se sbaglio: altri
noi, in altre dimensioni temporali, hanno vissuto le nostre
stesse situazioni e hanno condiviso con te le loro esperienze tramite
contatto
mentale?"
"Così è spiegato molto alla buona ma
sì, diciamo che
il succo del discorso è quello." rispose Mei. "Comunque
l'hanno
condiviso anche con te, visto che abbiamo avuto lo stesso incubo."
Dal canto suo Camus non era d'accordo, gli incubi o i
sogni altro non erano che il parto del subconscio; tuttavia quel
discorso
faceva parte della rete di credenze di Mei, e le rispettava pur non
condividendole.
"…magari attraverso il settimo o l'ottavo senso, o
tramite il Cosmo, no?"
Si riscosse, accorgendosi improvvisamente di aver perso
l'ultima parte del discorso di Mei.
"Non ti seguivo, scusami."
"Ho detto che, magari, il tuo alter ego ha condiviso
con te quel che ha visto tramite il settimo o l'ottavo senso o proprio
attraverso il Cosmo."
"Attraverso il Cosmo, magari. L'ottavo senso lo
escludo a priori, non c'entra niente con tutto questo."
"So che non credi in niente di quanto ho appena
detto, ma grazie per avermi ascoltato."
"Sono cose nelle quali tu credi e le rispetto per
questo anche se non le condivido." rispose Camus, con diplomazia. "Ci
siamo dunque incontrati anche in altre vite e in altre dimensioni, se
una delle
tue anime ha vissuto la tua stessa esperienza."
Mei ridacchiò nervosamente.
"Eh, pensa che gran fortuna hai avuto a incontrarmi
anche in altre dimensioni temporali."
La trasse a sé, stringendola forte.
"Non dire così. Io mi sento davvero
fortunato, ad averti incontrato."
**
Camus rientrò a casa con le braccia cariche, faticando a
chiudere la porta d'ingresso.
"Non facciamo in tempo a staccare la spina che la buca
delle lettere è già piena." sospirò,
posando la posta e il sacchetto della
panetteria sul tavolo in cucina.
"Ti sei ricordato le girelle all'uvetta?" domandò
Mei, dal bagno.
"Sì, ne mancano un paio all'appello ma tu non farci
caso." commentò Camus, smistando la posta.
"Pubblicità, volantino di
un nuovo messicano, ancora pubblicità… oh, la
bolletta della luce. Che carini, cominciavo
a preoccuparmi sai, da quanto tempo non avevo loro notizie…"
Separò conti e bollette in un cassetto della sua scrivania e
gettò la
pubblicità nel cestino della carta, quindi dedicò
attenzione a due buste di
diversa fattura.
Una color carta da zucchero con il mittente scritto in
greco, l'altra di pregiata carta pergamenata con il mittente in
giapponese.
Corrugò la fronte e telefonò a Milo.
"…Milo hai ricevuto anche tu la busta azzur-… ah,
arriva da parte di Lady Saori…"
Mei si fermò sulla soglia dello studio in accappatoio,
mentre con una mano si tamponava i capelli umidi con un asciugamano e
con
l'altra reggeva una brioche.
"Sia benedetto chi ha inventato le girelle
all'uvetta… inzuppate nel caffèlatte sono la fine
del mondo… comunque per
quanto mi sia goduta il nostro bollente
bagno a due in quella tinozza piccina di legno che, considerando cosa
ha
preceduto, ripeto, è stato romanticissimo, per
carità… ma vuoi mettere una
bella doccia con l'acqua calda corrente? Ti rimette al mondo!"
scherzò,
sorridendogli. Si accorse del telefono e si zittì.
"Oddèi! Chi c'è al
telefono?"
"Milo." rispose Camus.
"Bollente
bagno a due?"
"Possibile che tu abbia captato solo quelle parole
su tutto il discorso?" domandò Mei.
"Ma allora è
per questo che siete andati a Kobotec?"
"Certo che sì." rispose Mei, precedendo Camus.
"Non siamo nemmeno usciti di casa, l'abbiamo fatto giorno e notte
ininterrottamente su ogni superficie disponibile."
"Beh non proprio, ci siamo fermati anche per
mangiare, ogni tanto." interloquì Camus.
"Bravi
ragazzi!"
"Milo, ti richiamo più tardi, ciao." lo salutò.
"Una domandina al volo: greco o giapponese?"
"…calcolando che del Giappone mi piace solo il
sushi… direi greco."
Camus aprì la prima busta: si trattava di un invito
nuziale.
"Marin e Aiolia." esordì, sventolandolo.
"Visto che parlavi con Milo, per un attimo ho
sperato che la tua risposta fosse Milo e
Shaina." rispose Mei. "Non che non sia contenta per Marin e
Aiolia, ma…"
Camus sorrise, porgendole l'invito.
"Oh, non temere. Arriverà anche quel momento."
le rispose. "Milo corteggia Shaina da anni, da prima che ti conoscessi,
pensa."
"E ancora non ha ceduto? Al suo posto non direi no a Milo."
"Ah sì?"
"Sì, ma non pensare male, ho specificato al
suo posto, intendendo dire che se fossi in Shaina, uno come
Milo
me lo terrei ben stretto." rispose Mei. "Ma io sono Mei, ho te e
ringrazio gli Déi ogni giorno per questo. Oh, Marin ci tiene
a precisare che
sarà un matrimonio greco tradizionale. Ma lei non
è giapponese?"
"Sì, ma è una lunga storia. Matrimonio greco
tradizionale con conseguente festa superkitsch: fonti certe mi
assicurano che
sarà un'esperienza molto divertente."
"Per superkitsch
che cosa intendi? Che cosa mi devo aspettare?"
"Tu, una cinefila accanita, non hai mai visto Il
mio grosso grasso matrimonio greco
?"
"… no, al momento è ancora segnato nella lista
dei
film da vedere."
"Allora credo sia giunto il momento, ti pare?"
"Dici?"
"Eccome. Non so che cosa accade durante un
matrimonio cinese, ma in Grecia ci sono tante curiose usanze che a
occhi poco
abituati possono sembrare strane a dir poco."
Mei ci pensò su.
"Più strane dell'uso di legare i piedi della sposa
per evitare che fugga prima della cerimonia?" domandò.
"Sì,
anticamente la sposa, nella portantina, aveva i piedi legati per
evitare ogni
possibile fuga. Sai com'è, non a tutte andava sempre bene. O
aspetta, fammi
pensare… più strana ancora del rutto libero
durante il ricevimento?"
Camus storse la bocca in una smorfia.
"Stai scherzando."
"Magari. Avresti dovuto essere al matrimonio di mia
cugina: nemmeno all'Oktoberfest un concerto del genere…"
rispose Mei,
rabbrividendo. "Quando saremo noi a sposarci impedirò questa
cosa a dir
poco schifosa. E l'altra busta?"
"Anche l'altra busta contiene un invito, ma è
sicuramente più noioso. Ci sarà un ballo, il
primo settembre, in occasione del
compleanno di Lady Saori. Sarà la tua occasione per
conoscerla."
"L'ho già conosciuta."
"E quando?!"
"Al Santuario, anni fa, al vostro fu-… in una certa
occasione." rispose. "E dove si terrà questa festa?"
"A villa Kido, a Tokyo."
Mei fece finta di pensarci su.
"Oh, no che peccato: per l'epoca sarò su un volo per
il Canada… non fare quella faccia, non posso certo disdire
la mia presenza a
casa di Keanu per andare al compleanno di Saori." disse Mei, fingendosi
dispiaciuta. "Okay. Ritorno seria."
"Sarà un ballo
e cito testualmente, in bianco e nero."
"Oh beh… non sembra tanto male." rifletté Mei.
"Aspetta a dirlo." Camus lesse le postille
scritte dietro l'invito. "Lady Saori è sempre piuttosto
eccentrica quando
si tratta di dare feste: una volta, mi dissero, ne diede una a tema
Star
Wars."
"E come mai tu non c'eri?"
"Perché ero a Pechino, mentre la mia fidanzata si
laureava."
Mei gli rispose con un gran sorriso.
"Oh, ecco qual era l'impegno che avevi disertato."
arrossì. "Però devo ammettere che mi sarebbe
piaciuto vederti nei panni di
Maestro Jedi… o meglio ancora, di un Sith: Darth Camus. La Forza è potente in te. Un potente
Sith tu diventerai."
Camus la guardò torvo.
"Mei, giuro che chiedo il divorzio."
"E come? Non siamo nemmeno sposati."
"Lo chiedo lo stesso, come misura preventiva."
rispose Camus.
"Come
to the dark side: villains do it
better!" ridacchiò Mei. "Dai, come
sarebbe questo
ballo?"
"Uno in bianco, l'altro in nero."
"Cioè… uno dei due dovrà vestirsi di
bianco e
l'altro di nero?"
"Esattamente."
Ci fu un secondo di silenzio, dopodiché entrambi
parlarono quasi nello stesso istante.
"Nero!"
"Io prendo il nero!"
"No, l'ho detto prima io!" esclamò Camus,
trionfante.
"Bugiardo mascalzone!"
"Papà ha ragione, l'ha detto prima lui!"
interloquì Lixue, dalla sua stanza.
"Ma… oh, cielo. Io non posso vestirmi di bianco, lo
indosso solo ai funerali." spiegò Mei. "E poi… il
bianco ti starebbe
bene, esalta il rosso dei capelli."
Camus si alzò e, fischiettando un valzer, le girò
intorno
atteggiando qualche passo insieme a Lixue.
"Niente da fare. Io in nero, tu in bianco."
Mei sorrise, quindi gli prese il volto tra le mani,
stampandogli un gran bacio sul naso.
"Tesoro, non preoccuparti. Saremo in due ad andare
in bianco."
***
Lady Aquaria's corner
(capitolo riguardato e corretto
in data 22 ottobre 2014)
-Allicina: il principio attivo dell'aglio, ovvero il
principale responsabile del cattivo odore che l'aglio lascia in bocca.
-L'incubo che perseguita Mei è spuntato fuori durante
l'ennesima visione del maledetto episodio 67. Che sia dannato
quell'episodio.
-Le leggende del Goro-Ho le ho inventate di sana pianta.
Vedete che significa mangiare parmigiana di melanzane a cena? Non dormi
e t'inventi
ste cose :P
-Sì, avete letto bene. Il rutto durante un ricevimento
nuziale, a quanto ho letto su questo
sito è
d'obbligo in un matrimonio cinese (così come gli sputi
allontana-diavolo per i
greci).
Note piccine come mi capita ultimamente, ma i
ringraziamenti rimangono invariati.
Alla prossima.
Lady Aquaria
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