6. Kakashi gaiden owari
6-
Ti odio, non ti sopporto… ti do la mia vita.
A Nejiko e al suo piccolo Mamo-chan
Era stanco, esausto, saltava da un
ramo all’altro con estrema difficoltà, ad ogni atterraggio la spalla gli doleva
terribilmente.
Ma in realtà non era certo quello
il dolore più grande.
Gli occhi tradivano la confusione
che albergava nella sua mente, le ore di sonno mancato si mostravano in solchi
profondi e scuri; oscillava senza meta precisa, privo di paletti, per la prima
volta tradito dalle sue stesse imprescindibili regole.
L’ennesima fitta al braccio gli
ricordò la stupidità di ciò che stava facendo, quel che aveva avuto il coraggio
di dire e, celandosi fra le fronde, si fermò nel vano tentativo di recuperare
almeno in parte fiato e forze.
Pensò a Rin, alle sue mani gentili,
alla premura che sempre metteva nel curare le loro ferite, ai suoi occhi dolci,
grandi ed illuminati da una bellissima luce, quasi vibrante dopo tutto.
Pensò alle sue ultime parole “Sta
guarendo bene. Però non devi sforzarti troppo o la ferita si riaprirà.” e si
diede dell’idiota per non averla mai ringraziata veramente. Mentiva persino a
se stesso: non era un suo dovere curarli ogni volta, non era affatto un suo
dovere pensare sempre prima a loro, relegando se stessa in secondo piano,
pallida figura di sfondo dall’incommensurabile grandezza d’animo.
Lei era il loro pilastro, aveva
ragione Obito, e lui era l’unico a non essersene accorto, ad aver preteso di
essere nel giusto, sciocco borioso dagli occhi annebbiati.
Annebbiati,
o forse tenuti, sino a quel momento, testardamente chiusi con forza.
“Rin
ci ha salvato la vita con i suoi ninjutsu medici!”
gli aveva gridato il compagno furioso, incredulo, allibito dalla grettezza del
suo agire, “Se non fosse stato per lei,
adesso saremmo morti entrambi!”
Dolore, affetto, rabbia e disperazione:
mille sfumature cangianti, abbaglianti cristalli d’emozione trasparivano dai
suoi occhi mentre preda della passione tentava inutilmente di scuoterlo.
“Ora
come ora, salvare Rin è più importante della missione!”
Occhi vivi, colmi di quella volontà
incrollabile che era il credo di Konoha, la volontà del fuoco si agitava fiera
nelle oscure profondità di quello sguardo persino nella disperazione, persino
nel momento in cui sceglieva di disubbidire agli ordini del suo capitano per
seguire il proprio cuore.
Perché invece i suoi occhi erano
così spenti?
Perché l’ardente risoluzione nello
sguardo di chi sceglie di tradire?
Perché lui che era nel giusto si
sentiva così vuoto e perso?
“Kakashi,
le norme e le regole sono senza dubbio importanti, Ma non contano solo quelle.
Non te l’ho insegnato?”
Le parole del maestro presero a
riecheggiare della sua mente confusa, mescolandosi a quelle di Obito. Le regole…
“A
volte è necessario improvvisare contro i nemici.”
Impovvisare, ma come?
Com’era possibile agire secondo le
regole ed al contempo spezzarle, tradirle, senza smarrire la giusta direzione,
senza cadere, senza perdersi?
O
perdere se stesso.
Agire secondo coscienza, la scelta
di pensare liberamente, avere il coraggio di portare avanti le proprie convinzioni
fino alla fine, davanti a tutti.
Avere la consapevolezza di poter
affrontare il pubblico giudizio a visto scoperto, senza rimorsi né rimpianti,
l’animo leggero e la coscienza libera.
Un ninja degno di ammirazione e
rispetto, con valori imprescindibili, ma prima di questo un uomo retto, buono,
di cui un figlio andrebbe fiero e, prendendolo come esempio di vita, dal basso
della sua giovane età griderebbe con emozione: lui è il mio eroe.
E la schiena di suo padre riapparve
nuovamente innanzi a lui, nitida ed irraggiungibile allo stesso tempo.
Ecco l’uomo retto che tanto
ammirava, la volizione di un uomo giusto, con le sue regole ed i suoi valori.
Colui che un tempo, con gli occhi di bambino, aveva tanto ammirato, al quale,
con tutto se stesso, avrebbe voluto un giorno assomigliare.
Quante volte aveva allungato le
piccole mani nel tentativo di raggiungerlo, anche solo per sfiorare l’immagine
del suo eroe, suo padre.
Quante volte aveva immaginato la
propria schiena di giovane ninja sovrapposi alla sua, ereditarne la forza, la
saggezza ed il cuore, sino a diventare un uomo di cui essere orgogliosi, degno
del suo rispetto e del suo amore.
Ora però, ciò che riusciva a
scorgere nel lento dipanarsi della nebulosa immagine di quello che era stato
uno dei più temuti ninja di Konoha non era la sua immagine: non vi era la
stessa Tanto allacciata trasversalmente sulla schiena, non gli stessi capelli
d’argento e irsuti, non lo stemma della casata e nemmeno la stessa divisa da
jonin.
“Io
credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
Ciò che solo in quel momento gli
occhi della sua mente erano stati in grado di percepire era l’immagine di un
genin dai capelli scuri, ebano, dalla divisa blu e arancio, l’enorme maschera
fissata in viso e lo stemma degli Uchiha che capeggiava fiero al centro della
schiena dritta mentre, con determinazione, guardava al mondo con entusiastica
determinazione ed una traboccante umanità.
“Di
sicuro nel mondo degli shinobi quelli che violano le norme sono considerati
feccia. Però…” quegli occhi… il fuoco in quegli occhi
poteva trapassarlo da parte a parte come il più affilato dei kunai, poteva
squarciargli o petto e guardarlo dentro, “quelli
che abbandonano i propri compagni sono peggio della feccia.”
Rievocando tali parole sussultò in
un improvviso moto di consapevolezza; si sentiva piccolo, minuscolo,
insignificante e sperduto nel folto di quell’immensa foresta come dentro di sé.
Chinando il capo provò pena per se
stesso.
Non aveva capito nulla.
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Il covo dei ninja di Iwa era ormai
a pochi metri, poteva scorgerne l’antro roccioso dalla sua posizione
seminascosta.
“Beccati!”
sussurrò impercettibilmente in un moto d’orgoglio, serrando la presa sul manico
di un kunai.
La fitta boscaglia di quel paese inospitale
fungeva da perfetta postazione osservativa: senza temere di esser visto poteva
infatti controllare tutta la zona circostante e fermarsi un attimo, per
riprendere le forze e riorganizzare le idee. Magari strutturare un piano. Non
che ne avesse mai architettato uno da solo, ma non era proprio il momento di
abbattersi.
Apparentemente non vi era alcuna
porta, né un masso, né congegni nascosti per difendere l’entrata da un
eventuale attacco nemico, e ciò poteva voler dire solamente che entrambi gli
shinobi attendevano giusto dietro l’angolo insieme all’ostaggio.
Obito aveva corso disperatamente in
quell’immensa foresta alla ricerca di quel luogo e sperava con tutto se stesso
che non fosse ancora accaduto nulla alla sua compagna: se Rin fosse stata
ferita o peggio non se lo sarebbe mai perdonato, ma soprattutto non l’avrebbe
mai perdonato a colui che ora non sapeva nemmeno più se definire un compagno di
squadra. Troppo grande era stata la rabbia nei suoi confronti, troppo cocente
la delusione. E sì che, nonostante la sua costante aria boriosa e saccente,
l’aveva sempre ammirato per il sangue freddo e l’intelligenza… che abbaglio.
Ma ora non era certo il tempo delle
riflessioni e dei rimpianti: doveva agire, ed anche in fretta, se voleva
sperare di sottrarre l’amica dalle grinfie di quei ninja senza scrupoli prima
che fosse troppo tardi.
“Calma…
ce la posso fare!” e nel tentativo di infondersi un po’ di
coraggio si schiaffeggiò ripetutamente le guance con entrambe le mani.
Forse un po’ troppo energicamente.
Un suono lieve, forse un schiocco,
sottile ma comunque perfettamente percettibile, soprattutto per l’udito di uno
shinobi ben addestrato. Poco più di un silente riecheggiare di vibrazioni e lo
sguardo del primo di fa più sottile, entrambi scambiandosi un gesto d’assenso
si voltarono verso l’uscita.
“Me
ne occuperò io. Nel frattempo, usa il tuo genjutsu su di lei per ottenere le
informazioni.”
Detto questo, il ninja più grosso compose
brevemente il sigillo della mesaigakure no jutsu e, rendendosi nuovamente
intangibile, uscì dalla caverna.
Rin giaceva rannicchiata in un
angolo, addossata alla parete, il capo chino e le braccia strettamente legate
al busto da una grossa corda. Chissà se era ancora cosciente.
A breve lo shinobi di Iwa avrebbe
preso a scandagliare la sua psiche alla ricerca di informazioni strettamente
riservate, ancora un passo e avrebbe facilmente sovrastato il corpo minuto
della giovane kunoichi.
Fuori Obito era pronto a scattare
ma, nell’esatto istante in cui prendeva posizione, il ninja dai lunghi capelli
scuri che avevano affrontato prima gli comparve alle spalle come
materializzandosi all’improvviso.
“Dove
vai?” tuonò cupo paralizzandolo all’istante.
Col terrore che gli dilatava le pupille
ed il respiro mozzato cercò di reagire d’istinto voltandosi rapidamente ma si
sentiva come sott’acqua. La testa gli pesava terribilmente ed ogni movimento
pareva rallentato e fuori controllo. Persino i suoni gli giungevano come
ovattati e lontanissimi. I secondi scorrevano come fotogrammi di un film lento
ed esasperante; vide un kunai librarsi nell’aria e fiotti scarlatti sgorgare
copiosi invadendogli completamente il campo visivo. Quel sangue... era forse
suo?
Poi il corpo imponente dello
shinobi perse evidentemente l’equilibrio e, sbilanciandosi all’indietro, prese
a cadere dall’alto del tronco, lasciando innanzi a sé una lunga scia densa e
vermiglia.
Cos’era accaduto?
Chi, in un battito di ciglia, lo
aveva salvato da morte certa?
A chi doveva la propria vita?
“K-Kakashi...”
Non poteva crederci.
Ancora paralizzato, le labbra
dischiuse dallo stupore, non riusciva a capacitarsi di ciò che i suoi occhi
cercavano di comunicargli: Kakashi era intervenuto all’ultimo momento e
tempestivamente aveva fermato il ninja di Iwa ferendolo al petto, piuttosto
profondamente anche.
Era balzato fra di loro senza
emettere nemmeno un sibilo e, con la precisione che si confà ad un vero jonin
aveva sferrato sicuro il suo attacco.
Un singolo fendente, un solo
istante.
Ed Obito era ancora immobile,
attore passivo, anzi tacito spettatore di quello che avrebbe tranquillamente
potuto essere l’ultimo atto della sua breve vita.
Ma non era ancora finita perché,
con un rapido salto, il loro avversario aveva già recuperato l’equilibrio ed
era atterrato su un ramo dell’albero di fronte, poco più in basso di loro, e
pareva evidentemente già pronto per il contrattacco.
Anche il compagno, che non aveva
perso il controllo della situazione per un solo istante, era innanzi a lui, in attesa
della prossima mossa. L’espressione concentrata sembrava non tradire alcuna
emozione che non fosse quella determinazione guerriera e quasi beffarda che
sempre lo coglieva nel momenti di battaglia: gli occhi stretti, affilati dal
desiderio di sfida, i muscoli contratti e frementi, quasi inebriati
dall’adrenalina che a dense ondate si fiutava nell’aria, la mente che veloce
elabora strategie, calcola possibilità, considera gli ostacoli e rapida li
aggira.
Obito non poteva fare a meno di
osservare il proprio compagno di squadra come affascinato ma al contempo
tormentato da un vago sentore di inquietudine; forse questo erano in fondo i
veri ninja, animali da guerra ben addestrati, e lui non era ancora del tutto
convito di voler diventare uno di loro.
Tuttavia si riscosse in fretta,
perché il momento non lasciava certo spazio a digressione, né tantomeno a
chissà quali profonde riflessioni sulla natura umana e sul suo destino.
Osservando la situazione con lucidità non poté comunque fare a meno di rimanere
sgomento.
“Kakashi…
come mai sei qui?”
Ma… e la missione? Tutto quel
discorso sulle priorità, le regole e l’essere ninja? Cosa ci faceva lì con lui
se fin da principio aveva detto fin troppo chiaramente che la sua intenzione
non era quella di salvare Rin?
“Beh,
non posso lasciarlo fare ad uno shinobi frignone come te, non credi?”
Che cosa?
Dunque aveva intenzione di correre
in aiuto della loro compagna assieme a lui?
Dunque aveva cambiato idea riguardo
alla missione?
Cosa lo aveva convito a mutare le
sue convinzioni in maniera tanto rapida da riuscire ad accorrere e raggiungerlo
giusto in tempo per salvarlo ancora una volta? Ancora una volta così sicuro di
sé e così diverso da lui.
…e tanto per cambiare non aveva
perso l’occasione per insultarlo a dargli del frignone, ma in quel momento era
troppa la sorpresa e la felicità di vederlo lì, accanto a lui, che decise di
soprassedere, per una volta.
Voleva dire qualcosa, qualsiasi
cosa ma, completamente in preda all’incredulità, dalle labbra dischiuse non
uscì che il suo nome, lievemente sussurrato, come se quello innanzi a lui non
fosse altro che un fantasma evanescente.
L’imponente shinobi nemico si era
rialzato e scrutava la scena, studiava attentamente quel piccolo ninja che con
tanto coraggio aveva avuto l’ardire di coglierlo di sorpresa, ferendolo
frontalmente. Non poteva fare a meno di chiedersi chi fosse, poiché la sua
immagine gli ricordava terribilmente qualcuno: forse un vecchio nemico, no,
qualcosa di più, quasi un guerriero leggendario, forse era…
“Quel
capelli bianco argento, quella Lama Bianca del Chakra…” stupore
e paura andavano deformando lentamente i già duri lineamenti dell’uomo “non dirmi che sei la Zanna Bianca di
Konoha?”
Sudava, gelide gocce gli
imperlavano la fronte al solo pensiero di chi poteva essere il suo opponente. E
sì che non ricordava fosse così giovane.
“Questo
è un ricordo di mio padre.” Sibilò Kakashi a denti
stretti.
Obito, che osservava la scena a
qualche passo dal compagni di squadra, a quelle parole trasalì.
Un ricordo di suo padre… un
ricordo.
Non capiva, non riusciva proprio ad
afferrare il bandolo di quella matassa tremendamente aggrovigliata di pensieri
e sentimenti contrastanti che doveva essere la testa di Kakashi.
Eppure lui stesso aveva detto…
“Per
portare a termine la sua missione, uno shinobi necessita di risorse utili. Cose
come le emozioni sono inutili.”
Sì, ricordava perfettamente quelle
parole che gli erano parse a suo tempo tanto fredde ed arroganti. Come poteva
averle pronunciate proprio lui, quando per primo ammetteva di aver conservato
l’arma del padre per ricordo e non per mera utilità. Quelli erano sentimenti,
gli stessi sentimenti che aveva disprezzato negli altri definendoli inutili
zavorre, ed erano forti e strazianti, e parevano urlare costretti dalle catene
che il piccolo ninja si era autoimposto per fare ordine dentro se stesso, col
penoso risultato di schiacciare tutto creando ancora più confusione e dolore.
Finalmente poteva vedere l’amico
sotto un’altra luce, poteva coglierne la sofferenza ed il suo contrasto
esistenziale.
“Kakashi, tu…” ma non era quello il
tempo né il luogo delle parole.
“Capisco. Tu sei il figlio della
Zanna Bianca.” Il panico era scomparsa dal suo volto, i tratti ora tirati in un
ghigno compiaciuto. “Allora non c’è motivo di aver paura di te.” E per la terza
volta, composti i sigilli, scomparve dalla scena.
Era appena cominciata la vera
battaglia.
“Lo
immaginavo.”
Kakashi era all’erta, i sensi tesi
e pronti a captare il minimo segno di movimento; il loro nemico poteva rendersi
invisibile, ma non per questo doveva essere impossibile trovarlo.
“Il
suo odore è svanito completamente. Dovremo localizzarlo dai suoi più lievi
rumori e spostamenti.”
Un passo, un rametto spezzato o un
fruscio fra le foglie, un sottile spostamento d’aria: ciò poteva essere
sufficiente all’Hatake per identificare la posizione dell’avversario e la
provenienza di un suo attacco.
“D-dove?”
Obito era comprensibilmente
inquieto, non era sicuro di poter contare sulle stesse abilità sensoriali del
compagno, ma tendeva ugualmente le orecchie e si guardava nervosamente attorno,
nel tentativo di captare qualche suono sospetto.
Ma il furioso battere del proprio
cuore era l’unico suono che riusciva a udire, rimbombava martellante nei
timpani lasciandolo privo di difese, impedendogli di avvertine un viscido calpestare
di passi che, proprio alle sue spalle, schiacciavano i muschi sulla ruvida
corteccia.
“Obito,
dietro di te!”
Kakashi, avvertendo l’incedere del
nemico, si volse all’improvviso e, gridando all’amico di allontanarsi, si
slanciò verso quello che aveva tutta l’apparenza di essere solamente uno spazio
vuoto, ma che al contrario era proprio il punto dal quale lo shinobi di Iwa si
apprestava ad attaccare. Focalizzandosi sui rapidi spostamenti d’aria era in grado
di cogliere la sua posizione, anche se la grande agilità e velocità d’attacco
dell’avversario non lo facilitavano di certo nel prevederne con sufficiente
sicurezza i movimenti.
Questo gli impedì di accorgersi del
grosso kunai che, proprio innanzi a lui, giungeva verticalmente puntando dritto
al suo viso.
Come in ogni combattimento non durò
che un lungo istante: un fendente mirato e preciso, che dallo zigomo affondò
profondamente risalendo sino al sopracciglio, recidendo la palpebra e di
conseguenza danneggiando gravemente l’occhio.
Kakashi di tutto questo avvertì
solo il bruciore, un immediato e lancinante dolore all’orbita che, insieme
all’impatto con l’arma da taglio, gli fecero perdere l’equilibrio
precipitandolo a terra mentre la mano destra correva automaticamente a premere
su quell’occhio sanguinante e un grido sofferente si librava nell’aria. Liquido
scuro colava copioso lungo il braccio mentre, come in preda alle convulsioni,
il giovane jonin si contorceva dal dolore. Il volto sconvolto dagli spasmi
mostrava, in quegli occhi chiusi e pur dietro la maschera, l’indicibile
sofferenza che in quel momento stava provanto.
“Kakashi!”
Obito, in preda al panico, alla
vista del compagno così gravemente ferito si chinò su di lui e, chiamandolo,
ripetendo il suo nome come una litania, lo prese fra le braccia sollevandone il
capo quasi con delicatezza.
“Ehi,
Kakashi! Stai bene?”
Nel frattempo, qualche albero più
in là, il loro assalitore trovava riparo dietro le felci e, osservandoli a
distanza di sicurezza, ammirava soddisfatto il suo operato. Li aveva proprio
conciati male, forse aveva persino esagerato, se non fossero stati in guerra si
sarebbe sentito quasi in colpa. D’altra parte quelli che si era trovato a
fronteggiare erano ninja fin troppo giovani e quindi necessariamente inesperti,
anche se, doveva ammetterlo, di erano rivelati maledettamente svegli e bravi,
soprattutto quel figlio di Zanna Bianca.
“Anche
se è solo un ragazzo non fa male andarci cauti. Me la prenderò con calma.”
Kakashi sentiva l’occhio pulsare e
gli doleva maledettamente, l’intera testa pareva attraversata da continui flash
accecanti che gli procuravano un’indicibile sofferenza ed un cupo ronzio
riecheggiava fra le orecchie stordendolo ulteriormente. Stava perdendo troppo
sangue: il palmo premuto sull’orbita ne era pieno, il braccio ricoperto, la
manica della divisa irrimediabilmente intrisa. Eppure il pensiero era rivolto
al nemico, al dovere, alla loro missione.
“Il
nostro avversario… ci sa fare.”
Obito tentava di sostenerlo come poteva,
avvolgendo il braccio attorno alle sue spalle magre da ragazzino. Cercava di
ascoltarlo tendendo l’orecchio, poiché il compagno pareva improvvisamente a
corto d’aria, quasi che i polmoni non riuscissero a sostenere il dolore e lo
sforzo di quel momento. Parlava piano Kakashi, poco più che un sussurro; rapide
boccate d’ossigeno che non riuscivano a colmare il disperato bisogno d’aria
spezzavano le sue frasi.
“Ha
buttato il kunai impregnato dell’odore del mio sangue.”
Lo ammirava, in quel momento non poteva
fare a meno di guardare il suo compagno con occhi colmi d’ammirazione… e
lacrime.
Ancora una volta Obito stava
cadendo preda delle sue emozioni che, proprio come un fiume in piena gli
riempivano il cuore e straripavano da esso fuoriuscendo dai suoi occhi neri. Imperlavano
di luce le lunghe ciglia folte e gli annebbiavano lo sguardo.
“Non
dirmi che ti è andata altra polvere nell’occhio…”
berciò il jonin scoprendosi lentamente la ferita e puntando l’altro occhio
dritto nel suoi, “gli shinobi non piangono.”
Tremava ancora piuttosto
vistosamente, ma non era per nulla al mondo disposto ad arrendersi.
“Non
sono ancora morto. Resta concentrato!”
L’Uchiha annuì e, sollevata la
grossa maschera arancione, si asciugò le lacrime con la manica della divisa.
Aveva ragione, anzi avevano
ragione, anche Minato-sensei gli aveva ripetuto più volte di non piangere e
smetterla di accampare assurde scuse: “E’
impossibile che ti vada polvere negli occhi con quella maschera. Se vuoi
acquistare sicurezza non limitarti a parlare, agisci.”
Quale immagine voleva dare di se
stesso?
E quale aveva mostrato sino ad ora?
“Sono
bravo solo a parole…” si rimproverò rendendosi conto
improvvisamente sino a dove lo avevano portato quei suoi stupidi atteggiamenti
da codardo “vengo sempre salvato dagli
altri. Sono solo un perdente dalla bocca larga. Però…”
Ripensò alle parole pronunciate in
quella radura, alla passione che aveva messo in quel breve discorso; credeva
con tutto se stesso in ciò che aveva detto e non voleva assolutamente che rischiassero
di diventare vane perdendosi per colpa del suo pavido nascondersi e fuggire.
“Io
credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
“Quelli
che abbandonano i proprio compagni sono peggio della feccia!”
Si alzò in piedi con rinnovato
coraggio, ora sapeva cosa fare, ora aveva un obiettivo: avrebbe onorato quelle
parole e quell’uomo, era del suo credo ninja che si trattava e non l’avrebbe
tradito per nulla al mondo, anche se si fosse trattato di dare la propria vita.
“Non
voglio che quelle parole siano state dette al vento.”
Quale immagine voleva dare di se
stesso?
Che tipo di uomo voleva diventare?
Dritto per la prima volta sulle sue
sole gambe, fissava con determinazione guerriera innanzi a sé, la volontà del
fuoco si agitava con fervore nelle sue iridi scure: non più un bambino
spaurito, ma una vero ninja Uchiha, uno shinobi d’onore di Konoha faceva mostra
di sé al cospetto di un Kakashi in preda al dolore che si teneva in piedi solo
grazie alla sua ferrea forza di volontà. Non avrebbe abbandonato i suoi amici;
li avrebbe protetti, difesi e tratti in salvo, perché lui non era feccia.
Avvertiva il nemico avvicinarsi,
rapidamente, senza esitazioni e nuovamente alle loro spalle… degno di uno
shinobi privo d’onore attaccare sempre di sorpresa, soprattutto se i suoi
avversari sono poco più che dei ragazzini.
Riusciva chiaramente a sentirlo.
Percepiva i suoi movimenti con una
nitidezza e precisione tale che quasi gli pareva di riuscire a vederlo pur
dandogli le spalle.
Lenti, misurati, quasi a rallentatore.
Immobile nella sua posizione eretta
poteva distinguere il minimo spostamento d’aria, cogliere il rapido incedere
dell’avversario, calcolarne direzione e velocità in un solo istante… e
scegliere il momento esatto in cui contrattaccare.
Quasi, ancora un attimo…
Ora.
Un colpo secco, rapido, pulito.
La semplice torsione del busto, le
gambe ancora saldamente ancorate alla corteccia, come in una fluida mossa
d’arte marziale.
Le mani unite, quasi giunte nella
ferrea stretta attorno al kunai, le braccia tese, contratte nello sforzo
dell’affondare fra le carni del nemico.
Il viso… oh, quel viso.
Una nuova espressione, sicura,
ferma; una volontà rabbiosa e mai vista pareva emergere quasi urlando da quel
lineamenti di uomo ancora acerbo. I denti serrati stridevano fra le labbra
arricciate, mentre piccoli solchi tradivano la disperazione alla quale si stava
aggrappando per non crollare.
La determinazione brillava nei suoi
occhi di riflessi sino ad ora sconosciuti e tremendamente vivi; rossi, fulgidi,
liquidi. Lambenti lingue di fuoco avevano inghiottito come in un gorgo l’iride
picea dell’Uchiha lasciando a languire fra le fiamme due singoli, piccoli segni
d’amore nero, simboli di uno sharingan risvegliatosi per proteggere i propri
legami.
Nakama.
“Com’è
possibile?”
Colpito in pieno petto, lo shinobi
di Iwa stava rapidamente ricomparendo innanzi ai loro occhi, il corpo statuario
adombrava quello minuto del giovane genin.
“Non
è possibile che tu riesca a veder…”
Kakashi, alle loro spalle, pareva
aver colto cosa realmente stava accadendo in quel momento e in un irrefrenabile
moto di stupore cercò di allungare il busto per poter scorgere il volto
dell’amico dalla sua posizione seduta.
“Obito,
tu…”
Ma non riuscì a finire la frase che
il loro avversario, ormai sempre più curvo e chino su se stesso seppure ancora
in piedi, fissando incredulo lo sguardo in quei giovani occhi scarlatti e
incredibilmente risoluti pronunciava le sue ultime parole e, esalando un
singolo respiro pesante, chiudeva gli occhi definitivamente accasciandosi al
suolo.
“Questa
volta sarò io a proteggere i miei compagni!”
E ritirando il kunai lo ripose
nell’apposita tasca, tornando poi in posizione eretta.
Apparentemente composto e sicuro di
sé.
“Obito,
i tuoi occhi…”
Il jonin, ancora immobile nella posizione
precedente, osservava il compagno con espressione attonita.
Lo sharingan?
Dunque era questo lo straordinario
potere di quell’abilità innata?
L’arte oculare che il clan Uchiha
custodiva gelosamente e si tramandava da secoli di generazione in generazione?
“Già,
credo che questo sia lo sharingan. Ora sono in grado di vedere gli spostamenti
e i flussi di chakra.”
Sì fissava le mani, incredulo;
l’espressione quasi assente di chi ancora è riuscito a realizzare ciò che ha
appena compiuto, di chi non si è ancora reso conto che due dei suoi più grandi
sogni si sono appena realizzati.
Ora aveva lo sharingan, finalmente
era un vero Uchiha, shinobi di nobili origini, valoroso e degno del suo clan. Ma
soprattutto ora poteva essere fiero di se stesso e del tipo d’uomo che stava
diventando: aveva lottato per i suoi compagni, per i suoi amici, ed era
riuscito a difenderli nonostante la paura.
Ma la situazione era tutt’altro che
risolta, Rin era ancora tenuta in ostaggio e soprattutto Kakashi stava
soffrendo le pene dell’inferno per aver cercato di salvarlo. Stringeva
convulsamente le dita attorno alla parte lesa, come a cercare di lenirne il
dolore; la copiosa emorragia sembrava ormai essersi placata, ma il segno di
quella battaglia non sarebbe mai sparito e una profonda cicatrice avrebbe
deturpato forse per sempre quel giovane viso.
L’ennesima fitta lo stava scuotendo
ed il jonin, per quanto abituato a sopportare stoicamente il dolore, tratteneva
a stento le urla, lasciando sfuggire dalle labbra coperte gemiti sottili che,
nelle orecchie di Obito, risuonavano strazianti più delle grida di cento ninja
avversari.
“Va
tutto bene Kakashi?”
L’apprensione traspariva evidente
dalle sue parole mentre, avvicinatosi rapidamente, si chinava sull’amico
ferito.
“Sì…”
rispose a fatica aprendo la piccola sacca legata sul fianco destro.
Pareva aver recuperato la calma,
sebbene il lieve tremolio della sua voce lasciava trasparire la sofferenza e
l’estremo sforzo che l’Hatake stava affrontando in quel momento.
“A
quanto pare ho perso il mio occhio sinistro, ma ho ancora il kit che mi ha dato
Rin”, disse estraendo il pacchetto che, solo il giorno
precedente, gli aveva donato la compagna, “posso
usarlo come primo soccorso.”
Obito lo fissava con ammirazione
mentre, ancora scosso a tratti da terribili fitte, provvedeva a fasciarsi il
capo coprendo l’occhio ferito; entrambi avevano ora ben chiaro quale fosse il
loro obiettivo primario ed avevano già dimostrato di essere disposti a
sacrificare la loro stessa vita per portarlo a termine.
“Andremo
a salvare Rin immediatamente!”
“D’accordo!”
E scambiandosi uno sguardo complice
partirono alla ricerca della compagna.
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Il suo volto sporco di terra era
come una maschera di cera, dentro il vuoto, l’assenza di vita pensante. Pareva
persa in un altro universo, un mondo parallelo d’ingannevoli visioni.
Il suo torturatore la sollevò un
poco afferrandola per i capelli e tirando con forza.
Non un gemito.
Gli occhi appena socchiusi, vacui e
sperduti.
Respirava sottilmente fra le labbra
di poco dischiuse; nel profondo delle dolci iridi castane la sua coscienza
annegava lentamente in un’oscura illusione.
“Sei
davvero resistente.”
Quasi ghignava, compiaciuto di se
stesso e del suo grottesco operato, quel ninja privo di scrupoli che ormai da
un’ora di accaniva sul corpo e la psiche di Rin, ricavandone un sottile piacere
e senso di potere.
Come una vecchia bambola ormai
dimenticata in un angolo polveroso della soffitta, le vesti lacere ed il capo
riverso, abbandonato lateralmente, fissava il vuoto con due occhi che parevano
di vetro. Lucidi, lontani, desolantemente assenti.
Solo il sudore, che in umidi rivoli
le colava lungo le tempie ed il collo sottile, ricordava che il piccolo corpo
completamente in balia di quell’uomo non era di fragile porcellana, ma di carne
e sangue pulsanti.
Poi un soffio, dall’ingresso,
sbuffi di polvere smossa e rapidi spostamenti. Lievi folate di vento, quasi
isolate, troppo brevi per essere naturalmente causate dalle correnti.
L’uomo di Iwa si voltò sinceramente
sorpreso: che si trattasse del suo compagno?
Salti leggeri e calibrati, pochi
passi silenziosi e fecero il loro ingresso: quattro piedi avvolti nei sandali ninja
atterrarono quasi simultaneamente, giovani gambe fasciate nelle divise scure,
le bende strettamente avvolte.
Quei due piccoli e fastidiosi
shinobi di Konoha erano venuti a riprendersi la loro inutile compagna.
Ciò voleva dire che il suo compagno
di team era appena stato sconfitto.
Tuttavia doveva aver venduto cara
la pelle: i suoi avversari parevano decisamente provati e quello che fin dal
primo momento gli era parso il più forte aveva una spessa fasciatura attorno al
capo che andava a coprirgli per intero l’occhio sinistro. Sì, erano conciati
piuttosto male, non sarebbe stato troppo difficile sconfiggerli.
Eppure tutta quella determinazione
nei loro sguardi… erano proprio dei ragazzini ingenui.
“Siete
patetici…” li apostrofò increspando le labbra
mentre, quasi pigramente, riconquistava la posizione eretta lasciando in un
angolo la sua preda.
Obito non perse tempo e, sfruttando
le sue nuove abilità acquisite grazie allo sharingan, scrutò Rin cercando di
scoprirne lo stato. Il suo chakra, normalmente canalizzato ordinatamente lungo le
vie principali, scorreva come impazzito per tutto il corpo completamente privo
di ogni controllo. Appariva come una grossa fiamma scossa dal vento, alimentata
e soffocata allo stesso tempo da una forza sconosciuta.
“Il
flusso del chakra di Rin è disturbato… circola diversamente da me e te.”
“Sarà
per via di qualche genjutsu.” Rispose grave Kakashi,
intuendo immediatamente il grave stato nel quale versava la loro compagna. “Non hanno perso tempo per ottenere le
informazioni.”
Di fronte a loro lo shinobi dalla
capigliatura decisamente bizzarra rise quasi compiaciuto all’idea di chi
avrebbe affrontato di lì a qualche istante.
“A
quanto pare non siete due semplici marmocchi.”
A quelle parole i due amici presero
posizione, pronti ormai all’inevitabile e decisivo scontro: le gambe divaricate
e leggermente flesse, le dita serrate, strette sulle impugnature del kunai e
della Tanto.
“L’abbiamo
già incontrato prima. E’ veloce, fai attenzione!”
bisbigliò subito prima di partire all’attacco.
Mentre il loro avversario si
avvicinava a grande velocità, seguendo una traiettoria non lineare, proprio
come l’altra volta estrasse due lunghe lame dalle maniche, quasi facendole
uscire dalle fasciature sui polsi. Obito e Kakashi di separarono, preparando si
ad un attacco combinato e, correndo alla stessa velocità, lo raggiunsero
lateralmente.
Il ninja di Iwa si lanciò prima
sull’Uchiha, unendo le braccia per poi aprirle di colpo tentando un doppio
fendente che il giovane riuscì ad evitare agilmente con un rapido salto, mentre
da sinistra l’Hatake già si preparava a colpire, vedendo però il proprio colpo
subito intercettato e parato scartando di lato. Obito, dopo aver bypassato il
nemico con un lungo salto, riatterrò dietro di esso con una rapida capriola e,
nuovamente in piedi parava in un istante un nuovo colpo dell’avversario, che
nel frattempo aveva girato su se stesso, tenendo ben saldo il proprio kunai con
entrambe le mani. Kakashi alle sue spalle era già pronto per colpire nuovamente
e così di seguito sino allo sfinimenti, con un affiatamento fra i due giovani
ninja tale da farli rassomigliare a kage bunshin originati dallo stesso
guerriero.
Una lunga ed estenuante serie di
colpi, di affondi inferti e parati senza tregua, fra l’assordante clangore
delle lame e le scintille che nello stridere dei metalli si liberavano e
sfavillavano sinistre nell’aria ormai povera d’ossigeno.
Obito non era mai stato un genio
del corpo a corpo, ma con suo sharingan poteva ritenersi a tutti gli effetti
all’altezza del proprio compagno, in grado di prevedere gli attacchi nemici con
una frazione di secondo d’anticipo e di rispondervi prontamente. Il ninja di
Iwa gli era di nuovo innanzi e, a braccia incrociate, gli si lanciava contro
con le lame spiegate. In un istante il genin si chinò indietro, flettendo la
schiena quasi sino a raggiungere il pavimenti con il capo e, una volta evitato
il colpo, vide chiaramente il momento in cui avrebbe richiuso le braccia,
riuscendo con un vigoroso colpo di reni a saltare a mezz’aria per colpirlo con
un doppio calcio sulle spalle proprio un attimo prima, rimanendo come sospeso
con uno sforzo estremo. Nello stesso istante Kakashi giungeva da dietro il
compagno con la Tanto stretta fra le mani alta sopra il proprio capo, pronto a
colpire il nemico proprio in pieno viso, atterrandolo, per darsi poi la spinta
necessaria a superarlo camminandogli letteralmente sulla schiena.
Senza nemmeno fermarsi a sprecare
uno sguardo sull’uomo appena sconfitto, insieme corsero verso la compagna che,
ancora legata in un angolo, non pareva dare segni di vita. Inginocchiandosi
innanzi a lei, per prima cosa il genin provvide a dissolvere il genjutsu che
teneva prigioniera la mente di Rin, formando un semplice sigillo con la mano
destra e ordinando il rilascio. La giovane subito si riprese, spalancando i
grandi occhi nocciola e fissando grata i suoi salvatori.
“Kakashi…
Obito!”
“Siamo
qua per te, Rin.”, cercò subito di tranquillizzarla
Obito, chino su di lei con la mani appoggiate sulle ginocchia. “Adesso è tutto a posto.”
Ansimavano entrambi piuttosto
pesantemente.
A dispetto delle apparenze e
nonostante si fosse trattato di un combattimento di pochi minuti, quello
scontro li aveva decisamente provati e il sudore colava copioso dal viso di
entrambi imperlandone le fonti ed inzuppandone i vestiti.
“Forza,
andiamocene subito di qua!” aggiunse velocemente Kakashi
guardando il compagno di poco più in alto di lui e, protendendosi verso una Rin
stravolta ma nonostante tutto piuttosto sollevata, si dedicò a sciogliere il
più in fretta possibile le spesse corde che ancora tenevano legata la compagna
di team.
“Bene
bene…”
Mentre la giovane si rialzava non
senza sforzo, il ninja allo loro spalle si era ripreso e mettendosi in piedi,
seppure ancora un po’ a fatica a causa dei colpi ricevuti, fece risuonare la
sua voce profonda.
“Insieme
non siete male, ma siete comunque dei marmocchi...”
, sentenziò sprezzante e con il solito ghigno ad ornare quell’insostenibile
faccia da schiaffi che si ritrovava, “e
siete in mano al nemico!”
Poi compose tre sigilli e, premendo
il palmo aperto sul terreno con il braccio steso, pronunciò il nome di una
tecnica di terra: dunque quell’uomo dalle lunghe lame retrattili possedeva un
chakra di tipo terra e poteva manipolare tutto quel che si trovava in quel
momento sotto i loro piedi, ma anche sopra le loro teste… erano circondati.
Erano fottuti.
“Doton:
Iwayado Kuzushi!”
Tutto prese a tremare e a
sgretolarsi davanti ai loro occhi: le grandi pietre che formavano il soffitto,
i massi accatastati lungo le pareti, continue esplosioni giungevano dall’alto
squassando persino il terreno che andava increspandosi come mosso da invisibili
radici di sequoie giganti.
I tre giovani ninja guardano
esterrefatti la grotta letteralmente sbriciolarsi ad una velocità
impressionante proprio davanti ai loro occhi, incapaci di reagire in qualunque
modo.
“Oh,
no!”
si lasciò sfuggire quasi inconsapevolmente Obito.
“Presto
usciamo!”
Kakashi fu il primo a realizzare
quanto quella situazione fosse potenzialmente fatale per loro e l’assoluta
necessità di togliersi di lì il prima possibile.
Si lanciarono in una corsa
mozzafiato quasi contro il tempo, mentre tutto attorno a loro cadeva e perdeva
forma, tramutandosi in polvere e pezzi di roccia che cadevano con violenza
dall’alto senza alcuna possibilità di schivarli volontariamente. Nubi di
polvere appestavano l’aria soffocando il respiro ed impedendo la vista; gli
occhi lacrimavano nel sovrumano sforzo di mantenere focalizzata l’attenzione su
quel singolo spiraglio di luce che pareva sempre più lontano e confuso.
L’unica via di fuga come un
miraggio lontano.
Interi blocchi di roccia crollavano
al suolo a pochi centimetri dai loro corpi con un fragore stordente e loro,
immersi in quell’inferno con la sola idea chiara di fuggire, saltavano forzando
i loro stessi limiti fisici nel disperato tentativo di evitarli, ben consci del
fatto che se anche uno solo di quei massi li avesse colpiti avrebbe potuto
decretare la loro fine.
Ma quella cortina fumosa rea sin
troppo densa ed una pietra, per quanto piccola, nella sua inesorabile caduta
verso il basso, finì per colpire con violenza il capo di Kakashi, già provato
per il combattimento appena concluso e per la profonda ferita all’occhi. Si
accasciò al suolo perdendo i sensi e così rimase, con il viso schiacciato nella
polvere ed il corpo steso quasi in modo composto. Udendo il rumore dato
dall’impatto ed il forte gemito del compagno, Obito e Rin si voltarono
immediatamente alla ricerca dell’amico, non riuscendo tuttavia a scorgerlo.
Dentro quella grotta stava avverandosi l’apocalisse. L’Uchiha non ebbe
esitazioni e, lasciando la kunoichi sola a gridare il nome del jonin fra le
lacrime, si precipitò alla ricerca dell’Hatake, trovandolo subito dopo privo di
coscienza. Lo prese fra le braccia, provò a scuoterlo, ma a quanto pare il
tempo non era dalla loro: non era certo quello il momento adatto per essere
sentimentali né tantomeno delicati. Intravvedendo sopra di loro l’ennesima
gragnuola di massi lo lanciò lontano, sperando in tal modo con tutto se stesso
di riuscire a metterlo in salvo.
Spalancando gli occhi rossi del suo
da poco risvegliato e prodigioso sharingan, ebbe giusto qualche istante in più
per potersi rendere conto dell’enorme macigno che senza alcuna possibilità di
scampo stava per seppellirlo crollandogli addosso.
Poco prima dell’impatto aveva
provato ad urlare con tutte le sue forze, ma da quella bocca disperatamente
spalancata non era uscito altro che un grido muto.
Fu l’ultima cosa che vide, mentre
la grotta collassava definitivamente su se stessa, esalando come un pesante
respiro, un enorme sbuffo di polvere e ghiaia proprio in faccia al ninja di Iwa
che, con aria estremamente soddisfatta, ammirava il suo incredibile ed
efficientissimo operato.
“Peccato,
una buona fonte d’informazioni persa…”
disse quasi esprimendo un pensiero ad alta voce, le sottili sopracciglia
inarcate in un cipiglio d’ironica strafottenza, “va beh, è andata così.” concluse stringendosi nelle spalle con
indifferenza.
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Ogni cosa pareva giacere immobile,
senza vita, un panorama angosciante.
Il fumo acre misto alla polvere
lento ondeggiava in dense volute, trascinato a fatica da rapide e gelide folate
di vento. Gradualmente andava dissipandosi lasciando intravvedere ciò che della
grotta era rimasto.
Un impressionante cumulo di massi
accatastati l’uno sull’altro in un equilibrio pericolosamente precario, piccoli
ciottoli e ghiaia finissima scorrevano fra le crepe ed i pertugi delle rocce in
fugaci rivoli petrosi producendo un fruscio crepitante continuo. Come una
ciclopica clessidra, dove la sabbia impalpabile scandisce il tempo fugace della
distruzione.
Kakashi e Rin giacevano riversi
proprio al centro di quel desolante cratere ormai spento che lo shinobi nemico
aveva aperto sopra le loro teste senza alcuno sforzo apparente. Una flebile
voce prese a chiamarli, riuscendo a riscuoterli pur nello smarrimento.
“State
bene ragazzi? Rin… Kakashi…”
Pareva tanto lontana,
incredibilmente debole, quasi giungesse da un altro luogo. Bassa, vibrante,
stanca.
A fatica si mossero, le braccia
quasi intirizzite, le gambe doloranti e pressoché ricoperte di ecchimosi sotto
le divise, i volti graffiati e sporchi sino a poco tempo prima affondati nel
terreno.
Kakashi alzò il capo a fatica,
sollevandosi con estremo sforzo e cautela, prima sui gomiti, poi sulle mani
piene di escoriazioni e, seguendo quella voce per cercane la sorgente, si volse
con lentezza.
E su ciò che vide il suo cuore si
fermò.
Ogni singola cellula e particella
del suo essere parve raggelarsi all’istante.
Ciò che il suo occhio destro stava
registrano in quel momento non poteva essere realmente accaduto; nemmeno
qualche secondo dopo quell’unica iride, sgranata all’inverosimile per l’orrore,
pareva accettare anche solo lontanamente l’ipotesi che non fosse ancora
svenuto, e che quello non fosse altro che un macabro sogno, un crudele scherzo
del suo inconscio.
Obito era a pochi metri da lui,
steso a terra.
Poteva vederlo anche da lì.
O meglio, poteva vederne solo la
parte sinistra, perché l’intero lato destro era completamente schiacciato.
Il piede, la gamba, il braccio,
metà del busto e tutta la parte destra del viso giacevano, celati alla vista,
letteralmente sepolti sotto la frana rocciosa alla quale lui e Rin erano
miracolosamente scampati.
No, si corresse, lei ne era
miracolosamente sfuggita.
Se lui in quel momento era lì ad
osservare quello straziante spettacolo e non sdraiato sotto le macerie non lo
doveva certo alla sorte, ma a quello stupido e incosciente testardo del
compagno di squadra.
Il volto segnato, sporco e pieno di
graffi; due sottili rivoli di sangue scorrevano lungo la guancia, uscendo dalle
labbra screpolate e socchiuse, scivolavano sul viso come lacrime per poi
abbandonarlo in piccole gocce amaranto, dense e silenziose, che cadevano sulla
terra riarsa, scomparendo poi fra le crepe.
Nella sua mente udiva le ossa
scricchiolare, vedeva la pelle lacerarsi ed i muscoli, in fasci e fibre,
staccarsi, strappati con violenza dalle rocce che senz’anima cadevano sul suo
amico, colpevole solo di avergli salvato la vita.
“Obito!” gridò senza fiato,
incapace di far entrare anche solo un po’ d’ossigeno in quei polmoni
schiacciati dal peso della colpa che andava gonfiandosi ad ogni sguardo.
Rin, ancora semisdraiata fra la
polvere, aveva preso ad osservare la scena con un’espressione fra l’incredulo e
l’inorridito. Fra questi la disperazione, che presto l’avrebbe colta come
un’onda irresistibile e distruttrice, cominciava ad insinuarsi nella sua mente già sconvolta dal dolore.
Tremava, stringendo manciate di terra e polvere, trattenendo i singhiozzi che
le scuotevano le spalle in spasmi incontrollabili, incapace di muovere il più
piccolo muscolo.
Kakashi correva invece, si buttava
disperato contro quell’enorme masso che così spietatamente stava schiacciando
il suo migliore amico. E spingeva, con tutto se stesso, con tutto il suo peso,
quel gracile corpo di giovane ragazzo che, senza esitazione, imprimeva tutta la
forza che aveva su quella dannata roccia, spremendo ogni singola riserva
d’energia rimastagli. Disperatamente.
Inutilmente.
“Lascia
perdere…” la voce di Obito, sotto di lui.
“Va
bene così, Kakashi.”
Nessuna inflessione, non c’era
disperazione in quelle parole, non un gemito o un’ombra di paura. Bassa, roca e
flebile seppur fin troppo chiara e martellante nella testa del jonin, quella
voce sapeva di consapevolezza, arrendevolezza forse, di serena accettazione
della propria sorte.
Sì, proprio così, Obito pareva
sereno e, pur sotto le ferite, il sangue ed il dolore, i lineamenti del suo
viso erano distesi e quell’unico occhio fiammeggiante lo guardava quasi con
dolcezza, con affetto.
Parlava piano, di gola, con
incredibile fatica: dolorosamente evidente era lo sforzo che gli costava
pronunciare anche solo quelle poche parole.
“In
ogni caso non credo di potermela cavare. Ho tutta la parte destra completamente
schiacciata. Non la sento più…”
Ma Kakashi non voleva arrendersi,
non voleva ascoltare quelle parole e dare loro credito come se fossero
veramente le ultime.
Ancora spingeva, scorticandosi le
mani. Persino le vene del collo, visibili da sotto la divisa, parevano
scoppiare per il disperato sforzo di quell’impresa.
Tuttavia anch’egli sapeva, nel
profondo, che tutti quegli sforzi altro non erano che un patetico estremo
tentativo da parte di un bambino testardo di non accettare l’ineluttabilità dei
fatti. Si sentiva come preso in una morsa, incapace anche solo di dilatare il
petto per incamerare aria. Non respirava, aspirava polvere a singhiozzi, mentre
la rabbia rapidamente montava dentro di lui sino ad implodere.
Batté debolmente i pugni sulla
roccia, mentre il suo corpo, che in quel momento detestava per la sua completa
inutilità, veniva scosso violentemente da brividi, che inarrestabili lo
percorrevano interamente.
“No!”
Avrebbe voluto gridare sino a
sgolarsi, urlare al mondo la sua disperazione, ma le lacrime, che copiose
avevano cominciato a riempirgli gli occhi e rigargli il volto imbrattato di
terra e sudore, ridussero il suo dolore a gemiti soffocati, gorgoglii che
vibravano nel suo petto come ruggiti strangolati, frustrazione e furore per la
propria impotenza, angoscia insopportabile e la morte nel cuore.
Rin, ancora immobile nel suo
angolo, aveva portato le mani al viso e, con le gote percorse dalle lacrime,
ripeteva fra sé, come in una macabra litania, poche ed inutili parole. Muoveva
impercettibilmente il busto, un lento dondolio autistico che avrebbe dovuto
consolarla, l’amara consolazione di chi è solo, inerme ed in preda alla
disperazione.
“No…
non può essere vero… Perché?”
In quello stesso istante Obito fu
scosso da un violento tremito e, tossendo a fatica sputò un preoccupante
quantità di sangue.
La brutalità di quell’accesso,
unito al brillare del rosso vermiglio del fiotto che ne seguì ebbero il potere
di riscuotere Rin dal suo stato pressoché catatonico, facendola urlare il nome
dell’amico, ma non consentendo ugualmente alle sue gambe di muoversi. Dopo un
primo apparente tentativo di protendersi verso di lui voltò il capo, le spalle
strette ancora scosse dai fremiti, le mani premute sulla bocca, gli occhi
serrati innanzi allo straziante dolore di quella scena.
Non vi era più nulla da fare.
Nessun bell’atto eroico, nemmeno la
più grandiosa dimostrazione di coraggio e abilità potevano salvare il loro
amico dall’ormai inevitabile fine.
Kakashi cadde in ginocchio ormai
privo di forze, come svuotato, privato di tutta quella fredda sicurezza e
razionalità che lo aveva contraddistinto sino a quella dannata missione.
Era distrutto.
Coi gomiti a terra tirava pugni
privi di forza a quel suolo che gli stava portando via un amico, il più
prezioso, quello che aveva saputo catturarlo, scuoterlo e risvegliarlo; le
labbra lanciavano, fra i denti serrati, maledizioni contro il cielo e contro se
stesso e contro l’intero universo.
“Maledizione!”
ripeteva
fra i singhiozzi, “Maledizione”
urlava in preda ai brividi, “Maledizione!”
gemeva il suo animo in frantumi, mentre le lacrime che in tutti quegli anni
non aveva versato piovevano come un diluvio bagnando la fredda terra nemica.
“Se solo…” biasimava se stesso
-come poteva non farlo?- era tutta colpa sua, “se solo ti avessi dato ascolto
fin da subito e fossi venuto subito qua da Rin, tutto questo non sarebbe mai
successo!”
Gemeva e singhiozzava come un
bambino, finalmente libero dai suoi paletti, ma un’altra volta col cuore in
pezzi. Un pianto violento e disperato, il respiro impedito dai frequenti
singulti che lo scuotevano interamente, il volto rigato e contratto, una
maschera di dolore.
Rin si era lentamente alzata e, nel
silenzio di quella scena straziante, si era avvicinata, inginocchiandosi poi al
capezzale di Obito.
Ma Kakashi non pareva essersene
reso conto e, come se fosse stato veramente solo, continuò nella sua
inesorabile caduta verso l’autodistruzione, disprezzando se stesso ed il suo
essere maledettamente cieco ed ottuso.
Stava mettendo in discussione tutto
di sé.
Aveva sbagliato ogni cosa.
“Cosa
importa essere capitano? O essere diventato jonin?”
Obito aveva ascoltato in silenzio
sino a quel momento, respirando a fatica fra le labbra imbrattate da grumi di
sangue ormai rappreso. Non pensava affatto che il suo amico fosse stato un
cattivo jonin, né un pessimo capitano, ed in proposito aveva ancora qualcosa di
lasciato in sospeso.
“Anzi…
quasi me ne scordavo…”
Aveva ormai chiuso anche quel
singolo occhio rubino, la palpebra pareva non dover rialzarsi più, calando un
triste sipario sull’ultima scena della sua vita. Eppure su quel viso non vi era
traccia di dolore, non un accenno di turbamento o rammarico; al contrario, un
lieve sorriso pareva mitigare quei tratti tanto duramente martoriati. Le labbra
distese, socchiuse, dalle estremità leggermente incurvate, finalmente in pace
con se stesso.
“Sono
stato proprio l’unico a non farti neppure un regalino, per la tua promozione a
jonin, Kakashi.”
Il respiro soffiava flebile fra le corde vocali che vibravano ormai
stancamente.
Rin, affranta ed impotente, non
poteva far altro che guardare Obito spegnarsi lentamente davanti ai suoi occhi,
dietro il liquido velo delle lacrime che, prive di ogni freno, continuavano a
solcare il suo viso.
“Mi
chiedevo… cosa avrei mai potuto regalarti… e poi mi è venuta un’idea.”
Il corpo ormai del tutto
insensibile giaceva immobile, quasi inerte. Solo le dita della mano sinistra, lunghe
e sottili, si muovevano impercettibilmente e a tratti, i lievi fremiti che
ancora la percorrevano con intermittenza, forse null’altro che un riflesso
involontario, quasi un riflesso, o forse l’estremo tentativo di andare incontro
a colui che per lungo tempo aveva considerato un rivale, ma che solo in quelle
ultime ore di era rivelato il più prezioso degli amici.
“Stai
tranquillo…”
Kakashi non riusciva a smettere
fissarlo, confuso, terrorizzato, mentre la braccia gli scivolavano lungo i
fianchi, l’occhio si tingeva di un’infinita tristezza ed i denti, digrignati,
stridevano nell’inutile tentativo di coprire quel grido d’inumano dolore che
gli stava straziando il cervello.
“non
è una cosa inutile da portarti appresso…”
Sollevò la palpebra per l’ultima volta,
lentamente, fissando lo sguardo sul compagno.
“Vorrei
donarti… il mio sharingan, ecco cosa.”
Sussultarono all’unisono, Kakashi e
Rin, come sbalzati da un’auto in corsa, colpiti da un’unica esplosione.
Un tuffo improvviso, centinaia di
metri nel vuoto.
“Non
mi importa cosa diranno al villaggio, per me sei un grandissimo jonin. In
realtà è questo il mio pensiero… quindi accettalo, per favore.”
Ma in quel
momento Kakashi non reagiva, come ancorato al terreno, continuava a guardarlo
come se già stesse vedendo un fantasma: qualcosa che, seppure innanzi a lui,
già non apparteneva più a quel mondo. Rin al contrario probabilmente aveva già
colto l’intenzione del compagno e, asciugandosi finalmente il viso e gli occhi
arrossati con la manica della divisa, si apprestava già ad seguire le ultime
direttive di Obito.
“Rin…
con i tuoi ninjutsu medici… prelevami tutto l’occhio e trapianta il mio
sharingan al posto dell’occhio sinistro di Kakashi.”
Annuì, pronta a
svolgere il proprio dovere di ninja medico, ma soprattutto finalmente disposta
ad ogni sacrificio per accontentare l’amico. Risoluta volse il capo verso il
jonin e con sguardo serio cominciò a predisporre l’intervento.
“Kakashi,
vieni qua. Iniziamo immediatamente.”
Kakashi aveva
ripreso a tremare come una foglia, il suo corpo, già piuttosto magro, pareva persino
più esile così scosso dai brividi. Sudava freddo, i suoi occhi pregavano affinché
tutto quel che stava vivendo fosse in realtà uno stupido scherzo del suo
subconscio; il terrore lo teneva ben stretto nella sua morsa raggelante e senza
scampo, innanzi a lui la più dura delle scelte che avrebbe mai dovuto compiere.
Accettare quell’occhio
tanto potente?
Privare il
compagno di una così importante parte di sé proprio nel momento di maggior
sofferenza?
Depredarlo in
punto di morte?
Accogliere a
braccia aperte il sincero dono di un amico?
Esaudire l’ultimo
desiderio, l’ultimo gesto di profondo affetto del proprio unico vero amico?
Stringeva
convulsamente lembi di divisa nei pugni, il capo ora chinato a terra: forse
sparava di trovare risposta fra le crepe di quell’arida terra che si stava
portando via Obito.
“Io…”
proseguì quasi per convincerlo, “sto per
morire… però diventerò il tuo occhio. Vedrò il futuro… attraverso di te.”
Avrebbe voluto,
in un ultimo ed estremo tentativo, lenire il dolore ed i sensi di colpa che in
quel momento stavano uccidendo lentamente anche Kakashi, fargli sentire che
quello non era solo un regalo, ma anche l’unico modo per tenerlo in vita,
tenerlo per sempre stretto a sé, parte di se stesso fin nel profondo.
Il jonin parve
chiudersi in sé per un istante, per poi annuire con risoluzione, pronto ad
affidarsi alle mani capaci della compagna medico.
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Finalmente aveva
terminato. Doveva ammettere che questa volta la missione era stata tutt’altro
che facile: a dispetto della giovane età quel team di Konoha gli aveva dato
decisamente del filo da torcere e tornare al villaggio con la squadra decimata
di certo non gli faceva onore. Ma ora poteva dire con una certa soddisfazione
di averli tolti di mezzo una volta per tutte e, come premio per cotale abilità,
si sarebbe concesso una pausa prima di riprendere il cammino.
Sedeva a terra,
sull’erba; pochi metri dietro le sue spalle le macerie del passato
combattimento ancora si assestavano , con rumori ormai sommessi anche se
talvolta piuttosto repentini. Beveva da un piccolo thermos dotato di cannuccia,
lentamente e producendo un certo fastidioso risucchio: pareva proprio gustarsi
l’attimo di pace dopo la vittoria della battaglia.
Poi tutto
esplose e, come un vulcano inattivo da tempo immemore, dal centro del grande
cumulo fuoriuscirono con una potenza dirompente ghiaia, pietrisco e massi di varie
dimensioni, il tutto avvolto da un’acre nube densa e polverosa.
In cima a quel
cumulo esploso stava Kakashi, sempre più visibile con il diradarsi della
cortina fumosa.
“Che
zucconi… siete ancora vivi, eh?” berciò il ninja di Iwa dall’improbabile
capigliatura con fare decisamente seccato.
Ma Kakashi non
rispose alla provocazione.
Rimase immobile,
sulla cima di quella che una volta era stata una grotta, gli occhi chiusi che
ancora lacrimavano, mentre la nube di polvere lentamente si faceva sempre più
rarefatta.
“Già,
ma come dicevo siete marmocchi. Quando mai uno shinobi piange?” non
era più tempo di giochi, ora voleva solo sbarazzarsi di quello sciocco
ragazzino e tornarsene a casa, “Forza,
frignone! Facciamola finita una volta per tutte.”
Veramente voleva
fare sul serio?
Bene, Kakashi
non aspettava altro e, puntando lo sguardo sull’uomo che aveva ucciso il suo
compagno, aprì per la prima volta i suoi occhi diversi e complementari, ora
uniti ed inseparabili.
L’occhio destro,
grigio, imperscrutabile, profondo e determinato: lo sguardo di Kakashi, jonin
acuto e coraggioso, abile stratega e formidabile in battaglia.
L’occhio destro
color del sangue, della passione che sempre agitava l’animo di Obito: l’impulsività
delle parole e delle azioni, il grande cuore che tutto sopportava e tutti
conteneva, l’irruenza dei sentimenti che sgorgavano senza remore come un fiume
di lacrime da quell’occhio prodigioso che anticipa alla mente la visione degli
eventi, che mostra e rivela misteri, che dona ma brucia e per sempre arderà,
nel ricordo e nel dolore di quella cicatrice verticale che più che negli occhi,
trafigge nell’animo, brucia dentro.
Piange lo
sharingan, ma al suo nuovo proprietario non importa, perché anche quelle
lacrime sono un dono prezioso, un’amara lezione d’umanità da tener stretta a sé
e non dimenticare mai.
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La
Terza Grande Guerra Ninja.
Grazie
al sacrificio di molti shinobi ignoti, questa lunga e sanguinosa guerra volse al termine. E fece nascere delle
leggende, storie di eroi da narrare per generazioni e generazioni.
La
Battaglia del Ponte Kannabi…
In
quel giorno a Konoha nacquero due eroi, entrambi con proprio sharingan. Il nome
di uno di loro venne scolpito su una lapide. L’altro diventerà famoso col nome
di “Kakashi dello Sharingan”. In futuro,
l’eco delle sue gesta supererà i confini
della Nazione.
Una lapide
grigia, memoria imperitura d’eroi caduti.
Dei fiori
colorati, l’affetto di chi non dimentica l’amico più caro.
Una maschera
arancione, difesa di un piccolo uomo dal cuore immenso.
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Eccomi a voi,
mortificata per l’immenso ritardo, ma soprattutto prosciugata da questo lavoro.
E’ stato uno sforzo immane, bellissimo ma altrettanto faticoso.
Mi sento un po’ vuota,
come talvolta ci si può sentire alla fine di una long… peccato che, se poi ci
penso, mi rendo conto di non essere nemmeno a metà.
Ma procediamo
con ordine.
Come qualcuno di
sarà accorto, ho fatto terminare il capitolo prima della fine reale dell’episodio.
Questo in virtù del fatto che, oltre ad essere ormai esausta, ritenevo più
importante focalizzare l’attenzione sul rapporto fra i due, che cresce e matura
sino al tragico epilogo nel quale Obito dona l’occhio a Kakashi.
Ora vi torna il
motivo per il quale ho inserito questi due capitoli nella catena?
Già, proprio la
storia dell’occhio.
Mentre Madara
ancora delira convinto che Izuna gli abbia regalato gli occhietti, questo
dolcissimo piccolo Uchiha (lo adoro) l’ha fatto per davvero!
E non si dica
che tutti gli Uchiha sono pazzi o crudeli!!
Io mi sono
impegnata parecchio, e spero proprio che questo capitolo piaccia anche a voi, perché
mi sono spremuta anche per cercare di darvi il meglio.
In particolare
questo “Kakashi Gaiden Special” è dedicato interamente alla mia adorata Nejiko,
che instancabilmente mi supporta (e sopporta) anche con i suoi bellissimi
video. Tesoro, grazie mille di tutto!
Per quel che
riguarda i termini giapponesi, vi prego non insultatemi se non ho la forza per
scrivervi qui il significato. Facciamo così, se qualche parola non vi torna
chiedetemi pure: vi risponderò con grandissima gioia.
Infine una
piccola anticipazione sul prossimo capitolo (che arriverà fra almeno 1-2 mesi,
conoscendo i miei tempi). Si tratta dell’episodio del secondo attacco della
volpe, con la nascita di Naruto e morte dei suoi amati genitori.
Un enorme
abbraccio a tutti voi ed un grazie infinito a chi, con somma pazienza, non mi
ha ancora mandata a quel paese per i miei ritmi improponibili.
Grazie.
*Inchino*
Ah, dimenticavo…
per chi in questi mesi si fosse giustamente scordato qualche particolare, tutte
le parti in grassetto sono interamente tratte dall’anime, ad eccezione di
qualche trascurabile adattamento stilistico, opera della sottoscritta.
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