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Autore: scarlett666    04/05/2011    3 recensioni
...la catena degli Uchiha.
Da oggi comincia una nuova era, la mia strada è cambiata. Una strada che percorreranno i miei figli, e i figli dei loro figli, lastricata di sacrificio, dolore e crudeli rinunce, seguendo un destino fatto d’odio ed insaziabile sete di vendetta. Tutte le generazioni a venire saranno contaminate da questo male inarrestabile che li infetterà fin nel profondo dell’anima, oscurando ogni altro sentimento d’amore o comprensione.
Il loro credo ninja sarà sempre e solo il rancore.
Questa è la mia maledizione, fratello.
1-L'Eremita delle sei vie della trasmigrazione.
2-Madara e Izuna.
3-Madara e Hashirama.
4-La valle della fine.
5-Obito e Kakashi.
6-Obito e Kakashi, II° parte.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Itachi, Obito Uchiha, Sasuke Uchiha, Shisui Uchiha
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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6. Kakashi gaiden owari

 


6- Ti odio, non ti sopporto… ti do la mia vita.

 
  A Nejiko e al suo piccolo Mamo-chan

 
Era stanco, esausto, saltava da un ramo all’altro con estrema difficoltà, ad ogni atterraggio la spalla gli doleva terribilmente.
Ma in realtà non era certo quello il dolore più grande.
Gli occhi tradivano la confusione che albergava nella sua mente, le ore di sonno mancato si mostravano in solchi profondi e scuri; oscillava senza meta precisa, privo di paletti, per la prima volta tradito dalle sue stesse imprescindibili regole.
L’ennesima fitta al braccio gli ricordò la stupidità di ciò che stava facendo, quel che aveva avuto il coraggio di dire e, celandosi fra le fronde, si fermò nel vano tentativo di recuperare almeno in parte fiato e forze.
Pensò a Rin, alle sue mani gentili, alla premura che sempre metteva nel curare le loro ferite, ai suoi occhi dolci, grandi ed illuminati da una bellissima luce, quasi vibrante dopo tutto.
Pensò alle sue ultime parole “Sta guarendo bene. Però non devi sforzarti troppo o la ferita si riaprirà.” e si diede dell’idiota per non averla mai ringraziata veramente. Mentiva persino a se stesso: non era un suo dovere curarli ogni volta, non era affatto un suo dovere pensare sempre prima a loro, relegando se stessa in secondo piano, pallida figura di sfondo dall’incommensurabile grandezza d’animo.
Lei era il loro pilastro, aveva ragione Obito, e lui era l’unico a non essersene accorto, ad aver preteso di essere nel giusto, sciocco borioso dagli occhi annebbiati.
Annebbiati, o forse tenuti, sino a quel momento, testardamente chiusi con forza.
 
“Rin ci ha salvato la vita con i suoi ninjutsu medici!” gli aveva gridato il compagno furioso, incredulo, allibito dalla grettezza del suo agire, “Se non fosse stato per lei, adesso saremmo morti entrambi!”
Dolore, affetto, rabbia e disperazione: mille sfumature cangianti, abbaglianti cristalli d’emozione trasparivano dai suoi occhi mentre preda della passione tentava inutilmente di scuoterlo.
“Ora come ora, salvare Rin è più importante della missione!”
Occhi vivi, colmi di quella volontà incrollabile che era il credo di Konoha, la volontà del fuoco si agitava fiera nelle oscure profondità di quello sguardo persino nella disperazione, persino nel momento in cui sceglieva di disubbidire agli ordini del suo capitano per seguire il proprio cuore.
Perché invece i suoi occhi erano così spenti?
Perché l’ardente risoluzione nello sguardo di chi sceglie di tradire?
Perché lui che era nel giusto si sentiva così vuoto e perso?
 
“Kakashi, le norme e le regole sono senza dubbio importanti, Ma non contano solo quelle. Non te l’ho insegnato?”
Le parole del maestro presero a riecheggiare della sua mente confusa, mescolandosi a quelle di Obito. Le regole…
“A volte è necessario improvvisare contro i nemici.”
Impovvisare, ma come?
Com’era possibile agire secondo le regole ed al contempo spezzarle, tradirle, senza smarrire la giusta direzione, senza cadere, senza perdersi?
O perdere se stesso.
 
Agire secondo coscienza, la scelta di pensare liberamente, avere il coraggio di portare avanti le proprie convinzioni fino alla fine, davanti a tutti.
Avere la consapevolezza di poter affrontare il pubblico giudizio a visto scoperto, senza rimorsi né rimpianti, l’animo leggero e la coscienza libera.
Un ninja degno di ammirazione e rispetto, con valori imprescindibili, ma prima di questo un uomo retto, buono, di cui un figlio andrebbe fiero e, prendendolo come esempio di vita, dal basso della sua giovane età griderebbe con emozione: lui è il mio eroe.
E la schiena di suo padre riapparve nuovamente innanzi a lui, nitida ed irraggiungibile allo stesso tempo.
Ecco l’uomo retto che tanto ammirava, la volizione di un uomo giusto, con le sue regole ed i suoi valori. Colui che un tempo, con gli occhi di bambino, aveva tanto ammirato, al quale, con tutto se stesso, avrebbe voluto un giorno assomigliare.
Quante volte aveva allungato le piccole mani nel tentativo di raggiungerlo, anche solo per sfiorare l’immagine del suo eroe, suo padre.
Quante volte aveva immaginato la propria schiena di giovane ninja sovrapposi alla sua, ereditarne la forza, la saggezza ed il cuore, sino a diventare un uomo di cui essere orgogliosi, degno del suo rispetto e del suo amore.
Ora però, ciò che riusciva a scorgere nel lento dipanarsi della nebulosa immagine di quello che era stato uno dei più temuti ninja di Konoha non era la sua immagine: non vi era la stessa Tanto allacciata trasversalmente sulla schiena, non gli stessi capelli d’argento e irsuti, non lo stemma della casata e nemmeno la stessa divisa da jonin.
“Io credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
Ciò che solo in quel momento gli occhi della sua mente erano stati in grado di percepire era l’immagine di un genin dai capelli scuri, ebano, dalla divisa blu e arancio, l’enorme maschera fissata in viso e lo stemma degli Uchiha che capeggiava fiero al centro della schiena dritta mentre, con determinazione, guardava al mondo con entusiastica determinazione ed una traboccante umanità.
“Di sicuro nel mondo degli shinobi quelli che violano le norme sono considerati feccia. Però…” quegli occhi… il fuoco in quegli occhi poteva trapassarlo da parte a parte come il più affilato dei kunai, poteva squarciargli o petto e guardarlo dentro, “quelli che abbandonano i propri compagni sono peggio della feccia.”
Rievocando tali parole sussultò in un improvviso moto di consapevolezza; si sentiva piccolo, minuscolo, insignificante e sperduto nel folto di quell’immensa foresta come dentro di sé.
Chinando il capo provò pena per se stesso.
Non aveva capito nulla.
 
 
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Il covo dei ninja di Iwa era ormai a pochi metri, poteva scorgerne l’antro roccioso dalla sua posizione seminascosta.
“Beccati!” sussurrò impercettibilmente in un moto d’orgoglio, serrando la presa sul manico di un kunai.
 La fitta boscaglia di quel paese inospitale fungeva da perfetta postazione osservativa: senza temere di esser visto poteva infatti controllare tutta la zona circostante e fermarsi un attimo, per riprendere le forze e riorganizzare le idee. Magari strutturare un piano. Non che ne avesse mai architettato uno da solo, ma non era proprio il momento di abbattersi.
Apparentemente non vi era alcuna porta, né un masso, né congegni nascosti per difendere l’entrata da un eventuale attacco nemico, e ciò poteva voler dire solamente che entrambi gli shinobi attendevano giusto dietro l’angolo insieme all’ostaggio.
Obito aveva corso disperatamente in quell’immensa foresta alla ricerca di quel luogo e sperava con tutto se stesso che non fosse ancora accaduto nulla alla sua compagna: se Rin fosse stata ferita o peggio non se lo sarebbe mai perdonato, ma soprattutto non l’avrebbe mai perdonato a colui che ora non sapeva nemmeno più se definire un compagno di squadra. Troppo grande era stata la rabbia nei suoi confronti, troppo cocente la delusione. E sì che, nonostante la sua costante aria boriosa e saccente, l’aveva sempre ammirato per il sangue freddo e l’intelligenza… che abbaglio.
Ma ora non era certo il tempo delle riflessioni e dei rimpianti: doveva agire, ed anche in fretta, se voleva sperare di sottrarre l’amica dalle grinfie di quei ninja senza scrupoli prima che fosse troppo tardi.
“Calma… ce la posso fare!” e nel tentativo di infondersi un po’ di coraggio si schiaffeggiò ripetutamente le guance con entrambe le mani.
Forse un po’ troppo energicamente.
 
 
Un suono lieve, forse un schiocco, sottile ma comunque perfettamente percettibile, soprattutto per l’udito di uno shinobi ben addestrato. Poco più di un silente riecheggiare di vibrazioni e lo sguardo del primo di fa più sottile, entrambi scambiandosi un gesto d’assenso si voltarono verso l’uscita.
“Me ne occuperò io. Nel frattempo, usa il tuo genjutsu su di lei per ottenere le informazioni.”
Detto questo, il ninja più grosso compose brevemente il sigillo della mesaigakure no jutsu e, rendendosi nuovamente intangibile, uscì dalla caverna.
Rin giaceva rannicchiata in un angolo, addossata alla parete, il capo chino e le braccia strettamente legate al busto da una grossa corda. Chissà se era ancora cosciente.
A breve lo shinobi di Iwa avrebbe preso a scandagliare la sua psiche alla ricerca di informazioni strettamente riservate, ancora un passo e avrebbe facilmente sovrastato il corpo minuto della giovane kunoichi.
 
 
Fuori Obito era pronto a scattare ma, nell’esatto istante in cui prendeva posizione, il ninja dai lunghi capelli scuri che avevano affrontato prima gli comparve alle spalle come materializzandosi all’improvviso.
“Dove vai?” tuonò cupo paralizzandolo all’istante.
Col terrore che gli dilatava le pupille ed il respiro mozzato cercò di reagire d’istinto voltandosi rapidamente ma si sentiva come sott’acqua. La testa gli pesava terribilmente ed ogni movimento pareva rallentato e fuori controllo. Persino i suoni gli giungevano come ovattati e lontanissimi. I secondi scorrevano come fotogrammi di un film lento ed esasperante; vide un kunai librarsi nell’aria e fiotti scarlatti sgorgare copiosi invadendogli completamente il campo visivo. Quel sangue... era forse suo?
Poi il corpo imponente dello shinobi perse evidentemente l’equilibrio e, sbilanciandosi all’indietro, prese a cadere dall’alto del tronco, lasciando innanzi a sé una lunga scia densa e vermiglia.
Cos’era accaduto?
Chi, in un battito di ciglia, lo aveva salvato da morte certa?
A chi doveva la propria vita?
“K-Kakashi...”
Non poteva crederci.
Ancora paralizzato, le labbra dischiuse dallo stupore, non riusciva a capacitarsi di ciò che i suoi occhi cercavano di comunicargli: Kakashi era intervenuto all’ultimo momento e tempestivamente aveva fermato il ninja di Iwa ferendolo al petto, piuttosto profondamente anche.
Era balzato fra di loro senza emettere nemmeno un sibilo e, con la precisione che si confà ad un vero jonin aveva sferrato sicuro il suo attacco.
Un singolo fendente, un solo istante.
Ed Obito era ancora immobile, attore passivo, anzi tacito spettatore di quello che avrebbe tranquillamente potuto essere l’ultimo atto della sua breve vita.
Ma non era ancora finita perché, con un rapido salto, il loro avversario aveva già recuperato l’equilibrio ed era atterrato su un ramo dell’albero di fronte, poco più in basso di loro, e pareva evidentemente già pronto per il contrattacco.
Anche il compagno, che non aveva perso il controllo della situazione per un solo istante, era innanzi a lui, in attesa della prossima mossa. L’espressione concentrata sembrava non tradire alcuna emozione che non fosse quella determinazione guerriera e quasi beffarda che sempre lo coglieva nel momenti di battaglia: gli occhi stretti, affilati dal desiderio di sfida, i muscoli contratti e frementi, quasi inebriati dall’adrenalina che a dense ondate si fiutava nell’aria, la mente che veloce elabora strategie, calcola possibilità, considera gli ostacoli e rapida li aggira.
Obito non poteva fare a meno di osservare il proprio compagno di squadra come affascinato ma al contempo tormentato da un vago sentore di inquietudine; forse questo erano in fondo i veri ninja, animali da guerra ben addestrati, e lui non era ancora del tutto convito di voler diventare uno di loro.
Tuttavia si riscosse in fretta, perché il momento non lasciava certo spazio a digressione, né tantomeno a chissà quali profonde riflessioni sulla natura umana e sul suo destino. Osservando la situazione con lucidità non poté comunque fare a meno di rimanere sgomento.
“Kakashi… come mai sei qui?”
Ma… e la missione? Tutto quel discorso sulle priorità, le regole e l’essere ninja? Cosa ci faceva lì con lui se fin da principio aveva detto fin troppo chiaramente che la sua intenzione non era quella di salvare Rin?
“Beh, non posso lasciarlo fare ad uno shinobi frignone come te, non credi?”
Che cosa?
Dunque aveva intenzione di correre in aiuto della loro compagna assieme a lui?
Dunque aveva cambiato idea riguardo alla missione?
Cosa lo aveva convito a mutare le sue convinzioni in maniera tanto rapida da riuscire ad accorrere e raggiungerlo giusto in tempo per salvarlo ancora una volta? Ancora una volta così sicuro di sé e così diverso da lui.
…e tanto per cambiare non aveva perso l’occasione per insultarlo a dargli del frignone, ma in quel momento era troppa la sorpresa e la felicità di vederlo lì, accanto a lui, che decise di soprassedere, per una volta.
Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa ma, completamente in preda all’incredulità, dalle labbra dischiuse non uscì che il suo nome, lievemente sussurrato, come se quello innanzi a lui non fosse altro che un fantasma evanescente.
L’imponente shinobi nemico si era rialzato e scrutava la scena, studiava attentamente quel piccolo ninja che con tanto coraggio aveva avuto l’ardire di coglierlo di sorpresa, ferendolo frontalmente. Non poteva fare a meno di chiedersi chi fosse, poiché la sua immagine gli ricordava terribilmente qualcuno: forse un vecchio nemico, no, qualcosa di più, quasi un guerriero leggendario, forse era…
“Quel capelli bianco argento, quella Lama Bianca del Chakra…” stupore e paura andavano deformando lentamente i già duri lineamenti dell’uomo “non dirmi che sei la Zanna Bianca di Konoha?”
Sudava, gelide gocce gli imperlavano la fronte al solo pensiero di chi poteva essere il suo opponente. E sì che non ricordava fosse così giovane.
“Questo è un ricordo di mio padre.” Sibilò Kakashi a denti stretti.
 
Obito, che osservava la scena a qualche passo dal compagni di squadra, a quelle parole trasalì.
Un ricordo di suo padre… un ricordo.
Non capiva, non riusciva proprio ad afferrare il bandolo di quella matassa tremendamente aggrovigliata di pensieri e sentimenti contrastanti che doveva essere la testa di Kakashi.
Eppure lui stesso aveva detto…
“Per portare a termine la sua missione, uno shinobi necessita di risorse utili. Cose come le emozioni sono inutili.”
Sì, ricordava perfettamente quelle parole che gli erano parse a suo tempo tanto fredde ed arroganti. Come poteva averle pronunciate proprio lui, quando per primo ammetteva di aver conservato l’arma del padre per ricordo e non per mera utilità. Quelli erano sentimenti, gli stessi sentimenti che aveva disprezzato negli altri definendoli inutili zavorre, ed erano forti e strazianti, e parevano urlare costretti dalle catene che il piccolo ninja si era autoimposto per fare ordine dentro se stesso, col penoso risultato di schiacciare tutto creando ancora più confusione e dolore.
Finalmente poteva vedere l’amico sotto un’altra luce, poteva coglierne la sofferenza ed il suo contrasto esistenziale.
“Kakashi, tu…” ma non era quello il tempo né il luogo delle parole.
 
“Capisco. Tu sei il figlio della Zanna Bianca.” Il panico era scomparsa dal suo volto, i tratti ora tirati in un ghigno compiaciuto. “Allora non c’è motivo di aver paura di te.” E per la terza volta, composti i sigilli, scomparve dalla scena.
Era appena cominciata la vera battaglia.
“Lo immaginavo.”
Kakashi era all’erta, i sensi tesi e pronti a captare il minimo segno di movimento; il loro nemico poteva rendersi invisibile, ma non per questo doveva essere impossibile trovarlo.
“Il suo odore è svanito completamente. Dovremo localizzarlo dai suoi più lievi rumori e spostamenti.”
Un passo, un rametto spezzato o un fruscio fra le foglie, un sottile spostamento d’aria: ciò poteva essere sufficiente all’Hatake per identificare la posizione dell’avversario e la provenienza di un suo attacco.
“D-dove?”
Obito era comprensibilmente inquieto, non era sicuro di poter contare sulle stesse abilità sensoriali del compagno, ma tendeva ugualmente le orecchie e si guardava nervosamente attorno, nel tentativo di captare qualche suono sospetto.
Ma il furioso battere del proprio cuore era l’unico suono che riusciva a udire, rimbombava martellante nei timpani lasciandolo privo di difese, impedendogli di avvertine un viscido calpestare di passi che, proprio alle sue spalle, schiacciavano i muschi sulla ruvida corteccia.
“Obito, dietro di te!”
Kakashi, avvertendo l’incedere del nemico, si volse all’improvviso e, gridando all’amico di allontanarsi, si slanciò verso quello che aveva tutta l’apparenza di essere solamente uno spazio vuoto, ma che al contrario era proprio il punto dal quale lo shinobi di Iwa si apprestava ad attaccare. Focalizzandosi sui rapidi spostamenti d’aria era in grado di cogliere la sua posizione, anche se la grande agilità e velocità d’attacco dell’avversario non lo facilitavano di certo nel prevederne con sufficiente sicurezza i movimenti.
Questo gli impedì di accorgersi del grosso kunai che, proprio innanzi a lui, giungeva verticalmente puntando dritto al suo viso.
Come in ogni combattimento non durò che un lungo istante: un fendente mirato e preciso, che dallo zigomo affondò profondamente risalendo sino al sopracciglio, recidendo la palpebra e di conseguenza danneggiando gravemente l’occhio.
Kakashi di tutto questo avvertì solo il bruciore, un immediato e lancinante dolore all’orbita che, insieme all’impatto con l’arma da taglio, gli fecero perdere l’equilibrio precipitandolo a terra mentre la mano destra correva automaticamente a premere su quell’occhio sanguinante e un grido sofferente si librava nell’aria. Liquido scuro colava copioso lungo il braccio mentre, come in preda alle convulsioni, il giovane jonin si contorceva dal dolore. Il volto sconvolto dagli spasmi mostrava, in quegli occhi chiusi e pur dietro la maschera, l’indicibile sofferenza che in quel momento stava provanto.
“Kakashi!”
Obito, in preda al panico, alla vista del compagno così gravemente ferito si chinò su di lui e, chiamandolo, ripetendo il suo nome come una litania, lo prese fra le braccia sollevandone il capo quasi con delicatezza.
“Ehi, Kakashi! Stai bene?”
Nel frattempo, qualche albero più in là, il loro assalitore trovava riparo dietro le felci e, osservandoli a distanza di sicurezza, ammirava soddisfatto il suo operato. Li aveva proprio conciati male, forse aveva persino esagerato, se non fossero stati in guerra si sarebbe sentito quasi in colpa. D’altra parte quelli che si era trovato a fronteggiare erano ninja fin troppo giovani e quindi necessariamente inesperti, anche se, doveva ammetterlo, di erano rivelati maledettamente svegli e bravi, soprattutto quel figlio di Zanna Bianca.
“Anche se è solo un ragazzo non fa male andarci cauti. Me la prenderò con calma.”
 
Kakashi sentiva l’occhio pulsare e gli doleva maledettamente, l’intera testa pareva attraversata da continui flash accecanti che gli procuravano un’indicibile sofferenza ed un cupo ronzio riecheggiava fra le orecchie stordendolo ulteriormente. Stava perdendo troppo sangue: il palmo premuto sull’orbita ne era pieno, il braccio ricoperto, la manica della divisa irrimediabilmente intrisa. Eppure il pensiero era rivolto al nemico, al dovere, alla loro missione.
“Il nostro avversario… ci sa fare.”
Obito tentava di sostenerlo come poteva, avvolgendo il braccio attorno alle sue spalle magre da ragazzino. Cercava di ascoltarlo tendendo l’orecchio, poiché il compagno pareva improvvisamente a corto d’aria, quasi che i polmoni non riuscissero a sostenere il dolore e lo sforzo di quel momento. Parlava piano Kakashi, poco più che un sussurro; rapide boccate d’ossigeno che non riuscivano a colmare il disperato bisogno d’aria spezzavano le sue frasi.
“Ha buttato il kunai impregnato dell’odore del mio sangue.”
Lo ammirava, in quel momento non poteva fare a meno di guardare il suo compagno con occhi colmi d’ammirazione… e lacrime.
Ancora una volta Obito stava cadendo preda delle sue emozioni che, proprio come un fiume in piena gli riempivano il cuore e straripavano da esso fuoriuscendo dai suoi occhi neri. Imperlavano di luce le lunghe ciglia folte e gli annebbiavano lo sguardo.
“Non dirmi che ti è andata altra polvere nell’occhio…” berciò il jonin scoprendosi lentamente la ferita e puntando l’altro occhio dritto nel suoi, “gli shinobi non piangono.”
Tremava ancora piuttosto vistosamente, ma non era per nulla al mondo disposto ad arrendersi.
“Non sono ancora morto. Resta concentrato!”
L’Uchiha annuì e, sollevata la grossa maschera arancione, si asciugò le lacrime con la manica della divisa.
Aveva ragione, anzi avevano ragione, anche Minato-sensei gli aveva ripetuto più volte di non piangere e smetterla di accampare assurde scuse: “E’ impossibile che ti vada polvere negli occhi con quella maschera. Se vuoi acquistare sicurezza non limitarti a parlare, agisci.”
Quale immagine voleva dare di se stesso?
E quale aveva mostrato sino ad ora?
“Sono bravo solo a parole…” si rimproverò rendendosi conto improvvisamente sino a dove lo avevano portato quei suoi stupidi atteggiamenti da codardo “vengo sempre salvato dagli altri. Sono solo un perdente dalla bocca larga. Però…”
Ripensò alle parole pronunciate in quella radura, alla passione che aveva messo in quel breve discorso; credeva con tutto se stesso in ciò che aveva detto e non voleva assolutamente che rischiassero di diventare vane perdendosi per colpa del suo pavido nascondersi e fuggire.
“Io credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
“Quelli che abbandonano i proprio compagni sono peggio della feccia!”
Si alzò in piedi con rinnovato coraggio, ora sapeva cosa fare, ora aveva un obiettivo: avrebbe onorato quelle parole e quell’uomo, era del suo credo ninja che si trattava e non l’avrebbe tradito per nulla al mondo, anche se si fosse trattato di dare la propria vita.
“Non voglio che quelle parole siano state dette al vento.”
Quale immagine voleva dare di se stesso?
Che tipo di uomo voleva diventare?
Dritto per la prima volta sulle sue sole gambe, fissava con determinazione guerriera innanzi a sé, la volontà del fuoco si agitava con fervore nelle sue iridi scure: non più un bambino spaurito, ma una vero ninja Uchiha, uno shinobi d’onore di Konoha faceva mostra di sé al cospetto di un Kakashi in preda al dolore che si teneva in piedi solo grazie alla sua ferrea forza di volontà. Non avrebbe abbandonato i suoi amici; li avrebbe protetti, difesi e tratti in salvo, perché lui non era feccia.
Avvertiva il nemico avvicinarsi, rapidamente, senza esitazioni e nuovamente alle loro spalle… degno di uno shinobi privo d’onore attaccare sempre di sorpresa, soprattutto se i suoi avversari sono poco più che dei ragazzini.
Riusciva chiaramente a sentirlo.
Percepiva i suoi movimenti con una nitidezza e precisione tale che quasi gli pareva di riuscire a vederlo pur dandogli le spalle.
Lenti, misurati, quasi a rallentatore.
Immobile nella sua posizione eretta poteva distinguere il minimo spostamento d’aria, cogliere il rapido incedere dell’avversario, calcolarne direzione e velocità in un solo istante… e scegliere il momento esatto in cui contrattaccare.
Quasi, ancora un attimo…
Ora.
Un colpo secco, rapido, pulito.
La semplice torsione del busto, le gambe ancora saldamente ancorate alla corteccia, come in una fluida mossa d’arte marziale.
Le mani unite, quasi giunte nella ferrea stretta attorno al kunai, le braccia tese, contratte nello sforzo dell’affondare fra le carni del nemico.
Il viso… oh, quel viso.
Una nuova espressione, sicura, ferma; una volontà rabbiosa e mai vista pareva emergere quasi urlando da quel lineamenti di uomo ancora acerbo. I denti serrati stridevano fra le labbra arricciate, mentre piccoli solchi tradivano la disperazione alla quale si stava aggrappando per non crollare.
La determinazione brillava nei suoi occhi di riflessi sino ad ora sconosciuti e tremendamente vivi; rossi, fulgidi, liquidi. Lambenti lingue di fuoco avevano inghiottito come in un gorgo l’iride picea dell’Uchiha lasciando a languire fra le fiamme due singoli, piccoli segni d’amore nero, simboli di uno sharingan risvegliatosi per proteggere i propri legami.
Nakama.
 
“Com’è possibile?”
Colpito in pieno petto, lo shinobi di Iwa stava rapidamente ricomparendo innanzi ai loro occhi, il corpo statuario adombrava quello minuto del giovane genin.
“Non è possibile che tu riesca a veder…”
Kakashi, alle loro spalle, pareva aver colto cosa realmente stava accadendo in quel momento e in un irrefrenabile moto di stupore cercò di allungare il busto per poter scorgere il volto dell’amico dalla sua posizione seduta.
“Obito, tu…”
Ma non riuscì a finire la frase che il loro avversario, ormai sempre più curvo e chino su se stesso seppure ancora in piedi, fissando incredulo lo sguardo in quei giovani occhi scarlatti e incredibilmente risoluti pronunciava le sue ultime parole e, esalando un singolo respiro pesante, chiudeva gli occhi definitivamente accasciandosi al suolo.
“Questa volta sarò io a proteggere i miei compagni!”
E ritirando il kunai lo ripose nell’apposita tasca, tornando poi in posizione eretta.
Apparentemente composto e sicuro di sé.
 
“Obito, i tuoi occhi…”
Il jonin, ancora immobile nella posizione precedente, osservava il compagno con espressione attonita.
Lo sharingan?
Dunque era questo lo straordinario potere di quell’abilità innata?
L’arte oculare che il clan Uchiha custodiva gelosamente e si tramandava da secoli di generazione in generazione?
“Già, credo che questo sia lo sharingan. Ora sono in grado di vedere gli spostamenti e i flussi di chakra.”
Sì fissava le mani, incredulo; l’espressione quasi assente di chi ancora è riuscito a realizzare ciò che ha appena compiuto, di chi non si è ancora reso conto che due dei suoi più grandi sogni si sono appena realizzati.
Ora aveva lo sharingan, finalmente era un vero Uchiha, shinobi di nobili origini, valoroso e degno del suo clan. Ma soprattutto ora poteva essere fiero di se stesso e del tipo d’uomo che stava diventando: aveva lottato per i suoi compagni, per i suoi amici, ed era riuscito a difenderli nonostante la paura.
Ma la situazione era tutt’altro che risolta, Rin era ancora tenuta in ostaggio e soprattutto Kakashi stava soffrendo le pene dell’inferno per aver cercato di salvarlo. Stringeva convulsamente le dita attorno alla parte lesa, come a cercare di lenirne il dolore; la copiosa emorragia sembrava ormai essersi placata, ma il segno di quella battaglia non sarebbe mai sparito e una profonda cicatrice avrebbe deturpato forse per sempre quel giovane viso.
L’ennesima fitta lo stava scuotendo ed il jonin, per quanto abituato a sopportare stoicamente il dolore, tratteneva a stento le urla, lasciando sfuggire dalle labbra coperte gemiti sottili che, nelle orecchie di Obito, risuonavano strazianti più delle grida di cento ninja avversari.
“Va tutto bene Kakashi?”
L’apprensione traspariva evidente dalle sue parole mentre, avvicinatosi rapidamente, si chinava sull’amico ferito.
“Sì…” rispose a fatica aprendo la piccola sacca legata sul fianco destro.
Pareva aver recuperato la calma, sebbene il lieve tremolio della sua voce lasciava trasparire la sofferenza e l’estremo sforzo che l’Hatake stava affrontando in quel momento.
“A quanto pare ho perso il mio occhio sinistro, ma ho ancora il kit che mi ha dato Rin”, disse estraendo il pacchetto che, solo il giorno precedente, gli aveva donato la compagna, “posso usarlo come primo soccorso.”
Obito lo fissava con ammirazione mentre, ancora scosso a tratti da terribili fitte, provvedeva a fasciarsi il capo coprendo l’occhio ferito; entrambi avevano ora ben chiaro quale fosse il loro obiettivo primario ed avevano già dimostrato di essere disposti a sacrificare la loro stessa vita per portarlo a termine.
“Andremo a salvare Rin immediatamente!”
“D’accordo!”
E scambiandosi uno sguardo complice partirono alla ricerca della compagna.
 
 
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Il suo volto sporco di terra era come una maschera di cera, dentro il vuoto, l’assenza di vita pensante. Pareva persa in un altro universo, un mondo parallelo d’ingannevoli visioni.
Il suo torturatore la sollevò un poco afferrandola per i capelli e tirando con forza.
Non un gemito.
Gli occhi appena socchiusi, vacui e sperduti.
Respirava sottilmente fra le labbra di poco dischiuse; nel profondo delle dolci iridi castane la sua coscienza annegava lentamente in un’oscura illusione.
“Sei davvero resistente.”
Quasi ghignava, compiaciuto di se stesso e del suo grottesco operato, quel ninja privo di scrupoli che ormai da un’ora di accaniva sul corpo e la psiche di Rin, ricavandone un sottile piacere e senso di potere.
Come una vecchia bambola ormai dimenticata in un angolo polveroso della soffitta, le vesti lacere ed il capo riverso, abbandonato lateralmente, fissava il vuoto con due occhi che parevano di vetro. Lucidi, lontani, desolantemente assenti.
Solo il sudore, che in umidi rivoli le colava lungo le tempie ed il collo sottile, ricordava che il piccolo corpo completamente in balia di quell’uomo non era di fragile porcellana, ma di carne e sangue pulsanti.
 
Poi un soffio, dall’ingresso, sbuffi di polvere smossa e rapidi spostamenti. Lievi folate di vento, quasi isolate, troppo brevi per essere naturalmente causate dalle correnti.
L’uomo di Iwa si voltò sinceramente sorpreso: che si trattasse del suo compagno?
Salti leggeri e calibrati, pochi passi silenziosi e fecero il loro ingresso: quattro piedi avvolti nei sandali ninja atterrarono quasi simultaneamente, giovani gambe fasciate nelle divise scure, le bende strettamente avvolte.
Quei due piccoli e fastidiosi shinobi di Konoha erano venuti a riprendersi la loro inutile compagna.
Ciò voleva dire che il suo compagno di team era appena stato sconfitto.
Tuttavia doveva aver venduto cara la pelle: i suoi avversari parevano decisamente provati e quello che fin dal primo momento gli era parso il più forte aveva una spessa fasciatura attorno al capo che andava a coprirgli per intero l’occhio sinistro. Sì, erano conciati piuttosto male, non sarebbe stato troppo difficile sconfiggerli.
Eppure tutta quella determinazione nei loro sguardi… erano proprio dei ragazzini ingenui.
“Siete patetici…” li apostrofò increspando le labbra mentre, quasi pigramente, riconquistava la posizione eretta lasciando in un angolo la sua preda.
Obito non perse tempo e, sfruttando le sue nuove abilità acquisite grazie allo sharingan, scrutò Rin cercando di scoprirne lo stato. Il suo chakra, normalmente canalizzato ordinatamente lungo le vie principali, scorreva come impazzito per tutto il corpo completamente privo di ogni controllo. Appariva come una grossa fiamma scossa dal vento, alimentata e soffocata allo stesso tempo da una forza sconosciuta.
“Il flusso del chakra di Rin è disturbato… circola diversamente da me e te.”
“Sarà per via di qualche genjutsu.” Rispose grave Kakashi, intuendo immediatamente il grave stato nel quale versava la loro compagna. “Non hanno perso tempo per ottenere le informazioni.”
Di fronte a loro lo shinobi dalla capigliatura decisamente bizzarra rise quasi compiaciuto all’idea di chi avrebbe affrontato di lì a qualche istante.
“A quanto pare non siete due semplici marmocchi.”
A quelle parole i due amici presero posizione, pronti ormai all’inevitabile e decisivo scontro: le gambe divaricate e leggermente flesse, le dita serrate, strette sulle impugnature del kunai e della Tanto.
“L’abbiamo già incontrato prima. E’ veloce, fai attenzione!” bisbigliò subito prima di partire all’attacco.
Mentre il loro avversario si avvicinava a grande velocità, seguendo una traiettoria non lineare, proprio come l’altra volta estrasse due lunghe lame dalle maniche, quasi facendole uscire dalle fasciature sui polsi. Obito e Kakashi di separarono, preparando si ad un attacco combinato e, correndo alla stessa velocità, lo raggiunsero lateralmente.
Il ninja di Iwa si lanciò prima sull’Uchiha, unendo le braccia per poi aprirle di colpo tentando un doppio fendente che il giovane riuscì ad evitare agilmente con un rapido salto, mentre da sinistra l’Hatake già si preparava a colpire, vedendo però il proprio colpo subito intercettato e parato scartando di lato. Obito, dopo aver bypassato il nemico con un lungo salto, riatterrò dietro di esso con una rapida capriola e, nuovamente in piedi parava in un istante un nuovo colpo dell’avversario, che nel frattempo aveva girato su se stesso, tenendo ben saldo il proprio kunai con entrambe le mani. Kakashi alle sue spalle era già pronto per colpire nuovamente e così di seguito sino allo sfinimenti, con un affiatamento fra i due giovani ninja tale da farli rassomigliare a kage bunshin originati dallo stesso guerriero.
Una lunga ed estenuante serie di colpi, di affondi inferti e parati senza tregua, fra l’assordante clangore delle lame e le scintille che nello stridere dei metalli si liberavano e sfavillavano sinistre nell’aria ormai povera d’ossigeno.
Obito non era mai stato un genio del corpo a corpo, ma con suo sharingan poteva ritenersi a tutti gli effetti all’altezza del proprio compagno, in grado di prevedere gli attacchi nemici con una frazione di secondo d’anticipo e di rispondervi prontamente. Il ninja di Iwa gli era di nuovo innanzi e, a braccia incrociate, gli si lanciava contro con le lame spiegate. In un istante il genin si chinò indietro, flettendo la schiena quasi sino a raggiungere il pavimenti con il capo e, una volta evitato il colpo, vide chiaramente il momento in cui avrebbe richiuso le braccia, riuscendo con un vigoroso colpo di reni a saltare a mezz’aria per colpirlo con un doppio calcio sulle spalle proprio un attimo prima, rimanendo come sospeso con uno sforzo estremo. Nello stesso istante Kakashi giungeva da dietro il compagno con la Tanto stretta fra le mani alta sopra il proprio capo, pronto a colpire il nemico proprio in pieno viso, atterrandolo, per darsi poi la spinta necessaria a superarlo camminandogli letteralmente sulla schiena.
Senza nemmeno fermarsi a sprecare uno sguardo sull’uomo appena sconfitto, insieme corsero verso la compagna che, ancora legata in un angolo, non pareva dare segni di vita. Inginocchiandosi innanzi a lei, per prima cosa il genin provvide a dissolvere il genjutsu che teneva prigioniera la mente di Rin, formando un semplice sigillo con la mano destra e ordinando il rilascio. La giovane subito si riprese, spalancando i grandi occhi nocciola e fissando grata i suoi salvatori.
“Kakashi… Obito!”
“Siamo qua per te, Rin.”, cercò subito di tranquillizzarla Obito, chino su di lei con la mani appoggiate sulle ginocchia. “Adesso è tutto a posto.”
Ansimavano entrambi piuttosto pesantemente.
A dispetto delle apparenze e nonostante si fosse trattato di un combattimento di pochi minuti, quello scontro li aveva decisamente provati e il sudore colava copioso dal viso di entrambi imperlandone le fonti ed inzuppandone i vestiti.
“Forza, andiamocene subito di qua!” aggiunse velocemente Kakashi guardando il compagno di poco più in alto di lui e, protendendosi verso una Rin stravolta ma nonostante tutto piuttosto sollevata, si dedicò a sciogliere il più in fretta possibile le spesse corde che ancora tenevano legata la compagna di team.
“Bene bene…”
Mentre la giovane si rialzava non senza sforzo, il ninja allo loro spalle si era ripreso e mettendosi in piedi, seppure ancora un po’ a fatica a causa dei colpi ricevuti, fece risuonare la sua voce profonda.
“Insieme non siete male, ma siete comunque dei marmocchi...” , sentenziò sprezzante e con il solito ghigno ad ornare quell’insostenibile faccia da schiaffi che si ritrovava, “e siete in mano al nemico!”
Poi compose tre sigilli e, premendo il palmo aperto sul terreno con il braccio steso, pronunciò il nome di una tecnica di terra: dunque quell’uomo dalle lunghe lame retrattili possedeva un chakra di tipo terra e poteva manipolare tutto quel che si trovava in quel momento sotto i loro piedi, ma anche sopra le loro teste… erano circondati.
Erano fottuti.
“Doton: Iwayado Kuzushi!”
Tutto prese a tremare e a sgretolarsi davanti ai loro occhi: le grandi pietre che formavano il soffitto, i massi accatastati lungo le pareti, continue esplosioni giungevano dall’alto squassando persino il terreno che andava increspandosi come mosso da invisibili radici di sequoie giganti.
I tre giovani ninja guardano esterrefatti la grotta letteralmente sbriciolarsi ad una velocità impressionante proprio davanti ai loro occhi, incapaci di reagire in qualunque modo.
“Oh, no!” si lasciò sfuggire quasi inconsapevolmente Obito.
“Presto usciamo!”
Kakashi fu il primo a realizzare quanto quella situazione fosse potenzialmente fatale per loro e l’assoluta necessità di togliersi di lì il prima possibile.
Si lanciarono in una corsa mozzafiato quasi contro il tempo, mentre tutto attorno a loro cadeva e perdeva forma, tramutandosi in polvere e pezzi di roccia che cadevano con violenza dall’alto senza alcuna possibilità di schivarli volontariamente. Nubi di polvere appestavano l’aria soffocando il respiro ed impedendo la vista; gli occhi lacrimavano nel sovrumano sforzo di mantenere focalizzata l’attenzione su quel singolo spiraglio di luce che pareva sempre più lontano e confuso.
L’unica via di fuga come un miraggio lontano.
Interi blocchi di roccia crollavano al suolo a pochi centimetri dai loro corpi con un fragore stordente e loro, immersi in quell’inferno con la sola idea chiara di fuggire, saltavano forzando i loro stessi limiti fisici nel disperato tentativo di evitarli, ben consci del fatto che se anche uno solo di quei massi li avesse colpiti avrebbe potuto decretare la loro fine.
Ma quella cortina fumosa rea sin troppo densa ed una pietra, per quanto piccola, nella sua inesorabile caduta verso il basso, finì per colpire con violenza il capo di Kakashi, già provato per il combattimento appena concluso e per la profonda ferita all’occhi. Si accasciò al suolo perdendo i sensi e così rimase, con il viso schiacciato nella polvere ed il corpo steso quasi in modo composto. Udendo il rumore dato dall’impatto ed il forte gemito del compagno, Obito e Rin si voltarono immediatamente alla ricerca dell’amico, non riuscendo tuttavia a scorgerlo. Dentro quella grotta stava avverandosi l’apocalisse. L’Uchiha non ebbe esitazioni e, lasciando la kunoichi sola a gridare il nome del jonin fra le lacrime, si precipitò alla ricerca dell’Hatake, trovandolo subito dopo privo di coscienza. Lo prese fra le braccia, provò a scuoterlo, ma a quanto pare il tempo non era dalla loro: non era certo quello il momento adatto per essere sentimentali né tantomeno delicati. Intravvedendo sopra di loro l’ennesima gragnuola di massi lo lanciò lontano, sperando in tal modo con tutto se stesso di riuscire a metterlo in salvo.
Spalancando gli occhi rossi del suo da poco risvegliato e prodigioso sharingan, ebbe giusto qualche istante in più per potersi rendere conto dell’enorme macigno che senza alcuna possibilità di scampo stava per seppellirlo crollandogli addosso.
Poco prima dell’impatto aveva provato ad urlare con tutte le sue forze, ma da quella bocca disperatamente spalancata non era uscito altro che un grido muto.
 
Fu l’ultima cosa che vide, mentre la grotta collassava definitivamente su se stessa, esalando come un pesante respiro, un enorme sbuffo di polvere e ghiaia proprio in faccia al ninja di Iwa che, con aria estremamente soddisfatta, ammirava il suo incredibile ed efficientissimo operato.
“Peccato, una buona fonte d’informazioni  persa…” disse quasi esprimendo un pensiero ad alta voce, le sottili sopracciglia inarcate in un cipiglio d’ironica strafottenza, “va beh, è andata così.” concluse stringendosi nelle spalle con indifferenza.
 
 
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Ogni cosa pareva giacere immobile, senza vita, un panorama angosciante.
Il fumo acre misto alla polvere lento ondeggiava in dense volute, trascinato a fatica da rapide e gelide folate di vento. Gradualmente andava dissipandosi lasciando intravvedere ciò che della grotta era rimasto.
Un impressionante cumulo di massi accatastati l’uno sull’altro in un equilibrio pericolosamente precario, piccoli ciottoli e ghiaia finissima scorrevano fra le crepe ed i pertugi delle rocce in fugaci rivoli petrosi producendo un fruscio crepitante continuo. Come una ciclopica clessidra, dove la sabbia impalpabile scandisce il tempo fugace della distruzione.
Kakashi e Rin giacevano riversi proprio al centro di quel desolante cratere ormai spento che lo shinobi nemico aveva aperto sopra le loro teste senza alcuno sforzo apparente. Una flebile voce prese a chiamarli, riuscendo a riscuoterli pur nello smarrimento.
“State bene ragazzi? Rin… Kakashi…”
Pareva tanto lontana, incredibilmente debole, quasi giungesse da un altro luogo. Bassa, vibrante, stanca.
A fatica si mossero, le braccia quasi intirizzite, le gambe doloranti e pressoché ricoperte di ecchimosi sotto le divise, i volti graffiati e sporchi sino a poco tempo prima affondati nel terreno.
Kakashi alzò il capo a fatica, sollevandosi con estremo sforzo e cautela, prima sui gomiti, poi sulle mani piene di escoriazioni e, seguendo quella voce per cercane la sorgente, si volse con lentezza.
E su ciò che vide il suo cuore si fermò.
Ogni singola cellula e particella del suo essere parve raggelarsi all’istante.
Ciò che il suo occhio destro stava registrano in quel momento non poteva essere realmente accaduto; nemmeno qualche secondo dopo quell’unica iride, sgranata all’inverosimile per l’orrore, pareva accettare anche solo lontanamente l’ipotesi che non fosse ancora svenuto, e che quello non fosse altro che un macabro sogno, un crudele scherzo del suo inconscio.
Obito era a pochi metri da lui, steso a terra.
Poteva vederlo anche da lì.
O meglio, poteva vederne solo la parte sinistra, perché l’intero lato destro era completamente schiacciato.
Il piede, la gamba, il braccio, metà del busto e tutta la parte destra del viso giacevano, celati alla vista, letteralmente sepolti sotto la frana rocciosa alla quale lui e Rin erano miracolosamente scampati.
No, si corresse, lei ne era miracolosamente sfuggita.
Se lui in quel momento era lì ad osservare quello straziante spettacolo e non sdraiato sotto le macerie non lo doveva certo alla sorte, ma a quello stupido e incosciente testardo del compagno di squadra.
Il volto segnato, sporco e pieno di graffi; due sottili rivoli di sangue scorrevano lungo la guancia, uscendo dalle labbra screpolate e socchiuse, scivolavano sul viso come lacrime per poi abbandonarlo in piccole gocce amaranto, dense e silenziose, che cadevano sulla terra riarsa, scomparendo poi fra le crepe.
Nella sua mente udiva le ossa scricchiolare, vedeva la pelle lacerarsi ed i muscoli, in fasci e fibre, staccarsi, strappati con violenza dalle rocce che senz’anima cadevano sul suo amico, colpevole solo di avergli salvato la vita.
“Obito!” gridò senza fiato, incapace di far entrare anche solo un po’ d’ossigeno in quei polmoni schiacciati dal peso della colpa che andava gonfiandosi ad ogni sguardo.
Rin, ancora semisdraiata fra la polvere, aveva preso ad osservare la scena con un’espressione fra l’incredulo e l’inorridito. Fra questi la disperazione, che presto l’avrebbe colta come un’onda irresistibile e distruttrice, cominciava ad insinuarsi  nella sua mente già sconvolta dal dolore. Tremava, stringendo manciate di terra e polvere, trattenendo i singhiozzi che le scuotevano le spalle in spasmi incontrollabili, incapace di muovere il più piccolo muscolo.
Kakashi correva invece, si buttava disperato contro quell’enorme masso che così spietatamente stava schiacciando il suo migliore amico. E spingeva, con tutto se stesso, con tutto il suo peso, quel gracile corpo di giovane ragazzo che, senza esitazione, imprimeva tutta la forza che aveva su quella dannata roccia, spremendo ogni singola riserva d’energia rimastagli. Disperatamente.
Inutilmente.
“Lascia perdere…” la voce di Obito, sotto di lui.
“Va bene così, Kakashi.”
Nessuna inflessione, non c’era disperazione in quelle parole, non un gemito o un’ombra di paura. Bassa, roca e flebile seppur fin troppo chiara e martellante nella testa del jonin, quella voce sapeva di consapevolezza, arrendevolezza forse, di serena accettazione della propria sorte.
Sì, proprio così, Obito pareva sereno e, pur sotto le ferite, il sangue ed il dolore, i lineamenti del suo viso erano distesi e quell’unico occhio fiammeggiante lo guardava quasi con dolcezza, con affetto.
Parlava piano, di gola, con incredibile fatica: dolorosamente evidente era lo sforzo che gli costava pronunciare anche solo quelle poche parole.
“In ogni caso non credo di potermela cavare. Ho tutta la parte destra completamente schiacciata. Non la sento più…”
Ma Kakashi non voleva arrendersi, non voleva ascoltare quelle parole e dare loro credito come se fossero veramente le ultime.
Ancora spingeva, scorticandosi le mani. Persino le vene del collo, visibili da sotto la divisa, parevano scoppiare per il disperato sforzo di quell’impresa.
Tuttavia anch’egli sapeva, nel profondo, che tutti quegli sforzi altro non erano che un patetico estremo tentativo da parte di un bambino testardo di non accettare l’ineluttabilità dei fatti. Si sentiva come preso in una morsa, incapace anche solo di dilatare il petto per incamerare aria. Non respirava, aspirava polvere a singhiozzi, mentre la rabbia rapidamente montava dentro di lui sino ad implodere.
Batté debolmente i pugni sulla roccia, mentre il suo corpo, che in quel momento detestava per la sua completa inutilità, veniva scosso violentemente da brividi, che inarrestabili lo percorrevano interamente.
“No!”
Avrebbe voluto gridare sino a sgolarsi, urlare al mondo la sua disperazione, ma le lacrime, che copiose avevano cominciato a riempirgli gli occhi e rigargli il volto imbrattato di terra e sudore, ridussero il suo dolore a gemiti soffocati, gorgoglii che vibravano nel suo petto come ruggiti strangolati, frustrazione e furore per la propria impotenza, angoscia insopportabile e la morte nel cuore.
Rin, ancora immobile nel suo angolo, aveva portato le mani al viso e, con le gote percorse dalle lacrime, ripeteva fra sé, come in una macabra litania, poche ed inutili parole. Muoveva impercettibilmente il busto, un lento dondolio autistico che avrebbe dovuto consolarla, l’amara consolazione di chi è solo, inerme ed in preda alla disperazione.
“No… non può essere vero… Perché?”
In quello stesso istante Obito fu scosso da un violento tremito e, tossendo a fatica sputò un preoccupante quantità di sangue.
La brutalità di quell’accesso, unito al brillare del rosso vermiglio del fiotto che ne seguì ebbero il potere di riscuotere Rin dal suo stato pressoché catatonico, facendola urlare il nome dell’amico, ma non consentendo ugualmente alle sue gambe di muoversi. Dopo un primo apparente tentativo di protendersi verso di lui voltò il capo, le spalle strette ancora scosse dai fremiti, le mani premute sulla bocca, gli occhi serrati innanzi allo straziante dolore di quella scena.
Non vi era più nulla da fare.
Nessun bell’atto eroico, nemmeno la più grandiosa dimostrazione di coraggio e abilità potevano salvare il loro amico dall’ormai inevitabile fine.
Kakashi cadde in ginocchio ormai privo di forze, come svuotato, privato di tutta quella fredda sicurezza e razionalità che lo aveva contraddistinto sino a quella dannata missione.
Era distrutto.
Coi gomiti a terra tirava pugni privi di forza a quel suolo che gli stava portando via un amico, il più prezioso, quello che aveva saputo catturarlo, scuoterlo e risvegliarlo; le labbra lanciavano, fra i denti serrati, maledizioni contro il cielo e contro se stesso e contro l’intero universo.
“Maledizione!” ripeteva fra i singhiozzi, “Maledizione” urlava in preda ai brividi, “Maledizione!” gemeva il suo animo in frantumi, mentre le lacrime che in tutti quegli anni non aveva versato piovevano come un diluvio bagnando  la fredda terra nemica.
“Se solo…” biasimava se stesso -come poteva non farlo?- era tutta colpa sua, “se solo ti avessi dato ascolto fin da subito e fossi venuto subito qua da Rin, tutto questo non sarebbe mai successo!”
Gemeva e singhiozzava come un bambino, finalmente libero dai suoi paletti, ma un’altra volta col cuore in pezzi. Un pianto violento e disperato, il respiro impedito dai frequenti singulti che lo scuotevano interamente, il volto rigato e contratto, una maschera di dolore.
Rin si era lentamente alzata e, nel silenzio di quella scena straziante, si era avvicinata, inginocchiandosi poi al capezzale di Obito.
Ma Kakashi non pareva essersene reso conto e, come se fosse stato veramente solo, continuò nella sua inesorabile caduta verso l’autodistruzione, disprezzando se stesso ed il suo essere maledettamente cieco ed ottuso.
Stava mettendo in discussione tutto di sé.
Aveva sbagliato ogni cosa.
“Cosa importa essere capitano? O essere diventato jonin?”
Obito aveva ascoltato in silenzio sino a quel momento, respirando a fatica fra le labbra imbrattate da grumi di sangue ormai rappreso. Non pensava affatto che il suo amico fosse stato un cattivo jonin, né un pessimo capitano, ed in proposito aveva ancora qualcosa di lasciato in sospeso.
“Anzi… quasi me ne scordavo…”
Aveva ormai chiuso anche quel singolo occhio rubino, la palpebra pareva non dover rialzarsi più, calando un triste sipario sull’ultima scena della sua vita. Eppure su quel viso non vi era traccia di dolore, non un accenno di turbamento o rammarico; al contrario, un lieve sorriso pareva mitigare quei tratti tanto duramente martoriati. Le labbra distese, socchiuse, dalle estremità leggermente incurvate, finalmente in pace con se stesso.
“Sono stato proprio l’unico a non farti neppure un regalino, per la tua promozione a jonin, Kakashi.”
Il respiro soffiava flebile fra le corde vocali che vibravano ormai stancamente.
Rin, affranta ed impotente, non poteva far altro che guardare Obito spegnarsi lentamente davanti ai suoi occhi, dietro il liquido velo delle lacrime che, prive di ogni freno, continuavano a solcare il suo viso.
“Mi chiedevo… cosa avrei mai potuto regalarti… e poi mi è venuta un’idea.”
Il corpo ormai del tutto insensibile giaceva immobile, quasi inerte. Solo le dita della mano sinistra, lunghe e sottili, si muovevano impercettibilmente e a tratti, i lievi fremiti che ancora la percorrevano con intermittenza, forse null’altro che un riflesso involontario, quasi un riflesso, o forse l’estremo tentativo di andare incontro a colui che per lungo tempo aveva considerato un rivale, ma che solo in quelle ultime ore di era rivelato il più prezioso degli amici.
“Stai tranquillo…”
Kakashi non riusciva a smettere fissarlo, confuso, terrorizzato, mentre la braccia gli scivolavano lungo i fianchi, l’occhio si tingeva di un’infinita tristezza ed i denti, digrignati, stridevano nell’inutile tentativo di coprire quel grido d’inumano dolore che gli stava straziando il cervello.
“non è una cosa inutile da portarti appresso…”
Sollevò la palpebra per l’ultima volta, lentamente, fissando lo sguardo sul compagno.
“Vorrei donarti… il mio sharingan, ecco cosa.”
Sussultarono all’unisono, Kakashi e Rin, come sbalzati da un’auto in corsa, colpiti da un’unica esplosione.
Un tuffo improvviso, centinaia di metri nel vuoto.
“Non mi importa cosa diranno al villaggio, per me sei un grandissimo jonin. In realtà è questo il mio pensiero… quindi accettalo, per favore.”
Ma in quel momento Kakashi non reagiva, come ancorato al terreno, continuava a guardarlo come se già stesse vedendo un fantasma: qualcosa che, seppure innanzi a lui, già non apparteneva più a quel mondo. Rin al contrario probabilmente aveva già colto l’intenzione del compagno e, asciugandosi finalmente il viso e gli occhi arrossati con la manica della divisa, si apprestava già ad seguire le ultime direttive di Obito.
“Rin… con i tuoi ninjutsu medici… prelevami tutto l’occhio e trapianta il mio sharingan al posto dell’occhio sinistro di Kakashi.”
Annuì, pronta a svolgere il proprio dovere di ninja medico, ma soprattutto finalmente disposta ad ogni sacrificio per accontentare l’amico. Risoluta volse il capo verso il jonin e con sguardo serio cominciò a predisporre l’intervento.
“Kakashi, vieni qua. Iniziamo immediatamente.”
Kakashi aveva ripreso a tremare come una foglia, il suo corpo, già piuttosto magro, pareva persino più esile così scosso dai brividi. Sudava freddo, i suoi occhi pregavano affinché tutto quel che stava vivendo fosse in realtà uno stupido scherzo del suo subconscio; il terrore lo teneva ben stretto nella sua morsa raggelante e senza scampo, innanzi a lui la più dura delle scelte che avrebbe mai dovuto compiere.
Accettare quell’occhio tanto potente?
Privare il compagno di una così importante parte di sé proprio nel momento di maggior sofferenza?
Depredarlo in punto di morte?
Accogliere a braccia aperte il sincero dono di un amico?
Esaudire l’ultimo desiderio, l’ultimo gesto di profondo affetto del proprio unico vero amico?
Stringeva convulsamente lembi di divisa nei pugni, il capo ora chinato a terra: forse sparava di trovare risposta fra le crepe di quell’arida terra che si stava portando via Obito.
“Io…” proseguì quasi per convincerlo, “sto per morire… però diventerò il tuo occhio. Vedrò il futuro… attraverso di te.”
Avrebbe voluto, in un ultimo ed estremo tentativo, lenire il dolore ed i sensi di colpa che in quel momento stavano uccidendo lentamente anche Kakashi, fargli sentire che quello non era solo un regalo, ma anche l’unico modo per tenerlo in vita, tenerlo per sempre stretto a sé, parte di se stesso fin nel profondo.
Il jonin parve chiudersi in sé per un istante, per poi annuire con risoluzione, pronto ad affidarsi alle mani capaci della compagna medico.
 
 
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Finalmente aveva terminato. Doveva ammettere che questa volta la missione era stata tutt’altro che facile: a dispetto della giovane età quel team di Konoha gli aveva dato decisamente del filo da torcere e tornare al villaggio con la squadra decimata di certo non gli faceva onore. Ma ora poteva dire con una certa soddisfazione di averli tolti di mezzo una volta per tutte e, come premio per cotale abilità, si sarebbe concesso una pausa prima di riprendere il cammino.
Sedeva a terra, sull’erba; pochi metri dietro le sue spalle le macerie del passato combattimento ancora si assestavano , con rumori ormai sommessi anche se talvolta piuttosto repentini. Beveva da un piccolo thermos dotato di cannuccia, lentamente e producendo un certo fastidioso risucchio: pareva proprio gustarsi l’attimo di pace dopo la vittoria della battaglia.
Poi tutto esplose e, come un vulcano inattivo da tempo immemore, dal centro del grande cumulo fuoriuscirono con una potenza dirompente ghiaia, pietrisco e massi di varie dimensioni, il tutto avvolto da un’acre nube densa e polverosa.
In cima a quel cumulo esploso stava Kakashi, sempre più visibile con il diradarsi della cortina fumosa.
“Che zucconi… siete ancora vivi, eh?” berciò il ninja di Iwa dall’improbabile capigliatura con fare decisamente seccato.
Ma Kakashi non rispose alla provocazione.
Rimase immobile, sulla cima di quella che una volta era stata una grotta, gli occhi chiusi che ancora lacrimavano, mentre la nube di polvere lentamente si faceva sempre più rarefatta.
“Già, ma come dicevo siete marmocchi. Quando mai uno shinobi piange?” non era più tempo di giochi, ora voleva solo sbarazzarsi di quello sciocco ragazzino e tornarsene a casa, “Forza, frignone! Facciamola finita una volta per tutte.”
Veramente voleva fare sul serio?
Bene, Kakashi non aspettava altro e, puntando lo sguardo sull’uomo che aveva ucciso il suo compagno, aprì per la prima volta i suoi occhi diversi e complementari, ora uniti ed inseparabili.
L’occhio destro, grigio, imperscrutabile, profondo e determinato: lo sguardo di Kakashi, jonin acuto e coraggioso, abile stratega e formidabile in battaglia.
L’occhio destro color del sangue, della passione che sempre agitava l’animo di Obito: l’impulsività delle parole e delle azioni, il grande cuore che tutto sopportava e tutti conteneva, l’irruenza dei sentimenti che sgorgavano senza remore come un fiume di lacrime da quell’occhio prodigioso che anticipa alla mente la visione degli eventi, che mostra e rivela misteri, che dona ma brucia e per sempre arderà, nel ricordo e nel dolore di quella cicatrice verticale che più che negli occhi, trafigge nell’animo, brucia dentro.
Piange lo sharingan, ma al suo nuovo proprietario non importa, perché anche quelle lacrime sono un dono prezioso, un’amara lezione d’umanità da tener stretta a sé e non dimenticare mai.
 
 
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La Terza Grande Guerra Ninja.
Grazie al sacrificio di molti shinobi ignoti, questa lunga e sanguinosa guerra  volse al termine. E fece nascere delle leggende, storie di eroi da narrare per generazioni e generazioni.
La Battaglia del Ponte Kannabi…
In quel giorno a Konoha nacquero due eroi, entrambi con proprio sharingan. Il nome di uno di loro venne scolpito su una lapide. L’altro diventerà famoso col nome di  “Kakashi dello Sharingan”. In futuro, l’eco delle sue gesta supererà  i confini della Nazione.
 
 
Una lapide grigia, memoria imperitura d’eroi caduti.
Dei fiori colorati, l’affetto di chi non dimentica l’amico più caro.
Una maschera arancione, difesa di un piccolo uomo dal cuore immenso.
 
 
 
 
 
 
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Eccomi a voi, mortificata per l’immenso ritardo, ma soprattutto prosciugata da questo lavoro. E’ stato uno sforzo immane, bellissimo ma altrettanto faticoso.
Mi sento un po’ vuota, come talvolta ci si può sentire alla fine di una long… peccato che, se poi ci penso, mi rendo conto di non essere nemmeno a metà.
 
Ma procediamo con ordine.
Come qualcuno di sarà accorto, ho fatto terminare il capitolo prima della fine reale dell’episodio. Questo in virtù del fatto che, oltre ad essere ormai esausta, ritenevo più importante focalizzare l’attenzione sul rapporto fra i due, che cresce e matura sino al tragico epilogo nel quale Obito dona l’occhio a Kakashi.
Ora vi torna il motivo per il quale ho inserito questi due capitoli nella catena?
Già, proprio la storia dell’occhio.
Mentre Madara ancora delira convinto che Izuna gli abbia regalato gli occhietti, questo dolcissimo piccolo Uchiha (lo adoro) l’ha fatto per davvero!
E non si dica che tutti gli Uchiha sono pazzi o crudeli!!
 
Io mi sono impegnata parecchio, e spero proprio che questo capitolo piaccia anche a voi, perché mi sono spremuta anche per cercare di darvi il meglio.
In particolare questo “Kakashi Gaiden Special” è dedicato interamente alla mia adorata Nejiko, che instancabilmente mi supporta (e sopporta) anche con i suoi bellissimi video. Tesoro, grazie mille di tutto!
Per quel che riguarda i termini giapponesi, vi prego non insultatemi se non ho la forza per scrivervi qui il significato. Facciamo così, se qualche parola non vi torna chiedetemi pure: vi risponderò con grandissima gioia.
 
Infine una piccola anticipazione sul prossimo capitolo (che arriverà fra almeno 1-2 mesi, conoscendo i miei tempi). Si tratta dell’episodio del secondo attacco della volpe, con la nascita di Naruto e morte dei suoi amati genitori.
 
Un enorme abbraccio a tutti voi ed un grazie infinito a chi, con somma pazienza, non mi ha ancora mandata a quel paese per i miei ritmi improponibili.
Grazie.
*Inchino*
 
Ah, dimenticavo… per chi in questi mesi si fosse giustamente scordato qualche particolare, tutte le parti in grassetto sono interamente tratte dall’anime, ad eccezione di qualche trascurabile adattamento stilistico, opera della sottoscritta.
   
 
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