6- Di soffitta in soffitta
Di
soffitta in soffitta
Non è che Makoto credesse ad ogni frottola che le veniva
raccontata, anzi. Non era una credulona, perché aveva
imparato
sulla propria pelle che fidarsi è bene e non fidarsi
è
meglio, dato che suo padre e sua madre non avevano avuto il tempo di
insegnarglielo.
Ma se c'era una cosa che la morte prematura dei suoi genitori l'aveva
resa in grado di fare, era stato non dimenticare la bambina che era
stata. Chiudendo gli occhi, riusciva a ricordare perfettamente quel
periodo in cui aveva imparato che la parola "orfana" non si trovava
soltanto nei libri, ed era come se il tempo agisse su di lei e dentro
di lei: anche se all'esterno appariva come la donna alta e forte che
era diventata, dentro poteva sentirsi ancora la bambina sola e sperduta
che era stata. E che riconosceva un suo simile, quando lo vedeva.
Mentre seguiva Chibiusa su per la scala che portava al piano superiore,
e poi in soffitta, si rese conto che da un giorno all'altro quella
piccola sempre allegra era diventata proprio come lei era stata una
volta. E per quanto ciò che le aveva chiesto suonasse
assurdo,
la bambina dentro di sé stava intimando a Makoto di crederle
e
aiutarla, per quanto le fosse possibile.
Quando arrivarono davanti ad uno strano orologio a pendolo che la donna
non aveva mai notato, e Chibiusa le spiegò per filo e per
segno
il favore che voleva da lei, Makoto non batté ciglio. Disse
soltanto:
- Mi servirà una mano. Aspetta qui -.
Si voltò e tornò di sotto all'incredibile
velocità
che le sue lunghe gambe le permettevano. Lanciò una breve
occhiata a Minako, decretando all'istante che non era adatta a un
lavoro del genere, e telefonò ad una sua amica, chiedendole
se il suo ragazzo potesse aiutarla.
- Perfetto, allora, grazie infinite – concluse –
Ah, Rei:
di' a Yūichirō di venire col suo furgoncino, se può. Sai, si
tratta di un oggetto piuttosto ingombrante -.
Nemmeno il giovanotto con cui si presentò Makoto in soffitta
fece domande, anzi seguì le istruzioni della donna e
alzò
la base dell'orologio con attenzione, mentre l'amica della sua
fidanzata reggeva l'altra estremità. Era meno pesante di
quel
che sembrava, anche se la parte più ardua sarebbe stata
trasportarlo giù per le scale senza sbatterlo da nessuna
parte.
Ma con estrema attenzione ce la fecero, nonostante tutti i bambini si
fossero radunati attorno a loro mentre attraversavano il salone con
quell'enorme oggetto che sembrava una torre, e lo caricavano sul
furgoncino di Yūichirō.
- Bene, adesso dove lo portiamo? - domandò poi il giovane,
salendo al posto di guida.
- Oh, qui vicino – rispose Makoto, facendo salire anche
Chibiusa – A casa Chiba -.
Nemmeno quando fermarono il furgoncino sul ciglio della strada e
scaricarono l'orologio, portandolo dentro a quella casa fatiscente,
Yūichirō disse nulla, nonostante sembrasse un po' perplesso. Chibiusa
pensò che forse era abituato ad obbedire a ordini assurdi,
anche
se non riusciva ad immaginare chi fosse a darglieli.
In ogni caso, fece strada ai due lungo le scale- dove dovettero fare
ben attenzione ad ogni gradino sconnesso- e poi fino alla piccola
soffitta che era più che altro un sottotetto.
Lì, in uno dei pochi punti non ingombri di scatoloni, venne
posato l'orologio, di nuovo eretto e superbo in tutta la sua fierezza.
- Beh, allora io andrei – fece Yūichirō, scostandosi i
capelli
dalla fronte madida di sudore – Se non hai bisogno di
nient'altro... ti serve un passaggio? -.
Makoto lanciò un'occhiata a Chibiusa, che sembrava fremere
nell'attesa che il giovane se ne andasse, e scosse la testa.
- Non preoccuparti, torniamo a piedi. Grazie infinite, comunque -.
Yūichirō fece un cenno ad entrambe, per poi infilare la porta e
scendere con attenzione le scale. Finché non udirono il
motore
del furgoncino che ripartiva, né Chibiusa né
Makoto
dissero una parola.
- Ora, a noi – esordì finalmente la maestra
– Non potrei lasciarti da sola, ma... vuoi che rimanga? -.
La bambina annuì piano, accennando al quadrante
dell'orologio:
era troppo in alto per lei, e lì intorno non c'erano sedie
che
potessero servirle da scaletta.
- Oh, certo! - esclamò Makoto – Vieni -.
Così dicendo la prese in braccio senza alcuno sforzo,
issandola
all'altezza del quadrante. Chibiusa aprì la teca e poi
estrasse
la chiave dalla tasca, sentendosi la mano tutta sudata.
... e se non avesse funzionato? Se la sua idea si fosse rivelata una
colossale stupidaggine? Luna non le aveva detto che l'orologio
funzionava solo all'interno dell'asilo, e nemmeno Pluto, ma...
- Coraggio – le sussurò la maestra Makoto, e
Chibiusa
sentì il calore delle sue braccia che la sostenevano. La
sera
prima si era sentita arrabbiata anche con lei perché aveva
fatto
la spia a sua madre, ed ora se ne vergognava profondamente.
Inoltre le aveva ricordato che lei era una Chiba, e in quanto tale una
bambina coraggiosa. L'aveva detto anche sua madre: tutto ciò
che
Chibiusa desiderava era rivedere il suo sorriso e i suoi grandi occhi
azzurri. E c'era un unico modo.
Infilò la chiave nell'apertura sul quadrante e la
girò.
Girò finché Diana aprì gli occhi,
finché
scomparve dalla mezzaluna e finché apparve la luna sullo
sfondo.
Finché sorse Luna, la gatta nera che controllava il passato.
E aspettò, trattenendo il respiro.
- Chibiusa, la colazio... ouch! Ah, il latte! No, no, no! -
l'inconfondibile voce di Usagi arrivò fino in soffitta,
evidentemente impegnata in quelli che dovevano essere i preparativi per
la colazione.
Il sollievo travolse Chibiusa come un'onda, impedendole per un istante
di respirare. Lasciò prudentemente andare la chiave che
teneva
ancora stretta in mano e richiuse la teca, sospirando sonoramente. Poi
la maestra Makoto la rimise giù, e quando Chibiusa la
guardò vide che sorrideva di stupore e sollievo riflesso.
- Un orologio magico, eh? - commentò poi, osservando la
sagoma
della gatta nera che si stagliava elegantemente sullo sfondo della luna
dipinta – L'avrei tanto voluto anch'io... -.
Chibiusa annuì.
- L'ho trovato... quando ti ho aiutato a rimettere a posto le maschere,
maestra – confessò la bambina – E... ho
combinato
tutti quei guai -.
- Quindi la colpa è anche mia –
constatò Makoto
– Se non fossi salita in soffitta con me, non sarebbe
successo
niente -.
Questo Chibiusa non l'aveva mai pensato, ma le piacque enormemente
rendersi conto che lei e la sua maestra erano state quasi complici in tutto
questo. Perlomeno alla fine, nel risolvere ogni cosa.
Le rivolse un gran sorriso.
- Grazie mille, maestra -.
- Di niente, Chibiusa – rispose lei – E non
preoccuparti:
nessuno si accorgerà che una vecchia cianfrusaglia
è
sparita dalla soffitta dell'asilo. Oltretutto, nessuno se ne
è
mai interessato -.
Chibiusa annuì. Si chiese se d'ora in poi avrebbe potuto
chiacchierare con i tre gatti, di tanto in tanto, e pensò
che il
desiderio espresso all'inizio si era avverato: ora avrebbe tenuto Diana
con sé.
- Comunque adesso il problema è un altro – fece
Makoto, un po' incerta.
- Problema? - ancora?
- Come spiego a tua madre la mia presenza qui? Perché sai,
non
è normale che mi trovi nella soffitta di uno dei bambini di
cui
mi occupo... -.
A Chibiusa, che conosceva sua madre, non sembrò affatto un
problema.
- Oh, non preoccuparti, maestra. Basterà che tu dia alla mia
mamma la ricetta dei tuoi favolosi biscotti. Anzi –
ponderò la bambina, un po' dubbiosa sul risultato di tale
esperimento – se glieli fai tu, è anche meglio! -.
Chibiusa, il tempo e un
grosso guaio: inutile dire che mi sono ispirata alla seconda serie per
questa storia.
Se questa storia vi
è
piaciuta, sarei felice se chi ha letto, seguito, ricordato e preferito
mi lasciasse un ultimo commento, tanto per sapere cosa ne pensate. ^^
Vampire Ninja:
sì, quella dello scorso capitolo era proprio Pluto.
È la
prima volta che scrivo qualcosa in cui compare anche lei, e spero di
poterlo fare ancora, perché penso che offra molti spunti. ^^
Spero che il finale ti
sia piaciuto, e grazie per aver seguito questa storia!
lulu85:
come hai visto l'ordine è stato riportato, soprattutto
grazie
all'aiuto di Makoto! Spero che questa storia ti sia piaciuta. ^^
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