5.
Deep
Inside.
Karen’s
PoV
CRASH.
È il suono che riempie il silenzio di
quest’appartamento.
CRASH.
È il suono di un prezioso oggetto di vetro soffiato che va
in pezzi contro la parete.
CRASH.
È il suono della mia rabbia.
CRASH.
È il suono della mia rabbia che trova finalmente una via di
sfogo.
La gente, di solito, preferisce urlare finché le corde
vocali non sono più in grado di emettere alcun suono. Io non
ci riesco.
Ho una seria difficoltà a sfogare qualunque sentimento di
rabbia, ira, frustrazione o dolore. Eccetto comportarmi in modo
parecchio antipatico, bene inteso. Persino questa manifestazione mi
costa fatica: mi viene voglia di mordermi a sangue le labbra, stringere
una mano a pugno e costringere l’altra a rimettere
giù il fragile oggetto che ho appena strappato dallo
scaffale.
Ma non lo
farò.
Oggi, non ho intenzione di cedere al senso di colpa. Oggi, non ho
intenzione di soffocare di nuovo l’istinto di distruzione che
sta trasformando i miei sentimenti in un maremoto. Oggi, per una volta,
non voglio pensare al dopo; perché so alla perfezione che
una volta passato l’uragano mi sentirò male per
aver mandato i pezzi la maggior parte dei ricordi delle mie gite a
Venezia. Oggi non voglio fermare l’inferno che si sta
scatenando nel mio appartamento.
Ci sono frammenti di vetro dappertutto pronti a trasformare questo caos
in sangue, la musica che esprime il lato più
gotico di Within Temptation e Evanescence è talmente alta
che potrebbe addirittura disegnare crepe nei piatti di ceramica esposti
su alcune mensole. I “famosi” Piatti del Buon
Ricordo.
Ne guardo uno con odio, e tiro anche quello contro il muro. Il
frastuono del materiale fragile che va in pezzi mi fa incredibilmente
bene, e qualcosa dentro di me alza la voce con soddisfazione
nell’ammirare altri cocci accasciarsi sul pavimento.
Sì cazzo!
Non del tutto soddisfatta, alzo di più la musica e sbatto
una porta e tiro un’altro piatto. Ormai una cacofonia di
vibrazioni sonore squassa l’aria, ma io sto cominciando a
sentirmi meglio. Decisamente meglio.
Finalmente il mio respiro comincia a calmarsi, e da affannato che era,
inizia a tornare regolare. Il cuore pian piano rallenta e riprende un
ritmo più scandito, molto più
rassicurante di quello impazzito che l’avevo
costretto a imporsi. L’adrenalina lentamente si consuma,
lasciandomi stanca e tremante, anche se posso ancora sentire quanto mi
avesse inebriata prima.
E io ritorno in me
stessa.
Le tempie pulsano fastidiosamente a causa del mal di testa tanto forte
da nausearmi, e allora abbasso la musica per darvi un po’ di
sollievo. Non di tanto però.
Perché la
tempesta dentro continua a infuriare.
La rabbia è sedata, ma la pace è ancora lontana.
Sono solamente stanca di lanciare oggetti, non mi va proprio
più. La musica però mi aiuta, ho bisogno di
tenerla alta per sintonizzare i miei sentimenti su altre frequenze, in
modo che ognuna di queste emozioni indefinite possa trovare la propria
via di sfogo.
Le note cambiano, e il lato classico dei ritmi latini di Enrique
Iglesias riesce finalmente a sedare tutta la furia che si stava ancora
contorcendo dentro di me, a sopprimere l’ira che ancora
frustrava la mia stanchezza.
E ciò che rimane in me, è il nulla.
Il vuoto si fa strada nel mio petto, e io mi stendo sul divano, ora
veramente esausta. Non mi prendo nemmeno il disturbo di accoccolarmi, o
di stringermi le ginocchia al petto: non fermeranno neanche un
po’ ciò che mi sta minacciando adesso.
Penso a quanto sia stata stupida, la scintilla che ha provocato tutto
lo scempio che mi circonda adesso. Una vera cavolata, una semplice,
inutile lite con mia sorella. Peccato che quella banale scintilla abbia
dato fuoco a sentimenti parecchio più insistenti,
più fastidiosi, più radicati, più
pericolosi.
Mancanza.
Il vuoto, appunto. Questo vuoto che riposa in me, ben nascosto sotto
evanescenti presenze, spettri di cose. Sono presenze illusorie, che
dovrebbero rappresentare sia quello che sento di possedere sia quello a
cui sento di appartenere. Sono ombre di realtà banali, quasi
scontate: casa, famiglia, amicizia. Sono quelle presenze che ti tengono
in piedi quanto tutto il resto della tua vita diventa friabile e
comincia sfaldarsi tra le tue mani. Sono presenze che io
m’illudo di avere.
Nostalgia.
Voglia di poter rivedere tutte le persone che sento più
vicine a me, nonostante l’oceano che la vita ha posto tra me
e loro. Desiderio di riuscire finalmente a lasciar andare tutte quelle
che, invece, mi hanno lentamente messa da parte per poi dimenticarmi.
Illusione di avere la possibilità di riprendermi la mia vita
com’era, prima che questi sentimenti cominciassero lentamente
a crescere dentro di me.
Solitudine.
Il senso di isolamento. È l’incapacità
di rendere gli altri partecipi dei miei sentimenti, dei miei pensieri.
È la sensazione di non poter confessare a nessuno
ciò che ho davvero dentro, perché mi riderebbero
in faccia senza prendermi sul serio, oppure scapperebbero a gambe
levate, oppure mi riterrebbero pazza. È la percezione di
camminare sospesa su un filo che nessuno riesce a distinguere: da un
lato la vita di tutti i giorni, dove si trovano tutti gli altri;
dall’altro, le mie ombre, quelle che nessuno ha mai nemmeno
sospettato.
Odio.
Il disprezzo che io nutro per la mia vita, ma soprattutto per me
stessa. Mi sento meschina a provare disgusto per la mia esistenza,
perché da un punto di vista esterno non è affatto
male: una bella casa, una famiglia integra, un percorso di studi
promettente, brava gente intorno. Eppure io non mi ci ritrovo. E allora
mi sento un’ingrata, smetto di detestare la mia
vita… e comincio a detestare me stessa. Ogni singolo difetto
diventa insostenibile, insopportabile, intollerabile. Ogni minimo
sbaglio è degno delle una pene capitali, senza
possibilità d’appello. Ogni piccola imperfezione
si trasforma in un errore che dovrebbe essere eliminato.
Bisogno.
La necessità di superare mancanza, solitudine e odio, e
l’incapacità di farlo da sola. L’urgenza
di trovare la mia ancora di salvezza, nonostante io non riesca a capire
cosa debba fare, né cosa voglia davvero.
La musica cambia ancora, e sento il mio corpo rilassarsi come sotto
l’effetto di un’anestesia. Le note di Sarah
McLachlan scendono su di me come un balsamo, spalancando infine le
porte all’ultimo sfogo: lacrime.
Cominciano a scendere lungo le mie gote, tracciando il loro solco
salato sul mio viso ormai inespressivo. Molte scivolano giù
dal mento, ma alcune riescono a insinuarsi tra le mie labbra per
ricordarmi di quanta amarezza siano intrise. Colano sul cuscino, che le
assorbe subito… come se non ci fossero mai state.
Nulla di tutto questo ci sarà, domani: spazzerò
via tutti i cocci da terra, pulirò i segni che alcuni
oggetti colorati hanno tracciato muro, raddrizzerò i quadri
appesi. L’unico elemento che testimonierà
l’esistenza di quest’ora sarà la
mancanza di alcuni ornamenti dalle mensole, il vuoto che
riempirà gli spazi lasciati tra una suppellettile e
l’altra. Ma nessuno noterà niente,
perché riorganizzerò gli scaffali, nascondendo
l’evidenza.
Do uno sguardo agli oggetti rimasti, e noto che almeno sono riuscita a
risparmiare quelli che mi piacevano di più.
Una nebbia di stanchezza cala sui miei pensieri, il mio corpo si
rilassa completamente, gli occhi si chiudono, il respiro si calma, il
battito si fa più lento ma più deciso, scandito.
Come a chiudere il cerchio, l’aspetto più dolce
della musica di Within Temptation e Evanescence si libra
nell’aria, cullandomi nel sonno.
Angoletto!
Eccoci qua gente! Ho
un giorno di ritardo, scusate... mi sono completamente scordata che
fosse lunedì!
Comunque. Questo
capitolo è vecchio. A confessare tutto, mi sembra risalire a
una vita fa. A un'altra persona, quasi. Karen cambia, all'interno di
questa storia. Cambia lei, come tutti gli altri personaggi, d'altra
parte.
Il prossimo capitolo
e quello dopo ancora li troverete in "Of
Dream and Desire.". Spero di sentirvi presto!
Un bacio
;*
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