When you crash in the clouds - capitolo 14
Arrivati a casa di mia madre, Allison sembrava una bambina al suo primo
giorno di scuola, in parte felice e curiosa della nuova esperienza, in
parte intimorita dalle conoscenze che avrebbe fatto.
“Woah!” fu il suo commento all’ingresso, mentre si guardava intorno e dava un primissimo sguardo.
Les, nel frattempo, si
era avvicinato a noi, prendendoci gentilmente le giacche; uno come lui
era perfetto per mia madre, buono e senza riserve per nessuno, generoso
ed anche simpatico.
“Lui è mio
marito Leslie, Allison” lo presentò mia madre. Con una
stretta di mano amichevole si salutarono ed Allison timidamente sorrise
di rimando, confermando la buona impressione che Leslie faceva a
chiunque venisse introdotto.
“Chiamami
Les” fece lui, che altrettanto di buon grado la accettava
evidentemente in casa; certo quella era a tutti gli effetti casa di mia
madre, e lui le era devoto se possibile in ogni sua cellula, ma ero
sicuro che non nascondesse disappunto o contrarietà nei
confronti della nuovo arrivata.
“Vieni con me,
Allison” la invitò mia madre, per mostrarle il resto della
casa, lasciando così a me e suo marito, l’incombenza di
portare il borsone con i pochi stracci di Allison e le buste piene di
libri al piano di sopra, in quella che era stata la mia stanza. Non ero
geloso che la occupasse lei, anzi, ne ero strafelice. In fondo non
sarei più tornato a vivere da mia madre e quella non la
consideravo più casa mia da un pezzo nonostante, i cimeli ancora
sparsi per la stanza o appesi alle pareti.
Per prima cosa sostituii
la sfilata di accendini da collezione che avevo accumulato negli anni
su una delle mensole, con la collana di libri che le avevo regalato,
più consona all’arredamento di quanto non lo fossero
quelle quattro cianfrusaglie che solo per pigrizia spudorata non erano
ancora finite nella spazzatura.
Les, silenzioso ma
indagatore, stava lì a darmi una mano, liberando il mio vecchio
armadio che negli anni si era straformato in un ripostiglio extra.
“È bella!” sentenziò, di punto in bianco.
“Chi?”
chiesi, fingendo di cadere dalle nuvole “oh … ah
sì! Allison ... sì, è molto bella …”
farfugliai qualcosa a caso, per non destare troppi sospetto. In fondo
era una bella ragazza, chiunque avrebbe potuto confermalo, anche un
cieco, con il solo uso del tatto avrebbe riconosciuto dei bei tratti
come i suoi.
“In quanto a
ragazze hai un buon gusto, non c’è che dire” riprese
“tua madre ha ragione a dire che somigli a tuo padre … ma
non fare come lui, cerca di tenertela stretta”
Les non aveva problemi a
parlare di mio padre: sapeva che era e sarebbe sempre stato una
parte importante della vita di mia madre, il padre dei suoi figli;
forse in minima parte lo temeva, ma la sua lealtà e le sue
attenzioni avrebbero sempre avuto la meglio.
Il nostro rapporto,
invece era più complicato: lo avevo ritenuto sempre una
benedizione per mia madre, ma non avevamo mai legato particolarmente.
Era strano dunque che mi fosse vicino e si permettesse certe confidenze
e conversazioni con me Lo trovavo impacciato, forse perché per
la prima volta parlavamo di qualcosa che non fosse solo il baseball, ed
io lo ero quasi più di lui. Ma non mi infastidiva,
d’altronde gli avevo portato una ragazza in casa, la sua opinione
era il minimo che gli si potesse concedere.
“Oh! Ci puoi
giurare” risposi di getto, senza pensare a chi avessi di fronte.
Mai rispondere prima di aver contato fino a dieci, mi ripeteva la
maestra a scuola da piccolo. Cazzo sì se aveva ragione!!!
“Ehi!”
protestai, non appena mi resi conto dell’errore madornale e della
colossale figura di cioccolata “non è la mia ragazza
… è solo un’amica”.
“L’importante è crederci” commentò lui, sornione.
Avrei voluto
controbattere, spiegare che non c’era nulla oltre la splendida e
limpida amicizia che stavamo portando avanti, perché qualcuno
tra di noi non vedeva nulla che potesse andare oltre, ma evidentemente
era chiaro come il solo quello che provavo per Allison e anche se mia
madre aveva fatto finta di niente, difficilmente non era giunta
anche lei alla conclusione più ovvia, almeno per quanto
riguardava il mio fronte, ormai spacciato. Mi arresi a quel dato di
fatto e misi di nuovo la testa dentro l’armadio e gli scatoloni
per ultimare il riordino della stanza.
“… e questa
è la tua stanza” sentii la voce di mia madre annunciare,
avvicinandosi, e i passi di più di una persona pestavano il
parquet e si perdevano laddove vi erano dei tappeti.
Alzando la testa mi
accorsi di essere rimasto da solo con Allison, con mia madre che
chiudeva la porta alle sue spalle, furtivamente sorpresa a ridere sotto
i baffi, come di chi la sapeva lunga e Les che, senza che me ne
accorgessi, doveva averla seguita in corridoio, prima che potessi
fulminarlo con lo sguardo per l’alto tradimento.
Ok, era stupido essere
imbarazzati, ma anche Allison mostrò di essere nelle mie stesse
condizioni. Se ne stava sull’uscio della porta, quasi avesse
paura che qualcosa potesse attaccarla in qualsiasi momento, immobile e
timorosa, ma i suoi occhi non riuscivano a nascondere un’euforia
generale per quella giornata estremamente fortunata e generosa che, con
quella nevicata notturna, aveva letteralmente fatto cadere manna dal
cielo.
Mi alzai e la raggiunsi,
visto che non dava segni di movimento, e allargando le braccia le
mostrai, come un fiero cicerone, quella che era ormai, a tutti gli
effetti, la sua stanza.
“Benvenuta!”
esclamai, sorridendo. Lei, tuttavia, sembrò non curarsi troppo
di me, impegnata a guardarsi ancora intorno e a scrutare ogni
dettaglio, quasi certamente ancora incredula che in poche ore il
destino le avesse donato più di quanto potesse sperare e
chiedere. Aveva un’espressione divertita, qua e là
sostituita da occhiate più scettiche, mentre si fermava su
alcuni dettagli della stanza, ma non dimostrandosi mai scortese o
scontenta.
“So che non
è esattamente la stanza che una ragazza può desiderare
…” spiegai, vergognandomi neanche poi tanto velatamente
delle mie passioni adolescenziali. Tra collezioni varie, gadget del
baseball e cimeli musicali, sembrava piuttosto un bazar mediorientale
che una stanza da letto.
“ … ma se
vuoi puoi darle il tuo tocco personale e più femminile, non mi
arrabbio” le dissi, sogghignando ma sinceramente.
“sì, me
l’ha detto anche Diane” rispose “ma non credo che lo
farò”. Tenne a precisare che avrebbe levato qualche
vecchio poster di giocatori di baseball o vecchie locandine di film di
fantascienza più vecchi di noi, ma che le piaceva così e
non l’avrebbe cambiata di una virgola.
“Davvero?!”
domandai, incredulo. Non aveva peli sulla lingua generalmente, ma in
questo caso non mi avrebbe stupito vederla mentire pur di non ferirmi
ed abusare della generosità dei suoi ospiti.
“Davvero!”
confermò, con un entusiasmo che non lasciava adito a dubbi
“mi piacciono le pareti in legno scuro ed i colori caldi delle
tende e delle lenzuola, l’atmosfera soft e tutte questi strumenti
musicali … sembra di stare in un Hard Rock Café.
Sì, mi piace!”
Sembrava sincera, e la
sua energia positiva era contagiosa. Poi si accomodò sul lettone
grande e morbido che troneggiava nella stanza, poggiando i piedi sulla
cassapanca ai piedi del letto, con tutte le scarpe, poggiando la
schiena su una delle colonnine che componevano il letto. Rividi me
stesso, accovacciato lì, nella stessa posizione, solo qualche
anno prima, mentre mio fratello, seduto per terra, mi insegnava a
suonare la chitarra. Alla fine però, si finiva sempre con
l’ascoltare i suoi assoli meravigliosi. Ci sapeva fare con la
chitarra …
“La mia stanza ad
Indianapolis era un tantino diversa” spiegò Allison,
riscotendomi dai miei soliti sogni ad occhi aperti “tutta pizzi e
crinoline, hai presente?! E c’era tanto rosa”. Sembrava una
confessione divertita e leggermente imbarazzata, certamente era
difficile immaginarsela in una camera da principessa delle favole, ma
come al solito quando si trattava di rispolverare qualcosa dal passato,
era diventata inquieta. Ero abituato ormai a vederla ridursi in quello
stato, non mi davo più tanta pena come all’inizio, sapevo
bene che le sarebbe passata in fretta e riuscivo anche a rimanere
impassibile per non farla rattristare maggiormente. Andai a sedermi
sulla cassapanca, lasciando che dal mio sguardo trasparissero pazienza
e fiducia, ciò di cui aveva bisogno per aprirsi con me e stare
bene. Io non avevo avuto la sua stessa fortuna quando si trattò
di Michael, nessuno che fosse disponibile a starmi a sentire e volevo
che lei avesse quel genere di possibilità.
“L’aveva
arredata mia madre prima che nascessi” chiarì “ad
Emilie piaceva tanto … la sua invece sembrava il bosco delle
fate”
Forse non avrei dovuto, sentivo che qualcosa non quadrava, eppure non riuscii a trattenermi: “Chi è Emilie?”
“Mia sorella” rispose lei, telegrafica, risparmiando fiato, parole ed emozioni.
“Non mi avevo mai
detto di avere una sorella” incalzai, senza rendermi conto che
probabilmente ero stato il re degli indelicati.
“Infatti non ce l’ho ... è morta più o meno tre anni fa”
Rimasi freddato come se
un proiettile mi avesse trapassato contemporaneamente il cuore,
fermandomi i battiti, i polmoni, strozzandomi il respiro, e il
cervello, arrestandomi ogni pensiero. Incapace di reagire ad una
notizia tanto grave, incapace di assorbirla e somatizzarla, incapace di
essere in quella stessa stanza con lei e dirle almeno una parola
gentile che non suonasse stupida e banale.
Ricordai allora di quella
sera, quando le rivelai della fine di Michael, e delle sue
parole: “so come ci si sente …”. Sì, lo
sapeva, e per uno strano gioco, il destino aveva riservato ad entrambi
un dolore tanto simile e tanto terribile. Lei in quel momento, al mio
contrario, sembrava essere un vulcano di parole, come se la prima tra
le rivelazioni avesse innescato una reazione a catena nei suoi cassetti
della memoria.
“Aveva solo otto
anni … era una bambina bellissima” non c’erano
lacrime nei suoi occhi, né voce rotta dalla commozione, eppure
tutte le corde del suo corpo, raggomitolato in una strana ed innaturale
posizione, parlavano di un dolore che non si era estinto con gli anni,
un lutto con cui conviveva da tre anni, insito in ogni sua fibra; le
lacrime erano finite, ma il dolore restava intatto. Se la prima raffica
di proiettili non fosse bastata a farmi fuori, era arrivata
allora anche una sciabola a conficcarsi nel mio petto, per farmi
collassare una volta per tutte. Pensai a Caroline: oggi avrebbero avuto
la stessa età ed un giorno si sarebbero magari incontrate al
college … chiusi gli occhi, raggelato da immagini atroci.
“Come … come …?” balbettai, cercando di esserle d’aiuto, per quanto si potesse.
“Un incidente
d’auto, una sera d’estate. C’era mio padre con lei. E
c’ero anch’io. Ma non ricordo nulla, so solo quello che mi
è stato detto e che me la sono cavata con una gamba rotta”
“E tuo
padre?” domandai. “Coma. A dire il vero non ho la
più pallida idea di come sia andata a finire con lui. Voglio
dire … non so se si è mai risvegliato”
“Come sarebbe a dire che non lo sai?”
“Sono scappata di
casa dopo poco tempo, quando l’aria è incominciata a
diventare irrespirabile tra me e mia madre …”
Non sapevo cosa fare;
l’entità del suo racconto era talmente grave e potente da
nn lasciare scampo. Avrei voluto interromperla ma sembrava non
potersi fermare, anche se le mie orecchie imploravano pietà da
parte del mio cuore, che non avrebbe retto un simile racconto.
Straziante da ascoltare … impossibile da vivere. Era tanto forte
la mia Allison, tanto forte da sopravvivere a tanto dolore senza
sopravvivere.
Mi chiesi se avevo il
diritto di sapere, se dietro la mia incapacità di bloccarla non
ci fosse solo curiosità morbosa celata da un sostegno falso ed
ipocrita. Non riuscivo a staccarmi da quel racconto, come catapultato
indietro in tempi e luoghi sconosciuti, a condividere quel fardello
insieme a lei. Però mi riscossi; alla fine il mio rispetto per
lei ed il suo privato seppe prevalere sull’idiozia del curioso e
pose freno al suo racconto, poggiando delicatamente l’indice
sulle sue labbra, rosse e carnose, leggermente dischiuse per quel suo
vizio adorabile di respirare con la bocca, che le lasciava stampata sul
volto quell’espressione di perpetuo stupore che adoravo.
“Shh
…” sussurrai, avvicinandomi più di quanto la mia
mente avesse intenzione di fare “non sei obbligata a dirmi
tutto”
“Ma io
voglio” si impose, scansando la mia mano. “Sei sempre stato
gentile con me Tyler” continuò, carezzandomi la guancia
“ma è ora che non nasconda più nemmeno a me stessa
quella parte della mia vita. E poi è giusto che tu sappia: se
prendi me, prendi tutto il pacchetto”
Adoravo l’idea che,
con quella frase innocente, aveva evocato, pur sapendo che per lei il
significato era ben diverso da quello che io gli attribuivo. In
più, compresi, che era per pura codardia che stavo negando ad
Allison il diritto di parlami di sé, dopo settimane passate a
sperare che si aprisse. Ma il vaso di Pandora, notoriamente, non
conteneva solamente i mali del mondo: la speranza restava, per coloro
che vi avrebbero creduto.
Fu così che mi affidai a lei e a ciò che aveva da dirmi.
Si stese sul letto, ed io
feci altrettanto, guardandola mentre fissava un punto indefinito del
soffitto a braccia conserte, le mani strette lungo le braccia.
Forse cercava di
proteggersi dai ricordi troppo amari e dolorosi o forse tentava di
trovare parole migliori per descriverli. Poi posò il suo sguardo
perso nel vuoto su di me, cercando qualcosa che non sapevo cosa fosse:
conforto, consenso, coraggio; in ogni caso, non c’era nulla che
lei avrei negato, ma nulla avevo da offrirle.
Mi sentivo come un
involucro svuotato di tutto: ciò che nella mia vita mi aveva
spezzato ed abbattuto sembrava piuma in confronto al piombo che
risaliva dal suo cuore e traspariva dai suoi occhi.
Restammo a fissarci per
un po’, senza parlare, a contare i battiti lenti dei nostri cuori
ed i respiri modulati a forza con l’unico scopo di
tranquillizzarci reciprocamente. Finché non risolsi per entrambi
di sciogliere quel silenzio: “Mi avevi detto … mi avevi
detto che non te n’eri andata per colpa dei tuoi genitori
…”
“No, infatti”
rispose lei, dopo un lieve respiro “ma quella non era mia madre.
Di lei era rimasto solo l’involucro esteriore. Il resto era solo
fango e rancore”
Vidi una lacrima scendere
alla fine verso l’esterno dell’orbita e scivolare delicata
giù, fino a rimanere intrappolata tra i capelli.
Conoscevo
quell’amarezza, conoscevo bene il gelo dell’animo di fronte
a qualcuno che si pensava di conoscere. Non mi ci volle molto a
riportare a galla le immagini sfocate ed in parte rimosse di mio
padre che se ne stava chiuso nel suo ufficio, su per quell’alta
torre di Manhattan, invece di occuparsi di mia madre e mia sorella, che
come lui avevano perso una persona più che cara, e di me, che
quella stessa persona l’avevo vista penzolare nel suo
appartamento. Lo avevo odiato per la sua distanza ed avevo risposto
alla sua indifferenza con la stessa medaglia. Non la biasimavo dunque
per la scelta che aveva fatto. Volevo solo capire il perché. E
la risposta non tardò ad arrivare.
Allison si alzò
dal letto e si portò davanti alla finestra bianca e squadrata,
dove la differenza di temperatura tra i caldo degli interni ed il
freddo dell’esterno aveva appannato il verro e qualche fiocco di
neve si era incollato alla base della finestra, mentre le folate di
vento li spostava dagli alberi della strada.
“la nostra era la
vita di una normalissima famiglia americana. Io andavo al liceo, avevo
ottimi voti e sognavo di diventare una cheerleader” iniziò
il suo racconto più dettagliato, intervallandolo con occhiate
fugaci verso delle mani nervose ed irrefrenabili, che contorcevano un
fazzoletto di stoffa preso chissà dove.
“Quell’estate
entrai nelle grazie del quarterback della squadra di football della
scuola … era un senior, io solo una junior del secondo anno,
puoi solo immaginare il mio entusiasmo. Mi sembrava di entrare in un
altro mondo: frequentavo la gente giusta” disse mimando delle
virgolette alla parola giusta
“andavamo alle feste dei grandi e tutte le ragazze del mio anno
erano verdi d’invidia. Ormai ero di diritto nella squadra delle
cheerleader, stando sempre con loro avrei passato l’audizione
anche se fosse stata un disastro.”
Mi raccontò che la
madre non vedevano assolutamente di buon occhio quella nuova compagnia:
diceva che l’avrebbe portata sulla cattiva strada e tutte quelle
storie che una madre accampa quando si rende conto che i figli stanno
crescendo e si sente impotente di fronte ad un simile dato di fatto; lo
aveva fatto una donna all’avanguardia come mia madre, figurarsi
la madre di Allison, a quanto pare una donna benpensante e reazionaria,
restia ad ogni cambiamento, tutta casa durante la settimana e chiesa
alla domenica.
“Ma una sera
d’agosto questo ragazzo con cui uscivo, Steve, organizza una
festa a casa sua ed io per andare accampo una scusa ai miei e la mia
migliore amica di allora, Abigail, avrebbe dovuto reggermi il
gioco” proseguì “Non che stessi facendo nulla di
male … c’era qualche spinello e gli alcolici ovviamente,
ma io non bevevo ne fumavo all’epoca. Ma i miei non approvavano
ed io ci tenevo troppo ad esserci”
Ricordo benissimo quel
periodo della mia vita, nonostante le frequenti sbornie di nascosto dai
miei o le prime sigarette clandestine; magari nemmeno si piacevano
davvero, lei e quel tizio, ma quando si è adolescenti certe cose
si fanno perché le fanno tutti e non vuoi essere da meno o per
dimostrare agli altri di essere grande e forte. Ma a
quell’età nessuno pensa ad andare piano, che la vita poi
riprende tutto con gli interessi, finché poi non viene davvero a
riscuotere il suo debito nella maniera più terribile.
Allison parlava di
sé come se da allora fossero passati decenni, come se non fosse
ancora una ragazza, nemmeno maggiorenne, ma una donna fatta e finita
che racconta, ora con distacco, ora con maggio trasporto, le disgrazie
della sua gioventù. Sembrava la sceneggiatura di un film
indipendente a basso budget e con attori dilettanti, un documentario
sulle famiglie del ceto medio e dei loro figli viziati e ribelli, che
lascia presagire un finale nient’affatto rosa.
“Però la
copertura saltò, anche se non so bene come”
proseguì, dimostrando le lacune che un trauma come quello aveva
lasciato nella sua memoria “così mio padre venne a
prendermi, ma non so perché mia sorella fosse con lui …
non me lo ricordo. Ricordo che litigammo in macchina, sulla strada per
casa … e poi dei fari abbaglianti che ci venivano incontro e un
clacson che non la smetteva di suonare. Da lì in poi il vuoto
più totale … il primo ricordo che ho è di me in un
letto d’ospedale con la gamba ingessata e nessuno al mio fianco a
spiegarmi che stava succedendo. Furono i medici ad informarmi di mio
padre e mia sorella”
Probabilmente era ancora
amareggiata per l’indifferenza dimostrata nei suoi confronti,
anche se sembrava non dargli più peso e non dimostrava
più segni di insofferenza verso quei ricordi, come quando
convivi con rumori o fastidi quotidianamente e finisci per non farci
più cosa. Forse il racconto era servito ad esorcizzare il dolore
e la malinconia.
“Dopo il funerale
di Emilie mia madre iniziò a fare la spola tra ospedale e
cimitero, come se a casa non ci fosse nessuno per cui valesse la pena
di tornare. E quando provai a reclamare la sua attenzione e ricordarle
che c’ero anch’io quella notte iniziò ad accusarmi
di essere l’unica responsabile della morte di mia sorella e di
tutto il resto, che ero diventata una puttana … beh lei
non usò quel termine, da puritana qual era preferì
usare il termine meretrice … e non ero più la figlia che
lei aveva tirato su.”
Quelle ultime frasi
però sembrarono affliggerla più del resto, come se
l’onta per una tale offesa avesse intagliato una ferita mai
più rimarginata.
“Beh” riprese
“a parlare così, neanche lei aveva più tutta
l’aria di essere la madre che mi aveva amata fino a poco tempo
prima”
Era innegabile che
sembravamo essere attratti l’un l’altro per la mole quasi
speculare di eventi avversi e persone sbagliate che ci trascinavamo
dietro come palle di piombo, che avevano forgiato i nostri caratteri
fino a renderci le pecore nere, anziché i capri espiatori dei
complessi e delle frustrazioni altrui.
“Immagino ti sia
difesa dalle sue accuse e abbia sostenuto le tue ragioni
…” commentai, per la prima volta, da quando aveva iniziato
il suo lungo monologo.
“Ed invece
no” disse, disattendendo le mie aspettative “semplicemente
perché aveva ragione … so che è strano, ma
più lei mi additava come una prostituita, più io mi
conformavo al suo capo d’accusa. È così che sono
diventata quella che sono: il primo fu Steve, poi il resto della
squadra di football, finché tutta la scuola poté
esprimere giudizi sulle mie abilità”
Era ancor peggio dello
squallido documentario che si era profilato nella mia mente, era una
storia triste, ai limiti tra un romanzo contemporaneo e la vita vera,
in cui il confine tra realtà e fantasia è praticamente
invisibile.
Nel mio intimo il terrore
che quella fosse la realtà più cruda mi faceva sperare in
una bugia per intenerirmi, in un racconto ben congeniato e arricchito
di elementi ultra drammatici. Ma non la davo a bere a nessuno: sapevo
che era solo la pura verità e dovevo affrontarla da uomo.
Così … o l’avrei persa.
“Perché?”
domandai. Conoscevo e apprezzavo così tanto la parte giocosa e
spensierata di Allison da non comprendere come fosse stato possibile
che la parte oscura di lei potesse essere nata ed avere avuto il
sopravvento.
“Mi sentivo voluta,
cercata, apprezzata, all’inizio. Ma poi tutto si reggeva sui
guadagni estremamente facili. Le prime volte furono delle ricariche per
il telefonino, poi dei buoni per fare shopping in qualche negozio
firmato. Infine arrivarono le banconote, ma tutto accadde molto
velocemente, nel giro di un mese o due ero entrata in un circolo
vizioso. Potevo averne quanti volevo, senza fare nulla di male …
almeno così la vedevo allora … e mi sarei liberata di mia
madre. Era quello che volevo di più. La sua presenza …
anche solo la sua voce … era diventata insopportabile.
Così, messo da parte un piccolo gruzzoletto, lasciai casa e me
ne andai da New Orleans. Speravo di poter diventare una ballerina, ma i
soldi non bastavano mai e così mi ridussi ad essere una cubista
con … mansioni speciali.”
Mi ero sempre chiesto che
le storie ed i casi umani degli show televisivi fossero un chiaro
esempio della tv spazzatura o se fossero reali; dunque non erano solo
finzione creata per alzare lo share, accadevano davvero. Il problema
è che spesso ci si dimentica di guardare davvero e con
attenzione cosa c’è dietro, oltre la facciata. In giro ci
sarebbero molte più anime redente e meno farisei pronti a
scagliare pietre.
“Poi il locale di
New Orleans venne chiuso dalla polizia ma il pappone del Don Hill mi
comprò quasi letteralmente dal vecchio boss prima che finissi
nei guai con la polizia e mi fece venire a New York un annetto fa. E da
allora non è successo niente, almeno fino a quando un certo
Aidan Hall non mi chiese di intrattenere il suo amico solitario, tale
Tyler Hawkins, una sera di novembre”.
Sorridemmo entrambi, ma
fu quasi un sussurro leggero e timido che, per quanto quella sera fu
strana e anche difficile da gestire, testimoniava l’inizio di
qualcosa di piacevole, che fosse una semplice amicizia o qualcosa di
più.
Fece una pausa in cui si
voltò e torno vicino al letto, dove io ero rimasto e me ne stavo
seduto in religioso e rispettoso silenzio. Mi tese le mani ed io
intrecciai le mie alle sue. Modellai i miei movimenti ai suoi,
trovandomi in questo modo di fronte a lei, in piedi. Non sapevo come
comportarmi, anche guardarla mi sembrava irrispettoso; parlare, poi,
sarebbe stata la più stupida delle cose che, conoscendomi, avrei
potuto fare, rovinando tutto, come sempre.
Lasciai che fosse lei a fare ogni singola, minima mossa; avrei risposto se interrogato, mi sarei mosso, se me lo avesse chiesto.
Mi prese il volto tra le
mani, con un’intraprendenza dolce e naturale che non le
riconoscevo e non alla maniera marcata e sgarbata di Mallory e dei suoi
mille altri alter ego delle sere passate e depositò un bacio
sulla mia guancia.
A che pro commentare la
scossa ed il calore che invasero il mio corpo, già irrigidito da
un simile contatto, del tutto inaspettato. Diceva che tra noi era tutto
lecito, ma i sentimenti andavano lasciati fuori: le avevo promesso che
me lo sarei fatto bastare pur di averla al mio fianco, ma sentivo che
questo compromesso mi avrebbe procurato un biglietto di sola andata per
il manicomio. Uno spreco di tempo soffermarsi e parlare di quelle
labbra carnose, calde e leggermente bagnate che più che sulla
guancia, si erano posate impertinenti ma delicate all’angolo
della bocca, come se la sofferenza non fosse già al limite.
“Inutile mentire” disse puntandomi con i suoi grandi occhi da cerbiatta “mi hai cambiato la vita”.
Se era sua intenzione
eliminarmi c’era riuscita in pieno. Era pienamente consapevole
che per me quella era una nota dolente ed entrambi avevamo imparato
quanto diversi fossero i significati che avremmo attribuito a delle
simili parole; ma masochisticamente mi sforzai di adeguarmi al suo e
scoprii che non era poi così male. Si stava bene anche in quel
pianeta piccolo e semplice, libero da briglie ed obblighi.
L’abbracciai
forte, avvolgendo le mie braccia alla sua vita e soffocai le lacrime
nascevano nell’incavo del suo collo.
NOTE FINALI
Lo so, è passato
tantissimo tempo dall'ultima volta che ho scritto. E me ne dispiace da
morire. Spero proprio di farmi perdonare con questo capitolo. Non vi
dico molto perché credo parli da se.
Chiedo scusa se non ho risposto a tutte le recensioni dello scorso
capitolo ma non ho avuto tempo, ma vi assicuro che le ho lette tutte e
prometto di essere più presente d'ora in avanti.
à bientot
Federica
|