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Autore: crazyfred    19/07/2011    16 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 14
When you crash in the clouds





















Capitolo 14
Allison





Arrivati a casa di mia madre, Allison sembrava una bambina al suo primo giorno di scuola, in parte felice e curiosa della nuova esperienza, in parte intimorita dalle conoscenze che avrebbe fatto.

“Woah!” fu il suo commento all’ingresso, mentre si guardava intorno e dava un primissimo sguardo.
Les, nel frattempo, si era avvicinato a noi, prendendoci gentilmente le giacche; uno come lui era perfetto per mia madre, buono e senza riserve per nessuno, generoso ed anche simpatico.
“Lui è mio marito Leslie, Allison” lo presentò mia madre. Con una stretta di mano amichevole si salutarono ed Allison timidamente sorrise di rimando, confermando la buona impressione che Leslie faceva a chiunque venisse introdotto.
“Chiamami Les” fece lui, che altrettanto di buon grado la accettava evidentemente in casa; certo quella era a tutti gli effetti casa di mia madre, e lui le era devoto se possibile in ogni sua cellula, ma ero sicuro che non nascondesse disappunto o contrarietà nei confronti della nuovo arrivata.
“Vieni con me, Allison” la invitò mia madre, per mostrarle il resto della casa, lasciando così a me e suo marito, l’incombenza di portare il borsone con i pochi stracci di Allison e le buste piene di libri al piano di sopra, in quella che era stata la mia stanza. Non ero geloso che la occupasse lei, anzi, ne ero strafelice. In fondo non sarei più tornato a vivere da mia madre e quella non la consideravo più casa mia da un pezzo nonostante, i cimeli ancora sparsi per la stanza o appesi alle pareti.
Per prima cosa sostituii la sfilata di accendini da collezione che avevo accumulato negli anni su una delle mensole, con la collana di libri che le avevo regalato, più consona all’arredamento di quanto non lo fossero quelle quattro cianfrusaglie che solo per pigrizia spudorata non erano ancora finite nella spazzatura.
Les, silenzioso ma indagatore, stava lì a darmi una mano, liberando il mio vecchio armadio che negli anni si era straformato in un ripostiglio extra.
“È bella!” sentenziò, di punto in bianco.
“Chi?” chiesi, fingendo di cadere dalle nuvole “oh … ah sì! Allison ... sì, è molto bella …” farfugliai qualcosa a caso, per non destare troppi sospetto. In fondo era una bella ragazza, chiunque avrebbe potuto confermalo, anche un cieco, con il solo uso del tatto avrebbe riconosciuto dei bei tratti come i suoi.
“In quanto a ragazze hai un buon gusto, non c’è che dire” riprese “tua madre ha ragione a dire che somigli a tuo padre … ma non fare come lui,  cerca di tenertela stretta”
Les non aveva problemi a parlare di mio padre: sapeva che era e sarebbe sempre  stato una parte importante della vita di mia madre, il padre dei suoi figli; forse in minima parte lo temeva, ma la sua lealtà e le sue attenzioni avrebbero sempre avuto la meglio.
Il nostro rapporto, invece era più complicato: lo avevo ritenuto sempre una benedizione per mia madre, ma non avevamo mai legato particolarmente. Era strano dunque che mi fosse vicino e si permettesse certe confidenze e conversazioni con me Lo trovavo impacciato, forse perché per la prima volta parlavamo di qualcosa che non fosse solo il baseball, ed io lo ero quasi più di lui. Ma non mi infastidiva, d’altronde gli avevo portato una ragazza in casa, la sua opinione era il minimo che gli si potesse concedere.
“Oh! Ci puoi giurare” risposi di getto, senza pensare a chi avessi di fronte. Mai rispondere prima di aver contato fino a dieci, mi ripeteva la maestra a scuola da piccolo. Cazzo sì se aveva ragione!!!
“Ehi!” protestai, non appena mi resi conto dell’errore madornale e della colossale figura di cioccolata “non è la mia ragazza … è solo un’amica”.
“L’importante è crederci” commentò lui, sornione.
Avrei voluto controbattere, spiegare che non c’era nulla oltre la splendida e limpida amicizia che stavamo portando avanti, perché qualcuno tra di noi non vedeva nulla che potesse andare oltre, ma evidentemente era chiaro come il solo quello che provavo per Allison e anche se mia madre aveva fatto finta di niente, difficilmente  non era giunta anche lei alla conclusione più ovvia, almeno per quanto riguardava il mio fronte, ormai spacciato. Mi arresi a quel dato di fatto e misi di nuovo la testa dentro l’armadio e gli scatoloni per ultimare il riordino della stanza.
“… e questa è la tua stanza” sentii la voce di mia madre annunciare, avvicinandosi, e i passi di più di una persona pestavano il parquet e si perdevano laddove vi erano dei tappeti.
Alzando la testa mi accorsi di essere rimasto da solo con Allison, con mia madre che chiudeva la porta alle sue spalle, furtivamente sorpresa a ridere sotto i baffi, come di chi la sapeva lunga e Les che, senza che me ne accorgessi, doveva averla seguita in corridoio, prima che potessi fulminarlo con lo sguardo per l’alto tradimento.
Ok, era stupido essere imbarazzati, ma anche Allison mostrò di essere nelle mie stesse condizioni. Se ne stava sull’uscio della porta, quasi avesse paura che qualcosa potesse attaccarla in qualsiasi momento, immobile e timorosa, ma i suoi occhi non riuscivano a nascondere un’euforia generale per quella giornata estremamente fortunata e generosa che, con quella nevicata notturna, aveva letteralmente fatto cadere manna dal cielo.
Mi alzai e la raggiunsi, visto che non dava segni di movimento, e allargando le braccia le mostrai, come un fiero cicerone, quella che era ormai, a tutti gli effetti, la sua stanza.
“Benvenuta!” esclamai, sorridendo. Lei, tuttavia, sembrò non curarsi troppo di me, impegnata a guardarsi ancora intorno e a scrutare ogni dettaglio, quasi certamente ancora incredula che in poche ore il destino le avesse donato più di quanto potesse sperare e chiedere. Aveva un’espressione divertita, qua e là sostituita da occhiate più scettiche, mentre si fermava su alcuni dettagli della stanza, ma non dimostrandosi mai scortese o scontenta.
“So che non è esattamente la stanza che una ragazza può desiderare …” spiegai, vergognandomi neanche poi tanto velatamente delle mie passioni adolescenziali. Tra collezioni varie, gadget del baseball e cimeli musicali, sembrava piuttosto un bazar mediorientale che una stanza da letto.
“ … ma se vuoi puoi darle il tuo tocco personale e più femminile, non mi arrabbio” le dissi, sogghignando ma sinceramente.
“sì, me l’ha detto anche Diane” rispose “ma non credo che lo farò”. Tenne a precisare che avrebbe levato qualche vecchio poster di giocatori di baseball o vecchie locandine di film di fantascienza più vecchi di noi, ma che le piaceva così e non l’avrebbe cambiata di una virgola.
“Davvero?!” domandai, incredulo. Non aveva peli sulla lingua generalmente, ma in questo caso non mi avrebbe stupito vederla mentire pur di non ferirmi ed abusare della generosità dei suoi ospiti.
“Davvero!” confermò, con  un entusiasmo che non lasciava adito a dubbi “mi piacciono le pareti in legno scuro ed i colori caldi delle tende e delle lenzuola, l’atmosfera soft e tutte questi strumenti musicali … sembra di stare in un Hard Rock Café. Sì, mi piace!”
Sembrava sincera, e la sua energia positiva era contagiosa. Poi si accomodò sul lettone grande e morbido che troneggiava nella stanza, poggiando i piedi sulla cassapanca ai piedi del letto, con tutte le scarpe, poggiando la schiena su una delle colonnine che componevano il letto. Rividi me stesso, accovacciato lì, nella stessa posizione, solo qualche anno prima, mentre mio fratello, seduto per terra, mi insegnava a suonare la chitarra. Alla fine però, si finiva sempre con l’ascoltare i suoi assoli meravigliosi. Ci sapeva fare con la chitarra …
“La mia stanza ad Indianapolis era un tantino diversa” spiegò Allison, riscotendomi dai miei soliti sogni ad occhi aperti “tutta pizzi e crinoline, hai presente?! E c’era tanto rosa”. Sembrava una confessione divertita e leggermente imbarazzata, certamente era difficile immaginarsela in una camera da principessa delle favole, ma come al solito quando si trattava di rispolverare qualcosa dal passato, era diventata inquieta. Ero abituato ormai a vederla ridursi in quello stato, non mi davo più tanta pena come all’inizio, sapevo bene che le sarebbe passata in fretta e riuscivo anche a rimanere impassibile per non farla rattristare maggiormente. Andai a sedermi sulla cassapanca, lasciando che dal mio sguardo trasparissero pazienza e fiducia, ciò di cui aveva bisogno per aprirsi con me e stare bene. Io non avevo avuto la sua stessa fortuna quando si trattò di Michael, nessuno che fosse disponibile a starmi a sentire e volevo che lei avesse quel genere di possibilità.
“L’aveva arredata mia madre prima che nascessi” chiarì “ad Emilie piaceva tanto … la sua invece sembrava il bosco delle fate”
Forse non avrei dovuto, sentivo che qualcosa non quadrava, eppure non riuscii a trattenermi: “Chi è Emilie?”
“Mia sorella” rispose lei, telegrafica, risparmiando fiato, parole ed emozioni.
“Non mi avevo mai detto di avere una sorella” incalzai, senza rendermi conto che probabilmente ero stato il re degli indelicati.
“Infatti non ce l’ho ... è morta più o meno tre anni fa”
Rimasi freddato come se un proiettile mi avesse trapassato contemporaneamente il cuore, fermandomi i battiti, i polmoni, strozzandomi il respiro, e il cervello, arrestandomi ogni pensiero. Incapace di reagire ad una notizia tanto grave, incapace di assorbirla e somatizzarla, incapace di essere in quella stessa stanza con lei e dirle almeno una parola gentile che non suonasse stupida e banale.
Ricordai allora di quella sera,  quando le rivelai della fine di Michael, e delle sue parole: “so come ci si sente …”. Sì, lo sapeva, e per uno strano gioco, il destino aveva riservato ad entrambi un dolore tanto simile e tanto terribile. Lei in quel momento, al mio contrario, sembrava essere un vulcano di parole, come se la prima tra le rivelazioni avesse innescato una reazione a catena nei suoi cassetti della memoria.
“Aveva solo otto anni … era una bambina bellissima” non c’erano lacrime nei suoi occhi, né voce rotta dalla commozione, eppure tutte le corde del suo corpo, raggomitolato in una strana ed innaturale posizione, parlavano di un dolore che non si era estinto con gli anni, un lutto con cui conviveva da tre anni, insito in ogni sua fibra; le lacrime erano finite, ma il dolore restava intatto. Se la prima raffica di proiettili non fosse bastata a farmi fuori, era arrivata  allora anche una sciabola a conficcarsi nel mio petto, per farmi collassare una volta per tutte. Pensai a Caroline: oggi avrebbero avuto la stessa età ed un giorno si sarebbero magari incontrate al college … chiusi gli occhi, raggelato da immagini atroci.
“Come … come …?” balbettai, cercando di esserle d’aiuto, per quanto si potesse.
“Un incidente d’auto, una sera d’estate. C’era mio padre con lei. E c’ero anch’io. Ma non ricordo nulla, so solo quello che mi è stato detto e che me la sono cavata con una gamba rotta”
“E tuo padre?” domandai. “Coma. A dire il vero non ho la più pallida idea di come sia andata a finire con lui. Voglio dire … non so se si è mai risvegliato”
“Come sarebbe a dire che non lo sai?”
“Sono scappata di casa dopo poco tempo, quando l’aria è incominciata a diventare irrespirabile tra me e mia madre …”
Non sapevo cosa fare; l’entità del suo racconto era talmente grave e potente da nn  lasciare scampo. Avrei voluto interromperla ma sembrava non potersi fermare, anche se le mie orecchie imploravano pietà da parte del mio cuore, che non avrebbe retto un simile racconto. Straziante da ascoltare … impossibile da vivere. Era tanto forte la mia Allison, tanto forte da sopravvivere a tanto dolore senza sopravvivere.
Mi chiesi se avevo il diritto di sapere, se dietro la mia incapacità di bloccarla non ci fosse solo curiosità morbosa celata da un sostegno falso ed ipocrita. Non riuscivo a staccarmi da quel racconto, come catapultato indietro in tempi e luoghi sconosciuti, a condividere quel fardello insieme a lei. Però mi riscossi; alla fine il mio rispetto per lei ed il suo privato seppe prevalere sull’idiozia del curioso e pose freno al suo racconto, poggiando delicatamente l’indice sulle sue labbra, rosse e carnose, leggermente dischiuse per quel suo vizio adorabile di respirare con la bocca, che le lasciava stampata sul volto quell’espressione di perpetuo stupore che adoravo.
“Shh …” sussurrai, avvicinandomi più di quanto la mia mente avesse intenzione di fare “non sei obbligata a dirmi tutto”
“Ma io voglio” si impose, scansando la mia mano. “Sei sempre stato gentile con me Tyler” continuò, carezzandomi la guancia “ma è ora che non nasconda più nemmeno a me stessa quella parte della mia vita. E poi è giusto che tu sappia: se prendi me, prendi tutto il pacchetto”
Adoravo l’idea che, con quella frase innocente, aveva evocato, pur sapendo che per lei il significato era ben diverso da quello che io gli attribuivo. In più, compresi, che era per pura codardia che stavo negando ad Allison il diritto di parlami di sé, dopo settimane passate a sperare che si aprisse. Ma il vaso di Pandora, notoriamente, non conteneva solamente i mali del mondo: la speranza restava, per coloro che vi avrebbero creduto.
Fu così che mi affidai a lei e a ciò che aveva da dirmi.
Si stese sul letto, ed io feci altrettanto, guardandola mentre fissava un punto indefinito del soffitto a braccia conserte, le mani strette lungo le braccia.
Forse cercava di proteggersi dai ricordi troppo amari e dolorosi o forse tentava di trovare parole migliori per descriverli. Poi posò il suo sguardo perso nel vuoto su di me, cercando qualcosa che non sapevo cosa fosse: conforto, consenso, coraggio; in ogni caso, non c’era nulla che lei avrei negato, ma nulla avevo da offrirle.
Mi sentivo come un involucro svuotato di tutto: ciò che nella mia vita mi aveva spezzato ed abbattuto sembrava piuma in confronto al piombo che risaliva dal suo cuore e traspariva dai suoi occhi.
Restammo a fissarci per un po’, senza parlare, a contare i battiti lenti dei nostri cuori ed i respiri modulati a forza con l’unico scopo di tranquillizzarci reciprocamente. Finché non risolsi per entrambi di sciogliere quel silenzio: “Mi avevi detto … mi avevi detto che non te n’eri andata per colpa dei tuoi genitori …”
“No, infatti” rispose lei, dopo un lieve respiro “ma quella non era mia madre. Di lei era rimasto solo l’involucro esteriore. Il resto era solo fango e rancore”
Vidi una lacrima scendere alla fine verso l’esterno dell’orbita e scivolare delicata giù, fino a rimanere intrappolata tra i capelli.
Conoscevo quell’amarezza, conoscevo bene il gelo dell’animo di fronte a qualcuno che si pensava di conoscere. Non mi ci volle molto a riportare a galla le immagini  sfocate ed in parte rimosse di mio padre che se ne stava chiuso nel suo ufficio, su per quell’alta torre di Manhattan, invece di occuparsi di mia madre e mia sorella, che come lui avevano perso una persona più che cara, e di me, che quella stessa persona l’avevo vista penzolare nel suo appartamento. Lo avevo odiato per la sua distanza ed avevo risposto alla sua indifferenza con la stessa medaglia. Non la biasimavo dunque per la scelta che aveva fatto. Volevo solo capire il perché. E la risposta non tardò ad arrivare.
Allison si alzò dal letto e si portò davanti alla finestra bianca e squadrata, dove la differenza di temperatura tra i caldo degli interni ed il freddo dell’esterno aveva appannato il verro e qualche fiocco di neve si era incollato alla base della finestra, mentre le folate di vento li spostava dagli alberi della strada.
“la nostra era la vita di una normalissima famiglia americana. Io andavo al liceo, avevo ottimi voti e sognavo di diventare una cheerleader” iniziò il suo racconto più dettagliato, intervallandolo con occhiate fugaci verso delle mani nervose ed irrefrenabili, che contorcevano un fazzoletto di stoffa preso chissà dove.
“Quell’estate entrai nelle grazie del quarterback della squadra di football della scuola … era un senior, io solo una junior del secondo anno, puoi solo immaginare il mio entusiasmo. Mi sembrava di entrare in un altro mondo: frequentavo la gente giusta” disse mimando delle virgolette alla parola giusta “andavamo alle feste dei grandi e tutte le ragazze del mio anno erano verdi d’invidia. Ormai ero di diritto nella squadra delle cheerleader, stando sempre con loro avrei passato l’audizione anche se fosse stata un disastro.”
Mi raccontò che la madre non vedevano assolutamente di buon occhio quella nuova compagnia: diceva che l’avrebbe portata sulla cattiva strada e tutte quelle storie che una madre accampa quando si rende conto che i figli stanno crescendo e si sente impotente di fronte ad un simile dato di fatto; lo aveva fatto una donna all’avanguardia come mia madre, figurarsi la madre di Allison, a quanto pare una donna benpensante e reazionaria, restia ad ogni cambiamento, tutta casa durante la settimana e chiesa alla domenica.
“Ma una sera d’agosto questo ragazzo con cui uscivo, Steve, organizza una festa a casa sua ed io per andare accampo una scusa ai miei e la mia migliore amica di allora, Abigail, avrebbe dovuto reggermi il gioco” proseguì “Non che stessi facendo nulla di male … c’era qualche spinello e gli alcolici ovviamente, ma io non bevevo ne fumavo all’epoca. Ma i miei non approvavano ed io ci tenevo troppo ad esserci”
Ricordo benissimo quel periodo della mia vita, nonostante le frequenti sbornie di nascosto dai miei o le prime sigarette clandestine; magari nemmeno si piacevano davvero, lei e quel tizio, ma quando si è adolescenti certe cose si fanno perché le fanno tutti e non vuoi essere da meno o per dimostrare agli altri di essere grande e forte. Ma a quell’età nessuno pensa ad andare piano, che la vita poi riprende tutto con gli interessi, finché poi non viene davvero a riscuotere il suo debito nella maniera più terribile.
Allison parlava di sé come se da allora fossero passati decenni, come se non fosse ancora una ragazza, nemmeno maggiorenne, ma una donna fatta e finita che racconta, ora con distacco, ora con maggio trasporto, le disgrazie della sua gioventù. Sembrava la sceneggiatura di un film indipendente a basso budget e con attori dilettanti, un documentario sulle famiglie del ceto medio e dei loro figli viziati e ribelli, che lascia presagire un finale nient’affatto rosa.
“Però la copertura saltò, anche se non so bene come” proseguì, dimostrando le lacune che un trauma come quello aveva lasciato nella sua memoria “così mio padre venne a prendermi, ma non so perché mia sorella fosse con lui … non me lo ricordo. Ricordo che litigammo in macchina, sulla strada per casa … e poi dei fari abbaglianti che ci venivano incontro e un clacson che non la smetteva di suonare. Da lì in poi il vuoto più totale … il primo ricordo che ho è di me in un letto d’ospedale con la gamba ingessata e nessuno al mio fianco a spiegarmi che stava succedendo. Furono i medici ad informarmi di mio padre e mia sorella”
Probabilmente era ancora amareggiata per l’indifferenza dimostrata nei suoi confronti, anche se sembrava non dargli più peso e non dimostrava più segni di insofferenza verso quei ricordi, come quando convivi con rumori o fastidi quotidianamente e finisci per non farci più cosa. Forse il racconto era servito ad esorcizzare il dolore e la malinconia.
“Dopo il funerale di Emilie mia madre iniziò a fare la spola tra ospedale e cimitero, come se a casa non ci fosse nessuno per cui valesse la pena di tornare. E quando provai a reclamare la sua attenzione e ricordarle che c’ero anch’io quella notte iniziò ad accusarmi di essere l’unica responsabile della morte di mia sorella e di tutto il resto, che ero diventata una puttana … beh lei non  usò quel termine, da puritana qual era preferì usare il termine meretrice … e non ero più la figlia che lei aveva tirato su.”
Quelle ultime frasi però sembrarono affliggerla più del resto, come se l’onta per una tale offesa avesse intagliato una ferita mai più rimarginata.
“Beh” riprese “a parlare così, neanche lei aveva più tutta l’aria di essere la madre che mi aveva amata fino a poco tempo prima”
Era innegabile che sembravamo essere attratti l’un l’altro per la mole quasi speculare di eventi avversi e persone sbagliate che ci trascinavamo dietro come palle di piombo, che avevano forgiato i nostri caratteri fino a renderci le pecore nere, anziché i capri espiatori dei complessi e delle frustrazioni altrui.
“Immagino ti sia difesa dalle sue accuse e abbia sostenuto le tue ragioni …” commentai, per la prima volta, da quando aveva iniziato il suo lungo monologo.
“Ed invece no” disse, disattendendo le mie aspettative “semplicemente perché aveva ragione … so che è strano, ma più lei mi additava come una prostituita, più io mi conformavo al suo capo d’accusa. È così che sono diventata quella che sono: il primo fu Steve, poi il resto della squadra di football, finché tutta la scuola poté esprimere giudizi sulle mie abilità
Era ancor peggio dello squallido documentario che si era profilato nella mia mente, era una storia triste, ai limiti tra un romanzo contemporaneo e la vita vera, in cui il confine tra realtà e fantasia è praticamente invisibile.
Nel mio intimo il terrore che quella fosse la realtà più cruda mi faceva sperare in una bugia per intenerirmi, in un racconto ben congeniato e arricchito di elementi ultra drammatici. Ma non la davo a bere a nessuno: sapevo che era solo la pura verità e dovevo affrontarla da uomo. Così … o l’avrei persa.
“Perché?” domandai. Conoscevo e apprezzavo così tanto la parte giocosa e spensierata di Allison da non comprendere come fosse stato possibile che la parte oscura di lei potesse essere nata ed avere avuto il sopravvento.
“Mi sentivo voluta, cercata, apprezzata, all’inizio. Ma poi tutto si reggeva sui guadagni estremamente facili. Le prime volte furono delle ricariche per il telefonino, poi dei buoni per fare shopping in qualche negozio firmato. Infine arrivarono le banconote, ma tutto accadde molto velocemente, nel giro di un mese o due ero entrata in un circolo vizioso. Potevo averne quanti volevo, senza fare nulla di male … almeno così la vedevo allora … e mi sarei liberata di mia madre. Era quello che volevo di più. La sua presenza … anche solo la sua voce … era diventata insopportabile. Così, messo da parte un piccolo gruzzoletto, lasciai casa e me ne andai da New Orleans. Speravo di poter diventare una ballerina, ma i soldi non bastavano mai e così mi ridussi ad essere una cubista con … mansioni speciali.”                                                                                                                
Mi ero sempre chiesto che le storie ed i casi umani degli show televisivi fossero un chiaro esempio della tv spazzatura o se fossero reali; dunque non erano solo finzione creata per alzare lo share, accadevano davvero. Il problema è che spesso ci si dimentica di guardare davvero e con attenzione cosa c’è dietro, oltre la facciata. In giro ci sarebbero molte più anime redente e meno farisei pronti a scagliare pietre.
“Poi il locale di New Orleans venne chiuso dalla polizia ma il pappone del Don Hill mi comprò quasi letteralmente dal vecchio boss prima che finissi nei guai con la polizia e mi fece venire a New York un annetto fa. E da allora non è successo niente, almeno fino a quando un certo Aidan Hall non mi chiese di intrattenere il suo amico solitario, tale Tyler Hawkins, una sera di novembre”.
Sorridemmo entrambi, ma fu quasi un sussurro leggero e timido che, per quanto quella sera fu strana e anche difficile da gestire, testimoniava l’inizio di qualcosa di piacevole, che fosse una semplice amicizia o qualcosa di più.
Fece una pausa in cui si voltò e torno vicino al letto, dove io ero rimasto e me ne stavo seduto in religioso e rispettoso silenzio. Mi tese le mani ed io intrecciai le mie alle sue. Modellai i miei movimenti ai suoi, trovandomi in questo modo di fronte a lei, in piedi. Non sapevo come comportarmi, anche guardarla mi sembrava irrispettoso; parlare, poi, sarebbe stata la più stupida delle cose che, conoscendomi, avrei potuto fare, rovinando tutto, come sempre.
Lasciai che fosse lei a fare ogni singola, minima mossa; avrei risposto se interrogato, mi sarei mosso, se me lo avesse chiesto.
Mi prese il volto tra le mani, con un’intraprendenza dolce e naturale che non le riconoscevo e non alla maniera marcata e sgarbata di Mallory e dei suoi mille altri alter ego delle sere passate e depositò un bacio sulla mia guancia.
A che pro commentare la scossa ed il calore che invasero il mio corpo, già irrigidito da un simile contatto, del tutto inaspettato. Diceva che tra noi era tutto lecito, ma i sentimenti andavano lasciati fuori: le avevo promesso che me lo sarei fatto bastare pur di averla al mio fianco, ma sentivo che questo compromesso mi avrebbe procurato un biglietto di sola andata per il manicomio. Uno spreco di tempo soffermarsi e parlare di quelle labbra carnose, calde e leggermente bagnate che più che sulla guancia, si erano posate impertinenti ma delicate all’angolo della bocca, come se la sofferenza non fosse già al limite.
“Inutile mentire” disse puntandomi con i suoi grandi occhi da cerbiatta “mi hai cambiato la vita”.
Se era sua intenzione eliminarmi c’era riuscita in pieno. Era pienamente consapevole che per me quella era una nota dolente ed entrambi avevamo imparato quanto diversi fossero i significati che avremmo attribuito a delle simili parole; ma masochisticamente mi sforzai di adeguarmi al suo e scoprii che non era poi così male. Si stava bene anche in quel pianeta piccolo e semplice, libero da briglie ed obblighi.
L’abbracciai forte, avvolgendo le mie braccia alla sua vita e soffocai le lacrime nascevano nell’incavo del suo collo.


















NOTE FINALI

Lo so, è passato tantissimo tempo dall'ultima volta che ho scritto. E me ne dispiace da morire. Spero proprio di farmi perdonare con questo capitolo. Non vi dico molto perché credo parli da se.

Chiedo scusa se non ho risposto a tutte le recensioni dello scorso capitolo ma non ho avuto tempo, ma vi assicuro che le ho lette tutte e prometto di essere più presente d'ora in avanti.

à bientot

Federica

   
 
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