Il costume del
Robivecchi
Seymour -Robivecchi- Parker attraversa la
strada guardando a destra e a sinistra. Una sigaretta appiccicata
all’angolo della bocca, i capelli lunghi color castano scuro,
leggermente mossi, le mani ficcate nelle tasche di quel grosso
giubbotto vecchio come il suo nome. La gente lo osserva per un bel
po’ quando gli capita di dargli un’occhiata, e
senza accorgersene rimane a fissarlo per un pezzo.
D’altronde, è impossibile non farlo; quale
coglione se ne va in giro con un cappotto in piena estate? Solo lui,
ecco. Come cavolo faccia, resta un mistero.
Il giubbotto del Robivecchi è comunque qualcosa di
spettacolare da vedere, inverno o estate che sia. E’ uno di
quei giubbotti spessi, marroni, che arrivano fino alle ginocchia. Ha
dei grossi bottoni neri e anche una di quelle cinture con fibbia che
servono per chiudere i cappotti. Poi ha delle tasche. Tasche ovunque,
tasche dappertutto; tasche interne, esterne, tasche
all’altezza del petto e più in basso
all’altezza delle ginocchia. E sono sempre piene di
cianfrusaglia. E’ per questo che al posto di chiamarlo
Seymour lo chiamano Robivecchi, a lui. Perché se ne va
sempre in giro con un sacco di vecchiume addosso. Il suo nome sembra da
vecchio, i suoi vestiti sono vecchi, tutto quel ciarpame che ha nelle
tasche è vecchio, e pure lui sembra vecchio ad una prima
occhiata. Poi, quando lo guardi bene, ti rendi conto che non
può avere più di ventisette anni o giù
di lì e, giuro, è una cosa da rimanerci secchi.
Ogni volta che è in giro il Robivecchi si guarda attorno. Se
per caso scova qualcosa che gli interessa va lì e se lo
prende. Lui ha una vera passione per la roba strausata, o anche per le
cose inutili. Quella sottospecie di sgabuzzino nel quale vive con la
sua sorellina Penny è pieno del suo ciarpame. Raccoglie le
cose che la gente butta, cose come i carillon rotti, le spille vecchie,
pezzi di stoffa colorata, posaceneri spaccati, vetri
colorati… E tutto il resto, tutto quello che trova che abbia
un sapore di antico, un sapore particolare che a lui piace.
Comunque sia sono le otto di mattina, e quel dannato pazzo è
già in giro a fare il suo mestiere. Attraversa la strada con
la sigaretta appiccicata alla bocca, ma la tiene spenta,
perché dove sta andando non si può fumare.
Le persone vanno in giro con le maniche corte, lui invece ha addosso,
leggermente scivolato giù dalle spalle, quel cappotto con le
tasche gonfie. L’unica cosa che ha in comune con tutti gli
altri sono i grossi occhiali da sole che sfoggia. Anche loro di seconda
mano, certo, sono spessi e semplici, e secondo lui gli danno
un’aria da duro.
Il Robivecchi spinge la porta ed entra nella tavola calda
“The ‘70s”. E’ proprio come
essere riportati negli anni settanta; una versione più
patinata e paradossalmente più merdosa. Siede al bancone e
attende che la cameriera venga a prendere la sua ordinazione.
La donna ha una quarantina d’anni, porta vestiti semplici
sotto il grembiule con il nome del locale stampato in arancione, e
quando lo vede si arresta con una smorfia quasi disgustata in volto.
«Cristo Robivecchi, ancora con quel cappotto di
merda?»
Il ragazzo fa un sorrisino storto e se lo sistema meglio addosso con
un’aria fiera e compiaciuta. «Lo sai, è
per lavoro.»
«Ah», fa la donna con tono sfiduciato. Ha un
cartellino al petto con scritto sopra “Hello, my name
is” e sotto a pennarello nero, grosso, Faizah.
Faizah è di origini afroamericane, ha un figlio piccolo che
va alle elementari e lavora dieci ore al giorno in un caffè.
Fra qualche mese riceverà un piccola promozione e
guadagnerà cinque dollari all’ora in
più, suo figlio prenderà la varicella e lei
dovrà portarlo dal medico. Ma ancora no lo sa, quindi si
mette davanti al Robivecchi con il taccuino in una mano e una biro
nell’altra. «Cosa ti porto?»
Il Robivecchi dà uno sguardo al menù.
«Qual è la torta del giorno?»
«Crostata al cioccolato o plum cake alla vaniglia.»
«Vaniglia, grazie.»
«Caffè?»
«Una tazza grande.»
«Arrivano subito.»
Faizah se ne va, e il Robivecchi rimane fermo seduto al bancone, a
guardarsi attorno. Ruota sulla seggiola alta e si gira per guardare
fuori dalla vetrina. Oltre la scritta colorata “The
70’s” attaccata al contrario, vede il sole forte
che si abbatte contro le persone e le cose, senza pietà.
Pensa di essere strano, perché non soffre il caldo e non
suda quasi mai. Sarà
una di quelle fottute malattie rare, pensa. Comunque non
gli dispiace avere sempre con sé il suo cappotto, lo
protegge dalle cose che non gli piacciono. Ad esempio, a lui non piace
il sole, di conseguenza odia l’estate. Ma avere un cappotto
vecchio e grosso che lo protegge è di sicuro un vantaggio
contro quella palla di fuoco.
Il Robivecchi sente un rumore dietro di sé e vede che Faizah
ha posato sul bancone la sua tazza di caffè fumante.
Gli piace Faizah, anche se è sempre gentile con tutti tranne
che con lui. La prima volta che l’ha incontrata credeva fosse
scorbutica e la considerava una zitella acida. Ma poi, dopo tanti
incontri, ha cominciato a capire e apprezzare il suo scudo di freddo
cinismo che usava con tutte le persone che considerava alla sua altezza.
Faizah fuma tre o quattro spinelli alla settimana, e il Robivecchi
è il suo spacciatore di fiducia. Fumare la rilassa, la rende
una cameriera più disponibile e una mamma più
paziente. Così qualche notte, dopo che il suo bambino
è andato a dormire, lei siede sulla poltrona del suo ex
marito, prende un libro, e fuma. Il fumo spesso della marijuana
è rassicurante.
Il Robivecchi, vedendo che Faizah sta tagliando una grossa fetta di
plum cake alla vaniglia, si fruga velocemente in una delle sue
innumerevoli tasche -lui sa benissimo quale- e ne estrae un pacchettino
di erba che stringe forte nella mano. Da un’altra tasca
prende una manciata di dollari spiegazzati.
Faizah gli posa di fronte la torta del giorno. «Sono tre
dollari.»
Uno. Due. Tre. Conta il Robivecchi. Più un piccolo extra.
Gli porge i soldi e assieme gli mette in mano il panetto di marijuana.
«Sono venti dollari», dice serio.
«Hai aumentato il prezzo, bifolco?», domanda Faizah
facendo finta di avercela con lui.
«Ho aumentato la roba, così non me la devi
chiedere ogni dieci giorni.» Il Robivecchi sorride pallidamente, quasi malinconico, e Faizah
si scioglie un po’.
Va alla cassa, mette via i tre dollari, e tira fuori dalla tasca un
biglietto da venti che lascia noncurante sul bancone. Prima di andare a
fare qualcos’altro dice a voce bassa ma distinta:
«Buona giornata Robivecchi».
Seymour gusta la sua torta alla vaniglia e non si accorge che qualcuno
lo sta guardando dal fondo del locale. Gli occhi di un uomo sulla
trentina, dai capelli corti e spartani, osservano ogni sua mossa. Sta
bevendo un tè caldo assieme ad un muffin al cioccolato e,
poi, vorrebbe delle uova strapazzate con bacon ben cotto. Il suo nome
è Arvey Nomardisky, ed è un agente di polizia. In
quel momento è in vacanza, nonché di pessimo
umore. Il suo cognome è Polacco, perché suo nonno
era un polacco trasferitosi in America grazie ad una di quelle grosse
navi da cargo che ospitavano più di cento clandestini
nascosti qua e là. Suo nonno era quello che di notte
s’infilava nelle cucine e rubava il prosciutto e le uvette, e
fu così che conobbe la nonna di Arvey: era una delle cuoche
della nave.
Arvey ha trentaquattro anni e sua moglie ha minacciato di lasciarlo se
si occupa sempre e solo di lavoro. Ha due bambini, un maschio di sei
anni e una femmina di due. Fra qualche anno rimarrà
particolarmente stupito del fatto che il maschio si voglia dedicare
alla danza classica, e la femmina al calcio. Ma ancora non lo sa,
quindi fissa il Robivecchi senza preoccuparsi dello sport.
Come è già stato detto Arvey è in
vacanza, e non ha con sé né una pistola di servizio
né tantomeno un distintivo, quindi sarebbe azzardato fermare
quell’uomo seduto a qualche metro da lui. E se fosse solo un
coglione in cappotto il 24 di Luglio? Arvey ha visto che ha qualcosa di
strano, e gli pare anche di aver adocchiato un passaggio sospetto di
contanti fra lui e la cameriera. Forse potrebbe aspettare che se ne
vada per interrogare lei. Ma
quella non mi direbbe niente se non le faccio vedere il distintivo,
pensa amaramente. E poi, anche se non lo vuole ammettere, la cameriera
gli sta simpatica, perché gli ha sorriso e gli ha portato il
muffin più grosso che c’era nella teca delle
brioche.
Arvey si riscuote quando vede l’uomo alzarsi e uscire.
Maledizione!
La tentazione di seguirlo è troppo grande. Potrebbe solo
assicurarsi che sia un criminale e poi lasciarlo perdere, tornando dopo
le vacanze nel bar con un distintivo e una pistola di servizio a
chiedere informazioni alla cameriera, e magari a mangiarsi un altro
muffin. Ma non lo farà, non riuscirà a
trattenersi, perché a lui piace il suo lavoro;
così tanto che per lui non è un lavoro. Si
preoccuperà di tenere la cosa nascosta a sua moglie e
così non correrà nessun guaio.
Tira fuori un paio di banconote e nel frattempo guarda l’uomo
che è uscito. E’ fermo al semaforo, sta per
attraversare la strada. Lascia le banconote sul tavolo e corre via,
dicendo a Faizah: «Tenga il resto!».
Arvey esce, corre al semaforo che ormai è scattato sul
verde, e si insinua fra la folla di passanti. Perde il suo uomo. Avanza
di qualche metro schivando ragazze in minigonna e borse. Il sole
è già caldo nonostante siano solo le nove di
mattina. Soffre il caldo in una maniera allucinante, Arvey, non sa
perché ma quando arriva l’estate si fa la doccia
una o due volte al giorno. Saranno
quelle cose che chiamano ormoni o ghiandole sudoripare,
pensa sempre. Ad un tratto si guarda attorno, in cerca del suo uomo, e
si rende conto che, cazzo, è impossibile perderlo.
E’ l’unica persona in quel caldo infernale con
addosso un cappotto. Porta dei pantaloncini corti, una maglietta
leggera e lisa, ma ha su quella maledetta giacca marrone. Arvey pensa
che morirebbe se la dovesse indossare lui.
Il suo uomo scende nella metropolitana con passo svelto e Arvey lo
segue. C’è un sacco di gente in quella
metropolitana, e probabilmente il bastardo l’ha fatto apposta
per non farsi notare mentre smercia coca o qualche fottuta pasticca.
Salgono sulla metro A e Arvey si siede lontano per non farsi notare.
L’uomo ha incontrato un amico. I due si salutano e si danno
pacche sulle spalle, parlano un po’ e poi scendono alla
stessa fermata. Si salutano accanto ad un cestino della spazzatura e
l’uomo prosegue verso l’uscita. Arvey non stacca
gli occhi da lui. Se l’avesse fatto avrebbe potuto vedere che
l’amico sta frugando nel cestino dell’immondizia e
ne trae un sacchetto che si mette subito in tasca. Contiene cinque grammi di
eroina.
Escono fuori e Arvey si rende conto che lo sconosciuto lo ha portato a
Rockaway Beach.
«Hey…», qualcuno grida dietro al
Robivecchi, che s’incammina lungo la spiaggia attirando non
pochi sguardi. «Hey!» Quando capisce che chiamano
lui, si ferma e si volta. Un uomo dal taglio di capelli spartano gli
corre dietro. Lo aspetta. «Hey ciao, mi chiamo
Simon», dice Arvey tendendo una mano.
Accigliato, il Robivecchi la stringe. «Piacere.»
Non dice il suo nome, perché non gli va che lo sappia.
Simon sembra agitato e sorride a scatti nervosi. Cristo!, pensa il
Robivecchi, non
sarà uno di quei finocchi che tentano di rimorchiare in
spiaggia? Non gli va di dover rifiutare le avances di un
uomo.
«Sei di qui?», domanda Simon/Arvey.
«No», risponde secco il Robivecchi. Non vuole
dargli corda, non lo conosce nemmeno. E se fosse un poliziotto in
borghese?
Simon pare deluso. «Be’… ti ho visto
parlare con quei ragazzi, mi chiedevo… mi chiedevo se avevi
un po’ di roba da vendere.»
Il Robivecchi gela. Quel coso lo ha visto mentre faceva affari con un
gruppo di ragazzi qualche ombrellone più in là?
Doveva stare più attento, per la miseria. Riprende un
cipiglio austero. «Roba? Che tipo di roba?»
Simon alza le spalle. «Erba, hashish, o qualcosa di
più forte se ce l’hai.»
Il Robivecchi fa in fretta due calcoli. Non conosce quel tipo, e non
sembra uno che si fa. Lui la riconosce la gente che si fa, ormai, li
vede tutti i giorni. Non resta che negare. «Hey, mi hai preso
per un cazzo di spaccia? Brutto scemo, va a farti fottere!»
Fa finta di arrabbiarsi e gli dà un leggero spintone, ma in
realtà ha paura il Robivecchi.
Arvey sta sulla difensiva. «N-no, non volevo dire quello.
Cioè… pensavo solo…» Tenta
di sembrare sciocco e indifeso, in realtà studia le mosse
del ragazzo. E’ stupito da quanto sembri giovane, da lontano
gli era parso persino più vecchio di lui.
«Non pensare troppo sembra che tu non ne sia
capace», dice in fretta il Robivecchi.
«Ma… ma c’è un
falò stasera in spiaggia, volevo solo sapere se tu
potevi…»
«Sì, come no», sbuffa il ragazzo di
fronte a lui guardando altrove. «Va’ via,
va’. Un giorno ti daranno tanti di quei calci in culo per
parlare alla gente in questo modo. Un
falò…» Il Robivecchi si volta e
ricomincia a camminare.
Il cellulare di Arvey suona, e lui si dice che non è proprio
giornata. «Pronto?»
«Pronto tesoro, sono io.» Eva, sua moglie.
«Sono imbottigliata nel traffico, devi andare a prendere
Daisy dalla signora Teller.»
Arvey sbuffa. Proprio una giornata no. «A che ora?»
«Fra mezz’ora.»
«D’accordo.» Arvey saluta e rimette il
cellulare il tasca. C’è qualcos’altro
nella sua tasca. Arvey tira fuori una vecchia spilla tutta rovinata da
un lato. C’è la foto di tre uomini e una scritta
gialla. “Police”. Chissà come cavolo ci
è finita lì dentro.
Dopotutto, forse si era sbagliato riguardo a quel tipo.
Tolto il cappotto il Robivecchi ridiventa Seymour. Si lascia andare sul
divano e sospira. E’ sera, e quella è stata una
lunga giornata. E’ quasi sicuro di essere incappato in un
poliziotto in borghese. Comunque sia non tornerà
più in quella spiaggia per un po’, per esserne
sicuri. Come cavolo gli era venuto in mente, a quello, di parlare di un
falò?
«Seymour?» Penny, la sorellina di Seymour, dopo una
mezz’ora sbuca dalla camera da letto e si stropiccia gli
occhi. Li ha rossi e gonfi, segno che deve aver dormito parecchio.
Dorme sempre dopo essersi fatta una dose. Seymour detesta quando lo fa,
ma non vede come impedirlo e una parte di lui non vuole impedirlo.
Vorrebbe essere un fratello migliore, e riuscire a togliere a Penny
quello schifo dalle vene, e magari riuscire anche a trovare un lavoro
vero. Ma chi lo vuole uno come lui? Scansafatiche e poco
raccomandabile, ecco come sembra.
«Ciao», saluta Seymour alzandosi e dandole un bacio
sulla fronte. Penny adora quando lo fa.
«Com’è andata oggi?»
Penny alza le spalle e va in cucina. «Al solito. E
tu?»
«Al solito.»
Si sente frugare in cucina poi Penny rispunta con dei crackers in mano.
«Stasera usciamo, ti va? C’è una festa,
ci sarà un sacco di lavoro per te.»
«Una festa? Di chi?»
Penny si avvicina al grosso cappotto marrone e comincia a svuotarlo
delle cose più pesanti. «Non lo so di chi, ma
è una festa sicura.»
«Dove?», domanda Seymour.
Penny sorride debolmente e gli porge il cappotto pesante. «In
spiaggia, c’è un falò. A
Rockaway.»
Seymour sospira, prende il cappotto, e rindossa il costume del
Robivecchi.
Dopotutto, forse si era sbagliato riguardo a quel tipo.
Allora... questa è la mia One Shot per l'estate.
Insomma, non so proprio... forse è un vero schifo,
considerato che l'ho scritta quasi tutta in un giorno solo. Mi sto
letteralmente lanciando nel vuoto per questo concorso, però
è bello ogni tanto misurarsi con qualcosa di diverso, quindi
ho deciso di partecipare e per qualche motivo ho avuto proprio oggi un
bisogno urgente di scriverla.
Il rating è giallo per le tematiche di droga e le
parolaccie, spero che nessuno si sia offeso, e comunque, il rating
avvisava.
Mi piace il personaggio di Seymour, ce l'ho in mente da tanto tempo.
Invece Arvey è più un azzardo, ed è
nato solo qualche ora fa, quindi forse è un po' incompleto.
Ho trovato particolarmente difficile far c'entrare l'estate in maniera
non troppo scontata. Sì, la storia si svolge in estate, ma
questo ovviamente non basta. Credo che siano i personaggi ad essere
più legati alla stagione: Seymour che odia l'estate e si fa
notare da tutti con quel cappottone nonostante il caldo, e invece Arvey
che è tutto il contrario. Poi la spiaggia e l'ambientazione
sono tipicamente estive...
Mah, non so dirvi... forse è tutta una tremenda cavolata!
Ditemi un po' voi se vi va =)
Patrizia
P.S. Rockaway Beach esiste davvero, sta a New York, e per raggiunggerla
si prende davvero la metropolitana A (o almeno spero, altrimenti le mie
informazioni erano errate xD).
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