Olivia
Il treno non arriva. E’ da mezz’ora che lo aspetto seduta
sulle panchine di Cividale del Friuli. C’è
un cattivo odore, il solito puzzo delle stazioni, che mi fa rivoltare le
budella. E’ un insieme di catrame,
sudore, olio di motore, fumo di
sigaretta.
Ah, mi è tornata voglia di sigarette. Frugo nelle tasche di
un giubbotto che mi sta tre volte più grande ma non trovo niente.
Cazzo, le ho finite! Non mi conviene comprarne altre, così faccio
un giro per la stazione a chiederne qualcuna. C’è una coppietta a pochi metri
da me, con trolley e valigie, pronti per partire. Sembrano felici. Che invidia.
Mi avvicino e chiedo al ragazzo, sembra un fumatore.
- Avete una sigaretta per caso?
Mi guardano. Anzi, si può dire che mi osservano. Anche se
ormai mi sono un po’ abituata non è molto piacevole. Ma non hanno tutti i torti. Sono in uno stato pietoso. Alta e
secca come Jack Skeleton, con questo orrendo giubbotto enorme, le scarpe
sporche, la pelle bianca bianca, i capelli biondi stinti. E gli occhi stanchi.
- Non fumo, - mi risponde lui senza smettere di fissarmi.
- Va bene, grazie lo stesso, - dico io con un sussurro, e mi
allontano.
Sono sicura che adesso si staranno facendo un paio di
discorsi su di me, ma tanto chissenefrega.
Ho bisogno di una doccia.
Dio, che schifo.
E il treno non arriva.
Comincio a sentire freddo. Freddo, freddo freddo. Mi
friziono le braccia ma non passa. Quando arriva, il treno? Guardo sul tabellone
elettronico e così scopro che ha un ritardo di circa ’15 minuti.
Non ci voleva.
No, non posso aspettare così tanto. Non ce la faccio. Se rimango ancora qui mi viene l’agitazione.
Anzi, Già ce l’ho. Mi stanno tremando le mani. E il mio cuore batte velocissimo
ma lo sento appena dal polso. E non
passa. Anzi, più ci penso più si rafforza.
Comincio a boccheggiare. Mi manca l’aria. Non c’è un cazzo
di aria in questa stazione.
Basta.
Vado in bagno.
Mi ci trascino poggiando una mano sul muro annerito. Un
normale cesso di stazione. Almeno, è libero. C’è un puzzo di pipì e di odori
vari che ammorba l’aria.
Faccio pipì sul bagno turco, e mi schizzo un po’ sulle
gambe. Quanto li odio, i bagni turchi.
Mi appoggio al lavandino ma sollevo la testa troppo velocemente
e mi sale una nausea fortissima. Tossisco. E poi rigetto nel lavandino. Una roba bianca che credo sia
il panino che ho mangiato stamattina.
Apro il rubinetto e mi pulisco bocca e faccia . L’acqua ha
un sapore metallico.
Dicono che a trent’anni si dovrebbe mettere la testa a
posto. Magari anche sistemarsi. Io ne ho trentatré e non ho fatto né l’una né l’altra
cosa. Allora, o non è vero o sono io che non ne sono capace. Non che non ci
abbia provato, certo. Ho avuto così tante storie, con così tanti uomini
diversi, che ormai non le distinguo tra loro. Una vale l’altra.
Anche ora, che mi sto dirigendo dal mio fidanzato, non credo
che durerà a lungo. Come con gli altri.
So che non mi dovrei far prendere da questi brutti pensieri,
ma è più forte di me. L’ansia si è un poco calmata ma presto so che ritornerà.
Non ce la faccio. Non so nemmeno se ce la faccia a uscire da questo schifoso
cesso. Sto ancora tremando.
La mano scende istintivamente nella sacca interna dello zaino.
La sacca dove tengo le siringhe.
No.
Mi devo controllare. Non posso ricascarci ancora una volta,
nella merda più nera. Mi schiaffeggio la mano. Ma non serve a nulla. La
bastarda scivola tranquilla nello zaino, tira la zip, fruga nella tasca. Le
dita palpano un involucro di plastica. Dentro ci sono le mie siringhe. Dovevo
buttarle ma non ne ho avuto il coraggio.
Il desiderio dentro di me cresce. Sempre di più. Pensare ad
altro è inutile.
Che schifo.
Ci ricasco ancora una volta. Anche quando ormai il mio corpo
non ce la fa più. M,i ricordo improvvisamente di un impegno che presi, molto
tempo fa. Col mio fratellino, Lorenzo. Un sacco di tempo fa. Quanti anni
saranno passati, mi chiedo mentalmente. Nove, forze dieci anni. In tutto questo
tempo non l’ho mai rivisto. Ci siamo sentiti qualche volta, al telefono.
Qualche lettera. Mi faccio sempre più schifo.
Dieci anni fa, quando lui era appena un moccioso, rintanato
in cantina per un casino che aveva combinato, gli avevo promesso che non ci
sarei più ricascata. Non mi sarei più fatta. E allora ci credevo davvero. Che
ingenua, che ero.
-Mi dispiace, fratellino, - dico ad alta voce, come se fosse
accanto a me, - Non ho mantenuto la promessa.
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