Nota iniziale: questa
fanfiction è stata scritta per il concorso ‘A
contest for an image’ e si è classificata al primo
posto (un paio di ere fa). E’ collegata con le altre due
storie della serie, ‘Arrivederci’ e ‘Just
a Game’, anche se in una linea temporale questa le precede
tutte.
Mando un abbraccio a tutti quelli che hanno letto, questa volta mi
farebbe piacere ricevere un commento! Un bacio enorme,alla prossima.
Mano nella Mano (Even
if we are together, we can’t do this.)
“And all I
want…is to be home”
Quella giornata era stata sicuramente fruttuosa, aveva studiato per ore
ed ore chiuso nella biblioteca della facoltà, perdendosi
nelle precise descrizioni del suo libro di anatomia, memorizzando con
estrema accuratezza tutti i termini e le funzioni che non conosceva.
Si poteva finalmente dire soddisfatto di se stesso, il suo solito
stacanovismo gli aveva fatto venire terribili sensi di colpa per non
aver studiato il pomeriggio precedente, troppo preso ad ascoltare tutte
le canzoni che Lear gli aveva costretto a giudicare perché
in preda ad un’ansia asfissiante.
Da che ne avesse memoria ogni volta che Lear doveva affrontare una
serata in un locale particolare, il biondino perdeva la testa, che poi
per conseguenza la facesse perdere anche a lui, non sembrava mai
interessargli, anzi, ogni volta ritornava sempre più nervoso
e sempre più smanioso di certezze.
Il rapporto che li legava, Aaron lo sapeva, se lo ripeteva
all’infinito, non sembrava propriamente quello di due
carissimi amici, sembrava più un rapporto padre-figlio, dove
Aaron tranquillizzava il più piccolo, lo proteggeva, e
l’altro gli donava quella tenerezza che a volte solo un
bambino sapeva dare.
Il pensiero di Lear bambino lo fece sorridere, mentre la moto superava
tranquilla le macchine in coda ed il casco nascondeva quel rarissimo
sintomo d’allegria così contrario rispetto al suo
solito carattere burbero.
Arrivato finalmente nei pressi di casa, Aaron decelerò la
sua corsa, mentre si godeva un po’ l’ultimo sprazzo
di aria che gli riempiva il giubbotto di pelle e il familiare odore del
motore della sua piccola.
Aveva diversi piani per quella sera, avrebbe quasi sicuramente trovato
una scusa per scarrozzare la sua moto sul Belvedere, già si
immaginava a correre indisturbato sulla strada poco frequentata, cielo
in testa e mare di fronte agli occhi, il tutto contornato
dell’assordante rumore del vento misto a quello del motore.
Mentre sospirava la sua tanto agognata tranquillità, i suoi
occhi si posarono sulla villetta accanto alla sua e lì
quello che vide non gli piacque affatto.
Mantenendo la solita accortezza nei gesti, Aaron parcheggiò
la moto e si sfilò il casco, già conscio di dover
salutare tutti i suoi progetti e rimandarli a data da destinarsi.
Lear era accoccolato sul muretto di casa, le mani che nascondevano
l’ovale magro del suo viso, i capelli biondi ammaccati
dall’umidità dell’aria, la matita nera,
che era solito usare per contornarsi gli occhi prima di una serata,
completamente sciolta sulle guance bagnate da lacrime sottili.
Non seppe quanto rimase lì a fissarlo mentre giudicava
quella scena quasi rivoltante. L’idea di entrare
nell’ordinata villetta bianca e scaraventare via qualsiasi
suo occupante gli balenò in testa melliflua e tentatrice, ma
ancora una volta mise a tacere la rabbia per concentrarsi solo suo
amico, che per colpa della sua famiglia, stava vivendo un inferno
giornaliero.
Gli si avvicinò con passi lenti, cadenzati, come se con
quella accortezza avesse potuto smorzare l’atmosfera tesa e
struggente che permeava l’aria. Non si stupì
quando vide i due immensi occhi verdi incontrare i suoi, umidi ed
incerti come ormai aveva imparato a conoscerli.
“Aaron…”
Il suo nome pronunciato in quella maniera, con quel tono tremolante che
sembrava gridare ‘aiuto’ in ogni suo aspetto, lo
ferì ancora una volta rendendolo più nervoso e
cattivo di quanto già non fosse.
Non si stupì nemmeno quando si ritrovò quella
furia bionda attaccata al petto, con le braccia sottili che gli
cingevano la schiena , le mani candide arpionate alla sua giacca e il
volto perso nel suo collo che cominciava a bagnarsi di salate lacrime
disperate.
Aaron strinse i pugni, mentre si dedicava a quell’abbraccio
tutto muscoli che doveva fungere da consolazione ed invece sembrava
esasperare entrambi.
E mentre rifletteva sulla scena trovò quel verbo
decisamente appropriato: esasperare.
Esasperante era la situazione, esasperante era
quell’abbraccio, esasperante erano i genitori di Lear che no,
non ne volevano sapere niente di un figlio così, esasperanti
erano le continue occhiate dei vicini, esasperante era il fatto che
Lear ancora non avesse trovato il coraggio di fare quello che andava
fatto, esasperante era che nonostante tutto, l’amico non
aveva ancora smesso di lottare.
Aaron strinse l’abbraccio che li stava legando, sentendo una
mano di Lear che si immergeva nei suoi sottili capelli neri,
scompigliandoli più di quanto già non fossero.
Sentì il sottile profumo di arancia invadergli le narici,
avvertì il sapore della sua pelle quando gli posò
un bacio sulla fronte fredda, si beò del solito calore
confortante del suo corpo, che tutte le volte gli dava la forza
necessaria per affrontare quello che per l’amico era la
normalità.
All’improvviso la porta della villetta si
aprì, rivelando il primo occupante della casa: Olivier
Russel, il padre di Lear. Immediatamente Aaron sciolse
l’abbraccio che li stava legando, e guardò la
figura dell’uomo di fronte a se con sguardo vuoto,
completamente freddo.
Il Signor Russel però non fece una piega, limitandosi a
guardarli con un sopracciglio inarcato e la solita aria schifata,
stessa espressione di rimprovero e disgusto che ormai aveva indossato
da mesi. Lear tremò impercettibilmente, mentre il padre li
oltrepassava guardandoli fisso, senza commentare, senza degnarli ne di
un saluto ne di un qualsiasi gesto di commiato.
Mentre avvertiva lentamente la tensione scivolargli dalle
spalle, sentì la voce del padre dell’amico
sussurrare qualcosa e il successivo irrigidimento della persona che
aveva di fianco. Non gli ci volle molto ad immaginare quali parole
fossero arrivate all’orecchio di Lear e quale reazione
avrebbero avuto sulla sua situazione già delicata. Aaron
guardò senza parlare l’uomo andare via, mentre
riprendeva a stringere l’amico adesso di nuovo singhiozzante,
fra le sue braccia.
Lo cullò, tenendoselo stretto in petto, avvertendo come una
lama nel cuore quelle mani sottili che gli si aggrappavano alla giacca,
sentendo le gambe tremargli dalla rabbia e dall’impotenza.
“Aaron, portami via, il più lontano
possibile!”
E lui lo fece; prese quella mano, la sentì calda e debole
nella sua di contrasto fredda e salda. Gli perse la mano rompendo il
loro abbraccio e lo portò alla moto con se, dritto verso
quel qualcosa che da soli non sapevano affrontare, ma che dovevano
reprimere almeno per il momento.
Lear, con le guance rigate di nero, nonostante i suoi ormai diciannove
anni sembrava un bambino disorientato, un bambino che aveva passato la
prima notte solo in casa ed aveva pianto tutto il tempo, troppo
spaventato. L’impulso di stringerlo ancora a se si fece
sentire forte come non mai, ma Aaron lo represse, deciso ad esaudire
l’unica richiesta dell’amico.
“Sali, andiamo a farci un giro in moto.”
Lear annuì al suo tono fermo e si infilò il casco
che gli era stato porto, mentre Aaron era già salito sul
veicolo e lo metteva in moto. In pochi secondi
l’ordinata villetta bianca era soltanto un ricordo, erano
lontani, uniti e maledettamente stanchi.
Aaron rimase rigido per tutta la corsa, avvertiva chiaramente le mani
di Lear abbracciargli i fianchi ed immaginava che ancora una volta
salate lacrime stessero cadendo dagli immensi occhi verdi, adesso
mascherati dalla visiera del casco.
Accelerò l’andatura, deciso a percorrere tutto il
Belvedere senza fermarsi, trovando in quel momento fastidiosa anche la
calma del mare, che contrastava con quello che gli si agitava
in petto: il bisogno di urlare in faccia a quei bastardi quanto li
odiasse. I suoi pensieri si interruppero quando sentì Lear
tremare, dietro di se. D’istinto decelerò,
sentendo l’amico aggrapparsi a lui con più forza.
Per cosa ne potesse pensare la situazione non sarebbe cambiata, nessuno
aveva il potere di farlo, se non lo stesso Lear.
La soluzione era solo una, anche se era doloroso anche solo pensarci.
Quando arrivarono sulla spiaggia il sole era già quasi del
tutto calato nel mare. Uno splendido colore arancione, contornato da un
blu profondo faceva da sottofondo al rumore dei loro passi vicini.
Camminavano spalla contro spalla, senza fermarsi, senza guardarsi,
senza nemmeno parlare.
Aaron si sentiva maledettamente impotente quella sera; impotente
perché non riusciva a far reagire l’amico,
perché non riusciva a dirgli che parole che erano
già state dette e ridette centinaia di volte.
Lear si fermò all’improvviso, lo sguardo rivolto
verso il mare che ormai aveva completamente inghiottito anche
l’ultimo raggio di sole, soltanto una linea rossa continuava
a rimanere fissa all’orizzonte, ultimo baluardo prima
dell’incedere inevitabile delle tenebre.
“Vado via.”
Aaron chiuse gli occhi. D’istinto
afferrò la mano dell’amico rimasto fermo a
guardare l’orizzonte davanti a se, mentre sentiva il respiro
mozzarsi in gola e lo stomaco attorcigliarsi in una stretta dolorosa.
“Vado via.”
Ripeté Lear più forte, come se lo volesse
confermare a stesso, cercando di convincersi di quello che aveva detto.
Aaron ancora non parlò, mentre apriva i sottili occhi verdi
e si girava a guardare il profilo tirato dell’amico e pensava
che alla fine, anche quel piccolo uragano si era reso conto
dell’unica cosa possibile da fare.
In totale silenzio Lear ricambiò lo sguardo attento di
Aaron, scoprendosi tremante.
Le loro mani ormai non erano più unite, soltanto i loro
mignoli erano intrecciati, intrecciati così come erano in
quel momento i loro sguardi, uniti ma sul punto di separarsi proprio
come loro due.
Aaron abbassò lo sguardo concentrandosi sulle loro mani,
grandi e forti le sue, sottili quelle di Lear, vide il suo polso
accompagnato soltanto da un serio orologio e di contrasto quello di
Lear, contornato da mille diversi bracciali e pensò che
forse, anche quello era l’ennesimo simbolo della loro immensa
diversità caratteriale.
“Guardami. Dimmi qualcosa, dimmi che devo rimanere qui, dimmi
che non devo lasciarti!”
Singhiozzi.
La voce di Lear tremava incerta, così come la sua mano.
Aaron ancora si ritrovò a guardarlo debole e distrutto come
non era mai stato, in balia di una vita che era stata rovinata passo
dopo passo.
Ed in quel momento avrebbe solo desiderato dirgli che sì,
doveva rimanere con lui, doveva continuare ad invadere i suoi pomeriggi
con le sue canzoni, doveva stargli vicino in ogni attimo della sua vita
continuando a riempirla con quei sorrisi magnifici che soltanto lui
sapeva fare.
“Non posso.”
Disse Aaron semplicemente, con voce inaspettatamente fredda.
Ormai anche le loro mani si erano divise. Aaron sentì un
pezzo di sé volare via allo sciogliersi di quel contatto e
soltanto in quel momento si rese conto di cosa significassero quelle
parole.
Lear andava via.
La costante più dolce e tenera della sua vita aveva deciso
di lasciarlo, doveva scappare, doveva andare avanti e riuscire a
costruirsi una vita fatta di persone che lo amavano per quello che era.
Aaron si sentì mortalmente inutile ed anche profondamente
egoista. Egoista perché in quel momento la voglia di
ritirare tutto, di impedirgli quella scelta, gli solleticava le labbra,
perché si rendeva conto che sarebbe bastata una frase, per
portare avanti la loro vita così come era in quel momento.
Lear si accoccolò contro il suo petto, mentre continuava a
piangere ed Aaron lo strinse forte, assaporando ancora il suo profumo
perdendosi nei mille ricordi che aveva di lui, soffrendo e nello stesso
tempo pensando che era l’unica cosa giusta da fare,
l’unica soluzione per mettere la parola fine ad
anni ed anni di supplizi.
“Aaron…”
Il biondino si scansò un po’ da lui, Aaron lo
guardo senza capire, mentre leggeva ancora nei suoi occhi
un’ultima richiesta.
“…baciami.”
Ed Aaron spalancò un po’ gli occhi sorpreso, prima
di assecondare la richiesta del suo amico.
Calò sulle sue labbra lentamente per dare il tempo al
ragazzo di fermarlo se avesse voluto, Lear aveva chiuso gli occhi,
mentre si lasciava ancora avvolgere dalle calde braccia
dell’altro.
Per la prima volta Aaron sfiorò quelle labbra, trovandole
salate a causa delle lacrime e seccate dal vento. Con una delicatezza
di qui non si credeva capace le baciò dolcemente,
carezzandole con le sue, mentre sentiva le braccia del più
piccolo aggrapparsi al suo collo e la sua bocca premere forte contro la
sua.
E intanto che la notte ormai era calata sovrana, quello strano bacio si
approfondì ancora, suggellando una volta per tutte quello
che sarebbe successo.
Quando le loro labbra si separarono i loro volti rimasero vicini, Aaron
poteva ancora sentire il caldo respiro di Lear sulla faccia, unito al
suo dolcissimo sapore di cioccolata.
Il tempo scorse via così, mentre loro erano lì
abbracciati con gli occhi incatenati da una profonda malinconia.
No, si disse Aaron, non era giusto trattenerlo.
Provando a starci vicino forse lo aveva trattenuto anche per troppo.
Era giunto il momento che entrambi affrontassero la loro vita da soli.
“E’ giusto così, non è
vero?”
Ancora una volta la voce di Lear tremava, ancora una volta lasciava a
lui l’arduo compito di scegliere.
E mentre il pensiero di loro due distanti, i mille ricordi e tutto
l’affetto che provava gli passavano davanti, Aaron ebbe il
coraggio di scegliere.
“Si.”
“Echoes and silence, patience and grace,
All of these moments I'll never replace,
Fear of my heart, absence of faith,
All I want is to be home “
Final notes:
Orrore. Soltanto questa
parola.
Mi sono talmente
affezionata ai personaggi che nonostante il lavoro non mi piaccia per
niente, sono stata con il magone per un pomeriggio intero. Che dire, va
bene così, alla fine l’importante è
provarci!
Scena strana questa,
forse acquisterà un senso soltanto inquadrata insieme agli
altri lavori, ma il significato dovrebbe capirsi lo stesso.
Anche la canzone che ho
scelto sembra strana, non è una songfic, ma mi sembrava
adeguata a descrivere il momento, si tratta di
“Home” dei Foo Fighters!
Ciao.
Neko
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