Then you catch him CAP32
CAPITOLO 32
Il mondo si
fermò un istante, mentre Spencer elaborava a velocità quella frase nella sua
mente. Hotch non gli diede tempo di replicare e continuò, “Nathan si è
risvegliato dall’anestesia e sta bene. Ho pensato che volessi andare tu a
interrogarlo e a...parlarci.”
Reid fu
preso alla sprovvista. Era quello che più desiderava, ma non si aspettava di
ottenerlo così presto e in quel modo. Continuava a fissare il suo capo, senza
riuscire a proferire parola. Tormentava la penna che teneva tra le mani.
“Non sei
obbligato..può andarci qualcun altro.” Lo tranquillizzò Aaron, continuando a
fissarlo.
Spencer si
accorse che anche gli altri lo stavano fissando preoccupati, era arrivato
nell’open space anche Rossi, quindi si decise a reagire. “Grazie Hotch, si.
Vorrei parlargli. Prima però completo il rapporto, se non ti dispiace.” Quello
era il primo passo da compiere. Non permettere che quel pensiero si mettesse al
primo posto e distruggesse tutto il resto.
L’agente
Hotchner scosse il capo, rilassandosi per aver ottenuto una reazione composta
da parte del collega. “Quando vuoi. Carlson sa che arriverà qualcuno dei
nostri.” Lo rassicurò voltandosi per andar via.
Il piccolo
genio si voltò per tornare al suo lavoro, poi si ricordò di una presenza che
non aveva ancora notato tra quelle scrivanie. Non aveva potuto darle il
buongiorno come era sempre abituato, quindi alzò il capo oltre il divisorio
delle scrivanie e chiese non rivolto in qualcuno in particolare, “Ma JJ?”
Fu lo stesso
Aaron a fermarsi sui suoi passi, voltandosi per rispondergli. “Le ho dato un
giorno libero. Domani tornerà in servizio, salvo novità.”
Il peso che
si era creato addosso al giovane agente si diradò nel sentire che non vi erano
stati ulteriori problemi di cui magari non era stato messo al corrente. Decise
allora di concentrarsi sul suo lavoro. L’avrebbe portato a termine con
attenzione e calma. Solo in seguito si sarebbe occupato di Nathan.
Di giorno i
corridoi dell’ospedale centrale di Washington erano popolati da gente in attesa
delle loro visite, di poter incontrare parenti e amici. O nel peggiore dei casi
di pazienti che dovevano essere curati.
Il dottor
Reid si districava tra queste persone, mentre l’agitazione amplificava i rumori
intorno a lui, facendoli rimbombare all’interno della sua testa. L’area in cui
era Nathan era stata circondata dalla polizia, che non permetteva l’accesso a nessuno,
quindi continuò a camminare, fin quando i corridoi cominciarono a farsi più
tranquilli. Scorse in lontananza due agenti di guardia ad una prima porta. Si
avvicinò cercando di calmarsi e portò una mano alla tasca, dalla quale estrasse
il distintivo, mostrandolo agli uomini, “FBI, Agente Speciale Spencer Reid. Il
Detective Carlson sapeva che sarei venuto ad interrogare Nathan Harris.” Disse
con qualche difficoltà.
I due agenti
lo lasciarono passare, così che ora si aggirava in corridoi deserti. Gli stessi
che aveva visto la notte precedente. Raggiunse il luogo indicatogli dagli
uomini in divisa e mostrò ancora una volta il distintivo. Gli furono aperte le
porte, rivelandogli così una stanza tranquilla, con un solo letto al centro.
Sospirò e
varcò la soglia, che sentì richiudere alle sue spalle.
Allo scatto
della serratura, Nathan si voltò lentamente verso la porta, vedendo la magra
figura dell’agente esitare qualche istante prima di avvicinarsi a lui. “Dottor
Reid, cosa ci fa lei qui?” chiese seguendo tutto il suo percorso.
Spencer
cercò di concentrarsi, poi parlò, “Volevo...volevo parlarti.” Balbettò
guardandosi intorno.
Il ragazzo
su quel letto fece un movimento per cui contrasse il volto per il dolore. “È un
interrogatorio?” chiese poi con espressione disgustata.
“Diciamo più
un incontro informale. Hai parlato con tua madre?” domandò ricordandosi di aver
portato la donna lì non appena saputo in quale ospedale si trovasse. “Era in
pensiero per te.”
Harris
corrucciò le labbra, “Lei era pronta ad abbandonarmi di nuovo. Così è andata
via prima di illudermi.”
Lo stomaco
di Spencer si contrasse in una morsa. Non avrebbe mai creduto possibile una
cosa del genere, e invece era accaduta. “Mi dispiace.”
“Non sarebbe
mai cambiata, ormai l’ho capito.”
Finalmente Reid
identificò all’interno della camera una sedia e fissò i suoi occhi su quella.
Nathan se ne accorse e lo invitò a prenderla e a sedersi se ne aveva voglia.
Quel comportamento era troppo pacato, ma poi l’agente si ricordò
dell’eventualità che gli stessero somministrando quei farmaci che lui aveva
smesso di prendere abbandonata la clinica.
Sembrava
tornato il Nathan Harris che aveva conosciuto la prima volta. La permanenza in
clinica e l’abbandono da parte della madre avevano risvegliato la sua parte più
negativa, quella che dava ascolto agli istinti e impulsi psicotici, il suo lato
sadico che l’aveva spinto ad essere aggressivo, a sfidarlo apertamente. Ora non
vedeva più traccia di tutto ciò.
“C’era
qualcosa in particolare che voleva dirmi, dottor Reid?” il giovane spezzò il
silenzio che si era creato.
Spencer dopo
essersi accomodato aveva cominciato a tormentarsi le mani, stringendole l’una
dentro l’altra. “Volevo assicurarmi che tu stessi bene.”
“Perché?
Perché, dottor Reid, mi salva sempre la vita?” La domanda aveva colpito con
violenza l’agente. Era quello il nodo di tutto, lo sapeva. “Se lei mi avesse
lasciato morire la prima volta, non saremmo arrivati a questo punto.”
Il piccolo
genio abbassò il capo agitandolo lentamente da destra a sinistra. “Ho fatto
quello che andava fatto.”
“Ma perché?”
insistette il giovane.
“Quando ci
siamo incontrati la prima volta io ho rivisto in te una parte di me. Anche io
ho avuto paura di me, di ciò che vi era dentro la mia mente. Anche io ho
cercato di conoscere i mostri che mi avrebbero potuto assalire, credendo che
per questo potessi evitarlo.” Si limitò ad usare un tempo passato, omettendo il
fatto che per lui quelle paure non avevano mai avuto una reale fine.
Ancora una
volta il silenzio riempì quella stanza. Nathan lo osservava, colpito da quelle
parole. “Cosa ne sarà di me adesso, dottor Reid?”
Rialzando il
capo, il federale vide paura in quelle iridi blu, proprio come la prima volta
che si erano incontrati. “Dovrai pagare per quello che hai fatto.” Scelse la
via della cruda realtà. Non era mai stato bravo ad indorare la pillola.
“Mi sta
arrestando ufficialmente?” domandò il giovane stringendosi a quelle lenzuola
che lo avvolgevano. Spencer non poté fare a meno di notare lo smarrimento in
quegli occhi.
Tutti i
dubbi che avevano assillato il giovane si diradarono davanti a quella
situazione. Aveva fatto la cosa giusta e avrebbe continuato a farla, se le
circostanze l’avessero voluto. L’avrebbe salvato tutte le volte che sarebbe
stato necessario, anche da se stesso.
Continuò a
guardare quel ragazzo, considerando quanto, in fondo, doveva anche a lui la sua
maturazione. La sua vicenda l’aveva segnato e l’aveva fortificato, non ne aveva
dubbi.
E quelle
parole di Jason Gideon risuonavano ancora una volta nelle sue orecchie. Cosa
avrebbe fatto se quel ragazzo a cui pochi secondi prima aveva bloccato la
fuoriuscita del sangue dalle vene avesse colpito ancora? Quante vite aveva
messo in pericolo salvandolo? Era proprio vero, gli S.I. sceglievano il proprio
destino da soli, non ne erano colpevoli loro agenti federali. Cosa avrebbe
fatto se al suo ritorno avrebbe ucciso qualcuno, eventualità che aveva potuto
provare essersi realmente verificata? Lui avrebbe fatto l’unica cosa che aveva
il potere e il dovere di fare. Lui l’avrebbe arrestato.
FINE
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