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Autore: Mary15389    20/08/2011    2 recensioni
Quattro anni dopo l'arresto di Ronald Weems, un seriale con le sue stesse caratteristiche si ripresenta tra le strade di Washington. La squadra è chiamata a collaborare, ma un presentimento aleggia nei pensieri di tutti...
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Spencer Reid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Then you catch him CAP32 CAPITOLO 32
 
Il mondo si fermò un istante, mentre Spencer elaborava a velocità quella frase nella sua mente. Hotch non gli diede tempo di replicare e continuò, “Nathan si è risvegliato dall’anestesia e sta bene. Ho pensato che volessi andare tu a interrogarlo e a...parlarci.”
Reid fu preso alla sprovvista. Era quello che più desiderava, ma non si aspettava di ottenerlo così presto e in quel modo. Continuava a fissare il suo capo, senza riuscire a proferire parola. Tormentava la penna che teneva tra le mani.
“Non sei obbligato..può andarci qualcun altro.” Lo tranquillizzò Aaron, continuando a fissarlo.
Spencer si accorse che anche gli altri lo stavano fissando preoccupati, era arrivato nell’open space anche Rossi, quindi si decise a reagire. “Grazie Hotch, si. Vorrei parlargli. Prima però completo il rapporto, se non ti dispiace.” Quello era il primo passo da compiere. Non permettere che quel pensiero si mettesse al primo posto e distruggesse tutto il resto.
L’agente Hotchner scosse il capo, rilassandosi per aver ottenuto una reazione composta da parte del collega. “Quando vuoi. Carlson sa che arriverà qualcuno dei nostri.” Lo rassicurò voltandosi per andar via.
Il piccolo genio si voltò per tornare al suo lavoro, poi si ricordò di una presenza che non aveva ancora notato tra quelle scrivanie. Non aveva potuto darle il buongiorno come era sempre abituato, quindi alzò il capo oltre il divisorio delle scrivanie e chiese non rivolto in qualcuno in particolare, “Ma JJ?”
Fu lo stesso Aaron a fermarsi sui suoi passi, voltandosi per rispondergli. “Le ho dato un giorno libero. Domani tornerà in servizio, salvo novità.”
Il peso che si era creato addosso al giovane agente si diradò nel sentire che non vi erano stati ulteriori problemi di cui magari non era stato messo al corrente. Decise allora di concentrarsi sul suo lavoro. L’avrebbe portato a termine con attenzione e calma. Solo in seguito si sarebbe occupato di Nathan.
 
Di giorno i corridoi dell’ospedale centrale di Washington erano popolati da gente in attesa delle loro visite, di poter incontrare parenti e amici. O nel peggiore dei casi di pazienti che dovevano essere curati.
Il dottor Reid si districava tra queste persone, mentre l’agitazione amplificava i rumori intorno a lui, facendoli rimbombare all’interno della sua testa. L’area in cui era Nathan era stata circondata dalla polizia, che non permetteva l’accesso a nessuno, quindi continuò a camminare, fin quando i corridoi cominciarono a farsi più tranquilli. Scorse in lontananza due agenti di guardia ad una prima porta. Si avvicinò cercando di calmarsi e portò una mano alla tasca, dalla quale estrasse il distintivo, mostrandolo agli uomini, “FBI, Agente Speciale Spencer Reid. Il Detective Carlson sapeva che sarei venuto ad interrogare Nathan Harris.” Disse con qualche difficoltà.
I due agenti lo lasciarono passare, così che ora si aggirava in corridoi deserti. Gli stessi che aveva visto la notte precedente. Raggiunse il luogo indicatogli dagli uomini in divisa e mostrò ancora una volta il distintivo. Gli furono aperte le porte, rivelandogli così una stanza tranquilla, con un solo letto al centro.
Sospirò e varcò la soglia, che sentì richiudere alle sue spalle.
Allo scatto della serratura, Nathan si voltò lentamente verso la porta, vedendo la magra figura dell’agente esitare qualche istante prima di avvicinarsi a lui. “Dottor Reid, cosa ci fa lei qui?” chiese seguendo tutto il suo percorso.
Spencer cercò di concentrarsi, poi parlò, “Volevo...volevo parlarti.” Balbettò guardandosi intorno.
Il ragazzo su quel letto fece un movimento per cui contrasse il volto per il dolore. “È un interrogatorio?” chiese poi con espressione disgustata.
“Diciamo più un incontro informale. Hai parlato con tua madre?” domandò ricordandosi di aver portato la donna lì non appena saputo in quale ospedale si trovasse. “Era in pensiero per te.”
Harris corrucciò le labbra, “Lei era pronta ad abbandonarmi di nuovo. Così è andata via prima di illudermi.”
Lo stomaco di Spencer si contrasse in una morsa. Non avrebbe mai creduto possibile una cosa del genere, e invece era accaduta. “Mi dispiace.”
“Non sarebbe mai cambiata, ormai l’ho capito.”
Finalmente Reid identificò all’interno della camera una sedia e fissò i suoi occhi su quella. Nathan se ne accorse e lo invitò a prenderla e a sedersi se ne aveva voglia. Quel comportamento era troppo pacato, ma poi l’agente si ricordò dell’eventualità che gli stessero somministrando quei farmaci che lui aveva smesso di prendere abbandonata la clinica.
Sembrava tornato il Nathan Harris che aveva conosciuto la prima volta. La permanenza in clinica e l’abbandono da parte della madre avevano risvegliato la sua parte più negativa, quella che dava ascolto agli istinti e impulsi psicotici, il suo lato sadico che l’aveva spinto ad essere aggressivo, a sfidarlo apertamente. Ora non vedeva più traccia di tutto ciò.
“C’era qualcosa in particolare che voleva dirmi, dottor Reid?” il giovane spezzò il silenzio che si era creato.
Spencer dopo essersi accomodato aveva cominciato a tormentarsi le mani, stringendole l’una dentro l’altra. “Volevo assicurarmi che tu stessi bene.”
“Perché? Perché, dottor Reid, mi salva sempre la vita?” La domanda aveva colpito con violenza l’agente. Era quello il nodo di tutto, lo sapeva. “Se lei mi avesse lasciato morire la prima volta, non saremmo arrivati a questo punto.”
Il piccolo genio abbassò il capo agitandolo lentamente da destra a sinistra. “Ho fatto quello che andava fatto.”
“Ma perché?” insistette il giovane.
“Quando ci siamo incontrati la prima volta io ho rivisto in te una parte di me. Anche io ho avuto paura di me, di ciò che vi era dentro la mia mente. Anche io ho cercato di conoscere i mostri che mi avrebbero potuto assalire, credendo che per questo potessi evitarlo.” Si limitò ad usare un tempo passato, omettendo il fatto che per lui quelle paure non avevano mai avuto una reale fine.
Ancora una volta il silenzio riempì quella stanza. Nathan lo osservava, colpito da quelle parole. “Cosa ne sarà di me adesso, dottor Reid?”
Rialzando il capo, il federale vide paura in quelle iridi blu, proprio come la prima volta che si erano incontrati. “Dovrai pagare per quello che hai fatto.” Scelse la via della cruda realtà. Non era mai stato bravo ad indorare la pillola.
“Mi sta arrestando ufficialmente?” domandò il giovane stringendosi a quelle lenzuola che lo avvolgevano. Spencer non poté fare a meno di notare lo smarrimento in quegli occhi.
Tutti i dubbi che avevano assillato il giovane si diradarono davanti a quella situazione. Aveva fatto la cosa giusta e avrebbe continuato a farla, se le circostanze l’avessero voluto. L’avrebbe salvato tutte le volte che sarebbe stato necessario, anche da se stesso.
Continuò a guardare quel ragazzo, considerando quanto, in fondo, doveva anche a lui la sua maturazione. La sua vicenda l’aveva segnato e l’aveva fortificato, non ne aveva dubbi.
E quelle parole di Jason Gideon risuonavano ancora una volta nelle sue orecchie. Cosa avrebbe fatto se quel ragazzo a cui pochi secondi prima aveva bloccato la fuoriuscita del sangue dalle vene avesse colpito ancora? Quante vite aveva messo in pericolo salvandolo? Era proprio vero, gli S.I. sceglievano il proprio destino da soli, non ne erano colpevoli loro agenti federali. Cosa avrebbe fatto se al suo ritorno avrebbe ucciso qualcuno, eventualità che aveva potuto provare essersi realmente verificata? Lui avrebbe fatto l’unica cosa che aveva il potere e il dovere di fare. Lui l’avrebbe arrestato.

 
FINE
  
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