The Beauty Mark
Epilogo
Era stato disonesto da
parte di Blair promettermi la sua felicità in cambio del mio perdono. Riuscii comunque
a tenerla lontana da me per diverso tempo. Temevo che avrebbe potuto
convincermi a cedere solo con uno sguardo o con il tocco leggero della sua
mano, forse anche un’altra sua lacrima sarebbe bastata. L’unica volta che la
incontrai, nell’atrio del Palace, aveva provato ad indurmi in tentazione: mi
aveva sussurrato “Perdonami” annuendo leggermente, come la prima volta che mi
aveva confessato il suo amore, mettendomi una mano sul petto. Mi ci vollero
tutte le mie forze per prendere la sua mano nella mia, tenerla solo per un
istante, farla scivolare via e rimanere impassibile.
I mesi passavano: Manhattan
si tingeva di giallo, migliaia di foglie secche coprivano le strade e io cominciavo
ad avere il presentimento che, tutto quel rancore, facesse più male a me stesso
che a Blair. Mi ero imposto di non sapere troppo, mi bastava la sicurezza che
stesse bene: Serena mi informava regolarmente del loro soggiorno a LA, le avevo
chiesto io di convincere Blair a passare un po’ di tempo al sole della
California. Una volta mi era anche capitato di sentire la sua voce, in una
delle rapide e furtive telefonate che mi faceva Serena, ed ero stato felice di
sentire quel tono dispotico e spazientito di quando ha bisogno di fare shopping.
Mi aveva rincuorato per diversi giorni.
“Charles, non tutte le
donne desiderano i loro bambini…” mi aveva detto Lily
- cosa che sapevo bene essendolo stato io per primo - “ma finiscono sempre per
amarli più di loro stesse” aveva aggiunto con calma e saggezza, in un grigio
pomeriggio, togliendo la sua mano ingioiellata dalla tazza del tè per
appoggiarla sopra la mia. Avevo chiuso gli occhi e atteso che il calore tiepido
della mano di Lily si trasferisse sulla mia. In quel periodo passavo fin troppi
attimi con gli occhi chiusi, creandomi un buio personale ogni volta che ne
avevo bisogno.
In pubblico fingevo
calma e diplomazia, il contegno severo di un uomo oberato di lavoro, ma il mio
animo retrocedeva, diventando sempre più oscuro e ingestibile. Nonostante
questo, gli eccessi non mancavano, ero pur sempre Chuck Bass: trovavo nella
decadenza il divertimento. Occuparmi dell’intrattenimento vintage - del mio
amato Victrola e del Gimlet
- era un palliativo che mi permetteva di non perdere del tutto il contatto con
la realtà. In quei mesi la realtà era sentire, non importava cosa o chi. Usavo
i sensi, non i sentimenti o i ricordi. Erano donne senza volto, le palpebre non
volevano aprirsi e le pupille non volevano vedere. I profumi, mischiati ad
altra pelle, erano un tormento e un inganno. Impossibile non accorgersi della
differenza, impossibile non ricordare chi avevo amato e perché, nonostante il
perdono tardasse ad arrivare.
Credevo che non sarei
mai stato capace di concederglielo perché non sapevo dimenticare. Poi, dopo
tanto tempo, ne ebbi l’occasione.
Quella sera il Gimlet era stato scelto come sponsor di una grandiosa
mostra di Andy Warhol al MoMA. Gli organizzatori del
museo erano rimasti colpiti dall’esclusività dei drink e dall’eccentrica
clientela, che ricordava l’estro del grande artista, e volevano anche assicurarsi
che l’èlite di Manhattan prendesse parte all’evento, quindi scelsero di
affidarsi a me, alle mie conoscenze e al mio gusto.
Nel museo, minimalista
e moderno, i colori esplosi delle serigrafie facevano contrasto con i colori
simbolo del Gimlet; venivano distribuiti bicchieri di
cristallo fumé dal collo sottile e dalla coppa sfasata, contornata da un
brillante filo d’oro, ed era stato richiesto ad alcune ospiti di presentarsi
con una mise dorata. Nell’anonima folla di donne bellissime avevo visto Serena,
spiccare tra le altre, con indosso un abito tutto luce e una cascata di onde
selvagge nei capelli, appuntati da una spilla. La sua presenza non mi agitò,
sapevo che era solita tornare a NYC ogni tanto e conoscevo bene la sua natura
festaiola. Anche le gemelle, che mi avevano accompagnato all’evento, avevano
scelto qualcosa di simile: ero entrato stringendo i loro corpi color oro per la
vita, come avevo sempre usato fare. I flash mi avevano colpito spietati in viso,
erano mitragliatrici di luce che mi provocavano solo dolore, al quale non
potevo che rispondere con il mio solito ghigno accattivante. Nessuno sapeva
quanto mi costava mostrare quell’atteggiamento. Dopo aver stretto centinaia di
mani e ricevuto pacche sulla palla, avevo girovagato solo per i corridoi. Mi
ero perso e poi avevo ritrovato la strada, fermandomi per osservare i volti
tutti uguali di Marilyn, la zona dedicata alla Factory
e quella della Andy Warhol’s Tv; nemmeno la pop art
riusciva a risvegliare il mio sguardo: rimaneva opaco. Poi arrivai alle tende pesanti
dei cinema improvvisati. In realtà erano solo piccole salette di proiezione, ma
una mi colpì alla prima occhiata. Il tendone era di un tessuto chiaro cangiante
e una targhetta recitava “Empire 1964”.
Empire,
come il mio primo hotel. Lo stesso che lei mi aveva spinto a comprare, lo
stesso che mi aveva riconsegnato con le labbra tremanti e la voce rotta. Quella
vicenda mi aveva provato quanto fosse inaffidabile ma - allo stesso tempo - pronta
al sacrificio di sé stessa perché io riavessi ciò che era mio. Mentre
accarezzavo la tenda per scostarla, realizzai quanto la presenza di Blair mi mancasse e quanto fossi
bisognoso di vederla ancora. Superate le onde di tessuto, mi trovai dentro al
buio. Una luce grigia veniva dal fondo e, piano piano,
mentre gli occhi si abituavano all’oscurità, scoprii di non essere solo. C’era
qualcuno.
La fumosa luce del
filmato illuminava una schiena nuda, esile e liscia, coperta solo da un leggero
tessuto verde vivo. Un boccolo scuro sfiorava la spalla. Mi avvicinai cauto,
sperando che non si voltasse: non ero pronto a vedere il suo viso. Non ancora. Mi
sedetti accanto a lei: riconobbi subito la grazia della sua gamba accavallata e
rimasi incantato da come il vestito di chiffon sapeva accarezzarle la coscia
nuda. Al polso portava un bracciale brillante e teneva la mano solitaria
abbandonata in grembo. L’abito si incrociava sul petto in un raffinato scollo.
Quel dettaglio mi deliziò a tal punto da spingermi impaziente a guardarla in
viso.
Un colpo al cuore mi seccò
immediatamente la gola: Blair piangeva guardando una ripresa a telecamera fissa
dell’Empire State Building. Lei decise di voltarsi verso di me, proprio in quel
momento, indovinando i miei sentimenti e distogliendo lo sguardo dallo schermo.
Si fermò a fissarmi così, senza neanche respirare. I suoi occhi erano grandi e
limpidi, nonostante le lacrime scendevano sugli zigomi e sulle labbra
socchiuse. Rimanemmo diversi secondi a guardarci e a riconoscerci in silenzio.
Sul suo viso si proiettavano le imperfezioni della pellicola: schermi di luce,
bolle e righine grigie. I fotogrammi scorrevano lenti e tutti uguali, come il
nostro dolore. L’unica cosa che ci era rimasta. In quegli istanti ebbi paura
che potesse dirmi: “Uccidimi, non voglio più vivere”1, come negli
incubi – in bianco e nero – che mi visitavano ogni notte. Non seppi più
resistere alla tentazione di prenderle la mano e di stringergliela. Le sue dita
si abbandonarono confortate dalla mia presa. Non pensare più a cosa ci era
accaduto sarebbe stato impossibile, ma in quell’attimo il perdono arrivò: era
potente, liberatorio, salvifico. Non aveva nulla a che fare con il dimenticare,
piuttosto con il ricordare, il capire e l’amare.
“Se ci fossimo incontrati
sarebbe stato tutto diverso” ruppi il silenzio, parlando più con me stesso che
con lei e alludendo a quella sera in cui, con delle peonie rosa confetto e un
anello nel taschino interno della giacca, ero salito sul grattacielo più grande
della città solo per lei.
“Ma non lo è” rispose
prontamente con schiettezza e rassegnazione, prima di rivolgere di nuovo gli
occhi allo schermo.
“Blair…
mi credi capace di perdonarti? Sai che lo farò, vero?” le chiesi, stringendole
ancora di più la mano.
“E quando?” volle
sapere lei continuando a guardare l’Empire.
“Ora” sussurrai sicuro,
incapace di attendere un secondo di più per vederla felice.
Le ci volle qualche
attimo per realizzare il significato delle mie parole. Blair si voltò piano, il
suo viso era folgorato dall’emozione, le sue labbra aperte per la sorpresa e la
confusione. La baciai all’istante alzandole il mento con le dita. Lei si appese
con i pugni alla mia camicia bianca, sporgendosi verso di me. Il suo sapore
confortante mi fece sentire bene, bocca nella bocca, sentii un riso salirle
dalla gola. Mi fermai solo un attimo, allontanando il suo viso dal mio, con
entrambe le mani, in modo quasi brutale per guardarla impaziente. Blair non
aveva fatto in tempo ad aprire gli occhi, ma liberate le labbra dal mio bacio, quelle
si distesero subito in un raggiante e aperto sorriso, che le scopriva i denti. Blair
era pienamente felice. In quel momento realizzai che non c’era nient’altro che
poteva renderla più bella: quello era l’unico segno che avrei mai voluto vedere
sul suo viso.
FINE
Note:
1.
E’ una quote di “Le Notti di Cabiria” un film di Fellini che nomina Dan parlando con
Chuck nella 4x18.