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Autore: Tuccin    21/08/2011    8 recensioni
Futurefic (dopo l’episodio 4x22 - The Wrong Goodbye) divisa capitoli. Il punto di vista è alternato Blair/Chuck.
Part I. “Per questo spesso mi addormentavo sulla sua pancia, con la mano sopra quel segno, come per coprirlo: pensavo che non vedendo più quella cicatrice forse avrei dimenticato; avrei dimenticato Parigi, i suoi occhi pretenziosi, un po’ lucidi, e quella scatolina nera”.
Part II."Quando le chiedevo se non aveva paura ad attendermi così nell’oscurità, mi rispondeva viziosa: “E perché dovrei? E poi… non mi vedi forse meglio al buio?”.
Part III. Chuck stenta a riconoscermi, la mia vista lo paralizza e vedo la penna dorata scivolargli via dalle dita. Vorrei dire qualcosa, che sono io, sono Blair… ma non ho voce. Sono muta. Un’insostenibile leggerezza mi abita dentro e una marea di spilli mi pungono la gola.
Part IV. Non meritavo un sorriso neanche quando rincasavo, ma non per questo la sua accoglienza era fredda, anzi la vedevo venirmi incontro ad annusarmi il collo.
Part V. Non vedo neanche la luce del mio anello, Louis l’ha coperto con la mano.
Part VI. Faccio un passo e il sorriso mi si scioglie: Humphrey è seduto sulla sponda opposta. Con la mano a ventaglio sorregge un libro, la copertina recita “Too Much Happiness”.
Epilogo Mi ci vollero tutte le mie forze per prendere la sua mano nella mia, tenerla solo per un istante, farla scivolare via e rimanere impassibile.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blair Waldorf, Chuck Bass, Dan Humphrey
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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The Beauty Mark

 

Epilogo

Era stato disonesto da parte di Blair promettermi la sua felicità in cambio del mio perdono. Riuscii comunque a tenerla lontana da me per diverso tempo. Temevo che avrebbe potuto convincermi a cedere solo con uno sguardo o con il tocco leggero della sua mano, forse anche un’altra sua lacrima sarebbe bastata. L’unica volta che la incontrai, nell’atrio del Palace, aveva provato ad indurmi in tentazione: mi aveva sussurrato “Perdonami” annuendo leggermente, come la prima volta che mi aveva confessato il suo amore, mettendomi una mano sul petto. Mi ci vollero tutte le mie forze per prendere la sua mano nella mia, tenerla solo per un istante, farla scivolare via e rimanere impassibile.

I mesi passavano: Manhattan si tingeva di giallo, migliaia di foglie secche coprivano le strade e io cominciavo ad avere il presentimento che, tutto quel rancore, facesse più male a me stesso che a Blair. Mi ero imposto di non sapere troppo, mi bastava la sicurezza che stesse bene: Serena mi informava regolarmente del loro soggiorno a LA, le avevo chiesto io di convincere Blair a passare un po’ di tempo al sole della California. Una volta mi era anche capitato di sentire la sua voce, in una delle rapide e furtive telefonate che mi faceva Serena, ed ero stato felice di sentire quel tono dispotico e spazientito di quando ha bisogno di fare shopping. Mi aveva rincuorato per diversi giorni.

“Charles, non tutte le donne desiderano i loro bambini…” mi aveva detto Lily - cosa che sapevo bene essendolo stato io per primo - “ma finiscono sempre per amarli più di loro stesse” aveva aggiunto con calma e saggezza, in un grigio pomeriggio, togliendo la sua mano ingioiellata dalla tazza del tè per appoggiarla sopra la mia. Avevo chiuso gli occhi e atteso che il calore tiepido della mano di Lily si trasferisse sulla mia. In quel periodo passavo fin troppi attimi con gli occhi chiusi, creandomi un buio personale ogni volta che ne avevo bisogno.

In pubblico fingevo calma e diplomazia, il contegno severo di un uomo oberato di lavoro, ma il mio animo retrocedeva, diventando sempre più oscuro e ingestibile. Nonostante questo, gli eccessi non mancavano, ero pur sempre Chuck Bass: trovavo nella decadenza il divertimento. Occuparmi dell’intrattenimento vintage - del mio amato Victrola e del Gimlet - era un palliativo che mi permetteva di non perdere del tutto il contatto con la realtà. In quei mesi la realtà era sentire, non importava cosa o chi. Usavo i sensi, non i sentimenti o i ricordi. Erano donne senza volto, le palpebre non volevano aprirsi e le pupille non volevano vedere. I profumi, mischiati ad altra pelle, erano un tormento e un inganno. Impossibile non accorgersi della differenza, impossibile non ricordare chi avevo amato e perché, nonostante il perdono tardasse ad arrivare.

Credevo che non sarei mai stato capace di concederglielo perché non sapevo dimenticare. Poi, dopo tanto tempo, ne ebbi l’occasione.

Quella sera il Gimlet era stato scelto come sponsor di una grandiosa mostra di Andy Warhol al MoMA. Gli organizzatori del museo erano rimasti colpiti dall’esclusività dei drink e dall’eccentrica clientela, che ricordava l’estro del grande artista, e volevano anche assicurarsi che l’èlite di Manhattan prendesse parte all’evento, quindi scelsero di affidarsi a me, alle mie conoscenze e al mio gusto.

Nel museo, minimalista e moderno, i colori esplosi delle serigrafie facevano contrasto con i colori simbolo del Gimlet; venivano distribuiti bicchieri di cristallo fumé dal collo sottile e dalla coppa sfasata, contornata da un brillante filo d’oro, ed era stato richiesto ad alcune ospiti di presentarsi con una mise dorata. Nell’anonima folla di donne bellissime avevo visto Serena, spiccare tra le altre, con indosso un abito tutto luce e una cascata di onde selvagge nei capelli, appuntati da una spilla. La sua presenza non mi agitò, sapevo che era solita tornare a NYC ogni tanto e conoscevo bene la sua natura festaiola. Anche le gemelle, che mi avevano accompagnato all’evento, avevano scelto qualcosa di simile: ero entrato stringendo i loro corpi color oro per la vita, come avevo sempre usato fare. I flash mi avevano colpito spietati in viso, erano mitragliatrici di luce che mi provocavano solo dolore, al quale non potevo che rispondere con il mio solito ghigno accattivante. Nessuno sapeva quanto mi costava mostrare quell’atteggiamento. Dopo aver stretto centinaia di mani e ricevuto pacche sulla palla, avevo girovagato solo per i corridoi. Mi ero perso e poi avevo ritrovato la strada, fermandomi per osservare i volti tutti uguali di Marilyn, la zona dedicata alla Factory e quella della Andy Warhol’s Tv; nemmeno la pop art riusciva a risvegliare il mio sguardo: rimaneva opaco. Poi arrivai alle tende pesanti dei cinema improvvisati. In realtà erano solo piccole salette di proiezione, ma una mi colpì alla prima occhiata. Il tendone era di un tessuto chiaro cangiante e una targhetta recitava “Empire 1964”.

Empire, come il mio primo hotel. Lo stesso che lei mi aveva spinto a comprare, lo stesso che mi aveva riconsegnato con le labbra tremanti e la voce rotta. Quella vicenda mi aveva provato quanto fosse inaffidabile ma - allo stesso tempo - pronta al sacrificio di sé stessa perché io riavessi ciò che era mio. Mentre accarezzavo la tenda per scostarla, realizzai quanto la presenza di Blair mi mancasse e quanto fossi bisognoso di vederla ancora. Superate le onde di tessuto, mi trovai dentro al buio. Una luce grigia veniva dal fondo e, piano piano, mentre gli occhi si abituavano all’oscurità, scoprii di non essere solo. C’era qualcuno.

La fumosa luce del filmato illuminava una schiena nuda, esile e liscia, coperta solo da un leggero tessuto verde vivo. Un boccolo scuro sfiorava la spalla. Mi avvicinai cauto, sperando che non si voltasse: non ero pronto a vedere il suo viso. Non ancora. Mi sedetti accanto a lei: riconobbi subito la grazia della sua gamba accavallata e rimasi incantato da come il vestito di chiffon sapeva accarezzarle la coscia nuda. Al polso portava un bracciale brillante e teneva la mano solitaria abbandonata in grembo. L’abito si incrociava sul petto in un raffinato scollo. Quel dettaglio mi deliziò a tal punto da spingermi impaziente a guardarla in viso.

Un colpo al cuore mi seccò immediatamente la gola: Blair piangeva guardando una ripresa a telecamera fissa dell’Empire State Building. Lei decise di voltarsi verso di me, proprio in quel momento, indovinando i miei sentimenti e distogliendo lo sguardo dallo schermo. Si fermò a fissarmi così, senza neanche respirare. I suoi occhi erano grandi e limpidi, nonostante le lacrime scendevano sugli zigomi e sulle labbra socchiuse. Rimanemmo diversi secondi a guardarci e a riconoscerci in silenzio. Sul suo viso si proiettavano le imperfezioni della pellicola: schermi di luce, bolle e righine grigie. I fotogrammi scorrevano lenti e tutti uguali, come il nostro dolore. L’unica cosa che ci era rimasta. In quegli istanti ebbi paura che potesse dirmi: “Uccidimi, non voglio più vivere”1, come negli incubi – in bianco e nero – che mi visitavano ogni notte. Non seppi più resistere alla tentazione di prenderle la mano e di stringergliela. Le sue dita si abbandonarono confortate dalla mia presa. Non pensare più a cosa ci era accaduto sarebbe stato impossibile, ma in quell’attimo il perdono arrivò: era potente, liberatorio, salvifico. Non aveva nulla a che fare con il dimenticare, piuttosto con il ricordare, il capire e l’amare.

“Se ci fossimo incontrati sarebbe stato tutto diverso” ruppi il silenzio, parlando più con me stesso che con lei e alludendo a quella sera in cui, con delle peonie rosa confetto e un anello nel taschino interno della giacca, ero salito sul grattacielo più grande della città solo per lei.

“Ma non lo è” rispose prontamente con schiettezza e rassegnazione, prima di rivolgere di nuovo gli occhi allo schermo.

Blair… mi credi capace di perdonarti? Sai che lo farò, vero?” le chiesi, stringendole ancora di più la mano.

“E quando?” volle sapere lei continuando a guardare l’Empire.

“Ora” sussurrai sicuro, incapace di attendere un secondo di più per vederla felice.

Le ci volle qualche attimo per realizzare il significato delle mie parole. Blair si voltò piano, il suo viso era folgorato dall’emozione, le sue labbra aperte per la sorpresa e la confusione. La baciai all’istante alzandole il mento con le dita. Lei si appese con i pugni alla mia camicia bianca, sporgendosi verso di me. Il suo sapore confortante mi fece sentire bene, bocca nella bocca, sentii un riso salirle dalla gola. Mi fermai solo un attimo, allontanando il suo viso dal mio, con entrambe le mani, in modo quasi brutale per guardarla impaziente. Blair non aveva fatto in tempo ad aprire gli occhi, ma liberate le labbra dal mio bacio, quelle si distesero subito in un raggiante e aperto sorriso, che le scopriva i denti. Blair era pienamente felice. In quel momento realizzai che non c’era nient’altro che poteva renderla più bella: quello era l’unico segno che avrei mai voluto vedere sul suo viso.

 

FINE

 

 

 

Note:

1.      E’ una quote di “Le Notti di Cabiria” un film di Fellini che nomina Dan parlando con Chuck nella 4x18.

  
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