CAPITOLO
7
Mai più!
Non avrei mai più toccato
un goccio di alcool in tutta la mia vita. La sbronza non faceva
assolutamente al caso mio. Dopo il primo bicchiere di champagne, avevo
iniziato a vedere doppio e a barcollare, il secondo mi era stato
fatale. Nulla, non ricordavo più niente di quello che era successo
dopo, se avevo bevuto un altro bicchiere, se ero caduta come un sacco
di patate, se avevo vomitato sulle scarpe di qualcuno.
Nada! Tabula rasa! Mi
sorprendeva anche il fatto di essere su un comodo letto, probabilmente
il mio letto. Non era possibile che mi fossi trascinata da casa di
quella serpe ubriaca, ciondolando per le strade di Roma. Sicuramente
Robbeo mi aveva riportata a casa, non so come, ma era stato lui. Quel
cavernicolo di Ruben era troppo impegnato con Annalisa per accorgersi
delle mie condizioni. Di sicuro, mentre io biascicavo cose senza senso,
lui si appartava in qualche stanzino buio e desolato con quella Anna dai capelli rossi versione porno.
Vabbè, che cosa mi
importava a me? Meno di zero! Anche se non potevo fare a meno di
ripensare all'ennesimo sogno erotico che avevo fatto con lui come
protagonista. Era tutto molto offuscato, ma, da quello che ricordavo,
ci avevo dato dentro, eccome! E mi vergognavo pure di me stessa!
Celeste Fiore non faceva determinate cose, erano contro la sua
moralità. Ma, fortunatamente, sarebbe rimasto un mio segreto. Nessuno
avrebbe mai saputo di quel sogno. Era già abbastanza imbarazzante avere
dei flashback confusi, raccontarlo sarebbe stata la mia rovina.
Meglio non ripensarci,
faceva già abbastanza caldo senza che le immagini hot di me e quel
troglodita riaffiorassero alla mente. Colpa dell'alcool! Quel
maledetto! Odiavo non ricordare più nulla, odiavo anche solo pensare di
aver fatto la figura della cretina davanti a tutti. Avrei dovuto andare
in giro con un sacchetto di carta in testa, così, per non farmi
riconoscere da nessuno, nell'eventualità che qualcuno avesse
partecipato a quella festa. Non avrei sopportato essere additata come
l'ubriacona perché non lo ero mai stata. Figurarsi! Le poche volte che
andavo in discoteca o in qualche pub ordinavo sempre e solo Sprite! Per
di più, se qualcuno mi avesse insultata, non sarei riuscita a
trattenermi. Una sedia o un qualsiasi altro oggetto di grandi
dimensioni scagliato sulla schiena, a mò di wrestler nevrotico, sarebbe
stata l'ideale. Ma, di certo, non volevo passare settimane in carcere o
agli arresti domiciliari. Per cui, il sacchetto era l'unica soluzione.
Aprii gli occhi con
fatica, cercando di abituarmi alla luce del giorno. La testa mi
scoppiava, lo stomaco sottosopra e un peso opprimente sul petto che non
mi permetteva nemmeno si respirare. Per un attimo, pensai di morire da
un momento all'altro, magari l'alcool aveva strani effetti su di me.
«Dio mio, che mal di
testa» biascicai, con la bocca impastata dal sonno e dai postumi dello
champagne.
Mi stropicciai gli occhi
e guardai la sveglia sul mio comodino che segnava le undici passate.
Oddio, non era affatto da me! Solitamente, alle sette e trenta in
punto, ero in piedi, scattante e isterica al punto giusto. Invece,
quella mattina, l'unica cosa che avrei voluto fare era starmene a letto
a poltrire, rannicchiata nelle mie lenzuola a sonnecchiare, come una
specie di Robbeo, ozioso e con lo spirito di un bradipo.
Altro
motivo per cui non è conveniente bere alcool: la trasformazione in un
pigro, scansafatiche, odioso Romeo.
Cercai la forza di
alzarmi dal mio caldo lettuccio, prima che la mutazione in quel babbeo
avvenisse sul serio e la prima cosa che feci fu scostare il lenzuolo.
Un passo dopo l'altro, un piccolo passo dopo l'altro prima di
svegliarmi del tutto. Abbassai lo sguardo sul mio corpo, ancora
fasciato dal vestito rosa confetto che avevo indossato per la festa.
Almeno aveva avuto la decenza di non spgliarmi. Mi squadrai da capo a
piedi per un paio di volte. Tutto normale, a parte una mano grande
sulla mia tetta. Scrollai le spalle e sbadigliai sonoramente,
stiracchiandomi come un gatto, sentendo la mia schiena strusciare
contro qualcosa.
O
qualcuno.
Sbattei più volte le
palpebre, dubbiosa. C'era qualcosa che non mi quadrava e non mi
riferivo alla palla da calcio autografata da chissà-chi che giaceva sul
mio pavimento, quando il suo posto era nella camera di Robbeo.
Ehm,
Celeste, non vorrei allarmarti, ma ti ricordo che hai una mano sulla
tetta. E non è la tua, a meno che non sei diventata, in una notte, il
dottor Octopus.
Abbassai di nuovo lo
sguardo verso il mio seno e la vidi, grande, che mi strizzava nemmeno
fosse un limone. Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, il cuore
pulsarmi nelle tempie, rendendo la mia testa una bomba ad orologeria
pronta a scoppiare. Maiale! Chiunque fosse quel maniaco che si era
infilato nel mio letto e magari aveva anche abusato di me, mentre io
ero semi incosciente, avrebbe subito la mia furia. Che fosse stato
Robbeo o il presidente degli Stati Uniti.
Se fossi stata in un
cartone animato, in quel momento, sarebbe comparsa sulla mio fronte,
una vena pulsante e la mia testa si sarebbe gonfiata come un pallone
pieno di elio. Ma quello non era un cartone, solo la realtà. Per cui mi
limitai a urlare, sbraitare come un'ossessa e, se ci fosse stato un
bicchiere di cristallo, ero sicura si sarebeb frantumato per i decibel
raggiunti dalla mia voce. Mi agitai nel letto quasi fossi Regan durante
l'esorcismo, cercando di liberarmi dal tentacolo di quel maniaco. Lui, il pervertito, sobbalzò, sentendo
le mie grida e scattò, mettendosi seduto.
«Che è?!» biascicò,
guardandosi intorno spaesato «Mourinho è il nuovo allenatore della
Magica?»
Mi voltai, lentamente,
con il mio respiro pensate che scandiva ogni secondo, manco fossimo in
un film nell'orrore. O meglio, qualcosa di spaventoso stava per
accadere. Io ero l'assassino, mentre LUI la mia vittima. Avevo
riconosciuto la sua voce, come non avrei potuto farlo, e mi sembrò più
fastidiosa del solito. Ma, magari, mi ero sbagliata, l'alcool non era
ancora stato smaltito, per cui avrei dovuto verificare con i miei
stessi occhi. Mi voltavo, a rallentatore, quasi avessi paura di
ritrovarmelo davvero di fronte. E, quando avvenne, occhi e bocca si
spalancarono all'unisono, alla stessa velocità, in una chiara
espressione indignata, incredula e rabbiosa allo stesso tempo.
Aveva i capelli
scompigliati, gli occhi a mezz'asta perché ancora assonnato e si
grattava la nuca, cercando di rimembrare dove fosse. Era tanto tenero
in quel momento, sembrava quasi un bambino e la prima cosa che pensai
di fare fu abbracciarlo, strapazzarlo di coccole come facevo da piccola
con il mio pupazzo di Topo Gigio.
Ti
ricordo che ti strizzava una tetta! E chissà che altro ha fatto!
Ma i miei pensieri
subirono immediatamente un cambi di rotta e il gatto che era in me si
risvegliò, pronto a sbranarsi quel topolino.
«CHE.COSA.CI.FAI.TU.NEL.MIO.LETTO?»
scandii ogni parola con rabbia, con l'aria che, pesantemente mi usciva
dal naso, come se fossi un toro a cui avevano strizzato le parti basse.
Ruben, dopo avermi messo
a fuoco, annuì, ricordando, molto probabilmente, cosa fosse successo
quella notte e sorrise sornione.
«Ti ho accompagnata a
casa. Eri più sbronza di me dopo una vittoria in Champions League»
ridacchiò, divertito «Da te, non me lo sarei mai aspettato! Non è che
mi diventi un'alcolista anonima!»
«Fa poco lo spiritoso,
Ruben!» mi alzai dal letto e mi sistemai il vestito coprendomi
maggiormente le gambe.
«Ti sei trasformata!
Dovevi vederti!» continuò, stiracchiandosi «Sembravi una gattina»
E, dopo quel commentino
poco gradito, fui accecata dalla collera. Serrai i pugni e, svelta e
decisa, lo raggiunsi dall'altra parte del letto, dove era seduto. Si
stava sistemando i capelli scompigliati con una mano, sbadigliando
senza mettersi, ovviamente, una mano davanti alla bocca. Non appena mi
vide comparire davanti a lui mi regalò un sorriso che forse, se lo
avesse fatto in un'altra situazione, mi avrebbe sciolto come burro al
sole. Ma in quel momento, nulla poteva arginare la mia rabbia, né uno
stupido sorriso e nemmeno una camomilla. Ero fuori di me,
completamente. Co mancava solo che diventassi Super Sayan e che lo
disintegrassi con un'onda energetica.
Allungai una mano verso
di lui e gli afferrai l'orecchio, obbligandolo ad alzarsi dal mio
letto, nel quale si era intrufolato senza il mio consenso.
«Ahia, Cel!» si lagnò,
mentre, piegato verso di me, mi seguiva passo passo per tutta la camera.
Non dissi nulla,
bastavano i mie grugniti pieni di rabbia per comprendere che non era il
caso di discutere. Un'altra provocazione e sarei esplosa, con
conseguenze disastrose.
«Mi stai facendo male!»
borbottò, con una smorfia di dolore dipinta in volto «Si può sapere che
cazzo ti prende?»
Three...
«Cosa mi prende dici?!»
sibilai, trucidandolo con lo sguardo.
Mi fermai proprio in
mezzo alla stanza e allentai la presa sul suo orecchio, permettendogli
di massaggiarselo. Mi guardò confuso, aspettando una spiegazione per la
mia collera. Come se non fosse ovvio, accidenti! Ah no, lui era
abituato a infilarsi in letti che non erano i suoi, così, con facilità.
«Sei solo un pervertito,
l'ho sempre saputo!» sbraitai, puntandogli un dito contro con fare
minaccioso «E non appena ho abbassato la guardia TU» e la rabbia crebbe
in me, ripensando alla sua mano sul mio seno. Feci un passo verso di
lui e gli diedi una sberla sul braccio «TI SEI» altro schiaffo e lui,
intanto, cercava di pararsi dai miei colpi «APPROFITTATO» un calcio
sullo stinco, che non guastava mai «DI ME!»
Avevo urlato così forte
che primo tutto il condominio mi aveva sentito, sicuro e secondo mi
bruciava la gola. Sarei rimasta senza voce se continuavo in quella
maniera. Ma poco mi importava. Dovevo perforagli i timpani a quel
maiale.
«Calmati Cel! Te viene un
infarto così!» tentò di sdrammatizzare, ma il suo tentativo mi fece
innervosire ancora di più.
Two...
«Vuoi capirlo, maiale
decerebrato, che io mi chiamo CELESTE! Non Cel!» gli sputai in faccia
quelle parole con disprezzo.
«Vacci piano con gli
insulti» aveva anche il coraggio di offendersi. Dio solo sapeva che
cosa mi tratteneva dal non ucciderlo a sprangate.
«Fuori da casa mia» gli
intimai, a denti stretti, indicando la porta d'uscita.
Era meglio che se ne
andasse, se non voleva vedermi trasformarmi in una bestia feroce. Ero
un tipo nevrotico, questo lo sapevo bene. Ma era difficile farmi
imbestialire, tanto da urlare come una civetta in calore e Ruben ci era
riuscito perfettamente, approfittandosi di me.
«Celeste, davvero, non è
come sembra» cercò di tranquillizzarmi «Posso spiegarti tutto» e le sue
mani si allungarono verso di me, a stringermi le spalle.
One...
Evacuare
la zona! Ripeto, evacuare la zone. La bomba Celeste è pronta ad
esplodere.
Gli strinsi i polsi e mi
liberai, con uno strattone un po' troppo violento, delle sua mani
troppo polipose per i miei gusti. Dopo quello che era successo, lui non
poteva toccarmi. Mai e poi mai!
«Come osi toccarmi con
quelle luride mani?!» sbraitai, infuriata e avrei scommesso che in quel
momento avevo gli occhi fuori dalle orbite. Ruben mi guardò in un misto
tra lo spaventato e l'incredulo. Sembrava sempre sul punto di dire
qualcosa ma, prima di parlare, richiudeva le labbra dischiuse, forse
senza avere il coraggio di proferire quelle parole misteriose.
«So bene che tu sei
abituato a svegliarti in letti diversi ogni giorno, ma non avevi il
diritto di intrufolarti nel mio mentre io ero ubriaca e approfittarti
di me!» urlai, agitando le mani come una pazza, abbassando lo sguardo
verso il pavimento. Ero nervosa, arrabbiata e avrei voluto distruggere
tutto ciò che mi circondava per sfogarmi.
«Hai un'alta
considerazione di me» constatò, con una certa amarezza. Lo avevo sempre
visto spavaldo e spocchioso ma, in quel momento, era come avere un
altro Ruben davanti, una persona diversa da quella che avevo
conosciuto, un ragazzo che non si faceva scivolare addosso qualsiasi
cosa, fregandosene altamente di ciò che pensavano gli altri. Anzi,
sembrava proprio che le mie parole lo avessero colpito nel profondo, ma
non ci badai. Ero troppo infuriata per cercare di capirlo «E comunque
io non mi sono approfittato di me. Non lo avrei mai fatto contro la tua
volontà!»
Rimasi interdetta per
alcuni istanti, come se quella frase nascondesse nelle sue parole
enigmatiche qualcosa che l'alcool aveva offuscato. Non gli diedi
importanza, non mi arrovellai per capire. L'unica cosa che volevo in
quel momento era farlo uscire da casa mia e di non rivederlo mai più.
«Ah no! E la tua mano
sulla mia tetta cosa ci faceva, eh?!» sbraitai, portandomi a pochi
millimetri da lui e guardandolo dritto negli occhi «Chissà cosa mi hai
fatto, mentre io non capivo nulla!»
«Per chi mi hai preso?!»
fu la sua volta di urlare. Non lo avevo mai visto così arrabbiato e
teso, così offeso da quello che gli stavo dicendo «Sarò anche un
cazzone, un perdi giorno, un bastardo e tutto quello che vuoi. Ma non
mi permetterei mai e poi mai di toccare una donna senza il suo
consenso!» scandì ogni singola parola con amarezza e voce traballante,
quasi stridula.
Ok, forse avevo esagerato
un po' troppo. Ci ero andata giù pensate con le accuse e il suo
atteggiamento, le sue parole e il tono della sua voce mi fecero capire
che era sincero, che non mi aveva nemmeno sfiorata. Ma, ormai, ero
talmente infuriata da non riuscire a controllarmi.
«Oh, ma che cavaliere!»
tuonai sarcastica «Fammi il piacere di andartene da qui e sparire dalla
mia vita»
Ruben serrò i pugni e mi
guardò sconvolto, leggermente deluso per quello che stava succedendo.
Deglutì e annuì, passandosi una mano tra i capelli.
«Non ti ricordi nulla?»
mi domandò, con tono calmo e triste.
«Di che?!» risposi,
incrociando le braccia al petto.
Di cosa stava parlando
quel troglodita? A cosa alludeva?
«Nulla» sospirò,
scrollando la testa.
Rimase in piedi, vicino
allo stipite della porta della mia camera e sembrava non avere
intenzione di andarsene. Picchiettai il piede sul pavimento, attendendo
che lui sparisse dalla mia stanza e dalla mia vita.
«Dai, adesso cerca di
rilassarti» disse, con un sorriso «Non vorrai mica rimanere senza
voce?!»
Stava davvero cercando di
recuperare qualcosa tra di noi? Qualcosa che non c'era mai stato?
Sorrisi incredula e scossi la testa, umettandomi le labbra.
«Cerca un attimo di non
pensare con l'uccello e seguimi» cercai di mantenere la calma «Vai
fuori di qui!» urlai. Di nuovo.
«Ma...» tentò di dire, ma
non gli permisi di rispondere.
Incrociai le braccia al
petto, gli occhi pieni di rabbia che, se avessero potuto, lo avrebbero
incenerito.
«Vattene, Ruben» ringhiai.
Lui mi guardò con quei
suoi occhi verdi spalancati, spenti, privi di quella luce che avevo
sempre visto dentro di loro. Sembrava triste, amareggiato per cosa era
successo, per come lo avevo trattato, perché, forse, teneva a me.
Ma cosa andavo a pensare?
Ad uno come Ruben non poteva interessare una ragazza isterica il cui
unico interesse erano i libri. Lui cercava le modelle, le figone
vestite di marca che non spiccicavano una parola di italiano, brave
solo a darla via come se fosse pane e vantarsi di questo. Io ero troppo
banale, per lui, non ero interessante. Non aprivo le gambe con
facilità, per cui ero off limits.
Non seppi spiegarmi il
motivo, ma pensando a queste cose, una patina opaca mi coprì gli occhi,
come se volessi scoppiare a piangere da un momento all'altro. Colpa del
nervosismo, di sicuro.
Ma
chi vuoi prendere in giro?! È solo la triste realtà che ti fa questo
effetto. Tu e Ruben non siete compatibili...
«Ti prego, vai via» mi
trattenni dallo scoppiare a piangere e mi morsi un labbro.
«Okay» abbassò lo
sguardo, come se fosse si fosse arreso.
Prima di imboccare
definitivamente la porta di camera mia, si voltò a cercare i miei
occhi. Le nostre iridi si incontrarono per un solo istante ma bastò
perché sentissi qualcosa, dentro di me rompersi, con un sonoro crack
che mi riempì le orecchie.
Lo sentii salutare
Robbeo, prima di sbattersi la porta alle spalle. E fu in quel momento,
quando Ruben era davvero uscito dalla mia vita, che mi sentii vuota e
sola, nonostante in casa con me ci fosse Romeo. Era una sensazione
strana, mai provata in vita mia, nemmeno quando il mio ex ragazzo,
l'unico di cui mi fossi innamorata per davvero – come una cretina – mi
aveva mollata per un'altra. Rimasi imbambolata in camera mia chissà per
quanto, forse secondi o anche minuti interi, a fissare il vuoto di
fronte a me e dentro di me, fino a quando non spuntò Robbeo che
si appoggiò allo stipite con una spalla, sorseggiando il suo caffè.
«Che vuoi?» gli domandai
brusca.
«Divertita alla festa?»
chiese, guardandomi con sufficienza.
«Nemmeno un po'» sibilai
e mi lasciai cadere di nuovo sul letto, pesantemente. Che giornataccia
sarebbe stata quella! Già me lo sentivo che sarei stata tutto il tempo
con i nervi a fior di pelle. Dovevo darmi una calmata, se non volevo
uscirne pazza.
«Ah, beh, forse hai
preferito la fine serata, vero?» era un po' troppo allusivo per i miei
gusti. Socchiusi gli occhi e lo guardai torva.
«Spiegati Robbé»
«Beh, eri in camera con
Ruben, più chiaro di così!» sbottò all'improvviso, paonazzo come un
peperone.
Sorrisi incredula e mi
portai entrambe le mani tra i capelli. Dio, quanto era ottuso quel
ragazzo. Ci voleva una grande pazienza per sopportarlo e la mia non
sapevo do dove la prendevo.
«Non è successo nulla» lo
tranquillizzai, acida «Non so se mi hai sentita sbraitare come
un'aquila! Non mi sembravano grida di felicità per essermelo trovato
nel letto»
«Sarà» ribatté vago,
guardandosi con meticolosità la punta delle dita «Sta di fatto che
state sempre insieme, voi due!»
«Sei geloso, per caso?»
incrociai le braccia ed attesi la sua risposta.
L'aria da spavaldo che
aveva fino a quel momento sparì d'un tratto e divenne un tutt'uno con i
suoi capelli rossi. Quella sua esitazione mi fece riflettere, anche se
non molto, sulla possibilità che lui sentisse qualcosa per me. Ma,
figurarsi! Molto probabilmente era geloso del fatto che lo avevo un po'
ignorato in quei giorni, tutto lì.
«Macché!» esclamò «Dico
solo che siete sempre appiccicati. Ci manca solo che vi sposiate!»
E l'immagine di me,
vestita di bianco e Ruben, che mi attendeva all'altare, mi comparve
davanti agli occhi. Avvampai all'improvviso. Avevo sempre sognato il
matrimonio, ma mai con un tipo come Ruben. Anche, se, tutto sommato,
vestito in smoking era davvero affascinante. Per non parlare poi del
suo sguardo che si faceva sempre più liquido mentre io mi avvicinavo,
accompagnata da mio padre.
Fantastichi
troppo...
Mi alzai di scatto dal
letto e superai Robbeo, senza dargli spiegazioni. Avevo bisogno di una
doccia. Una bella doccia calda che avrebbe spazzato via tutto quello
che era successo durante la mattinata, che avrebbe dissolto il sogno
erotico che avevo fatto con Ruben e, magari, l'acqua, si sarebbe
portata via, con sé, il suo ricordo.
Un'uscita pomeridiana era
l'ideale per dimenticare il nervosismo della mattinata e non avrei mai
ringraziato abbastanza J che mi aveva invitata a trascorrere qualche
ora con gli animali. Ero sicura che quelle tenere bestiole sarebbero
state in grado di farmi sorridere, di distrarmi e di non pensare a
Ruben. Invece, dovetti ricredermi.
Eravamo fermi, appostati
di fronte alle scimmie, attendendo che facessero qualcosa di
spettacolare, oltre a rimanere imbambolate sui rami degli alberi. La
mia immagine era riflessa sul vetro e mi guardai a lungo, poco
interessata a quelle piccole scimmiette. Sentivo che c'era qualcosa di
opprimente nella mie mente, qualcosa che non riusciva a farmi
ragionare, ma non riuscivo a capire cosa. Cercavo la risposta in me
stessa, nella mia immagine riflessa, come se potesse prendere vota
tutto d'un tratto e spiegarmi il motivo della mia confusione. Ero
sicura centrasse Ruben e con lui la festa di Annalisa. Era successo
qualcosa in quella casa, ma non riuscivo a ricordare cosa.
«Oddio, hai visto!»
esclamò estasiato J, indicando le scimmie.
Mi voltai verso di lui ed
incontrai il suo sorriso, il suo sguardo estasiato perso a guardare
quelle creature. Era così tenero in quel momento, ma, stranamente, non
andai in brodo di giuggiole come mi succedeva sempre quando ero in sua
compagnia, anzi, ero quasi indifferente alla sua bellezza, il ché mi
preoccupò.
Il fatto era che non
riuscivo a togliermi dalla testa Ruben. In un modo o nell'altro lui era
entrato a far parte della mia vita, della mi a quotidianità e mi
sarebbe mancato lui, le sue provocazioni e i suoi errori grammaticali.
Lo avevo sempre preso in giro per il suo linguaggio, ma non potevo dire
che non mi fossi divertita con lui. Prima che Ruben arrivasse ero solo
una fredda, cinica ragazza bionda saputella che faceva da maestrina a
tutti. Ero un'asociale, insomma. Se non fosse stato per Robbeo sarei
rimasta sola. Non avevo nessuno al mio fianco e questo per colpa della
mia freddezza, del mio sarcasmo che allontanava le persone da me.
Tutte, tranne Ruben, l'unico che riusciva a sopportarmi e che mi aveva
fatto vivere, anche se per pochi giorni. Con lui al mio fianco avevo
realmente goduto di ciò che la vita mi offriva, avevo staccato per un
attimo il mio cervello razionale e mi ero divertita. Ma, ormai, era
tutto finito ancora prima di iniziare.
«Oh sì» risposi, dopo
diversi minuti, anche se in realtà non avevo visto nulla, se non me
stessa.
J mi rivolse un sorriso,
poi controllò la mappa che ci avevano dato all'ingresso e si guardò
intorno, per ambientarsi.
«Per di là!» esclamò,
entusiasta, indicando alla sua destra.
Mi afferrò per un braccio
e mi trascinò verso le maestose giraffe che sbocconcellavano le foglie
da alti alberi.
«Hai visto che belle!»
Sembrava un bambino,
tanto era felice di vedere gli animali. Ok, erano belli, teneri e
dolci, ma tutto quell'entusiasmo non lo capivo.
Se
smettessi di pensare a Ruben, forse, apprezzeresti le bellezze della
natura.
Fosse facile! Con tutto
l'impegno che ci mettevo, lui era sempre lì, nella mia testa.
Un'immagine chiara, nitida, quasi spaventosa si fece largo tra i miei
ricordi. Noi due, rinchiusi in una specie di sgabuzzino, uno davanti
all'altra, occhi negli occhi, corpo contro corpo. Quell'immagine
l'avevo sognata, ne ero più che sicura, o almeno speravo che fosse
così. Eppure, mi sembrava quasi di ricordare il suo tocco, di ricordare
le sue labbra e la sua voce che usciva in un sussurro che mi diceva
quanto fossi bella quella sera.
«Hey, Cel, sei con me?»
mi domandò J, sventolandomi una mano davanti agli occhi.
Tornai alla realtà,
scuotendo la testa e gli sorrisi, annuendo.
«Sì, scusa. Pensavo agli
esami» mi giustificai.
Sì,
di anatomia umana. Argomento: il corpo di Ruben...
Sempre acido e sarcastico
il mio subconscio, anche quando non era gradito il suo intervento.
«Sempre allo studio
pensi? Cerca di goderti la vita, Cel!» esclamò e si incamminò lungo i
viottoli dello zoo.
Lo seguii,
svogliatamente, raggiungendo, così, qui chiassosi uccellacci anche
chiamati fenicotteri. Facevano un rumore assordante con i loro versi,
sembrava quasi che stessero litigando e mi parve di vedere me, dentro
quello stagno. Isterica, fuori di me, arrabbiata. Per di più erano
anche rosa, come il mio vestito a quella festa, per cui erano la mia
perfetta rappresentazione di quella mattina. Ero stata cattiva con lui,
avevo esagerato sia nei toni che nelle parole. Ma non ero riuscita a
trattenere la rabbia, c'era qualcosa dentro di me che mi imponeva di
urlargli contro, di allontanarlo da me, sempre quel dannato sogno che
mi martellava in testa e che, via via, si stava ricomponendo nella mia
mente. Hot, molto hot, talmente tanto da riscaldare l'ambiente che mi
circondava.
«Vieni, andiamo a cercare
i leoni!» ancora una volta, la voce di J mi riportò sulla terra ferma.
Annuii con poca
convinzione e seguii il suo stesso percorso, rimanendo, però indietro
di qualche passo. Ero uscita di casa con tutte le intenzioni di
divertirmi, di non pensare a Ruben e i miei piani erano stati
completamente stravolti. Per cui, la voglia di passeggiare tra varie
bestie, innocue o feroci che erano, era completamente sparita. Volevo
solo tornarmene a casa e buttarmi sui libri, affondare nello studio, il
mio unico rifugio da ciò che mi circondava.
«Sei già stanca, Cel?» mi
domandò, camminando come un gambero per potermi guardare in faccia.
«Un pochino» mentii, con
un sorriso abbozzato.
«Se vuoi ci fermiamo a
prendere qualcosa da bere» propose ed io accettai al volo.
Mi dispiaceva per J.
Insomma, lui era così felice ed elettrizzato di essere allo zoo e
doveva sopportare un cadavere come me che lo seguiva passo passo. Non
ero di nessuna compagnia per quel povero ragazzo, che, il più delle
volte, si era ritrovato a fare commenti senza che io gli rispondessi.
Ci fermammo ad un piccolo
chiosco ed ordinammo qualcosa di fresco da bere. Sprite per me e
limonata per lui. Rimasi a fissare la bottiglia colorata della mia
bibita per alcuni secondi. Che mi stava capitando? Nessun ragazzo era
mai riuscito a ridurmi in quello stato. Nessuno era mia stato in grado
di entrare nei miei pensieri, sconvolgerli e diventarne il centro. I
ragazzi non mi erano mai importati così tanto. Dopo la delusione del
mio ex mi era chiusa verso l'altro sesso, in tutti i sensi e non avevo
mai permesso a nessuno di entrare dentro di me, né nella mia mente, né
nel mio cuore, né nelle mie mutande. E invece, con Ruben, era stato
diverso. Lui era riuscito fin da subito a smuovere qualcosa dentro di
me. Forse i suoi occhi, forse il suo sorriso accattivante o solo il
fatto che ci cercavamo, inconsciamente, sempre e comunque.
«Ti vedo strana, oggi»
commentò J, sorseggiando la Lemon Soda.
«Niente di ché. Ieri sono
stata ad una festa e ho alzato un po' troppo il gomito. Sono ancora un
po' scombussolata» gli spiegai.
«Mi stupisci, se dici
così» ridacchiò divertito e lo trucidai con lo sguardo «Intendo. Non mi
sembri il tipo che va ad una festa e che si sbronza. Sembri una ragazza
tutta casa e università»
«E lo sono!» confermai
«Ma mi hanno invitata, così ci sono andata»
Il tutto si era svolto un
po' diversamente, però omisi il fatto che, per orgoglio, mi ero auto
invitata a casa di Annalisa. Non l'avessi mai fatto, almeno non avrei
litigato così furiosamente con Ruben.
«Romeo?» mi chiese,
sospettoso «Ti ha invitata lui?»
Deglutì a fatica la
Sprite, che scese lungo il mio esofago in blocco, come se si fosse
ghiacciata tutto d'un tratto. Scossi la testa e lui mi guardò curioso,
spronandomi, con i suoi occhi azzurri, a raccontargli tutto.
«Ruben» soffiai.
J, dapprima, corrugò la
fronte, poi scoppiò in una risata incredula, affondando nello schienale
della sedia.
«Con quel mentecatto?»
«Mi sembrava scortese non
accettare il suo invito» spiegai, anche se ben sapevo che fosse una
bugia. Ma tanto J non lo avrebbe mai scoperto, quindi...
«Dai, Cel, non mi dire
che ti fidi di quello lì» mi rimbeccò, allungandosi sul tavolo e
guardandomi quasi sconvolto.
«Perché non dovrei? Il
fatto che non sappia coniugare il verbo essere non mi fa sospettare di
lui» risposi, leggermente acida.
«Boh, non saprei» disse
vago «Quel ragazzo non mi convince» e scosse la testa.
Quindi non ero l'unica ad
avere dei dubbi su di lui. Il fatto che J avesse percepito la mia
stessa sensazione, mi spiazzò e mi convinse sempre di più che Ruben
avesse tanti, troppi segreti.
«Secondo me dice un sacco
di bugie!» disse, convinto dalle sue stesse parole «Ed è attratto da
te! Anche molto! Lo si vede a miglia di distanza»
«Ma figurati» trillai,
diventando paonazza. Bevvi un sorso di Sprite per calmare i bollenti
spiriti, sfuggendo dallo sguardo di J «Io non sono affatto il suo tipo.
Siamo su due pianeti diversi!»
«Dici?» sospirò J,
sollevando i suoi occhi azzurri verso il cielo «Probabilmente sono io
che mi sbaglio. Magari lui, l'altro giorno non ti stava guardando le
tette, ma solo la maglietta»
Per poco non gli sputai
la Sprite in faccia, talmente ero sconvolto da quella rivelazione.
«Che cosa?!» sbottai e
avrei voluto strangolare Ruben, in quel momento esatto.
«Sì! Ti squadrava da capo
a piedi, come se volesse portarti a letto, insomma» mi spiegò J, con un
certo disprezzo nella voce «E secondo me la festa è stata solo un
pretesto»
Oddio, così dicendo mi
riempiva di dubbi. Già non ero del tutto sicura su Ruben, non lo ero
mai stata, a partire dal suo lavoro da fioraio e dal suo viso che,
sapevo, di aver già visto.
«Non credo che sia così
subdolo» tentai, più che altro, di convincere me stessa.
«Oh mia cara Celeste! Tu
non conosci gli uomini quanto li conosco io» sospirò, con fare saccente
«Ce ne sono alcuni che farebbero di tutto
per poter avere tra le mani l'oggetto del proprio desiderio» lo disse
una malizia che mi preoccupò.
Non credevo possibile che
Ruben arrivasse a tanto, non dopo come aveva parlato in camera mia.
Eppure non potevo fare a meno che prendere dalle labbra di J ed annuire
ad ogni sua affermazione.
«Lui ti ha invitata ad
una festa, sperando, sicuramente, che tu ti ubriacassi per poter
approfittarsi di te. Non sai quanti ne ho visti fare cose del genere»
mi confidò, in un sussurro.
Rimasi in silenzio, ad
ascoltare quelle parole che mi trapassarono da parte a parte. E
non tanto per la sfiducia che J riponeva in lui e i miei dubbi
crescenti, ma sempre per quel maledetto sogno che, in quel momento, era
vivido nella mia memoria. Ogni singola scena, ogni singola parola, ogni
singolo sospiro, respiro, tocco. Le nostre labbra che si avvicinavano,
si schiudevano in un bacio intriso di passione. Le sue mani sul mio
corpo, che lo accarezzavano e lo bramavano. Ed io, che, trascinata da
uno strano piacere, mi abbandonavo a lui, avvolgendolo con la mia
bocca. Ogni singolo momento, attimo di quell'episodio nello sgabuzzino
trovò la sua nitidezza e mi travolse come uno tsunami. D'un tratto, non
ero più sicura che quello fosse solo un sogno.
♥♥♥
Gli occhi di Celeste
erano spalancati, azzurrissimi, velati da una patina leggera di lacrime
causata dall’aver finalmente realizzato quello che era successo tra di
noi. Mi aveva urlato in faccia tutto il suo disprezzo, ogni singola
parola di rabbia si era infranta contro il mio Ego, incrinandolo pian
piano, come un muro di ghiaccio.
Ed ora era in piedi
davanti a me, con le braccia incrociate, mentre mi urlava chiaramente
di andarmene da casa sua.
«Vattene, Ruben» ringhiò,
più sincera che mai.
Quello che era successo
la sera precedente era stato soltanto un caso, un futile errore del
destino, ma quello che mi ferì maggiormente era che Celeste non
ricordava nulla. La festa di Annalisa, la gelosia causata dalla
vicinanza della rossa, la musica alta, e poi quel maledetto champagne,
da lì in poi era soltanto buio nella sua testa.
Ero stato un egoista ad
aver approfittato del momento, ad aver lasciato che tra di noi
succedesse questo, ma Celeste mi era apparsa più bella che mai,
completamente diversa dalle modelle che ero solito frequentare.
La sera l’avevo
accompagnata a casa, l’avevo messa a letto, poi, non ricordo per quale
assurdo motivo, ero rimasto anche io, addormentandomi al suo fianco.
Neanche fossi il suo ragazzo.
«Ti prego, vai via»
disse, trattenendo un singhiozzo e mordendosi il labbro inferiore.
Anche con i capelli
scompigliati e un po’ di trucco che le era colato attorno a quei
meravigliosi oceani che erano i suoi occhi, rimaneva estremamente
attraente.
Più di quanto avrei
voluto, dannazione.
«Okay» mi limitai a dire,
sapendo che non c’era verso di farla ragionare.
Quando si metteva in
testa una cosa era difficile dissuaderla, ed io ero arrivato ad un
punto in cui se avessi insistito mi sarei esposto troppo. Non avrei
potuto dirle mai di quella sera, avrei tenuto quel segreto dentro di
me, senza mai condividerlo con nessuno.
Leonardo Sogno non poteva
tenere ad una persona, lui viveva per le relazioni del momento. I
giornali scandalistici campavano di questi gossips e se mi fossi
accasato, se avessi chiesto a Celeste di essere la mia ragazza, allora
sarebbe finito tutto.
La
pubblicità è tutto per uno come me.
E non c’era niente di
straordinario in Celeste Fiore, almeno per gli altri.
Se il mondo l’avesse
vista con i miei occhi, se avesse potuto sapere quante sfaccettature
aveva il suo carattere, di quanta determinazione era capace,
sicuramente sarebbe stata al centro dell’attenzione più del
sottoscritto.
Mi voltai e imboccai la
porta della sua stanza, fermandomi sulla soglia e guardandola di nuovo.
Ancora con quel maledetto vestito rosa in dosso, quello sguardo
acquamarina che nonostante tutto mi cercava.
Inconsapevolmente
mi stai facendo male, ed io non posso permettermelo.
Questo è quello che avrei
dovuto dirle, soprattutto perché la sera stessa avrei avuto una partita
e dovevo rimanere concentrato. La mia vita privata non aveva mai
influito sulle mie prestazioni in campo, ma questo era successo prima
di incontrare Celeste.
Avrei odiato Annalisa e
quella stramaledetta festa per tutto il resto della mia esistenza. Se
avessi avuto la possibilità di tornare indietro, l’avrei fatto, anche
subito.
La vita di Leonardo era
stata solo in discesa prima dell’arrivo di Celeste.
«Ciao» le sussurrai, poi
sparii nel corridoio.
A passi veloci percorsi
tutta la distanza che mi separava dal portone dell’appartamento,
sperando di raggiungerlo il più presto possibile, ma dalla cucina
apparve misteriosamente Romeo, con una tazza fumante di caffè in mano.
«’Giorno» bofonchiai,
aspettandomi che mi avrebbe placcato per sapere le ultime novità o per
chiedermi se poteva venirmi a vedere la sera stessa all’Olimpico.
«…» nessuna risposta.
I suoi occhi verdi
incontrarono i miei e vi sfuggirono subito dopo. Da quel breve contatto
avevo inteso che un’ombra di rancore si stagliava sulla sua testa, ma
in principio non capii immediatamente per quale motivo ce l’avesse col
sottoscritto.
Visto che in quella casa
non ero desiderato, tanto valeva che me ne andassi.
Imboccai il portone e
successivamente le scale, chiudendomi l’uscio alle spalle con un tonfo
e separandomi per sempre da quello che era successo nemmeno
ventiquattro ore prima.
Arrivai nell’androne
troppo velocemente, sentivo ancora gli stessi pensieri che mi
vorticavano prepotenti tra le pareti della testa, rimbalzando in
continuazione e tornando indietro, più forti di prima.
Perché mi sentivo così
strano? Possibile che il rifiuto di Celeste mi facesse così male? Era
nato tutto come un gioco, bugia dopo bugia, ed ero stato attento a non
lasciarmi coinvolgere. Celeste mi aveva attratto perché rappresentava
una sfida, ma ormai il bacio c’era stato –anche più di uno– e c’era
stato anche qualcos’altro.
Avrei potuto finirla lì,
tornare alla mia vita di prima, fatta di feste, di discoteche, di
allenamenti spossanti e di tanto, tantissimo, sesso senza impegno.
E
allora perché vorresti tornare nel suo letto?
Mi fece notare il mio
Ego, che ovviamente riceveva i desideri diretti del mio cuore senza che
essi venissero filtrati da quel bugiardo del mio cervello.
Era vero, purtroppo.
Avrei anche preso quell’ascensore del ’15-’18 per fare prima, mi sarei
precipitato al suo portone e l’avrei trascinata con me nella sua
stanza, anche soltanto per dormire.
La volevo sentire vicina,
volevo che i suoi sorrisi fossero unicamente rivolti a me, che i suoi
insulti fossero soltanto miei. La desideravo tutta. Anelavo la sua
rabbia, la sua felicità, quel suo sottile modo di insultarmi e quella
sua semplice sensualità che mi faceva morire piano piano, volta per
volta.
Dovevo smetterla di
pensare a queste cose, alle volte mi sembravo davvero Ruben o uno
sfigato del suo calibro. Stanotte avrei chiamato una come Annalisa, me
la sarei sbattuta, e l’indomani Celeste Fiore sarebbe completamente
sparita dalla mia testa, ne ero più che sicuro.
Eri
soltanto un po’ in astinenza.
Sicuramente quello era il
motivo di tutto questo scombussolamento ormonale che mi stava mandando
ai pazzi.
Uscii dal palazzo e mi
diressi verso il ciglio della strada dove era parcheggiata la 500
Abarth con cui ero andato alla festa. Feci scattare l’allarme e mi
sedetti al posto del guidatore, inserendo le chiavi nel cruscotto ma
rimanendo a fissare il vuoto come un deficiente.
«Chiamami
Leo.. solo per questa volta».
Il mio nome che usciva
dalle sue morbide labbra era forse il suono più dolce con cui l’avessi
mai sentito pronunciare, addirittura migliore dell’intera Curva Sud che
lo urlava al vento.
Smettila!
Girai le chiavi e il
motore rombò nell'insolito silenzio delle 11.00 del mattino, dopodiché
inserii la freccia e mi immisi nella strada principale. Sparai lo
stereo al massimo, con canzoni che avrebbero spaccato i timpani anche
ad uno che viveva dentro le casse acustiche, ma servì a ben poco.
Sentivo ancora i miei
pensieri che prepotenti tentavano di infettare la mia mente, di farmi
diventare uno dei tanti, uno scemo che scodinzolava appresso ad una
ragazza senza più aver alcuna occasione di divertirsi.
Avevo ventidue anni, ero
capocannoniere della serie A, il calciatore più conosciuto al mondo,
qualunque ragazza si sarebbe stesa ai miei piedi, accettando di fare
qualunque cosa per il sottoscritto.
Me la sarei scelta mora,
castana, addirittura rossa, con gli occhi neri, verdi, o grigi,
profondi come l’oceano. Avrei potuto avere qualsiasi cosa, qualsiasi.
Tranne
lei.
Parcheggiai la 500 nel
box auto che avevo sotto casa, poi cercai le chiavi del mio
appartamento ma il portone scattò quasi come se sapesse del mio arrivo.
Entrai e mi ritrovai
Ruben vestito di tutto punto, come suo solito, che mi aspettava con il
sedere appoggiato contro lo schienale del divano che avevamo in salotto.
«B-B-Buo-Buongiorno» mi
disse, ma l’espressione del suo volto rimase seria.
Troppo seria per uno come
lui.
«Risparmiati la predica»
bofonchiai, lanciando le chiavi sul mobile di cristallo e andando in
cucina bisognoso di una dose esagerata di caffeina.
Ruben mi seguì dapprima
con lo sguardo, poi si sedette sul bancone, vicino all’angolo cottura,
e non la smise di fissarmi con quegli occhi da talpa indagatori.
Mentre la Moka borbottava
e l’acqua bolliva per far salire quel nettare scuro che mi avrebbe
permesso di affrontare la giornata nel migliore dei modi, fissai a mia
volta il mio migliore amico, vedendo chi l’avrebbe spuntata per primo.
«Si può sapere che hai?»
sbottai infastidito.
Ruben fece spallucce, ma
il suo viso rimase serio. «S-sta-stanotte hai do-dormi-dormito
f-f-fuori» osservò, come se gli fosse servita una laurea per capirlo.
«Ma dai!» ironizzai.
Il mio manager si sentì
indispettito da quel mio modo di prenderlo in giro, ma non si scompose
più di tanto. «N-No-Non do-dovresti g-g-gio-giocare c-con l-lei» mi
rimbeccò, quasi come se fossi stato dalla parte del torto, tanto per
cambiare.
Tentai di soffocare la
rabbia, ma il caffè uscì e dovetti immediatamente versarmene una tazza
per non esplodere. «IO?» sbottai dopo aver assaggiato il peggior
Espresso della mia vita. «Io non devo giocare con lei, eh?».
Anvedi questo! Come al
solito ero sempre io il cattivo della situazione, quello che giocava
con i sentimenti altrui senza rimanere mai coinvolto. Tutti pensavano
che avessi il cuore di ghiaccio, che fossi un menefreghista completo.
Anche io avevo un cuore, anche al sottoscritto si era spezzato, più di
una volta.
Ruben rimase spiazzato da
quella mia sfuriata, ma non appena mi accorsi di risultare un completo
idiota, indossai la maschera di sempre. «Lasciamo perdere».
Afferrai la tazza di
caffè e mi diressi verso la mia stanza, deciso a farmi una lunga doccia
che avrebbe lavato via tutta la sporcizia di quella brutta nottata
appena trascorsa.
«A-As-Aspetta..» mi disse
Ruben ed io mi voltai.
«Uhm?».
«N-Non p-puoi
p-per-permetterti di i-inna-innamorarti, l-l-lo s-sai, v-vero?» mi
ricordò, come se non me lo ripetessi abbastanza ogni giorno.
Sorrisi al mio migliore
amico, un sorriso amaro che mi scaturì dalla parte più nera della mia
anima. «Lo so» sospirai. «Prima il calcio, poi il successo» ripetei,
citando le parole del mio vecchio.
«I-Il p-pa-pallone è l-la
t-t-tua vita, n-n-on l-la f-fa-famiglia» concluse Ruben per me.
«Grazie, amico» gli
dissi, sincero.
Mi aveva ricordato
l’impegno che avevo preso quando avevo deciso di realizzare il mio
sogno, quando mi si era presentata l’occasione di diventare famoso, una
stella, un ragazzo prodigio, dal talento straordinario.
Non avevo mai avuto tempo
per le cose che non riguardassero esclusivamente il calcio, comprese le
ragazze. Non mi ero mai innamorato nella mia vita, avevo soltanto fatto
sesso, soddisfatto le mie esigenze fisiche.
Di tanto in tanto mi
capitava una relazione, ovviamente decisa a tavolino, tanto per
movimentare i giornali scandalistici, ma niente di serio, almeno per
me. Non potevo permetterlo, non adesso che ero arrivato così in alto.
Devo
dimenticarla, devo dimenticare tutto.
Il coro della Curva Sud
riempiva tutto lo stadio Olimpico, facendo addirittura tremare le
pareti dello spogliatoio. Lanciai il borsone sulla panca e mi sedetti
di peso alla mia postazione, dove c’era scritto LEONARDO SOGNO a lettere cubitali,
e dov’era appesa la maglia numero 23.
Sbuffai, forse un po’
troppo sonoramente, poi cominciai a togliermi la tuta e ad infilarmi i
parastinchi.
«Ehi, amico» mi disse
Marco, sedendomi accanto. «Ma te la sei presa per la biondina di ieri
sera?» sghignazzò, colpendomi dritto al cuore.
«Fottiti, Ma’» ringhiai,
inviperito.
Borriello ridacchiò e
cominciò a spogliarsi, lanciando sguardi complici con gli altri
compagni di squadra.
«Era la tua ragazza, per
caso?» alluse Daniele, sghignazzando con Nicholas.
I miei compagni non mi
avevano mai preso molto in simpatia, forse perché il mio senso di
competizione passava sopra anche alle amicizie, ma soprattutto perché
erano invidiosi del mio talento. Stavano tentando di mandarmi ai nervi,
ma io non l’avrei permesso.
«Ma che cazzo dici!»
sbottai, allacciandomi il primo scarpino.
Marco si sorprese, ma non
demorse. «Da come l’hai strappata via dal nostro ballo tête-à-tête, ho
pensato che fossi piuttosto geloso..» insinuò, come se Leonardo Sogno
aveva bisogno di essere geloso di uno come lui.
«Pensala come ti pare, io
e la bionda non ci intendiamo» tagliai corto, sperando la finissero.
Daniele, Marco e Nicholas
si scambiarono sguardi complici e risatine che non mi resero per niente
la serata facile. In effetti, non mi ero dato una regolata quella sera.
Ero andato da Borriello e da Celeste come una furia, come un
rinoceronte incazzato, e l’avevo strappata via dalle sue grinfie perché
mi dava tremendamente fastidio vederli insieme.
Ma non avrei mai ammesso
di essere geloso, nemmeno a me stesso, nemmeno sotto tortura.
La
gelosia si prova solamente quando c’è qualcosa tra te e la persona
interessata, che sia amicizia, affetto.. o amore.
Amore? Ma stiamo
scherzando?
«Quindi non ti offendi se
ti chiedo il suo numero di telefono» continuò Marco, senza demordere.
Cosa diavolo voleva che
facessi? Che mi mettessi a fare una scenata di gelosia in pieno
spogliatoio?
A quel punto gli lanciai
il mio i-phone e lui lo afferrò per miracolo. «Prenditelo pure» gli
dissi tranquillo, senza muovere un muscolo.
Sei
bravo a fingere che non ti dia fastidio.
Borriello mi fissò
esterrefatto, ma non si diede per vinto. Digitò il codice e cercò il
numero di Celeste, segnandoselo veramente sul suo cellulare. Ogni
numero che pigiava sul touch-screen era una pugnalata al cuore, per non
parlare degli sguardi complici che lanciava agli altri due.
Mi ero cacciato nella
merda con le mie stesse mani, ma pur di non sembrare un deficiente
geloso avrei fatto di tutto, anche spingere Celeste tra le braccia di
Marco.
«Fatto!» esultò. «Grazie,
bello» ridacchiò soddisfatto.
«Certo era proprio bona
quella biondina, un po’ troppo chiacchierona» osservò Daniele.
Marco sfoderò un sorriso
di sbieco. «Li trovo io i modi per farla tacere» disse malizioso.
«Anzi, credo che urlerà ben altro».
Quell’ultima affermazione
fu la goccia che fece traboccare il vaso. Indossai la maglia col numero
23 e mi alzai di scatto, preferendo passare il resto del tempo in
corridoio a fissare le macchie di zucchero sul pavimento piuttosto che
sentire ancora le loro conversazioni.
Mi rodeva, non potevo
ignorare ancora quella sensazione.
Odiavo sentirmi così
male, anche perché non avevo mai provato una sensazione del genere.
Solitamente erano le ragazze con cui stavo che mi tampinavano di
telefonate, che mi accusavano di guardare le altre e non era mai
successo il contrario.
Non mi era mai importato
di nessuna di loro, mai.
«Come va, Sogno?» disse
una voce alle mie spalle.
Mi voltai e vidi il
Mister che sorrideva, con la cartelletta degli schemi ancora sotto il
braccio. Ci mancava anche la predica dell’allenatore.
«Bene, Mister» dissi a
mezza bocca, sperando mi lasciasse da solo.
Lui sospirò sonoramente,
poi si poggiò con la schiena contro il muro e imitò la mia posizione
pensierosa.
«Quella di stasera è una
partita importante, Leo» mi disse, riferendosi al match Roma-Inter che
da ben quattro stagioni era stato ben più rilevante del derby della
Capitale. «Dovresti lasciare i tuoi problemi a casa, e scendere in
campo con la mente pulita».
Ma che era quella sera?
Tutti s’improvvisavano psicologi della situazione? Cosa avevo scritto
in faccia? Fallito?
«Sì, Mister, sarà fatto»
gli assicurai, anche se il ghigno furbo di Borriello mentre si segnava
il numero di telefono di Celeste non l’avrei dimenticata facilmente.
Vincenzo mi sorrise e mi
strinse la spalla, infondendomi un po’ di sicurezza. «In questi giorni
sembra tu abbia altro per la testa, vuoi parlarmene?» mi chiese
gentilmente, ma mi ero rotto che tutti cercassero di compatirmi, come
se avessi chissà quale malattia terminale.
«È tutto okay, davvero»
lo rassicurai, sperando mi lasciassero in pace. «Sono solo pensieri».
Il Mister mi guardò poco
convinto, ma alla fine mi sorrise ed entrò nello spogliatoio
richiamando gli altri per gli ultimi accorgimenti.
La luce dei fari che
illuminavano lo stadio Olimpico filtrava attraverso il tunnel degli
spogliatoi, accecandomi con la sua intensità. C’erano giornalisti,
cameramen, intervistatori, troppa gente per i miei gusti.
Non l’avrei mai detto,
soprattutto perché Leonardo Sogno amava sentirsi al centro
dell’attenzione.
Cosa
diavolo ti sta succedendo? Prima smaniavi per un’intervista, per far
sapere alla ‘plebaglia’ com’era meravigliosa la tua vita.
Ora invece mi scocciava.
Volevo rimanere da solo, avevo troppi pensieri per la testa e sentivo
che stavo per scoppiare.
Era passata una settimana
da quando avevo incontrato Celeste, o forse qualche giorno di più, ma
ne erano successe talmente tante che sembravano trascorsi anni.
«Forza ragazzi!» sentii
urlare il Mister, dopodiché la porta si spalancò e i miei compagni si
diressero verso il campo.
Inspirai profondamente e
tentai di fare mente locale. Dovevo smetterla di pensare a Celeste, a
quello che era successo alla festa di Annalisa, al fatto che lei non
ricordasse nulla e al piccolo –e doloroso– particolare di quando, per
la seconda volta, mi aveva cacciato via dalla sua casa.
Ora dovevo pensare
solamente alla partita, a giocare come sempre, a segnare e a dimostrare
agli altri quanto Leonardo Sogno valesse e fosse importante per la
squadra. Celeste era solamente una tappa nella mia vita, un ostacolo
che potevo facilmente aggirare.
L’intera squadra percorse
il tunnel e uscì in campo, cominciando il riscaldamento.
Il bagno di folla che mi
facevo ogni volta, giocando in casa, rivolgendo il mio sguardo alla
Curva Sud non lo avrei mai barattato con nient’altro. Ero troppo
orgoglioso di me stesso per rinunciarvi.
Quelle persone erano lì
per me, urlavano il mio nome, volevano vedermi in azione e non mi
avrebbero mai deluso, non mi avrebbero mai scansato.
Loro mi adoravano, vivevano per me.
Per un attimo il mio
sguardo fu rapito da una bionda inquadrata nel maxischermo dello stadio
e il mio cuore perse un battito.
Celeste.
Pensai subito che fosse
seduta sugli spalti, magari accompagnata dal suo amico Robbeo e fosse
venuta lì, mettendo da parte il suo odio per il calcio, soltanto per
vedermi giocare. Ma era solo un abbaglio. Non appena si accorse di
essere ripresa, salutò la telecamera ed io vidi che non le assomigliava
nemmeno lontanamente.
Lei non sarebbe mai
venuta per me.
«Ehi, bel bamboccio»
ridacchiò Aleandro, distogliendomi dai miei pensieri. «Si può sapere
cosa ti prende? Sembri sempre più di là che di qua. Quelli dell’Inter
sono arrivati e Sneijder è più incazzoso che mai».
Mi voltai e vidi le
maglie bianche, con il drago nero-azzurro stampato sulla manica, che si
avvicinavano e venivano accolti dal loro pubblico in trasferta che li
aveva accompagnati. Se la tiravano, era evidente. Avevano vinto lo
scorso campionato e la Champions League, quindi si sentivano
invincibili.
«Tzé, cazzoni» commentai,
ritrovando per un attimo il Leonardo combattivo di sempre.
Aleandro sorrise e mi
diede una pacca sulla spalla. Per ora mi ero parato il culo, ma avrei
dovuto far uscire Celeste dalla mia testa se volevo giocare
decentemente quella partita che segnava la metà del campionato.
«Leona’!» mi urlò
Daniele, passandomi velocemente la palla.
Ero talmente
sovrappensiero che tentai di fare uno stop decente, ma chiunque sarebbe
stato in grado di fermare quella palla. Ovviamente la lisciai in pieno
e quella colpì direttamente la zucca pelata di Sneijder.
I suoi occhi
castano-verdi mi lapidarono e senza che dicesse nemmeno una parola,
sentii ogni globulo rosso che cominciava a congelarsi nelle mie vene.
Quel tizio faceva davvero paura.
«S-Scusa!» gli dissi,
sperando non ci fossero rancori durante la partita.
Sneijder, glaciale come
qualsiasi abitante del nord Europa, afferrò il pallone, caricò il tiro
ma invece di restituircelo con gentilezza, lo sparò talmente forte che
quello superò le transenne e andò a colpire un poveraccio del pubblico.
Rimasi con la bocca
spalancata e la lingua di fuori.
Questo. È. Pazzo.
«Gli avrà rotto il naso!»
esclamò Aleandro, socchiudendo gli occhi e tentando di capire cosa
fosse successo al povero malcapitato che aveva ricevuto quel siluro in
piena faccia.
«Come minimo» mi
aggiunsi, sconcertato.
L’olandese sorrise e si
voltò, raggiungendo i suoi compagni di squadra e lasciandoci di sasso
con le bocche spalancate.
«Sei sicuro di poter
giocare?» mi domandò il Capitano, facendomi trasalire. Il suo sguardo
azzurro mi perforò da parte a parte ma non mi feci intimidire.
«Certo» sibilai a denti
stretti.
Se quel vecchio decrepito
pensava di potermi mettere a scaldare la panca si sbagliava di grosso.
Leonardo Sogno non aveva mai trascorso una partita in panchina, e non
avrebbe cominciato di certo quando la sua carriera era già alle stelle.
L’arbitro richiamò
l’attenzione di tutti e i capitani delle due squadre, Zanetti e Totti,
si avvicinarono per stringersi la mano e per scambiarsi il
gagliardetto. Scelsero ‘testa o croce’ poi ci fu il lancio della moneta.
Culo, eravamo noi i primi
a cominciare.
Ovviamente cominciai a
correre verso l’area avversaria, mantenendomi al filo del fuorigioco,
con Chivu e Lucio che mi braccavano manco fossero dei bodyguard.
«Levati!» ringhiai,
spintonandolo, ma tra tutti e due erano degli armadi e non riuscivo a
districarmi.
Nel frattempo Daniele e
il Capitano diedero il calcio d’inizio, e il match Roma-Inter iniziò
ufficialmente per la gioia degli spettatori.
Tentai di divincolarmi
quasi subito, anche se mi risultava difficile con quei due energumeni e
già dal primo minuto alzai il braccio per richiamare l’attenzione dei
centrocampisti. Ovviamente nessuno mi si filò di pezza, ma preferirono
di gran lunga Marco.
«Che stronzi» sibilai tra
i denti, tornando verso il centrocampo dopo che Borriello s’era fatto
soffiare la palla dai piedi.
Avevo il cuore che mi
batteva a mille, quando iniziarono i cori della Curva che incitavano a
nuove azioni e invocavano il mio intervento. Dovevo fare qualcosa, almeno per
non mandare in pezzi tutto quello che avevo faticato per costruire.
La palla tornò all’Inter
e capitan-Zanetti la intercettò quasi subito, correndo sulla fascia
sinistra più veloce di un fulmine. Sapevo di dover rimanere in area di
rigore, visto che ero una punta, ma la voglia di fare qualcosa era
troppa, perciò cominciai a raddoppiare la marcatura, aiutando Marco
sull’ala sinistra, ma scoprendo la mia posizione.
«Torna al tuo posto!» mi
urlò Francesco, ma io non l’ascoltai.
Volevo riscattarmi,
fargliela vedere a tutti quelli che osavano dire che Leonardo Sogno
stava cominciando a rammollirsi, soprattutto per colpa di una biondina
tutto pepe che cominciava a vedere dappertutto.
«A Leona’!» mi urlò
Daniele, nella speranza che lo ascoltassi, e forse avrei fatto meglio a
farlo.
Nel momento in cui, sia
io che Marco, eravamo sufficientemente vicino al capitano dell’Inter,
questi passò rasoterra la palla a quel testa di cavolo dell’olandese,
che volò a centrocampo tentando un tiro da fuori area. Se fossi rimasto
al mio posto, magari sarei potuto andargli in contro, ma come al solito
avevo fatto di testa mia.
La palla fortunatamente
s’infranse contro la traversa, e la porta difesa da Doni fu salva
almeno per il momento. Mi beccai un’infinità di occhiatacce da parte
dei miei compagni, mentre il Mister mi fissava preoccupato.
Se prima avevano soltanto
dei sospetti sul mio stato d’animo contrariato, dopo questa orrenda
azione avevano tutte le conferme. Leonardo Sogno aveva qualcosa di
strano, era ufficiale.
«Ci stai con quella zucca
che ti ritrovi?» mi rimbeccò Daniele, fissandomi di sbieco.
«C’è mancato poco che non
ce facessero una pigna» insistette Marco.
Tornai alla mia posizione
con la coda tra le gambe, senza saper cosa dire. La voglia di farmi
valere era stata talmente forte che avevo totalmente perso di vista il
gioco di squadra e l’obiettivo comune: la vittoria.
Il portiere rinviò il
pallone e Daniele ne prese subito possesso, passandola poi al Capitano
che si guardò intorno, tentando di impostare il gioco.
Dovevo concentrarmi e
smetterla di farmi mille problemi, manco fossi un adolescente
complessato. Li avevo passati quegli anni ormai, trascorrendo tutti i
pomeriggi al campo di Trigoria per allenarmi con la Primavera. Basta
Celeste, dovevo finirla di chiedermi perché non mi avesse ancora
implorato di essere la mia ragazza, perché mi avesse buttato fuori di
casa..
..perché
non si ricordasse nulla di quella notte.
«A Leona’, svejete!» mi
gridò Daniele, passandomi poi la palla.
Ero talmente
soprappensiero che mi accorsi all’ultimo del passaggio di Capitan
Futuro, ma riuscii comunque ad intercettarlo.
Subito, sia Lucio che
Chivu mi furono addosso come due rinoceronti impazziti ed io tentai di
scaricare il pallone su qualche mio compagno, ma erano tutti marcati.
In questi momenti si vedeva il genio di Sogno, quando ormai tutto era
perduto lui entrava in azione e faceva sempre sospirare il pubblico.
Ma non aveva una certa
Fiore che gli ronzava nella testa.
Non mi era mai capitato
di pensare ad altro mentre giocavo, il calcio era tutta la mia vita e
lo sarebbe sempre stato, ma quando avrei raggiunto l’apice della mia
carriera.. cosa mi sarebbe rimasto?
Io non avevo una famiglia
come la maggior parte dei miei amici, dei miei compagni di squadra, non
avevo nessuno oltre ai miei genitori e al mio amico Ruben. Ero solo con
il mio successo, non avevo nient’altro.
«Sogno, de qua!» mi
urlarono e vidi che sulla fascia destra spuntava ancora Marco Cassetti
che mi chiedeva il pallone per improvvisare un cross.
Non mi ero minimamente
reso conto che anche Borriello si era liberato e mi chiedeva di
passargli il pallone. Non avevo idea di cosa fare, mi trovavo in un
limbo e non sapevo come uscirne. Leonardo Sogno non era mai stato
indeciso in vita sua, aveva sempre preso il toro per le corna.
Era questione di secondi,
anzi, di attimi. Dovevo decidere cos’era meglio per la squadra, cosa
fosse meglio per tutti. E allora un flash di quello che era successo
alla festa di Annalisa mi attraversò la mente. Era vivido, quasi reale,
potevo addirittura toccare con mano il viso arrossato di Celeste e
quelle labbra rosse e piene che aspettavano solo le mie.
Mi distrassi per un
millesimo di secondo, ma fu sufficiente a farmi soffiare via la palla
dai piedi e per una squadra come l’Inter, questo voleva dire goal quasi
assicurato.
Gli altri sbuffarono e
ripartirono, tornando in difesa. Sentii commenti poco apprezzabili
sulla mia prestazione, ma era ovvio che stavo facendo schifo, lo capivo
anche da me.
«È meglio che cominci a
scaldare la panchina, pulcino» asserì Borriello, linciandomi con lo
sguardo e dandomi una spallata.
«Fottiti» ringhiai,
restituendogli la spinta.
Marco sfoderò un sorriso
di sbieco, troppo furbo per uno come lui. «Dopo la fine di questa
partita, credo proprio che telefonerò alla biondina.. le dirò di
tenersi calda e vogliosa per quando verrò nel suo letto» insinuò
malizioso.
Sapevo che lo stava
facendo soltanto per ingelosirmi, per indurmi a commettere una cazzata
che avrebbe dato un’altra ottima ragione al Mister per sostituirmi, me
quel giorno ne avevo passate troppe ed ero al limite.
«Vaffanculo, Marco!»
ringhiai, mollandogli una spinta più forte, tanto che lo feci
indietreggiare.
I difensori della squadra
avversaria ci fissarono come se fossimo dei pazzi, ma l’arbitro ancora
non si era accorto di nulla.
«Allora ammetti che è la
tua ragazza» ridacchiò. «Quando mi si è strusciata addosso.. aveva un
sedere».
In quel momento non ci
vidi più, tant’ero accecato dalla rabbia. Feci tutto istintivamente,
dal puntare i tacchetti nel terreno soffice dell’Olimpico, al stringere
la mano a pugno, a sferrare un colpo dritto sulla faccia di quello
stronzo.
«Ah!» gridò, coprendosi
il volto e cadendo a terra.
Rimasi di sasso dopo che
mi resi conto di cosa avevo fatto. Avevo ancora la mano tesa davanti a
me, che vibrava dopo il colpo.
Stavolta
l’hai fatta grossa.
L’arbitro si voltò subito
e, senza pensarci, estrasse il cartellino rosso e fischiò,
interrompendo il gioco e facendo sì che l’intera squadra si accorgesse
di ciò che avevo fatto.
«Ma dai, è esagerato!»
tentò di dire Daniele, affinché non ci lasciasse in dieci.
«Stiamo scherzando? Ha
colpito un suo compagno di squadra!». L’arbitro era irremovibile.
Io non dissi nulla, ero
ancora troppo scosso per quello che era successo. D’accordo, non mi
andava a genio uno come Borriello, ma non avrei mai e poi mai colpito
un mio compagno rischiando la partita e venendo espulso.
Leonardo Sogno non aveva
mai lasciato il campo prima dello scadere del 90°, quella sarebbe stata
la prima ed unica volta che avrei lasciato il campo quando la partita
era pressoché appena iniziata.
I mormorii del pubblico
erano pieni di dissenso, di sdegno per ciò che avevo fatto, per come mi
ero cagato la partita.
L’arbitro, non contento,
mi sventolò davanti alla faccia il cartellino rosso, invitandomi ad
uscire, così, senza ulteriori indugi, mi diressi verso il bordo del
campo, mentre i cori della Curva furono sostituiti da una bordata di
fischi che mi ruppe un timpano.
Avevo deluso tutti, in un
modo o nell’altro.
Il Mister, i compagni,
gli spettatori e i fan che mi sostenevano. Mi sentivo una merda e non
accettai nemmeno una pacca sulla spalla da Vincenzo per quanto ero
incazzato con me stesso.
Scesi le gradinate che
conducevano allo spogliatoio, ignorando i giornalisti e gli altri
membri dello staff che mi chiedevano spiegazioni sul mio comportamento,
ma mi recai unicamente verso le docce. Dovevo spogliarmi, lavarmi via
quella parte di me stesso che mi stava rovinando la vita, che stava
pian piano distruggendo tutto ciò per cui avevo lottato.
Avevo sacrificato la mia
adolescenza per vivere un sogno, ed ora sarebbe bastato pochissimo per
guardarlo andare in frantumi.
Gettai le scarpe alla
rinfusa e accesi l’acqua della doccia, poi mi spogliai e lasciai che il
getto caldo mi rischiarasse i pensieri.
Posai le mani sulle
piastrelle fredde e bianche del box, poi anche la fronte s’infranse
sulla fredda porcellana. Cos’avevo fatto di sbagliato per meritarmi
tutto quello? Possibile che non ne facessi una giusta?
È
cominciato tutto con Celeste, prima la tua vita era perfetta.
Il mio Ego aveva ragione,
prima di lei tutto andava a gonfie vele ed io ero innamorato soltanto
di me stesso. La verità era che non potevo tornare indietro, non ci
sarei riuscito.
Dovevo dimenticarmi di
Celeste, dovevo scordarmi tutto e non cercarla mai più, almeno sarebbe
uscita dalla mia testa e mi avrebbe lasciato in pace, libero di potermi
concentrare di nuovo sul calcio, sul mio mondo, su tutto ciò per cui i
vivevo.
La
mia vita sarebbe stata di nuovo perfetta, pensai sollevato, ma subito
sentii un tremendo freddo farsi strada nel mio petto. Sì, perfetta, ma
incredibilmente vuota.
Cominciai ad insaponarmi
i capelli e il torace, fissando la schiuma che si addensava sulla mia
pelle e tentando inutilmente di trovare una soluzione. In fondo non era
successo nulla, a parte quell’incidente
alla festa di cui lei non ricordava nulla.
Sarebbe bastato non
cercarla più, scomparire per sempre dalla sua vita. Ero sicuro che
Celeste non mi avrebbe mai cercato, era troppo orgogliosa, perciò il
compito sarebbe stato molto più facile.
La verità era che più
cercavo di non pensare a lei, più inevitabilmente finivo col ricordarmi
com’era il suo sorriso, i suoi gesti, quel dito indice che mi puntava
sempre sul petto, tentando di far valere le sue ragioni. Erano piccoli
gesti, forse inutili e che sarebbero passati inosservati a chiunque, ma
che io non riuscivo a togliermi dalla testa.
Dimenticala, dimenticala,
dimenticala!
Dovevo farlo, per me
stesso e per la mia famiglia. Si erano sacrificati tutti per farmi
raggiungere la vetta ed ora non potevo mandare tutto a puttane, non
potevo.
Uscii dalla doccia e mi
legai un asciugamano in vita, poi notai il mio i-phone abbandonato
sulla sedia. Sospirai sonoramente, dopodiché deglutii a vuoto.
Lo afferrai e lo
sbloccai, dopodiché andai in rubrica e cercai il nome di Celeste con il
suo relativo numero di telefono. Avevo due possibilità in quel momento:
chiamarla o cancellare il suo numero.
Rimasi a fissare lo
schermo dello smart-phone, poi decisi di fare quello che andava fatto.
Dopo
6 capitoli in cui vi abbiamo regalato un sacco di risate con questi due
(anzi quattro, compresi Ruben e Robbeo) simpaticoni, i toni si smorzano
dopo la festa a casa di Annalisa. A differenza degli altri, qui i due
protagonisti mettono da parte per un po' la loro carica umoristica a
favore di quella malinconica. Oramai è chiaro che tra i due sta
nascendo qualcosa.
Celeste,
inizialmente, si pone in maniera molto aggressiva nei confronti di
Ruben/Leo, dopo che se lo ritrova nel letto. Urla e insulti non si
risparmiano e il povero calciatore è costretto ad arrendersi alla furia
bionda. Che, però, subito dopo vacilla. Si sente in colpa per come si è
comportata, anche perché, non appena lui se n'è andato, si è sentita,
come dice lei, vuota.
Non
può nascondere, nemmeno a sé stessa, che Ruben/Leo le ha smosso
qualcosa dentro, che con lui si trova bene e si diverte anche,
nonostante lui non sia il suo tipo.
Il
caro J, dal canto suo, cerca di mettere la pulce nell'orecchio a
Celeste, la riempie di dubbi e lei inizia a sospettare che ciò che si è
consumato nello sgabuzzino non sia solo un sogno, ma la realtà.
Per
Leonardo non è stato facile vedersi piombare addosso il secondo
rifiuto, ricevuto dalla stessa persona. Già per lui è stato difficile
rapportarsi con Celeste, che inizialmente aveva visto solamente come
una sfida allettante, ma ora, abituato ad avere sempre tutto dalla
vita, come ricchezza, fama, successo, ragazze a valanghe, si sente
rifiutato per la seconda volta dall'unica persona che ha mai osato
dirgli di 'no'.
Proprio dopo la festa galeotta di Annalisa, in cui aveva sentito
finalmente smuoversi qualcosa dentro di sé, era successo qualcosa che
era andato oltre il semplice bacio, ma il sapere che la bella Celeste
non si ricordasse nulla, lo ha ferito molto.
Ed ora vi abbiamo lasciato a questo finale angosciante, davvero da Crudelie quali siamo. :3
Che cosa succederà nel prossimo capitolo? Leonardo avrà il coraggio di
dimenticare per sempre Celeste e tornare alla 'splendida' vita che
aveva prima? Cancellerà il suo numero dal telefono senza mai più
cercarla?
In fondo, lui non può permettersi l'amore...
Baci, baci
M&M
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