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Autore: _Shantel    02/09/2011    12 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 7


Mai più!
Non avrei mai più toccato un goccio di alcool in tutta la mia vita. La sbronza non faceva assolutamente al caso mio. Dopo il primo bicchiere di champagne, avevo iniziato a vedere doppio e a barcollare, il secondo mi era stato fatale. Nulla, non ricordavo più niente di quello che era successo dopo, se avevo bevuto un altro bicchiere, se ero caduta come un sacco di patate, se avevo vomitato sulle scarpe di qualcuno.
Nada! Tabula rasa! Mi sorprendeva anche il fatto di essere su un comodo letto, probabilmente il mio letto. Non era possibile che mi fossi trascinata da casa di quella serpe ubriaca, ciondolando per le strade di Roma. Sicuramente Robbeo mi aveva riportata a casa, non so come, ma era stato lui. Quel cavernicolo di Ruben era troppo impegnato con Annalisa per accorgersi delle mie condizioni. Di sicuro, mentre io biascicavo cose senza senso, lui si appartava in qualche stanzino buio e desolato con quella Anna dai capelli rossi versione porno.
Vabbè, che cosa mi importava a me? Meno di zero! Anche se non potevo fare a meno di ripensare all'ennesimo sogno erotico che avevo fatto con lui come protagonista. Era tutto molto offuscato, ma, da quello che ricordavo, ci avevo dato dentro, eccome! E mi vergognavo pure di me stessa! Celeste Fiore non faceva determinate cose, erano contro la sua moralità. Ma, fortunatamente, sarebbe rimasto un mio segreto. Nessuno avrebbe mai saputo di quel sogno. Era già abbastanza imbarazzante avere dei flashback confusi, raccontarlo sarebbe stata la mia rovina.
Meglio non ripensarci, faceva già abbastanza caldo senza che le immagini hot di me e quel troglodita riaffiorassero alla mente. Colpa dell'alcool! Quel maledetto! Odiavo non ricordare più nulla, odiavo anche solo pensare di aver fatto la figura della cretina davanti a tutti. Avrei dovuto andare in giro con un sacchetto di carta in testa, così, per non farmi riconoscere da nessuno, nell'eventualità che qualcuno avesse partecipato a quella festa. Non avrei sopportato essere additata come l'ubriacona perché non lo ero mai stata. Figurarsi! Le poche volte che andavo in discoteca o in qualche pub ordinavo sempre e solo Sprite! Per di più, se qualcuno mi avesse insultata, non sarei riuscita a trattenermi. Una sedia o un qualsiasi altro oggetto di grandi dimensioni scagliato sulla schiena, a mò di wrestler nevrotico, sarebbe stata l'ideale. Ma, di certo, non volevo passare settimane in carcere o agli arresti domiciliari. Per cui, il sacchetto era l'unica soluzione.
Aprii gli occhi con fatica, cercando di abituarmi alla luce del giorno. La testa mi scoppiava, lo stomaco sottosopra e un peso opprimente sul petto che non mi permetteva nemmeno si respirare. Per un attimo, pensai di morire da un momento all'altro, magari l'alcool aveva strani effetti su di me.
«Dio mio, che mal di testa» biascicai, con la bocca impastata dal sonno e dai postumi dello champagne.
Mi stropicciai gli occhi e guardai la sveglia sul mio comodino che segnava le undici passate. Oddio, non era affatto da me! Solitamente, alle sette e trenta in punto, ero in piedi, scattante e isterica al punto giusto. Invece, quella mattina, l'unica cosa che avrei voluto fare era starmene a letto a poltrire, rannicchiata nelle mie lenzuola a sonnecchiare, come una specie di Robbeo, ozioso e con lo spirito di un bradipo.
Altro motivo per cui non è conveniente bere alcool: la trasformazione in un pigro, scansafatiche, odioso Romeo.
Cercai la forza di alzarmi dal mio caldo lettuccio, prima che la mutazione in quel babbeo avvenisse sul serio e la prima cosa che feci fu scostare il lenzuolo. Un passo dopo l'altro, un piccolo passo dopo l'altro prima di svegliarmi del tutto. Abbassai lo sguardo sul mio corpo, ancora fasciato dal vestito rosa confetto che avevo indossato per la festa. Almeno aveva avuto la decenza di non spgliarmi. Mi squadrai da capo a piedi per un paio di volte. Tutto normale, a parte una mano grande sulla mia tetta. Scrollai le spalle e sbadigliai sonoramente, stiracchiandomi come un gatto, sentendo la mia schiena strusciare contro qualcosa.
O qualcuno.
Sbattei più volte le palpebre, dubbiosa. C'era qualcosa che non mi quadrava e non mi riferivo alla palla da calcio autografata da chissà-chi che giaceva sul mio pavimento, quando il suo posto era nella camera di Robbeo.
Ehm, Celeste, non vorrei allarmarti, ma ti ricordo che hai una mano sulla tetta. E non è la tua, a meno che non sei diventata, in una notte, il dottor Octopus.
Abbassai di nuovo lo sguardo verso il mio seno e la vidi, grande, che mi strizzava nemmeno fosse un limone. Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, il cuore pulsarmi nelle tempie, rendendo la mia testa una bomba ad orologeria pronta a scoppiare. Maiale! Chiunque fosse quel maniaco che si era infilato nel mio letto e magari aveva anche abusato di me, mentre io ero semi incosciente, avrebbe subito la mia furia. Che fosse stato Robbeo o il presidente degli Stati Uniti.
Se fossi stata in un cartone animato, in quel momento, sarebbe comparsa sulla mio fronte, una vena pulsante e la mia testa si sarebbe gonfiata come un pallone pieno di elio. Ma quello non era un cartone, solo la realtà. Per cui mi limitai a urlare, sbraitare come un'ossessa e, se ci fosse stato un bicchiere di cristallo, ero sicura si sarebeb frantumato per i decibel raggiunti dalla mia voce. Mi agitai nel letto quasi fossi Regan durante l'esorcismo, cercando di liberarmi dal tentacolo di quel maniaco. Lui, il pervertito, sobbalzò, sentendo le mie grida e scattò, mettendosi seduto.
«Che è?!» biascicò, guardandosi intorno spaesato «Mourinho è il nuovo allenatore della Magica?»
Mi voltai, lentamente, con il mio respiro pensate che scandiva ogni secondo, manco fossimo in un film nell'orrore. O meglio, qualcosa di spaventoso stava per accadere. Io ero l'assassino, mentre LUI la mia vittima. Avevo riconosciuto la sua voce, come non avrei potuto farlo, e mi sembrò più fastidiosa del solito. Ma, magari, mi ero sbagliata, l'alcool non era ancora stato smaltito, per cui avrei dovuto verificare con i miei stessi occhi. Mi voltavo, a rallentatore, quasi avessi paura di ritrovarmelo davvero di fronte. E, quando avvenne, occhi e bocca si spalancarono all'unisono, alla stessa velocità, in una chiara espressione indignata, incredula e rabbiosa allo stesso tempo.
Aveva i capelli scompigliati, gli occhi a mezz'asta perché ancora assonnato e si grattava la nuca, cercando di rimembrare dove fosse. Era tanto tenero in quel momento, sembrava quasi un bambino e la prima cosa che pensai di fare fu abbracciarlo, strapazzarlo di coccole come facevo da piccola con il mio pupazzo di Topo Gigio.
Ti ricordo che ti strizzava una tetta! E chissà che altro ha fatto!
Ma i miei pensieri subirono immediatamente un cambi di rotta e il gatto che era in me si risvegliò, pronto a sbranarsi quel topolino.
«CHE.COSA.CI.FAI.TU.NEL.MIO.LETTO?» scandii ogni parola con rabbia, con l'aria che, pesantemente mi usciva dal naso, come se fossi un toro a cui avevano strizzato le parti basse.
Ruben, dopo avermi messo a fuoco, annuì, ricordando, molto probabilmente, cosa fosse successo quella notte e sorrise sornione.
«Ti ho accompagnata a casa. Eri più sbronza di me dopo una vittoria in Champions League» ridacchiò, divertito «Da te, non me lo sarei mai aspettato! Non è che mi diventi un'alcolista anonima!»
«Fa poco lo spiritoso, Ruben!» mi alzai dal letto e mi sistemai il vestito coprendomi maggiormente le gambe.
«Ti sei trasformata! Dovevi vederti!» continuò, stiracchiandosi «Sembravi una gattina»
E, dopo quel commentino poco gradito, fui accecata dalla collera. Serrai i pugni e, svelta e decisa, lo raggiunsi dall'altra parte del letto, dove era seduto. Si stava sistemando i capelli scompigliati con una mano, sbadigliando senza mettersi, ovviamente, una mano davanti alla bocca. Non appena mi vide comparire davanti a lui mi regalò un sorriso che forse, se lo avesse fatto in un'altra situazione, mi avrebbe sciolto come burro al sole. Ma in quel momento, nulla poteva arginare la mia rabbia, né uno stupido sorriso e nemmeno una camomilla. Ero fuori di me, completamente. Co mancava solo che diventassi Super Sayan e che lo disintegrassi con un'onda energetica.
Allungai una mano verso di lui e gli afferrai l'orecchio, obbligandolo ad alzarsi dal mio letto, nel quale si era intrufolato senza il mio consenso.
«Ahia, Cel!» si lagnò, mentre, piegato verso di me, mi seguiva passo passo per tutta la camera.
Non dissi nulla, bastavano i mie grugniti pieni di rabbia per comprendere che non era il caso di discutere. Un'altra provocazione e sarei esplosa, con conseguenze disastrose.
«Mi stai facendo male!» borbottò, con una smorfia di dolore dipinta in volto «Si può sapere che cazzo ti prende?»
Three...
«Cosa mi prende dici?!» sibilai, trucidandolo con lo sguardo.
Mi fermai proprio in mezzo alla stanza e allentai la presa sul suo orecchio, permettendogli di massaggiarselo. Mi guardò confuso, aspettando una spiegazione per la mia collera. Come se non fosse ovvio, accidenti! Ah no, lui era abituato a infilarsi in letti che non erano i suoi, così, con facilità.
«Sei solo un pervertito, l'ho sempre saputo!» sbraitai, puntandogli un dito contro con fare minaccioso «E non appena ho abbassato la guardia TU» e la rabbia crebbe in me, ripensando alla sua mano sul mio seno. Feci un passo verso di lui e gli diedi una sberla sul braccio «TI SEI» altro schiaffo e lui, intanto, cercava di pararsi dai miei colpi «APPROFITTATO» un calcio sullo stinco, che non guastava mai «DI ME!»
Avevo urlato così forte che primo tutto il condominio mi aveva sentito, sicuro e secondo mi bruciava la gola. Sarei rimasta senza voce se continuavo in quella maniera. Ma poco mi importava. Dovevo perforagli i timpani a quel maiale.
«Calmati Cel! Te viene un infarto così!» tentò di sdrammatizzare, ma il suo tentativo mi fece innervosire ancora di più.
Two...
«Vuoi capirlo, maiale decerebrato, che io mi chiamo CELESTE! Non Cel!» gli sputai in faccia quelle parole con disprezzo.
«Vacci piano con gli insulti» aveva anche il coraggio di offendersi. Dio solo sapeva che cosa mi tratteneva dal non ucciderlo a sprangate.
«Fuori da casa mia» gli intimai, a denti stretti, indicando la porta d'uscita.
Era meglio che se ne andasse, se non voleva vedermi trasformarmi in una bestia feroce. Ero un tipo nevrotico, questo lo sapevo bene. Ma era difficile farmi imbestialire, tanto da urlare come una civetta in calore e Ruben ci era riuscito perfettamente, approfittandosi di me.
«Celeste, davvero, non è come sembra» cercò di tranquillizzarmi «Posso spiegarti tutto» e le sue mani si allungarono verso di me, a stringermi le spalle.
One...
Evacuare la zona! Ripeto, evacuare la zone. La bomba Celeste è pronta ad esplodere.
Gli strinsi i polsi e mi liberai, con uno strattone un po' troppo violento, delle sua mani troppo polipose per i miei gusti. Dopo quello che era successo, lui non poteva toccarmi. Mai e poi mai!
«Come osi toccarmi con quelle luride mani?!» sbraitai, infuriata e avrei scommesso che in quel momento avevo gli occhi fuori dalle orbite. Ruben mi guardò in un misto tra lo spaventato e l'incredulo. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa ma, prima di parlare, richiudeva le labbra dischiuse, forse senza avere il coraggio di proferire quelle parole misteriose.
«So bene che tu sei abituato a svegliarti in letti diversi ogni giorno, ma non avevi il diritto di intrufolarti nel mio mentre io ero ubriaca e approfittarti di me!» urlai, agitando le mani come una pazza, abbassando lo sguardo verso il pavimento. Ero nervosa, arrabbiata e avrei voluto distruggere tutto ciò che mi circondava per sfogarmi.
«Hai un'alta considerazione di me» constatò, con una certa amarezza. Lo avevo sempre visto spavaldo e spocchioso ma, in quel momento, era come avere un altro Ruben davanti, una persona diversa da quella che avevo conosciuto, un ragazzo che non si faceva scivolare addosso qualsiasi cosa, fregandosene altamente di ciò che pensavano gli altri. Anzi, sembrava proprio che le mie parole lo avessero colpito nel profondo, ma non ci badai. Ero troppo infuriata per cercare di capirlo «E comunque io non mi sono approfittato di me. Non lo avrei mai fatto contro la tua volontà!»
Rimasi interdetta per alcuni istanti, come se quella frase nascondesse nelle sue parole enigmatiche qualcosa che l'alcool aveva offuscato. Non gli diedi importanza, non mi arrovellai per capire. L'unica cosa che volevo in quel momento era farlo uscire da casa mia e di non rivederlo mai più.
«Ah no! E la tua mano sulla mia tetta cosa ci faceva, eh?!» sbraitai, portandomi a pochi millimetri da lui e guardandolo dritto negli occhi «Chissà cosa mi hai fatto, mentre io non capivo nulla!»
«Per chi mi hai preso?!» fu la sua volta di urlare. Non lo avevo mai visto così arrabbiato e teso, così offeso da quello che gli stavo dicendo «Sarò anche un cazzone, un perdi giorno, un bastardo e tutto quello che vuoi. Ma non mi permetterei mai e poi mai di toccare una donna senza il suo consenso!» scandì ogni singola parola con amarezza e voce traballante, quasi stridula.
Ok, forse avevo esagerato un po' troppo. Ci ero andata giù pensate con le accuse e il suo atteggiamento, le sue parole e il tono della sua voce mi fecero capire che era sincero, che non mi aveva nemmeno sfiorata. Ma, ormai, ero talmente infuriata da non riuscire a controllarmi.
«Oh, ma che cavaliere!» tuonai sarcastica «Fammi il piacere di andartene da qui e sparire dalla mia vita»
Ruben serrò i pugni e mi guardò sconvolto, leggermente deluso per quello che stava succedendo. Deglutì e annuì, passandosi una mano tra i capelli.
«Non ti ricordi nulla?» mi domandò, con tono calmo e triste.
«Di che?!» risposi, incrociando le braccia al petto.
Di cosa stava parlando quel troglodita? A cosa alludeva?
«Nulla» sospirò, scrollando la testa.
Rimase in piedi, vicino allo stipite della porta della mia camera e sembrava non avere intenzione di andarsene. Picchiettai il piede sul pavimento, attendendo che lui sparisse dalla mia stanza e dalla mia vita.
«Dai, adesso cerca di rilassarti» disse, con un sorriso «Non vorrai mica rimanere senza voce?!»
Stava davvero cercando di recuperare qualcosa tra di noi? Qualcosa che non c'era mai stato? Sorrisi incredula e scossi la testa, umettandomi le labbra.
«Cerca un attimo di non pensare con l'uccello e seguimi» cercai di mantenere la calma «Vai fuori di qui!» urlai. Di nuovo.
«Ma...» tentò di dire, ma non gli permisi di rispondere.
Incrociai le braccia al petto, gli occhi pieni di rabbia che, se avessero potuto, lo avrebbero incenerito.
«Vattene, Ruben» ringhiai.
Lui mi guardò con quei suoi occhi verdi spalancati, spenti, privi di quella luce che avevo sempre visto dentro di loro. Sembrava triste, amareggiato per cosa era successo, per come lo avevo trattato, perché, forse, teneva a me.
Ma cosa andavo a pensare? Ad uno come Ruben non poteva interessare una ragazza isterica il cui unico interesse erano i libri. Lui cercava le modelle, le figone vestite di marca che non spiccicavano una parola di italiano, brave solo a darla via come se fosse pane e vantarsi di questo. Io ero troppo banale, per lui, non ero interessante. Non aprivo le gambe con facilità, per cui ero off limits.
Non seppi spiegarmi il motivo, ma pensando a queste cose, una patina opaca mi coprì gli occhi, come se volessi scoppiare a piangere da un momento all'altro. Colpa del nervosismo, di sicuro.
Ma chi vuoi prendere in giro?! È solo la triste realtà che ti fa questo effetto. Tu e Ruben non siete compatibili...
«Ti prego, vai via» mi trattenni dallo scoppiare a piangere e mi morsi un labbro.
«Okay» abbassò lo sguardo, come se fosse si fosse arreso.
Prima di imboccare definitivamente la porta di camera mia, si voltò a cercare i miei occhi. Le nostre iridi si incontrarono per un solo istante ma bastò perché sentissi qualcosa, dentro di me rompersi, con un sonoro crack che mi riempì le orecchie.
Lo sentii salutare Robbeo, prima di sbattersi la porta alle spalle. E fu in quel momento, quando Ruben era davvero uscito dalla mia vita, che mi sentii vuota e sola, nonostante in casa con me ci fosse Romeo. Era una sensazione strana, mai provata in vita mia, nemmeno quando il mio ex ragazzo, l'unico di cui mi fossi innamorata per davvero – come una cretina – mi aveva mollata per un'altra. Rimasi imbambolata in camera mia chissà per quanto, forse secondi o anche minuti interi, a fissare il vuoto di fronte a me e dentro di me,  fino a quando non spuntò Robbeo che si appoggiò allo stipite con una spalla, sorseggiando il suo caffè.
«Che vuoi?» gli domandai brusca.
«Divertita alla festa?» chiese, guardandomi con sufficienza.
«Nemmeno un po'» sibilai e mi lasciai cadere di nuovo sul letto, pesantemente. Che giornataccia sarebbe stata quella! Già me lo sentivo che sarei stata tutto il tempo con i nervi a fior di pelle. Dovevo darmi una calmata, se non volevo uscirne pazza.
«Ah, beh, forse hai preferito la fine serata, vero?» era un po' troppo allusivo per i miei gusti. Socchiusi gli occhi e lo guardai torva.
«Spiegati Robbé»
«Beh, eri in camera con Ruben, più chiaro di così!» sbottò all'improvviso, paonazzo come un peperone.
Sorrisi incredula e mi portai entrambe le mani tra i capelli. Dio, quanto era ottuso quel ragazzo. Ci voleva una grande pazienza per sopportarlo e la mia non sapevo do dove la prendevo.
«Non è successo nulla» lo tranquillizzai, acida «Non so se mi hai sentita sbraitare come un'aquila! Non mi sembravano grida di felicità per essermelo trovato nel letto»
«Sarà» ribatté vago, guardandosi con meticolosità la punta delle dita «Sta di fatto che state sempre insieme, voi due!»
«Sei geloso, per caso?» incrociai le braccia ed attesi la sua risposta.
L'aria da spavaldo che aveva fino a quel momento sparì d'un tratto e divenne un tutt'uno con i suoi capelli rossi. Quella sua esitazione mi fece riflettere, anche se non molto, sulla possibilità che lui sentisse qualcosa per me. Ma, figurarsi! Molto probabilmente era geloso del fatto che lo avevo un po' ignorato in quei giorni, tutto lì.
«Macché!» esclamò «Dico solo che siete sempre appiccicati. Ci manca solo che vi sposiate!»
E l'immagine di me, vestita di bianco e Ruben, che mi attendeva all'altare, mi comparve davanti agli occhi. Avvampai all'improvviso. Avevo sempre sognato il matrimonio, ma mai con un tipo come Ruben. Anche, se, tutto sommato, vestito in smoking era davvero affascinante. Per non parlare poi del suo sguardo che si faceva sempre più liquido mentre io mi avvicinavo, accompagnata da mio padre.
Fantastichi troppo...
Mi alzai di scatto dal letto e superai Robbeo, senza dargli spiegazioni. Avevo bisogno di una doccia. Una bella doccia calda che avrebbe spazzato via tutto quello che era successo durante la mattinata, che avrebbe dissolto il sogno erotico che avevo fatto con Ruben e, magari, l'acqua, si sarebbe portata via, con sé, il suo ricordo.

Un'uscita pomeridiana era l'ideale per dimenticare il nervosismo della mattinata e non avrei mai ringraziato abbastanza J che mi aveva invitata a trascorrere qualche ora con gli animali. Ero sicura che quelle tenere bestiole sarebbero state in grado di farmi sorridere, di distrarmi e di non pensare a Ruben. Invece, dovetti ricredermi.
Eravamo fermi, appostati di fronte alle scimmie, attendendo che facessero qualcosa di spettacolare, oltre a rimanere imbambolate sui rami degli alberi. La mia immagine era riflessa sul vetro e mi guardai a lungo, poco interessata a quelle piccole scimmiette. Sentivo che c'era qualcosa di opprimente nella mie mente, qualcosa che non riusciva a farmi ragionare, ma non riuscivo a capire cosa. Cercavo la risposta in me stessa, nella mia immagine riflessa, come se potesse prendere vota tutto d'un tratto e spiegarmi il motivo della mia confusione. Ero sicura centrasse Ruben e con lui la festa di Annalisa. Era successo qualcosa in quella casa, ma non riuscivo a ricordare cosa.
«Oddio, hai visto!» esclamò estasiato J, indicando le scimmie.
Mi voltai verso di lui ed incontrai il suo sorriso, il suo sguardo estasiato perso a guardare quelle creature. Era così tenero in quel momento, ma, stranamente, non andai in brodo di giuggiole come mi succedeva sempre quando ero in sua compagnia, anzi, ero quasi indifferente alla sua bellezza, il ché mi preoccupò.
Il fatto era che non riuscivo a togliermi dalla testa Ruben. In un modo o nell'altro lui era entrato a far parte della mia vita, della mi a quotidianità e mi sarebbe mancato lui, le sue provocazioni e i suoi errori grammaticali. Lo avevo sempre preso in giro per il suo linguaggio, ma non potevo dire che non mi fossi divertita con lui. Prima che Ruben arrivasse ero solo una fredda, cinica ragazza bionda saputella che faceva da maestrina a tutti. Ero un'asociale, insomma. Se non fosse stato per Robbeo sarei rimasta sola. Non avevo nessuno al mio fianco e questo per colpa della mia freddezza, del mio sarcasmo che allontanava le persone da me. Tutte, tranne Ruben, l'unico che riusciva a sopportarmi e che mi aveva fatto vivere, anche se per pochi giorni. Con lui al mio fianco avevo realmente goduto di ciò che la vita mi offriva, avevo staccato per un attimo il mio cervello razionale e mi ero divertita. Ma, ormai, era tutto finito ancora prima di iniziare.
«Oh sì» risposi, dopo diversi minuti, anche se in realtà non avevo visto nulla, se non me stessa.
J mi rivolse un sorriso, poi controllò la mappa che ci avevano dato all'ingresso e si guardò intorno, per ambientarsi.
«Per di là!» esclamò, entusiasta, indicando alla sua destra.
Mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso le maestose giraffe che sbocconcellavano le foglie da alti alberi.
«Hai visto che belle!»
Sembrava un bambino, tanto era felice di vedere gli animali. Ok, erano belli, teneri e dolci, ma tutto quell'entusiasmo non lo capivo.
Se smettessi di pensare a Ruben, forse, apprezzeresti le bellezze della natura.
Fosse facile! Con tutto l'impegno che ci mettevo, lui era sempre lì, nella mia testa. Un'immagine chiara, nitida, quasi spaventosa si fece largo tra i miei ricordi. Noi due, rinchiusi in una specie di sgabuzzino, uno davanti all'altra, occhi negli occhi, corpo contro corpo. Quell'immagine l'avevo sognata, ne ero più che sicura, o almeno speravo che fosse così. Eppure, mi sembrava quasi di ricordare il suo tocco, di ricordare le sue labbra e la sua voce che usciva in un sussurro che mi diceva quanto fossi bella quella sera.
«Hey, Cel, sei con me?» mi domandò J, sventolandomi una mano davanti agli occhi.
Tornai alla realtà, scuotendo la testa e gli sorrisi, annuendo.
«Sì, scusa. Pensavo agli esami» mi giustificai.
Sì, di anatomia umana. Argomento: il corpo di Ruben...
Sempre acido e sarcastico il mio subconscio, anche quando non era gradito il suo intervento.
«Sempre allo studio pensi? Cerca di goderti la vita, Cel!» esclamò e si incamminò lungo i viottoli dello zoo.
Lo seguii, svogliatamente, raggiungendo, così, qui chiassosi uccellacci anche chiamati fenicotteri. Facevano un rumore assordante con i loro versi, sembrava quasi che stessero litigando e mi parve di vedere me, dentro quello stagno. Isterica, fuori di me, arrabbiata. Per di più erano anche rosa, come il mio vestito a quella festa, per cui erano la mia perfetta rappresentazione di quella mattina. Ero stata cattiva con lui, avevo esagerato sia nei toni che nelle parole. Ma non ero riuscita a trattenere la rabbia, c'era qualcosa dentro di me che mi imponeva di urlargli contro, di allontanarlo da me, sempre quel dannato sogno che mi martellava in testa e che, via via, si stava ricomponendo nella mia mente. Hot, molto hot, talmente tanto da riscaldare l'ambiente che mi circondava.
«Vieni, andiamo a cercare i leoni!» ancora una volta, la voce di J mi riportò sulla terra ferma.
Annuii con poca convinzione e seguii il suo stesso percorso, rimanendo, però indietro di qualche passo. Ero uscita di casa con tutte le intenzioni di divertirmi, di non pensare a Ruben e i miei piani erano stati completamente stravolti. Per cui, la voglia di passeggiare tra varie bestie, innocue o feroci che erano, era completamente sparita. Volevo solo tornarmene a casa e buttarmi sui libri, affondare nello studio, il mio unico rifugio da ciò che mi circondava.
«Sei già stanca, Cel?» mi domandò, camminando come un gambero per potermi guardare in faccia.
«Un pochino» mentii, con un sorriso abbozzato.
«Se vuoi ci fermiamo a prendere qualcosa da bere» propose ed io accettai al volo.
Mi dispiaceva per J. Insomma, lui era così felice ed elettrizzato di essere allo zoo e doveva sopportare un cadavere come me che lo seguiva passo passo. Non ero di nessuna compagnia per quel povero ragazzo, che, il più delle volte, si era ritrovato a fare commenti senza che io gli rispondessi.
Ci fermammo ad un piccolo chiosco ed ordinammo qualcosa di fresco da bere. Sprite per me e limonata per lui. Rimasi a fissare la bottiglia colorata della mia bibita per alcuni secondi. Che mi stava capitando? Nessun ragazzo era mai riuscito a ridurmi in quello stato. Nessuno era mia stato in grado di entrare nei miei pensieri, sconvolgerli e diventarne il centro. I ragazzi non mi erano mai importati così tanto. Dopo la delusione del mio ex mi era chiusa verso l'altro sesso, in tutti i sensi e non avevo mai permesso a nessuno di entrare dentro di me, né nella mia mente, né nel mio cuore, né nelle mie mutande. E invece, con Ruben, era stato diverso. Lui era riuscito fin da subito a smuovere qualcosa dentro di me. Forse i suoi occhi, forse il suo sorriso accattivante o solo il fatto che ci cercavamo, inconsciamente, sempre e comunque.
«Ti vedo strana, oggi» commentò J, sorseggiando la Lemon Soda.
«Niente di ché. Ieri sono stata ad una festa e ho alzato un po' troppo il gomito. Sono ancora un po' scombussolata» gli spiegai.
«Mi stupisci, se dici così» ridacchiò divertito e lo trucidai con lo sguardo «Intendo. Non mi sembri il tipo che va ad una festa e che si sbronza. Sembri una ragazza tutta casa e università»
«E lo sono!» confermai «Ma mi hanno invitata, così ci sono andata»
Il tutto si era svolto un po' diversamente, però omisi il fatto che, per orgoglio, mi ero auto invitata a casa di Annalisa. Non l'avessi mai fatto, almeno non avrei litigato così furiosamente con Ruben.
«Romeo?» mi chiese, sospettoso «Ti ha invitata lui?»
Deglutì a fatica la Sprite, che scese lungo il mio esofago in blocco, come se si fosse ghiacciata tutto d'un tratto. Scossi la testa e lui mi guardò curioso, spronandomi, con i suoi occhi azzurri, a raccontargli tutto.
«Ruben» soffiai.
J, dapprima, corrugò la fronte, poi scoppiò in una risata incredula, affondando nello schienale della sedia.
«Con quel mentecatto?»
«Mi sembrava scortese non accettare il suo invito» spiegai, anche se ben sapevo che fosse una bugia. Ma tanto J non lo avrebbe mai scoperto, quindi...
«Dai, Cel, non mi dire che ti fidi di quello lì» mi rimbeccò, allungandosi sul tavolo e guardandomi quasi sconvolto.
«Perché non dovrei? Il fatto che non sappia coniugare il verbo essere non mi fa sospettare di lui» risposi, leggermente acida.
«Boh, non saprei» disse vago «Quel ragazzo non mi convince» e scosse la testa.
Quindi non ero l'unica ad avere dei dubbi su di lui. Il fatto che J avesse percepito la mia stessa sensazione, mi spiazzò e mi convinse sempre di più che Ruben avesse tanti, troppi segreti.
«Secondo me dice un sacco di bugie!» disse, convinto dalle sue stesse parole «Ed è attratto da te! Anche molto! Lo si vede a miglia di distanza»
«Ma figurati» trillai, diventando paonazza. Bevvi un sorso di Sprite per calmare i bollenti spiriti, sfuggendo dallo sguardo di J «Io non sono affatto il suo tipo. Siamo su due pianeti diversi!»
«Dici?» sospirò J, sollevando i suoi occhi azzurri verso il cielo «Probabilmente sono io che mi sbaglio. Magari lui, l'altro giorno non ti stava guardando le tette, ma solo la maglietta»
Per poco non gli sputai la Sprite in faccia, talmente ero sconvolto da quella rivelazione.
«Che cosa?!» sbottai e avrei voluto strangolare Ruben, in quel momento esatto.
«Sì! Ti squadrava da capo a piedi, come se volesse portarti a letto, insomma» mi spiegò J, con un certo disprezzo nella voce «E secondo me la festa è stata solo un pretesto»
Oddio, così dicendo mi riempiva di dubbi. Già non ero del tutto sicura su Ruben, non lo ero mai stata, a partire dal suo lavoro da fioraio e dal suo viso che, sapevo, di aver già visto.
«Non credo che sia così subdolo» tentai, più che altro, di convincere me stessa.
«Oh mia cara Celeste! Tu non conosci gli uomini quanto li conosco io» sospirò, con fare saccente «Ce ne sono alcuni che farebbero di tutto per poter avere tra le mani l'oggetto del proprio desiderio» lo disse una malizia che mi preoccupò.
Non credevo possibile che Ruben arrivasse a tanto, non dopo come aveva parlato in camera mia. Eppure non potevo fare a meno che prendere dalle labbra di J ed annuire ad ogni sua affermazione.
«Lui ti ha invitata ad una festa, sperando, sicuramente, che tu ti ubriacassi per poter approfittarsi di te. Non sai quanti ne ho visti fare cose del genere» mi confidò, in un sussurro.
Rimasi in silenzio, ad ascoltare quelle parole che mi trapassarono da parte a parte.  E non tanto per la sfiducia che J riponeva in lui e i miei dubbi crescenti, ma sempre per quel maledetto sogno che, in quel momento, era vivido nella mia memoria. Ogni singola scena, ogni singola parola, ogni singolo sospiro, respiro, tocco. Le nostre labbra che si avvicinavano, si schiudevano in un bacio intriso di passione. Le sue mani sul mio corpo, che lo accarezzavano e lo bramavano. Ed io, che, trascinata da uno strano piacere, mi abbandonavo a lui, avvolgendolo con la mia bocca. Ogni singolo momento, attimo di quell'episodio nello sgabuzzino trovò la sua nitidezza e mi travolse come uno tsunami. D'un tratto, non ero più sicura che quello fosse solo un sogno.



Gli occhi di Celeste erano spalancati, azzurrissimi, velati da una patina leggera di lacrime causata dall’aver finalmente realizzato quello che era successo tra di noi. Mi aveva urlato in faccia tutto il suo disprezzo, ogni singola parola di rabbia si era infranta contro il mio Ego, incrinandolo pian piano, come un muro di ghiaccio.
Ed ora era in piedi davanti a me, con le braccia incrociate, mentre mi urlava chiaramente di andarmene da casa sua.
«Vattene, Ruben» ringhiò, più sincera che mai.
Quello che era successo la sera precedente era stato soltanto un caso, un futile errore del destino, ma quello che mi ferì maggiormente era che Celeste non ricordava nulla. La festa di Annalisa, la gelosia causata dalla vicinanza della rossa, la musica alta, e poi quel maledetto champagne, da lì in poi era soltanto buio nella sua testa.
Ero stato un egoista ad aver approfittato del momento, ad aver lasciato che tra di noi succedesse questo, ma Celeste mi era apparsa più bella che mai, completamente diversa dalle modelle che ero solito frequentare.
La sera l’avevo accompagnata a casa, l’avevo messa a letto, poi, non ricordo per quale assurdo motivo, ero rimasto anche io, addormentandomi al suo fianco. Neanche fossi il suo ragazzo.
«Ti prego, vai via» disse, trattenendo un singhiozzo e mordendosi il labbro inferiore.
Anche con i capelli scompigliati e un po’ di trucco che le era colato attorno a quei meravigliosi oceani che erano i suoi occhi, rimaneva estremamente attraente.
Più di quanto avrei voluto, dannazione.
«Okay» mi limitai a dire, sapendo che non c’era verso di farla ragionare.
Quando si metteva in testa una cosa era difficile dissuaderla, ed io ero arrivato ad un punto in cui se avessi insistito mi sarei esposto troppo. Non avrei potuto dirle mai di quella sera, avrei tenuto quel segreto dentro di me, senza mai condividerlo con nessuno.
Leonardo Sogno non poteva tenere ad una persona, lui viveva per le relazioni del momento. I giornali scandalistici campavano di questi gossips e se mi fossi accasato, se avessi chiesto a Celeste di essere la mia ragazza, allora sarebbe finito tutto.
La pubblicità è tutto per uno come me.
E non c’era niente di straordinario in Celeste Fiore, almeno per gli altri.
Se il mondo l’avesse vista con i miei occhi, se avesse potuto sapere quante sfaccettature aveva il suo carattere, di quanta determinazione era capace, sicuramente sarebbe stata al centro dell’attenzione più del sottoscritto.
Mi voltai e imboccai la porta della sua stanza, fermandomi sulla soglia e guardandola di nuovo. Ancora con quel maledetto vestito rosa in dosso, quello sguardo acquamarina che nonostante tutto mi cercava.
Inconsapevolmente mi stai facendo male, ed io non posso permettermelo.
Questo è quello che avrei dovuto dirle, soprattutto perché la sera stessa avrei avuto una partita e dovevo rimanere concentrato. La mia vita privata non aveva mai influito sulle mie prestazioni in campo, ma questo era successo prima di incontrare Celeste.
Avrei odiato Annalisa e quella stramaledetta festa per tutto il resto della mia esistenza. Se avessi avuto la possibilità di tornare indietro, l’avrei fatto, anche subito.
La vita di Leonardo era stata solo in discesa prima dell’arrivo di Celeste.
«Ciao» le sussurrai, poi sparii nel corridoio.
A passi veloci percorsi tutta la distanza che mi separava dal portone dell’appartamento, sperando di raggiungerlo il più presto possibile, ma dalla cucina apparve misteriosamente Romeo, con una tazza fumante di caffè in mano.
«’Giorno» bofonchiai, aspettandomi che mi avrebbe placcato per sapere le ultime novità o per chiedermi se poteva venirmi a vedere la sera stessa all’Olimpico.
«…» nessuna risposta.
I suoi occhi verdi incontrarono i miei e vi sfuggirono subito dopo. Da quel breve contatto avevo inteso che un’ombra di rancore si stagliava sulla sua testa, ma in principio non capii immediatamente per quale motivo ce l’avesse col sottoscritto.
Visto che in quella casa non ero desiderato, tanto valeva che me ne andassi.
Imboccai il portone e successivamente le scale, chiudendomi l’uscio alle spalle con un tonfo e separandomi per sempre da quello che era successo nemmeno ventiquattro ore prima.
Arrivai nell’androne troppo velocemente, sentivo ancora gli stessi pensieri che mi vorticavano prepotenti tra le pareti della testa, rimbalzando in continuazione e tornando indietro, più forti di prima.
Perché mi sentivo così strano? Possibile che il rifiuto di Celeste mi facesse così male? Era nato tutto come un gioco, bugia dopo bugia, ed ero stato attento a non lasciarmi coinvolgere. Celeste mi aveva attratto perché rappresentava una sfida, ma ormai il bacio c’era stato –anche più di uno– e c’era stato anche qualcos’altro.
Avrei potuto finirla lì, tornare alla mia vita di prima, fatta di feste, di discoteche, di allenamenti spossanti e di tanto, tantissimo, sesso senza impegno.
E allora perché vorresti tornare nel suo letto?
Mi fece notare il mio Ego, che ovviamente riceveva i desideri diretti del mio cuore senza che essi venissero filtrati da quel bugiardo del mio cervello.
Era vero, purtroppo. Avrei anche preso quell’ascensore del ’15-’18 per fare prima, mi sarei precipitato al suo portone e l’avrei trascinata con me nella sua stanza, anche soltanto per dormire.
La volevo sentire vicina, volevo che i suoi sorrisi fossero unicamente rivolti a me, che i suoi insulti fossero soltanto miei. La desideravo tutta. Anelavo la sua rabbia, la sua felicità, quel suo sottile modo di insultarmi e quella sua semplice sensualità che mi faceva morire piano piano, volta per volta.
Dovevo smetterla di pensare a queste cose, alle volte mi sembravo davvero Ruben o uno sfigato del suo calibro. Stanotte avrei chiamato una come Annalisa, me la sarei sbattuta, e l’indomani Celeste Fiore sarebbe completamente sparita dalla mia testa, ne ero più che sicuro.
Eri soltanto un po’ in astinenza.
Sicuramente quello era il motivo di tutto questo scombussolamento ormonale che mi stava mandando ai pazzi.
Uscii dal palazzo e mi diressi verso il ciglio della strada dove era parcheggiata la 500 Abarth con cui ero andato alla festa. Feci scattare l’allarme e mi sedetti al posto del guidatore, inserendo le chiavi nel cruscotto ma rimanendo a fissare il vuoto come un deficiente.
«Chiamami Leo.. solo per questa volta».
Il mio nome che usciva dalle sue morbide labbra era forse il suono più dolce con cui l’avessi mai sentito pronunciare, addirittura migliore dell’intera Curva Sud che lo urlava al vento.
Smettila!
Girai le chiavi e il motore rombò nell'insolito silenzio delle 11.00 del mattino, dopodiché inserii la freccia e mi immisi nella strada principale. Sparai lo stereo al massimo, con canzoni che avrebbero spaccato i timpani anche ad uno che viveva dentro le casse acustiche, ma servì a ben poco.
Sentivo ancora i miei pensieri che prepotenti tentavano di infettare la mia mente, di farmi diventare uno dei tanti, uno scemo che scodinzolava appresso ad una ragazza senza più aver alcuna occasione di divertirsi.
Avevo ventidue anni, ero capocannoniere della serie A, il calciatore più conosciuto al mondo, qualunque ragazza si sarebbe stesa ai miei piedi, accettando di fare qualunque cosa per il sottoscritto.
Me la sarei scelta mora, castana, addirittura rossa, con gli occhi neri, verdi, o grigi, profondi come l’oceano. Avrei potuto avere qualsiasi cosa, qualsiasi.
Tranne lei.
Parcheggiai la 500 nel box auto che avevo sotto casa, poi cercai le chiavi del mio appartamento ma il portone scattò quasi come se sapesse del mio arrivo.
Entrai e mi ritrovai Ruben vestito di tutto punto, come suo solito, che mi aspettava con il sedere appoggiato contro lo schienale del divano che avevamo in salotto.
«B-B-Buo-Buongiorno» mi disse, ma l’espressione del suo volto rimase seria.
Troppo seria per uno come lui.
«Risparmiati la predica» bofonchiai, lanciando le chiavi sul mobile di cristallo e andando in cucina bisognoso di una dose esagerata di caffeina.
Ruben mi seguì dapprima con lo sguardo, poi si sedette sul bancone, vicino all’angolo cottura, e non la smise di fissarmi con quegli occhi da talpa indagatori.
Mentre la Moka borbottava e l’acqua bolliva per far salire quel nettare scuro che mi avrebbe permesso di affrontare la giornata nel migliore dei modi, fissai a mia volta il mio migliore amico, vedendo chi l’avrebbe spuntata per primo.
«Si può sapere che hai?» sbottai infastidito.
Ruben fece spallucce, ma il suo viso rimase serio. «S-sta-stanotte hai do-dormi-dormito f-f-fuori» osservò, come se gli fosse servita una laurea per capirlo.
«Ma dai!» ironizzai.
Il mio manager si sentì indispettito da quel mio modo di prenderlo in giro, ma non si scompose più di tanto. «N-No-Non do-dovresti g-g-gio-giocare c-con l-lei» mi rimbeccò, quasi come se fossi stato dalla parte del torto, tanto per cambiare.
Tentai di soffocare la rabbia, ma il caffè uscì e dovetti immediatamente versarmene una tazza per non esplodere. «IO?» sbottai dopo aver assaggiato il peggior Espresso della mia vita. «Io non devo giocare con lei, eh?».
Anvedi questo! Come al solito ero sempre io il cattivo della situazione, quello che giocava con i sentimenti altrui senza rimanere mai coinvolto. Tutti pensavano che avessi il cuore di ghiaccio, che fossi un menefreghista completo. Anche io avevo un cuore, anche al sottoscritto si era spezzato, più di una volta.
Ruben rimase spiazzato da quella mia sfuriata, ma non appena mi accorsi di risultare un completo idiota, indossai la maschera di sempre. «Lasciamo perdere».
Afferrai la tazza di caffè e mi diressi verso la mia stanza, deciso a farmi una lunga doccia che avrebbe lavato via tutta la sporcizia di quella brutta nottata appena trascorsa.
«A-As-Aspetta..» mi disse Ruben ed io mi voltai.
«Uhm?».
«N-Non p-puoi p-per-permetterti di i-inna-innamorarti, l-l-lo s-sai, v-vero?» mi ricordò, come se non me lo ripetessi abbastanza ogni giorno.
Sorrisi al mio migliore amico, un sorriso amaro che mi scaturì dalla parte più nera della mia anima. «Lo so» sospirai. «Prima il calcio, poi il successo» ripetei, citando le parole del mio vecchio.
«I-Il p-pa-pallone è l-la t-t-tua vita, n-n-on l-la f-fa-famiglia» concluse Ruben per me.
«Grazie, amico» gli dissi, sincero.
Mi aveva ricordato l’impegno che avevo preso quando avevo deciso di realizzare il mio sogno, quando mi si era presentata l’occasione di diventare famoso, una stella, un ragazzo prodigio, dal talento straordinario.
Non avevo mai avuto tempo per le cose che non riguardassero esclusivamente il calcio, comprese le ragazze. Non mi ero mai innamorato nella mia vita, avevo soltanto fatto sesso, soddisfatto le mie esigenze fisiche.
Di tanto in tanto mi capitava una relazione, ovviamente decisa a tavolino, tanto per movimentare i giornali scandalistici, ma niente di serio, almeno per me. Non potevo permetterlo, non adesso che ero arrivato così in alto.
Devo dimenticarla, devo dimenticare tutto.

Il coro della Curva Sud riempiva tutto lo stadio Olimpico, facendo addirittura tremare le pareti dello spogliatoio. Lanciai il borsone sulla panca e mi sedetti di peso alla mia postazione, dove c’era scritto LEONARDO SOGNO a lettere cubitali, e dov’era appesa la maglia numero 23.
Sbuffai, forse un po’ troppo sonoramente, poi cominciai a togliermi la tuta e ad infilarmi i parastinchi.
«Ehi, amico» mi disse Marco, sedendomi accanto. «Ma te la sei presa per la biondina di ieri sera?» sghignazzò, colpendomi dritto al cuore.
«Fottiti, Ma’» ringhiai, inviperito.
Borriello ridacchiò e cominciò a spogliarsi, lanciando sguardi complici con gli altri compagni di squadra.
«Era la tua ragazza, per caso?» alluse Daniele, sghignazzando con Nicholas.
I miei compagni non mi avevano mai preso molto in simpatia, forse perché il mio senso di competizione passava sopra anche alle amicizie, ma soprattutto perché erano invidiosi del mio talento. Stavano tentando di mandarmi ai nervi, ma io non l’avrei permesso.
«Ma che cazzo dici!» sbottai, allacciandomi il primo scarpino.
Marco si sorprese, ma non demorse. «Da come l’hai strappata via dal nostro ballo tête-à-tête, ho pensato che fossi piuttosto geloso..» insinuò, come se Leonardo Sogno aveva bisogno di essere geloso di uno come lui.
«Pensala come ti pare, io e la bionda non ci intendiamo» tagliai corto, sperando la finissero.
Daniele, Marco e Nicholas si scambiarono sguardi complici e risatine che non mi resero per niente la serata facile. In effetti, non mi ero dato una regolata quella sera. Ero andato da Borriello e da Celeste come una furia, come un rinoceronte incazzato, e l’avevo strappata via dalle sue grinfie perché mi dava tremendamente fastidio vederli insieme.
Ma non avrei mai ammesso di essere geloso, nemmeno a me stesso, nemmeno sotto tortura.
La gelosia si prova solamente quando c’è qualcosa tra te e la persona interessata, che sia amicizia, affetto.. o amore.
Amore? Ma stiamo scherzando?
«Quindi non ti offendi se ti chiedo il suo numero di telefono» continuò Marco, senza demordere.
Cosa diavolo voleva che facessi? Che mi mettessi a fare una scenata di gelosia in pieno spogliatoio?
A quel punto gli lanciai il mio i-phone e lui lo afferrò per miracolo. «Prenditelo pure» gli dissi tranquillo, senza muovere un muscolo.
Sei bravo a fingere che non ti dia fastidio.
Borriello mi fissò esterrefatto, ma non si diede per vinto. Digitò il codice e cercò il numero di Celeste, segnandoselo veramente sul suo cellulare. Ogni numero che pigiava sul touch-screen era una pugnalata al cuore, per non parlare degli sguardi complici che lanciava agli altri due.
Mi ero cacciato nella merda con le mie stesse mani, ma pur di non sembrare un deficiente geloso avrei fatto di tutto, anche spingere Celeste tra le braccia di Marco.
«Fatto!» esultò. «Grazie, bello» ridacchiò soddisfatto.
«Certo era proprio bona quella biondina, un po’ troppo chiacchierona» osservò Daniele.
Marco sfoderò un sorriso di sbieco. «Li trovo io i modi per farla tacere» disse malizioso. «Anzi, credo che urlerà ben altro».
Quell’ultima affermazione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Indossai la maglia col numero 23 e mi alzai di scatto, preferendo passare il resto del tempo in corridoio a fissare le macchie di zucchero sul pavimento piuttosto che sentire ancora le loro conversazioni.
Mi rodeva, non potevo ignorare ancora quella sensazione.
Odiavo sentirmi così male, anche perché non avevo mai provato una sensazione del genere. Solitamente erano le ragazze con cui stavo che mi tampinavano di telefonate, che mi accusavano di guardare le altre e non era mai successo il contrario.
Non mi era mai importato di nessuna di loro, mai.
«Come va, Sogno?» disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai e vidi il Mister che sorrideva, con la cartelletta degli schemi ancora sotto il braccio. Ci mancava anche la predica dell’allenatore.
«Bene, Mister» dissi a mezza bocca, sperando mi lasciasse da solo.
Lui sospirò sonoramente, poi si poggiò con la schiena contro il muro e imitò la mia posizione pensierosa.
«Quella di stasera è una partita importante, Leo» mi disse, riferendosi al match Roma-Inter che da ben quattro stagioni era stato ben più rilevante del derby della Capitale. «Dovresti lasciare i tuoi problemi a casa, e scendere in campo con la mente pulita».
Ma che era quella sera? Tutti s’improvvisavano psicologi della situazione? Cosa avevo scritto in faccia? Fallito?
«Sì, Mister, sarà fatto» gli assicurai, anche se il ghigno furbo di Borriello mentre si segnava il numero di telefono di Celeste non l’avrei dimenticata facilmente.
Vincenzo mi sorrise e mi strinse la spalla, infondendomi un po’ di sicurezza. «In questi giorni sembra tu abbia altro per la testa, vuoi parlarmene?» mi chiese gentilmente, ma mi ero rotto che tutti cercassero di compatirmi, come se avessi chissà quale malattia terminale.
«È tutto okay, davvero» lo rassicurai, sperando mi lasciassero in pace. «Sono solo pensieri».
Il Mister mi guardò poco convinto, ma alla fine mi sorrise ed entrò nello spogliatoio richiamando gli altri per gli ultimi accorgimenti.
La luce dei fari che illuminavano lo stadio Olimpico filtrava attraverso il tunnel degli spogliatoi, accecandomi con la sua intensità. C’erano giornalisti, cameramen, intervistatori, troppa gente per i miei gusti.
Non l’avrei mai detto, soprattutto perché Leonardo Sogno amava sentirsi al centro dell’attenzione.
Cosa diavolo ti sta succedendo? Prima smaniavi per un’intervista, per far sapere alla ‘plebaglia’ com’era meravigliosa la tua vita.
Ora invece mi scocciava. Volevo rimanere da solo, avevo troppi pensieri per la testa e sentivo che stavo per scoppiare.
Era passata una settimana da quando avevo incontrato Celeste, o forse qualche giorno di più, ma ne erano successe talmente tante che sembravano trascorsi anni.
«Forza ragazzi!» sentii urlare il Mister, dopodiché la porta si spalancò e i miei compagni si diressero verso il campo.
Inspirai profondamente e tentai di fare mente locale. Dovevo smetterla di pensare a Celeste, a quello che era successo alla festa di Annalisa, al fatto che lei non ricordasse nulla e al piccolo –e doloroso– particolare di quando, per la seconda volta, mi aveva cacciato via dalla sua casa.
Ora dovevo pensare solamente alla partita, a giocare come sempre, a segnare e a dimostrare agli altri quanto Leonardo Sogno valesse e fosse importante per la squadra. Celeste era solamente una tappa nella mia vita, un ostacolo che potevo facilmente aggirare.
L’intera squadra percorse il tunnel e uscì in campo, cominciando il riscaldamento.
Il bagno di folla che mi facevo ogni volta, giocando in casa, rivolgendo il mio sguardo alla Curva Sud non lo avrei mai barattato con nient’altro. Ero troppo orgoglioso di me stesso per rinunciarvi.
Quelle persone erano lì per me, urlavano il mio nome, volevano vedermi in azione e non mi avrebbero mai deluso, non mi avrebbero mai scansato.
Loro mi adoravano, vivevano per me.
Per un attimo il mio sguardo fu rapito da una bionda inquadrata nel maxischermo dello stadio e il mio cuore perse un battito.
Celeste.
Pensai subito che fosse seduta sugli spalti, magari accompagnata dal suo amico Robbeo e fosse venuta lì, mettendo da parte il suo odio per il calcio, soltanto per vedermi giocare. Ma era solo un abbaglio. Non appena si accorse di essere ripresa, salutò la telecamera ed io vidi che non le assomigliava nemmeno lontanamente.
Lei non sarebbe mai venuta per me.
«Ehi, bel bamboccio» ridacchiò Aleandro, distogliendomi dai miei pensieri. «Si può sapere cosa ti prende? Sembri sempre più di là che di qua. Quelli dell’Inter sono arrivati e Sneijder è più incazzoso che mai».
Mi voltai e vidi le maglie bianche, con il drago nero-azzurro stampato sulla manica, che si avvicinavano e venivano accolti dal loro pubblico in trasferta che li aveva accompagnati. Se la tiravano, era evidente. Avevano vinto lo scorso campionato e la Champions League, quindi si sentivano invincibili.
«Tzé, cazzoni» commentai, ritrovando per un attimo il Leonardo combattivo di sempre.
Aleandro sorrise e mi diede una pacca sulla spalla. Per ora mi ero parato il culo, ma avrei dovuto far uscire Celeste dalla mia testa se volevo giocare decentemente quella partita che segnava la metà del campionato.
«Leona’!» mi urlò Daniele, passandomi velocemente la palla.
Ero talmente sovrappensiero che tentai di fare uno stop decente, ma chiunque sarebbe stato in grado di fermare quella palla. Ovviamente la lisciai in pieno e quella colpì direttamente la zucca pelata di Sneijder.
I suoi occhi castano-verdi mi lapidarono e senza che dicesse nemmeno una parola, sentii ogni globulo rosso che cominciava a congelarsi nelle mie vene. Quel tizio faceva davvero paura.
«S-Scusa!» gli dissi, sperando non ci fossero rancori durante la partita.
Sneijder, glaciale come qualsiasi abitante del nord Europa, afferrò il pallone, caricò il tiro ma invece di restituircelo con gentilezza, lo sparò talmente forte che quello superò le transenne e andò a colpire un poveraccio del pubblico.
Rimasi con la bocca spalancata e la lingua di fuori.
Questo. È. Pazzo.
«Gli avrà rotto il naso!» esclamò Aleandro, socchiudendo gli occhi e tentando di capire cosa fosse successo al povero malcapitato che aveva ricevuto quel siluro in piena faccia.
«Come minimo» mi aggiunsi, sconcertato.
L’olandese sorrise e si voltò, raggiungendo i suoi compagni di squadra e lasciandoci di sasso con le bocche spalancate.
«Sei sicuro di poter giocare?» mi domandò il Capitano, facendomi trasalire. Il suo sguardo azzurro mi perforò da parte a parte ma non mi feci intimidire.
«Certo» sibilai a denti stretti.
Se quel vecchio decrepito pensava di potermi mettere a scaldare la panca si sbagliava di grosso. Leonardo Sogno non aveva mai trascorso una partita in panchina, e non avrebbe cominciato di certo quando la sua carriera era già alle stelle.
L’arbitro richiamò l’attenzione di tutti e i capitani delle due squadre, Zanetti e Totti, si avvicinarono per stringersi la mano e per scambiarsi il gagliardetto. Scelsero ‘testa o croce’ poi ci fu il lancio della moneta.
Culo, eravamo noi i primi a cominciare.
Ovviamente cominciai a correre verso l’area avversaria, mantenendomi al filo del fuorigioco, con Chivu e Lucio che mi braccavano manco fossero dei bodyguard.
«Levati!» ringhiai, spintonandolo, ma tra tutti e due erano degli armadi e non riuscivo a districarmi.
Nel frattempo Daniele e il Capitano diedero il calcio d’inizio, e il match Roma-Inter iniziò ufficialmente per la gioia degli spettatori.
Tentai di divincolarmi quasi subito, anche se mi risultava difficile con quei due energumeni e già dal primo minuto alzai il braccio per richiamare l’attenzione dei centrocampisti. Ovviamente nessuno mi si filò di pezza, ma preferirono di gran lunga Marco.
«Che stronzi» sibilai tra i denti, tornando verso il centrocampo dopo che Borriello s’era fatto soffiare la palla dai piedi.
Avevo il cuore che mi batteva a mille, quando iniziarono i cori della Curva che incitavano a nuove azioni e invocavano il mio intervento. Dovevo fare qualcosa, almeno per non mandare in pezzi tutto quello che avevo faticato per costruire.
La palla tornò all’Inter e capitan-Zanetti la intercettò quasi subito, correndo sulla fascia sinistra più veloce di un fulmine. Sapevo di dover rimanere in area di rigore, visto che ero una punta, ma la voglia di fare qualcosa era troppa, perciò cominciai a raddoppiare la marcatura, aiutando Marco sull’ala sinistra, ma scoprendo la mia posizione.
«Torna al tuo posto!» mi urlò Francesco, ma io non l’ascoltai.
Volevo riscattarmi, fargliela vedere a tutti quelli che osavano dire che Leonardo Sogno stava cominciando a rammollirsi, soprattutto per colpa di una biondina tutto pepe che cominciava a vedere dappertutto.
«A Leona’!» mi urlò Daniele, nella speranza che lo ascoltassi, e forse avrei fatto meglio a farlo.
Nel momento in cui, sia io che Marco, eravamo sufficientemente vicino al capitano dell’Inter, questi passò rasoterra la palla a quel testa di cavolo dell’olandese, che volò a centrocampo tentando un tiro da fuori area. Se fossi rimasto al mio posto, magari sarei potuto andargli in contro, ma come al solito avevo fatto di testa mia.
La palla fortunatamente s’infranse contro la traversa, e la porta difesa da Doni fu salva almeno per il momento. Mi beccai un’infinità di occhiatacce da parte dei miei compagni, mentre il Mister mi fissava preoccupato.
Se prima avevano soltanto dei sospetti sul mio stato d’animo contrariato, dopo questa orrenda azione avevano tutte le conferme. Leonardo Sogno aveva qualcosa di strano, era ufficiale.
«Ci stai con quella zucca che ti ritrovi?» mi rimbeccò Daniele, fissandomi di sbieco.
«C’è mancato poco che non ce facessero una pigna» insistette Marco.
Tornai alla mia posizione con la coda tra le gambe, senza saper cosa dire. La voglia di farmi valere era stata talmente forte che avevo totalmente perso di vista il gioco di squadra e l’obiettivo comune: la vittoria.
Il portiere rinviò il pallone e Daniele ne prese subito possesso, passandola poi al Capitano che si guardò intorno, tentando di impostare il gioco.
Dovevo concentrarmi e smetterla di farmi mille problemi, manco fossi un adolescente complessato. Li avevo passati quegli anni ormai, trascorrendo tutti i pomeriggi al campo di Trigoria per allenarmi con la Primavera. Basta Celeste, dovevo finirla di chiedermi perché non mi avesse ancora implorato di essere la mia ragazza, perché mi avesse buttato fuori di casa..
..perché non si ricordasse nulla di quella notte.
«A Leona’, svejete!» mi gridò Daniele, passandomi poi la palla.
Ero talmente soprappensiero che mi accorsi all’ultimo del passaggio di Capitan Futuro, ma riuscii comunque ad intercettarlo.
Subito, sia Lucio che Chivu mi furono addosso come due rinoceronti impazziti ed io tentai di scaricare il pallone su qualche mio compagno, ma erano tutti marcati. In questi momenti si vedeva il genio di Sogno, quando ormai tutto era perduto lui entrava in azione e faceva sempre sospirare il pubblico.
Ma non aveva una certa Fiore che gli ronzava nella testa.
Non mi era mai capitato di pensare ad altro mentre giocavo, il calcio era tutta la mia vita e lo sarebbe sempre stato, ma quando avrei raggiunto l’apice della mia carriera.. cosa mi sarebbe rimasto?
Io non avevo una famiglia come la maggior parte dei miei amici, dei miei compagni di squadra, non avevo nessuno oltre ai miei genitori e al mio amico Ruben. Ero solo con il mio successo, non avevo nient’altro.
«Sogno, de qua!» mi urlarono e vidi che sulla fascia destra spuntava ancora Marco Cassetti che mi chiedeva il pallone per improvvisare un cross.
Non mi ero minimamente reso conto che anche Borriello si era liberato e mi chiedeva di passargli il pallone. Non avevo idea di cosa fare, mi trovavo in un limbo e non sapevo come uscirne. Leonardo Sogno non era mai stato indeciso in vita sua, aveva sempre preso il toro per le corna.
Era questione di secondi, anzi, di attimi. Dovevo decidere cos’era meglio per la squadra, cosa fosse meglio per tutti. E allora un flash di quello che era successo alla festa di Annalisa mi attraversò la mente. Era vivido, quasi reale, potevo addirittura toccare con mano il viso arrossato di Celeste e quelle labbra rosse e piene che aspettavano solo le mie.
Mi distrassi per un millesimo di secondo, ma fu sufficiente a farmi soffiare via la palla dai piedi e per una squadra come l’Inter, questo voleva dire goal quasi assicurato.
Gli altri sbuffarono e ripartirono, tornando in difesa. Sentii commenti poco apprezzabili sulla mia prestazione, ma era ovvio che stavo facendo schifo, lo capivo anche da me.
«È meglio che cominci a scaldare la panchina, pulcino» asserì Borriello, linciandomi con lo sguardo e dandomi una spallata.
«Fottiti» ringhiai, restituendogli la spinta.
Marco sfoderò un sorriso di sbieco, troppo furbo per uno come lui. «Dopo la fine di questa partita, credo proprio che telefonerò alla biondina.. le dirò di tenersi calda e vogliosa per quando verrò nel suo letto» insinuò malizioso.
Sapevo che lo stava facendo soltanto per ingelosirmi, per indurmi a commettere una cazzata che avrebbe dato un’altra ottima ragione al Mister per sostituirmi, me quel giorno ne avevo passate troppe ed ero al limite.
«Vaffanculo, Marco!» ringhiai, mollandogli una spinta più forte, tanto che lo feci indietreggiare.
I difensori della squadra avversaria ci fissarono come se fossimo dei pazzi, ma l’arbitro ancora non si era accorto di nulla.
«Allora ammetti che è la tua ragazza» ridacchiò. «Quando mi si è strusciata addosso.. aveva un sedere».
In quel momento non ci vidi più, tant’ero accecato dalla rabbia. Feci tutto istintivamente, dal puntare i tacchetti nel terreno soffice dell’Olimpico, al stringere la mano a pugno, a sferrare un colpo dritto sulla faccia di quello stronzo.
«Ah!» gridò, coprendosi il volto e cadendo a terra.
Rimasi di sasso dopo che mi resi conto di cosa avevo fatto. Avevo ancora la mano tesa davanti a me, che vibrava dopo il colpo.
Stavolta l’hai fatta grossa.
L’arbitro si voltò subito e, senza pensarci, estrasse il cartellino rosso e fischiò, interrompendo il gioco e facendo sì che l’intera squadra si accorgesse di ciò che avevo fatto.
«Ma dai, è esagerato!» tentò di dire Daniele, affinché non ci lasciasse in dieci.
«Stiamo scherzando? Ha colpito un suo compagno di squadra!». L’arbitro era irremovibile.
Io non dissi nulla, ero ancora troppo scosso per quello che era successo. D’accordo, non mi andava a genio uno come Borriello, ma non avrei mai e poi mai colpito un mio compagno rischiando la partita e venendo espulso.
Leonardo Sogno non aveva mai lasciato il campo prima dello scadere del 90°, quella sarebbe stata la prima ed unica volta che avrei lasciato il campo quando la partita era pressoché appena iniziata.
I mormorii del pubblico erano pieni di dissenso, di sdegno per ciò che avevo fatto, per come mi ero cagato la partita.
L’arbitro, non contento, mi sventolò davanti alla faccia il cartellino rosso, invitandomi ad uscire, così, senza ulteriori indugi, mi diressi verso il bordo del campo, mentre i cori della Curva furono sostituiti da una bordata di fischi che mi ruppe un timpano.
Avevo deluso tutti, in un modo o nell’altro.
Il Mister, i compagni, gli spettatori e i fan che mi sostenevano. Mi sentivo una merda e non accettai nemmeno una pacca sulla spalla da Vincenzo per quanto ero incazzato con me stesso.
Scesi le gradinate che conducevano allo spogliatoio, ignorando i giornalisti e gli altri membri dello staff che mi chiedevano spiegazioni sul mio comportamento, ma mi recai unicamente verso le docce. Dovevo spogliarmi, lavarmi via quella parte di me stesso che mi stava rovinando la vita, che stava pian piano distruggendo tutto ciò per cui avevo lottato.
Avevo sacrificato la mia adolescenza per vivere un sogno, ed ora sarebbe bastato pochissimo per guardarlo andare in frantumi.
Gettai le scarpe alla rinfusa e accesi l’acqua della doccia, poi mi spogliai e lasciai che il getto caldo mi rischiarasse i pensieri.
Posai le mani sulle piastrelle fredde e bianche del box, poi anche la fronte s’infranse sulla fredda porcellana. Cos’avevo fatto di sbagliato per meritarmi tutto quello? Possibile che non ne facessi una giusta?
È cominciato tutto con Celeste, prima la tua vita era perfetta.
Il mio Ego aveva ragione, prima di lei tutto andava a gonfie vele ed io ero innamorato soltanto di me stesso. La verità era che non potevo tornare indietro, non ci sarei riuscito.
Dovevo dimenticarmi di Celeste, dovevo scordarmi tutto e non cercarla mai più, almeno sarebbe uscita dalla mia testa e mi avrebbe lasciato in pace, libero di potermi concentrare di nuovo sul calcio, sul mio mondo, su tutto ciò per cui i vivevo.
La mia vita sarebbe stata di nuovo perfetta, pensai sollevato, ma subito sentii un tremendo freddo farsi strada nel mio petto. Sì, perfetta, ma incredibilmente vuota.
Cominciai ad insaponarmi i capelli e il torace, fissando la schiuma che si addensava sulla mia pelle e tentando inutilmente di trovare una soluzione. In fondo non era successo nulla, a parte quell’incidente alla festa di cui lei non ricordava nulla.
Sarebbe bastato non cercarla più, scomparire per sempre dalla sua vita. Ero sicuro che Celeste non mi avrebbe mai cercato, era troppo orgogliosa, perciò il compito sarebbe stato molto più facile.
La verità era che più cercavo di non pensare a lei, più inevitabilmente finivo col ricordarmi com’era il suo sorriso, i suoi gesti, quel dito indice che mi puntava sempre sul petto, tentando di far valere le sue ragioni. Erano piccoli gesti, forse inutili e che sarebbero passati inosservati a chiunque, ma che io non riuscivo a togliermi dalla testa.
Dimenticala, dimenticala, dimenticala!
Dovevo farlo, per me stesso e per la mia famiglia. Si erano sacrificati tutti per farmi raggiungere la vetta ed ora non potevo mandare tutto a puttane, non potevo.
Uscii dalla doccia e mi legai un asciugamano in vita, poi notai il mio i-phone abbandonato sulla sedia. Sospirai sonoramente, dopodiché deglutii a vuoto.
Lo afferrai e lo sbloccai, dopodiché andai in rubrica e cercai il nome di Celeste con il suo relativo numero di telefono. Avevo due possibilità in quel momento: chiamarla o cancellare il suo numero.
Rimasi a fissare lo schermo dello smart-phone, poi decisi di fare quello che andava fatto.


Dopo 6 capitoli in cui vi abbiamo regalato un sacco di risate con questi due (anzi quattro, compresi Ruben e Robbeo) simpaticoni, i toni si smorzano dopo la festa a casa di Annalisa. A differenza degli altri, qui i due protagonisti mettono da parte per un po' la loro carica umoristica a favore di quella malinconica. Oramai è chiaro che tra i due sta nascendo qualcosa.
Celeste, inizialmente, si pone in maniera molto aggressiva nei confronti di Ruben/Leo, dopo che se lo ritrova nel letto. Urla e insulti non si risparmiano e il povero calciatore è costretto ad arrendersi alla furia bionda. Che, però, subito dopo vacilla. Si sente in colpa per come si è comportata, anche perché, non appena lui se n'è andato, si è sentita, come dice lei, vuota.
Non può nascondere, nemmeno a sé stessa, che Ruben/Leo le ha smosso qualcosa dentro, che con lui si trova bene e si diverte anche, nonostante lui non sia il suo tipo.
Il caro J, dal canto suo, cerca di mettere la pulce nell'orecchio a Celeste, la riempie di dubbi e lei inizia a sospettare che ciò che si è consumato nello sgabuzzino non sia solo un sogno, ma la realtà.
Per Leonardo non è stato facile vedersi piombare addosso il secondo rifiuto, ricevuto dalla stessa persona. Già per lui è stato difficile rapportarsi con Celeste, che inizialmente aveva visto solamente come una sfida allettante, ma ora, abituato ad avere sempre tutto dalla vita, come ricchezza, fama, successo, ragazze a valanghe, si sente rifiutato per la seconda volta dall'unica persona che ha mai osato dirgli di 'no'.
Proprio dopo la festa galeotta di Annalisa, in cui aveva sentito finalmente smuoversi qualcosa dentro di sé, era successo qualcosa che era andato oltre il semplice bacio, ma il sapere che la bella Celeste non si ricordasse nulla, lo ha ferito molto.
Ed ora vi abbiamo lasciato a questo finale angosciante, davvero da Crudelie quali siamo. :3
Che cosa succederà nel prossimo capitolo? Leonardo avrà il coraggio di dimenticare per sempre Celeste e tornare alla 'splendida' vita che aveva prima? Cancellerà il suo numero dal telefono senza mai più cercarla?
In fondo, lui non può permettersi l'amore...

Baci, baci
M&M

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