Capitolo
8.
«Fa
attenzione, Sparks.», le raccomandò Rossi, porgendogli
una piccola radiolina che la ragazza infilò subito nella
borsa.
«Lo
faccio sempre, signore.», replicò Samantha con un
piccolo sorriso rassicurante.
«Noi
saremo pronti ad intervenire qualora ci fossero problemi.»,
assicurò Hotch.
La
ragazza annuì, mentre si scostava una ciocca di capelli
dal viso.
Reid,
dall'altra parte della stanza, lo osservava preoccupato, le braccia
incrociate e una strana sensazione di occlusione allo stomaco. L'idea
che si esponesse, disarmata, ad un possibile S.I lo metteva a
disagio. Avvertiva nei suoi confronti un senso di protezione: lui
doveva proteggerla.
E
una vocina nella sua mente gli diceva che non doveva lasciarla andare
da Jackson Utah.
Scosse
il capo, conscio che qualunque cosa potesse dire lei non sarebbe mai
rimasta in centrale, facendo fare il suo lavoro a qualcun altro. Non
dopo ciò che gli aveva detto i giorni prima, in quegli attimi
di intimità strappati alla routine dei serial killer.
Samantha
voltò lo sguardo verso di lui e gli fece un piccolo sorriso,
che poteva valere più di mille parole.
Reid
annuì sconsolato. Non riusciva a capire come, in una
settimana, quella ragazza riuscisse a fargli un simile effetto. Lui,
il logico e razionale Dr Reid, per la terza volta da quando era nato
era attratto da
qualcuno.
Non
si capacitava di come potesse essere accaduto, cosa esattamente
di
lei gli facesse quell'effetto: forse il fatto che era una ragazza
complicata, misteriosa, tutta da scoprire, il fatto che avessero due
storie simili – padre assente, anche se per ragioni differenti,
e madri malate – o forse quel sorriso magnetico e contagioso. O
quel suo carattere, prima freddo e deciso, poi improvvisamente quella
dolcezza e affettuosità che si permetteva solamente negli
attimi di intimità che il lavoro le permetteva.
La
osservò uscire dalla stanza del commissariato in cui erano
riuniti, i capelli sciolti sulla schiena, la forma del corpo
perfetto.
«Tutto
bene, Reid?», domandò Morgan, comparendogli alle spalle
strappandolo ai suoi pensieri.
«Sì.»,
rispose il giovane, senza ascoltarlo veramente.
«Hai
un'aria strana.».
«Voglio
solo prendere quest'uomo e tornare a casa.», disse Reid.
Morgan
inarcò un sopracciglio.
«Reid.».
«Sarà
meglio prepararci per andare nel parcheggio sotto lo studio di
Utah.», disse questo.
Morgan
scosse il capo mentre lo guardava avvicinarsi ad Hotch e Mars;
l'aveva osservato negli ultimi giorni e si era reso conto che era
diverso del solito e più di tutto aveva notato la complicità
con Samantha. Inizialmente aveva creduto fosse per la vicinanza
d'età, d'altronde a separarli c'era solo un anno di
differenza, ma aveva capito che c'era qualcosa di più quando
aveva visto Reid spiegare a Samantha di chi stessero parlando durante
la conversazione della sera prima e lo sguardo di lei, e soprattutto
quando la notte precedente aveva visto Samantha uscire dalla camera
di Reid trafelata ma con un sorriso che le partiva da un orecchio
all'altro.
Sorrise,
felice, assistere a Spencer Reid alle prese con i flirt e le avance
nei confronti del gentil sesso era un evento assai raro, e uno
spettacolo che non voleva perdersi. Sperava solo che non ci stesse
male nel caso non andasse a finire bene.
«Morgan,
stiamo andando.», lo chiamò Emily, il giubbotto
antiproiettile già legato intorno al busto, porgendogliene un
altro.
«Grazie.
Arrivo subito.», disse con un piccolo sorriso.
Lanciò
un'occhiata a Reid, che parlava con JJ, e si ritrovò a pensare
che per lui quel ragazzino era davvero quasi un fratello.
**
«Signorina?
È il suo turno.»,
disse una giovanissima segretaria bionda, con un sorriso cordiale,
facendo segno a Samantha.
Samantha
si alzò dalla sedia di plastica su cui era seduta e ricambiò
il sorriso.
«Può
per favore lasciarmi per favore un suo documento?»,
domandò ancora la segretaria. L'agente annuì, sempre
senza calare il sorriso cordiale, e consegnandole il documento falso
che le era stato consegnato quella mattina, poco prima di lasciare
l'albergo.
La
bionda segnò il nome falso di Samantha su un registro:
Madeline Pay.
«Prima
porta a destra, signorina Pay.».
«Grazie.»,
ricambiò la mora, seguendo le sue indicazioni.
Non
appena le diede le spalle il sorriso le si sciolse dalle labbra, si
sciolse i capelli vaporosi che sin ora aveva tenuti legati in una
treccia. Poi si riprese tra le mani la targhetta militare che era
appartenuta a suo padre e vi stampò sopra un bacio,
accarezzando poi l'incisione. «Ti voglio bene, papà.»,
mormorò, prese un respiro profondo e bussò alla porta
dello studio fotografico di Jackson Utah.
«Avanti.»,
disse una voce sottile dall'altra parte della porta.
Samantha
entrò.
«Buongiorno,
signore.», disse, mostrando un sorriso felice.
«Buongiorno»,
ricambiò. «Signora...?».
«Pay,
Madeline Pay. E signorina, per favore.», disse subito la
giovane donna.
Jackson
Utah annuì. Era un uomo piuttosto robusto, anche se la voce
poteva far presumere il contrario, doveva essere sui quarant'anni, i
capelli erano corti e scuri, gli occhi due pozzi neri. Un uomo a suo
modo affascinante.
«Bene,
signorina Pay. Mi dica, che genere di servizio fotografico
vorrebbe?», domandò, lanciandole un'occhiata
circospetta. «Per quale occasione?».
«Sto
cercando un lavoro come attrice o modella.», mentì
spudoratamente quanto perfettamente la giovane. «Devo mostrare
delle foto ai giudici e sceneggiatori, quindi... Non lo so, mi
consigli lei.».
Utah
meditò a lungo, sfogliando un catalogo.
«Escluderei
un nudo», disse. «Magari qualche foto con lei vestita
così com'è e qualcun'altra con un abito da sera...».
«Non
ho abiti da sera.», disse Samantha, con tono dispiaciuto,
abbassando lievemente il capo e mordendosi il labbro inferiore.
«Che
taglia indossa?», domandò Utah.
«Trentotto»,
disse lei.
Jackson
le fece cenno di aspettare e sparì dietro a una porta che
doveva portare a un magazzino, Samantha lo osservò, pronta a
difendersi in caso l'uomo si fosse presentato con qualcosa di
pericoloso.
Pochi
minuti dopo il sospetto S.I. tornò con un abito grigio
accuratamente protetto da una carta trasparente tra le mani.
«Si
può cambiare dopo», disse.
«Ora, cominciamo con le foto di lei vestita ora come ora.»
Samantha
annuì e si sedette su uno sgabello posto accuratamente in un
set per la fotografia, sorridendo raggiante e mettendosi in varie
pose, da alzata e seduta.
Utah
ogni tanto le consigliava come spostare un braccio, una mano, lo
sguardo, sembrava un fanatico dei dettagli, particolare che Samantha
registrò subito.
«Da
quanto tempo fa questo lavoro?»,
domandò interessata, iniziando a fare domande.
«Quasi
sette anni», rispose
meccanicamente Jackson.
«Deve
essere un lavoro molto interessante!»,
riprese lei. «Mi ha sempre
affascinato la fotografia, mi sarebbe piaciuto fare qualche corso per
intraprendere una carriera in questo campo.».
«Se
vuole, perché non lo fa?»,
domandò l'uomo, più per gentilezza che vero
interessamento.
«Beh,
sono una donna single con un figlio a carico e un lavoro a tempo
pieno, non ho proprio il tempo»,
rispose lei, con finta disinvoltura, scostando lo sguardo ma
guardando Jackson Utah con la coda dell'occhio. Lo vide esitare e
irrigidirsi a quelle parole.
«Davvero?»,
domandò. «Quanti anni ha suo figlio?».
«Cinque.»,
disse Samantha, sorridendo all'obbiettivo mentre si metteva una mano
dietro la testa e l'altra la mise su un fianco, in posa per la
prossima foto.
Utah
scattò un altro paio di istantanee e poi le fece cenno di
prendere l'abito e di andare a cambiarsi nel camerino.
La
ragazza annuì, afferrò l'abito e si allontanò
con aria circospetta, senza lanciarsi occhiate alle spalle solo
grazie al suo fermo autocontrollo. Aveva uno strano presentimento che
non riusciva a spiegarsi, ma si disse che era solo paranoia.
Si
infilò l'abito quasi in trans, mettendosi a posto i capelli e
poi tornando da Utah, il quale stava camminando avanti e indietro per
la stanza, borbottando tra sé e sé.
«Eccomi!»,
disse la ragazza.
Utah
annuì e Samantha si risedette sullo sgabello, accavallando le
gambe; notò che Jackson aveva modificato lo sfondo dietro di
lei, da azzurrino ora mostrava una stradina tipica di New York.
«Mi
dica, lei invece ha famiglia?», domandò.
L'uomo
si irrigidì ancora di più.
«Sì.»
disse seccamente.
«Figli?».
Jackson
Utah iniziò a toccarsi un orecchio con nervosismo.
«No.».
«Quindi
è sposato.», disse la mora, pressandolo, conscia che se
avesse continuato a metterlo sotto pressione sarebbe scoppiato.
Il
fotografo annuì, sembrava non volesse parlare.
«Avete
intenzione di avere figli?», continuò.
«No.».
«No?
Sua moglie non vuole dei figli? Non lo sa che i figli sono la gioia
della vita? Credo che ogni donna vorrebbe dei figli e impazzirebbe
nel caso non li avesse. Avere dei figli è un privilegio a cui
non si può rinunciare. Strano che sua moglie non ne voglia. Lo
sapeva che...», disse, parlando a manetta, mentre una mano di
Utah iniziava a tremare.
«Basta!»,
urlò l'uomo, sbattendo un piede a terra. Samantha montò
un'espressione innocente sul volto.
«Ho
detto qualcosa di sbagliato?», chiese dolcemente.
«Se
ne vada di qui.», disse Utah, serrando i pugni. «Subito!».
«Va
bene, okay», fece la mora, alzando le mani in segno di resa.
«Mi rivesto e vado via. Mi dia qualche minuto, mi scusi.».
L'uomo
la guardò sfilargli accanto e chiudersi nel camerino.
Velocemente
la ragazza si infilò la maglietta, i jeans e le scarpe,
mandando un avvertimento a Hotch di iniziare a intervenire con
cautela. Sapeva che la squadra si tornava nel parcheggio in cui era
stata trovata Barbra insieme ad alcuni poliziotti di Tucson.
Uscì
dal camerino ma non fece nemmeno un passo che sentì
improvvisamente un dolore lanciante dietro la testa e cadde a terra,
portando le mani in avanti per impedire di farsi male al viso. Si
voltò indietro, la vista era sfocata, ma riuscì
comunque a scorgere la figura di Jackson Utah con in mano un piede di
porco.
«L'ho
capito subito che eri della polizia.», disse seccamente,
guardandola dall'altro verso il basso ed osservandola mentre si
portava una mano alla testa e gemeva. «Solo voi poliziotti
avete una simile puzza sotto il naso».
Samantha
lo guardò negli occhi: non aveva paura.
«Non
ho paura di te, lo sai questo, sì?», chiese con tono
sprezzante, trattenendosi appena dallo sputargli in faccia.
Jackson
Utah si chinò leggermente verso di lei mentre si portava una
mano alla vita e iniziava a slacciare la cintura.
«Vedremo
sino a che punto.», mormorò, brandendo l'oggetto e un
sorriso malizioso che gli incrinava le labbra.
**
Hotch
estrasse la propria pistola dalla fondina e fece cenno ai membri
della sua squadra di seguirlo insieme allo sceriffo Mars e ai suoi
agenti lungo il corridoio che portava allo studio di Utah. Il piano
iniziale era quello di aspettare un esplicito segno di Samantha ad
intervenire, ma da quando aveva detto loro di intervenire con cautela
non l'avevano più sentita e non aveva risposto per due volte
al telefono.
Reid
era davanti insieme a Morgan e camminavano velocemente, con passi
corti ma svelti.
«Oh
mio Dio!», esclamò una giovane ragazza bionda, vedendoli
e sbiancando velocemente. «Cosa succede?».
«Via,
via di qui!», le ordinò JJ, avvicinandosi a lei e
facendole segno di andarsene. La segretaria si allontanò,
lanciandosi delle occhiate alle spalle con aria spaventata, e fu
prontamente fermata ad un certo punto da un altro poliziotto per
interrogarla a proposito del suo capo.
«Jackson
Utah, FBI!», urlò Morgan, provando ad aprire la porta ma
trovandola chiusa a chiave.
Si
scambiò un'occhiata con Rossi alle sue spalle e dopo qualche
istante alzò una gamba, dando un possente calcio alla porta,
la quale si aprì con un rumore secco. Derek entrò nello
studio, subito seguito da Reid e il resto della squadra.
«Qui!»,
disse loro la voce di Samantha e subito la seguirono, allarmati e
insieme sollevati dal sentirla parlare.
Davanti
a loro, quando la raggiunsero, si parò una scena tutta nuova:
Samantha era in piedi, una mano che si reggeva la testa, una lieve
smorfia sul viso misto a un sorriso vittorioso e a terra c'era
Jackson Utah, le mani legate con la sua stessa cintura, gli occhi
chiusi e l'ombra violacea di un livido che iniziava a disegnarsi
sulla tempia destra.
«Eccovi.»,
disse la ragazza. «Portate
questo bastardo lontano dalla mia vista, ve ne prego.».
Non
appena finì di parlare tre agenti della polizia di Tucson lo
presero per le spalle, trascinandolo fuori mentre un quarto si
premurava di chiamare un'ambulanza.
«Stai
bene?», le domandò gentilmente JJ, vedendo la smorfia
che le percorreva il viso.
«Mi
ha colpito alla testa», disse lei. «Ma sto bene, davvero,
mi serve soltanto un po' di ghiaccio.».
«Sicura?»,
domandò Hotch, penetrandola.
«Assolutamente.»,
annuì la ragazza, sorridendo appena e mostrandosi
completamente serena.
«Andiamo
via di qui.», disse poi Reid, avvicinandosi a lei e Samantha
annuì sollevata.
Per
un'altra volta era finita.
**
Quella
sera il jet era silenzioso. La stanchezza che aveva accompagnato i
membri del BAU per quella settimana e mezzo si stava facendo sentire
e ognuno di loro approfittava del viaggio di ritorno per riposare,
ascoltare la musica o dormire.
Samantha
era seduta vicino a un finestrino, da sola, in silenzio, le cuffie
dell'iPod infilate nelle orecchie e la melodia di When
I get home che risuonava nella
sua testa.
Pensava
a Jackson Utah. Sapeva già che gli avrebbero dato l'ergastolo
senza possibilità di uscire sulla parola, ma non era tanto
quello ad interessarla, più che il pensiero di tutte le donne
che aveva ucciso, le vite rubate non solo a loro, ma anche i figli,
la maggior parte dei quali non avevano un padre su cui contare e che
sarebbero finiti in affidamento. Pensava agli amici delle vittime,
con i quali magari avevano pensato di organizzare una vacanza
che non sarebbe mai avvenuta.
Sospirò
e fece una smorfia quando appoggio la nuca al sedile dell'aereo:
nonostante avesse insistito di stare bene, Rossi l'aveva atta
visitare da un medico, il quale aveva accertato che non si trattava
altro che di una brutta botta.
Pochi
istanti dopo vide una mano affusolata che le porgeva un panno
rigonfio.
Reid
le sorrise incoraggiante.
«Ti
ho portato del ghiaccio.», spiegò, arrossendo appena.
Samantha
lo afferrò e lo ringrazio con un sorriso, mettendosi poi il
ghiaccio sulla nuca e fece subito un sospiro di sollievo.
«Meglio?».
«Decisamente.
Grazie, Reid.», sorrise Samantha, facendolo arrossire ancora di
più.
La
ragazza spostò di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino. Le
parole che gli aveva detto Utah continuavano a rimbombarle in testa
«L'ho capito subito che
eri della polizia», ed
ogni volta era una continua sconfitta.
«Che
cos'hai?», domandò il giovane genio, scrutandola con
aria preoccupata.
Samantha
scrollò le spalle.
«Utah
sapeva che ero della polizia non appena sono entrata in quello
studio.», borbottò. «Non sono riuscita ad
ingannarlo.».
Reid
le fece un piccolo sorriso di comprensione, capendo immediatamente
ciò che la ragazza stava cercando di dirgli.
«Capita
a tutti.».
«Ma
a me no, faccio questo lavoro da anni e sono sempre riuscita ad
ingannare qualsiasi S.I. o sospettato quale fosse, se mi scoprivano
avveniva solo dopo tanto tempo che ero con loro, Jackson Utah ha
capito che ero un federale non appena sono entrata lì
dentro.».
«Samantha»,
fece Spencer, sporgendosi in avanti e guardandola fissa negli occhi.
«lui ora è in prigione e ci rimarrà per il resto
della vita, tu invece sei qui fuori. È questo l'importante.».
La
ragazza annuì, abbassando lievemente il capo.
«Grazie
Spencer.».
«Di
cosa?».
«Di
essere te».
«Oh,
grazie, non so essere nessun altro*».
Samantha
ridacchiò. «Già, è proprio questo che mi
piace di te*.».
A
quell'affermazione Reid si fece color porpora e abbassò il
capo, passandosi una mano tra i capelli.
Rimasero
in silenzio a lungo, scambiandosi delle occhiate ogni volta che
pensavano che l'altro non lo vedesse.
«Ehm...»,
iniziò Reid, rendendosi conto di avere la voce improvvisamente
roca. Se la schiarì. «Samantha, io... volevo chiederti
una... una cosa.».
La
mora si voltò a guardarlo.
«Dimmi.»,
gli sorrise incoraggiante.
«Ecco,
io mi chiedevo se... sì, se uno di questi giorni... Sai, ti
andrebbe di andare a prendere un
caffè insieme.».
Il
sorriso che si era dipinto sul volto di Samantha si sciolse man mano
che il ragazzo parlava, fino a scomparire del tutto.
Già
da quel gesto, Reid avrebbe voluto non aver aperto bocca.
«Reid...
Io... Non posso, mi dispiace.», balbettò, seriamente
dispiaciuta.
«Oh,
capisco. Non... non importa, davvero.».
«No,
ti prego, lasciami spiegare. Tu sei una persona meravigliosa, e mi
piacerebbe poter uscire con te per quel caffè, ma... Non
possiamo permetterci che quell'uscita diventino tre, quattro, dodici
sino a diventare quasi quotidiane, mi capisci? Noi...», abbassò
il tono sino a sussurrare in modo tale che non la sentissero. «siamo
colleghi, capisci? Il protocollo dell'FBI dice che...».
«Lo
so», la interruppe il ragazzo, «lo so. Non importa, era
solo un caffè». Nonostante la finta indifferenza,
Samantha percepì il dispiacere nella voce di Spencer.
Tornò
a guardare fuori dal finestrino. Se Reid non fosse stato un suo
collega, avrebbe accettato quell'invito senza quasi pensarci, ma non
se lo poteva permettere. Sapeva che quel caffè si sarebbe
trasformato ben presto in una prima colazione, e poi in un pranzo, e
poi in una cena e dopo ancora tutte e tre le cose. Sarebbero arrivati
i week-end da passare insieme, le uscite, l'invito al cinema, gli
spettacoli a teatro, i concerti. E sarebbero probabilmente divenuti
una coppia. Se lo sentiva, non sapeva come, ma si sentiva che se
avesse accettato quell'invito lei e Reid avrebbero avuto una
relazione; era strano pensare una cosa simile dopo solo una settimana
e mezzo passati insieme, praticamente impossibile, ma era come se tra
loro fosse scoccato quel qualcosa
che se non si troncava sul
nascere sarebbe divenuto qualcosa di importante. Di estremamente
importante. Ed ecco cosa doveva fare, troncare sul nascere. C'era un
motivo per cui l'FBI vietava le relazioni tra colleghi, per quanto
potessero lavorare sporadicamente insieme: non ci si poteva
permettere distrazioni sul campo, non potevano mettere a rischio la
propria persona e quella dei proprio colleghi nel tentativo di
salvare o aiutare il proprio compagno o compagna. E lei osservava il
protocollo, da sempre, perché lei era fatta così:
previdente, devota alla legge e alle più piccole regole, per
quanto le potessero far dispiacere.
Chiuse
gli occhi, lasciandosi cogliere dalle braccia di Morfeo mentre si
cercava di convincere che era la decisione giusta.
**
Reid
salutò il resto della sua squadra con la mano, augurando a
tutti la buonanotte e dicendo che si sarebbero visti tutti da lì
a due giorni poiché il giorno dopo era stato concesso a tutti
un giorno di riposo dalla Strauss tra il sollievo generale. Samantha
era andata via, tornata nel suo ufficio non appena il jet aveva
toccato terra.
Sospirò
amareggiato mentre entrava in ascensore e premeva il bottone che
l'avrebbe portato sino al parcheggio sotterraneo; quando l'aveva
invitata ad uscire per quel caffè non sperava molto in una
risposta positiva, anzi ad essere sincero non l'aveva nemmeno
premeditato, erano state le sue labbra a muoversi quasi senza il suo
consenso. Non era sorpreso del fatto che gli avesse detto di no,
d'altronde lei era bellissima, probabilmente poteva
avere qualsiasi uomo desiderasse, e lui era... Beh, era solo lui.
Si
incamminò lungo il parcheggio vuoto verso la propria macchina,
tenendo il capo chino verso la propria borsa a tracolla mentre
cercava le chiavi dell'auto.
Quando
le trovò alzò di nuovo il capo, conscio di essere
arrivato davanti alla macchina e la sua bocca disegnò una 'O'
dalla sorpresa.
Seduta
sul cofano dell'auto, a gambe incrociate, i capelli sciolti e un
sorriso sereno sul volto, c'era Samantha.
«Mi
chiedevo se l'invito per quel caffè fosse ancora valido.»,
disse, senza accennare di smettere di sorridere.
Spencer
Reid la guardò stupito, poi le sue labbra si curvarono
all'insù. E sorrise.
The
End.
Finita!
Ho postato gli ultimi due capitoli insieme altrimenti mi sarei
dimenticata di postare, di nuovo.
Tecnicamente
ci sarebbe un seguito, di cui ho già scritto un paio di
capitoli. Ma non sono sicura se postarlo o meno. Vedremo.
Grazie
mille a tutti voi per le recensioni, i preferiti, i seguiti e le
ricordate. Vi adoro. GRAZIE. <3
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