capitolo 7
7.
I'm not alone
Martedì 31 maggio
Evelyn's Pov.
Il risveglio della
mattina seguente
è piuttosto strano e soprattutto pensieroso: ho passato
tutta la
notte a fare un sogno dietro l'altro, di persone e situazioni diverse.
C'era Danny, e, con una fitta allo stomaco, ricordo che in uno c'era
anche Peter.
Accendo il cellulare e sul display compare l'ora: sono le otto e mezza.
Dopo poco, senza pensarci una seconda volta, allungo la mano verso il
comodino e mi metto a leggere qualche capitolo del libro che ho
iniziato ieri, Il
profumo delle foglie di limone.
Mi piace molto principalmente perché quando lo leggo mi
sembra
di entrare in un altro mondo, staccandomi così dalla
realtà. Sono solo a pagina centocinquanta, eppure
è
già successa una serie di eventi che mi hanno abbastanza
turbata. Sarà per questo, ma lo trovo davvero stupendo come
libro: ti lascia senza parole, entra nel più profondo e ti
fa
capire davvero fino a che punto può spingersi il genere
umano.
Secondo me i libri non devono solo farti ridere o sognare, devono anche
farti meditare e farti vivere emozioni forti, di qualunque tipo esse
siano.
Alle nove e quaranta sono seduta nell'ultimo tavolino libero rimasto
della stanza dove c'è la colazione, circondata da persone di
tutte le età: ci sono famiglie composte solamente da marito
e
moglie ma alcune anche da due o tre figli.
C'è un po' di chiacchiericcio generale, vecchietti che si
tengono la mano sul tavolo, adulti che parlano animatamente e qualche
bambino che ride o piagnucola, eppure è un bel sottofondo,
perché è come se volesse ricordarmi la bellezza
della
vita che spesso mi dimentico.
«Buongiorno!» esclama un cameriere in divisa,
interrompendo le mie riflessioni. «Desidera?»
«Oh, sì» rispondo, dando una veloce
occhiata al
menù che ho sotto il naso. «Uhm, un cappuccino,
grazie.»
Una volta che ha scarabocchiato l'ordine sul block-notes e si
è
allontanato, mi alzo e mi dirigo verso i tavoli al di là
della
stanza.
Dio, farò colazione qui per altre tre mattine e sono sicura
che ingrasserò almeno di dieci chili.
C'è di tutto, da brioche ripiene a biscotti stracolmi di
cioccolato, da fette biscottate con il burro e la marmellata a panini
con il salame. Senza contare quanti tipi di bevande calde o fresche ci
sono!
«Che paradiso, eh?»
Mi volto di scatto riconoscendo la voce.
«Ciao Grace!» la saluto, con un sorriso che va da
un orecchio all'altro.
«Ci conosciamo?» sbotta lei, ammutolendo.
Faccio una smorfia divertita. «Sì, ci siamo
conosciute
ieri al drink after dinner dell'albergo, ma mi sembra di aver capito
che non ti ricordi nulla, giusto?»
«Oddio, ehm, ho vaghi ricordi» borbotta lei,
massaggiandosi
le tempie, «e a dirla tutta ho ancora un mal di testa
allucinante...»
Le mostro un timido sorriso. Purtroppo non saprei cosa dirle, visto che
non mi sono mai ubriacata così tanto da non ricordare
assolutamente niente.
«Ti prego, non dirmi che ho fatto qualcosa di
sconvolgente.»
«Dipende cosa intendi per
“sconvolgente”» scherzo io.
«Oh cristo! Cos'ho fatto?» sbotta lei, strabuzzando
le palpebre.
«Ehm, hai chiesto a me e a James di venire a letto con te
ieri notte...»
Arrossisce immediatamente. «Ops, scusami, che
figura!»
«Non importa» la tranquillizzo io, con un sorriso.
Poi
aggiungo, chiudendo un occhio: «E poi diciamo che ci hai
provato
anche con il chitarrista.»
«Oddio, quello figo dell'altra sera? Alto, moro, occhi
blu...?»
«Sì, lui» rispondo io, e due secondi
dopo realizzo quello che ha appena detto.
Quello figo dell'altra sera.
Ciò vuol dire che non viene qui a suonare occasionalmente,
dico bene?
«Oh mio Dio, voglio sotterrarmi!» geme lei.
«Chi ha più il coraggio di guardarlo in faccia
ora?»
«Tranquilla, non è rimasto
traumatizzato» la rassicuro, ridacchiando.
«Mamma mia... E lui cos'ha detto? Non saremo
mica...?»
«No, non credo proprio. Ho visto che se n'è andato
e tu sei salita in camera.»
«Okay, per fortuna» dice lei, tirando un sospiro di
sollievo. «Scusa per averti tartassata di domande, ma non
saprei
a chi chiedere sennò...»
«Oh, non preoccuparti.»
«Comunque, scusa la domanda stupida, ma come ti
chiami?»
«Evelyn.»
«Che bel nome» commenta, sorridendomi.
«Beh, è
un piacere, io sono Grace... anche se è una cosa stupida da
dire
anche questa... Che brutto effetto che fa l'alcol, eh?»
Mi aggiro per i lunghi corridoi dell'ospedale Civile di Venezia di cui
mi parlava a casa la mamma, senza sapere dove andare. Insomma, non
è che posso chiedere a infermiere a caso come potrei trovare
il
nome della mia madre biologica, no?
Quando trovo il reparto ginecologia, decido per istinto di voltare a
destra, trovandomi davanti cinque o sei rampe di scale.
Cosa diavolo posso fare?
Improvvisamente il mio cellulare inizia a vibrare e senza neanche
guardare chi mi sta chiamando, premo il tasto di risposta e lo porto
all'orecchio.
«Amore!» è la voce preoccupata di Danny.
«E'
tutta mattina che cerco di sentirti, o non rispondi o non è
raggiungibile...»
«Ops» borbotto, storcendo la bocca mortificata.
«E'
che mi sono svegliata un po' tardi, sono scesa a fare colazione e
subito dopo mi sono preparata per andare all'ospedale, non ho avuto il
tempo di guardare il telefono, onestamente.»
«Okay» fa lui, «ma non è
successo niente di grave, vero?»
Alzo gli occhi al cielo. «No, Danny» sospiro poi.
«Sei troppo ansioso, te l'ho già detto un milione
di
volte.»
«Scusa» sbotta lui.
Seguono un paio di minuti di silenzio in cui lui rimane zitto ed io mi
tormento su cosa potrei dirgli e soprattutto come. Alla fine decido di
andare su un discorso improvvisato.
«Ascolta Danny, non voglio accusarti o che, a me fa piacere
che
ti preoccupi per me, però dico solo che a volte esageri un
po'... insomma, come credi di passare i prossimi giorni se mi accadono
altri imprevisti? Chiami la polizia?»
«No» risponde lui. «Senti,
cercherò di trattenermi se è questo che vuoi, va
bene?»
«Non voglio litigare» metto in chiaro io, quando
sento il suo tono seccato.
«Ma neanche io, però sembra quasi che ti dia
fastidio il fatto che pensi a te giorno e notte...»
«Non mi da fastidio! A volte però diventi un po'..
opprimente, ecco.»
«Okay, allora scusami se ti opprimo» dice lui, con
evidente sarcasmo.
«Te l'avevo detto che non volevo litigare...»
A questo punto Danny resta in silenzio, mentre io, non sapendo
cos'altro aggiungere, mi guardo attorno cercando invano di orientarmi.
Senza rendermene conto mi ritrovo al terzo piano, piano alquanto
diverso dagli altri. I muri sono tutti colorati con farfalle, fiori e
arcobaleni, alle porte sono attaccati adesivi di Topolino e Minnie e
qua e là sono appesi disegni confusi di bambini piccoli.
D'un tratto una voce familiare interrompe lo strano silenzio che s'era
formato, seguita da risate divertite di bambini.
«Evelyn?»
«Sì» borbotto a Danny.
«Mi impegnerò a non farlo più...
seriamente, non voglio essere un peso.»
«Sì» faccio io, lentamente.
«Scusa se sono stato troppo soffocante, non era nelle mie
intenzioni.»
Finalmente scorgo una specie di piazzale dove sono radunate piccole
sedie di tutti i colori che formano un semicerchio. Appoggiati alle
pareti ci sono decine di adulti a braccia conserte, con un'aria strana,
sembrano rallegrati ma in fondo hanno uno sguardo malinconico. Come se
volessero far vedere che tutto è a posto, ma in
realtà
non lo è assolutamente.
Che cavolo...?
«Eveleyn, mi stai ascoltando?!» esclama Danny
dall'altra parte del telefono.
«Sì» gli rispondo. «Non vuoi
essere un peso, ho capito.»
«Ma poi mi sono anche scusato, e ti ho detto che non l'ho
fatto apposta.»
«Okay...»
«Ma cosa sta succedendo?»
«Sono... sono in ospedale.»
«Ah» mormora lui. «E' un brutto momento?
Vuoi che ti richiami più tardi?»
«Sì, forse è meglio» confermo
io. «Ci sentiamo dopo, ciao!»
Dopo aver rimesso il cellulare in borsa, faccio qualche passo verso i
bambini allungando l'orecchio curiosa.
«Cos'è questo?» annuncia una voce
femminile,
accompagnata dal suono giocoso della chitarra. «Attenzione,
grandi e piccoli, può sembrare un semplice cubo colorato, ma
in
realtà all'interno racchiude tanti segreti!»
«Cosa c'è dentro?» chiedono eccitati
quattro o cinque bambini.
«Eh, troppo facile dirvelo così!»
scherza la
ragazza, con un sorriso amichevole. «Ve lo dico solo quando
avrete ballato e cantato con noi! Chi si offre a cantare per
primo?»
Segue un silenzio imbarazzato, in cui i bambini si guardano attorno per
vedere chi è il più coraggioso. Solo una bambina
sui
cinque anni alza la mano gridando: «Vengo
io!»
«Ma certo, tesoro, però serve anche un adulto con
te... forza, genitori, non abbiate vergogna!»
«Quella ragazza là!» sento gridare con
mio grande orrore.
D'istinto faccio un passo all'indietro, sperando di nascondermi dietro
qualche signore. Andiamo, non si starà riferendo sicuramente
a
me, come potrebbe farmi questo?
«Evelyn!» insiste Peter, «vieni a cantare
“Il coccodrillo come fa”!»
Se prima provavo tanta stima e ammirazione nei suoi confronti, dopo
questa i suoi punti bonus sono decisamente diminuiti.
Ma questa me la paga, giuro.
«Eddai, lo sapevo che eri brava a cantare!» esclama
Peter,
una volta che la clown-terapia è terminata e i bambini si
sono
ritirati nelle proprie stanze ancora sorridenti.
«Certo!» sbotto ironica, alzando le sopracciglia.
«In
ogni caso ho fatto una figura pessima, anziché far ridere i
bambini li ho spaventati a morte.»
«Ma cosa dici» ribatte lui, con un sorriso stampato
sulle labbra. «Ti adoravano!»
«Come no» scuoto la testa io, ridendo.
«Comunque
è stata un'esperienza bellissima» aggiungo dopo
una pausa,
facendomi improvvisamente seria.
«Sì, lo è davvero» conferma
lui, sedendosi su
una sedia all'angolo della stanza, mentre gli altri ragazzi ancora
truccati e travestiti mettono via il palchetto improvvisato e i
giocattoli che hanno usato poco fa.
«E' volontariato, vero?»
«Sì» mi risponde Peter,
«alcuni miei amici lo
fanno nel tempo libero e mi hanno chiesto se mi andava di unirmi a
loro. Io ovviamente faccio già il musicista e sono spesso e
volentieri in giro per lavoro, però appena riesco li seguo e
partecipo come posso, suonando e cantando...»
«Che bello» commento io, colpita.
Lui in tutta risposta annuisce, assorto nei suoi pensieri.
«Ma non dev'essere facile» aggiungo, spostandomi un
ciuffo
di capelli dagli occhi, «cioè, è
davvero un bel
gesto far ridere bambini malati, credo che ci si senta felici e utili,
però... da un lato è triste, no?»
«Sì, se guardi la moneta dall'altra faccia lo
è.»
«Posso chiederti una cosa probabilmente un po' scema ma che
purtroppo non ho mai avuto l'occasione per parlarne?»
«Certo.»
«Com'è stare a contatto con questi bambini? Per
l'amor del
cielo, sono bambini come gli altri, ridono, piangono, mangiano e
dormono... ma io mi chiedo come ci si possa sentire quando si passa un
po' di tempo con loro. Ci si sente in colpa? Ci si chiede
perché
proprio a loro poteva capitare? Ci si rende conto di quanto in
realtà sia importante la vita e di quanto noi siamo stupidi
a
lamentarci per sciocchezze?»
«Beh, questo sicuramente. E' triste sapere che non gli rimane
molto da vivere, che in realtà vivono in ospedale
perché
sono gravemente malati e che quindi non sono dei bambini
normali»
inizia lui, dopo essersi preso una pausa per riflettere.
«Però io quando mi relaziono con loro, quando li
faccio
ridere, quando gli mostro la bellezza della musica, quando li vedo
felici e spensierati per qualche minuto della loro vita, mi sento...
vivo. E sicuramente non vado a pensare che la loro felicità
non
è destinata a durare ancora per molto, altrimenti nulla di
questo avrebbe senso.»
«Chiaro» mormoro io, mentre una morsa mi stringe il
cuore.
Dio, non volevo creare quest'atmosfera. Per colpa mia siamo passati dal
ridere a fare riflessioni su quanto sia strana – e ingiusta
– la vita.
«Scusa, non volevo» borbotto dopo un silenzio teso.
Peter alza lo sguardo. «Perché ti scusi?»
«Non volevo... turbarti.»
«Non mi hai turbato» afferma lui, con un breve
sorriso.
«Mi ha fatto piacere rispondere alle tue domande e alle tue
curiosità.»
Senza sapere cosa dire, gli rispondo con un sorriso sincero.
«Allora» esordisce dopo qualche istante,
«non sei andata in piazza S. Marco oggi?»
Non smetto di sorridere, ora però perché sono
contenta e
sollevata che abbia cambiato argomento con tanta naturalezza.
«A dir la verità sono qui per fare una specie di
ricerca.»
«Ah sì?» fa lui, inarcando le
sopracciglia, curioso.
«Posso sapere di cosa? Sempre se ne vuoi parlare.»
«Sì» rispondo io, senza pensarci due
volte. Non so
perché ma sento che confidarmi con lui e parlargliene sia la
cosa migliore da fare. E poi, a qualcuno dovrò pur dirlo,
no?
«Sto... sto cercando il nome di mia madre» inizio,
non
sapendo bene con che parole cominciare. «Mi ha partorita qui
a
Venezia ventisei anni fa...»
«Oh, ho capito» commenta lui, annuendo interessato.
Mi
guarda con attenzione, come se non volesse perdersi una parola, ma non
è quel tipo di interesse che ti opprime e che ti fa a
sentire a
disagio perché hai paura di dire anche una sola lettera
sbagliata o inadatta, no, tutt'altro.
Mi volto verso un bambino sui cinque anni in braccio al padre che ride
spensierato e per un momento vorrei essere lui, senza pensieri, senza
preoccupazioni, una vita intera davanti e tanta voglia di viverla
appieno, ma poi torno alla realtà: io sono io, con i miei
problemi, la mia infanzia, la mia adolescenza e i miei ventisei anni di
vita. Nessun altro al mondo ha vissuto le mie stesse esperienze, e per
questo, anche solo per il fatto di essere qui dove sono, devo
ringraziare soltanto me stessa.
«Scusa» sbotto, scuotendo la testa come per
scacciare i
pensieri che mi sono ritrovata a fare. «Mi sono persa
via.»
«Figurati.»
«Dicevo, sono a Venezia per cercare i nomi dei miei genitori
biologici» continuo poi, quasi per fare chiarezza nella mia
mente. «Ho sempre desiderato conoscerli, fin da quando ho
scoperto di essere stata adottata.»
«Te l'hanno detto da poco?»
«No e sì» rispondo io, «no
perché
quando i miei me l'hanno detto io avevo quattordici anni, e
sì
perché il fatto che la mia mamma biologica mi ha partorita a
diciassette anni a Venezia me l'hanno detto pochi giorni fa, al che ho
deciso di partire. E' stata una decisione abbastanza immediata a dirla
tutta.»
«Già... E come l'hanno presa? Voglio dire, partire
praticamente da un giorno all'altro per Venezia...» fa, senza
finire la frase in modo da fare parlare me.
«Sì, non se l'aspettavano» confermo io,
«anche
se hanno sempre saputo che avevo intenzione di conoscerli, un
giorno.»
Okay, se devo essere sincera sono piuttosto sollevata per il fatto che
non ha espresso commenti a proposito dell'età di mia madre.
Odio
quando magari inarcano le sopracciglia o spalancano la bocca e sbottano
un “davvero?!”, della serie “oddio, che
scempio!”. Insomma, non credo che lei ne sia rimasta
contenta,
anzi, probabilmente è una delle cose che rimpiange di
più
nella vita. In ogni caso sono convinta che nessuno a questo mondo sia
uno stinco di santo e non è giusto criticare gli altri.
«Posso farti una domanda un po' intima?»
«Dimmi.»
«Come ci sei rimasta quando hai scoperto di essere stata
adottata?»
«Oh, è stato abbastanza strano»
rispondo, ricordando
quel pomeriggio piovoso di settembre. «Ero appena tornata dal
mio
primo giorno di liceo e dal momento in cui ho messo piede dentro casa
ho subito notato che c'era un'atmosfera diversa. Mio papà
era al
solito, mi ha salutata con un sorriso enorme sulle labbra, mentre mia
mamma era un po' taciturna e aveva un'aria terribilmente seria. Io ero
tutta eccitata per la prima giornata in una nuova scuola con professori
e compagni di classe nuovi e vedere mia madre così mi ha un
po'... scossa. Sì, forse “scossa”
è il
termine più adatto.»
«Beh, sì, immagino» annuisce lui, con le
palpebre socchiuse.
«Abbiamo iniziato a pranzare, io ho raccontato come avevo
passato
la giornata e poi, alla fine, mia mamma ha esordito un
“dobbiamo
dirti una cosa”, il che, se devo dirti la verità,
mi ha
fatto preoccupare all'istante» racconto io, rivedendo nella
mia
mente la faccia di mia madre di dodici anni fa come se fosse ieri.
«Ha cominciato il discorso dicendo che hanno voluto aspettare
il
più possibile, e che quando si sono resi conto praticamente
all'improvviso che io ero ormai cresciuta e stavo iniziando a
frequentare la scuola superiore hanno deciso di dirmelo.»
«Non dev'essere stato facile» considera Peter,
«intendo affrontare così la realtà,
quasi come se
fossero stati svegliati da un sogno con uno schiaffo.»
«Sì, infatti, ci penso sempre anche io.»
«Comunque, scusa l'interruzione.»
«Figurati» dico io, sorridendogli fugace.
«In
qualunque modo me lo aspettavo. Nel senso... per farti un esempio
pratico, mio padre è un patito di rugby e sport di contatto,
io
invece credo che uno sport debba essere meno... aggressivo, non so come
spiegare.»
«Sì, dovrei aver capito.»
«Magari non troppo singolo, tipo la ginnastica artistica non
mi
piace troppo. Cioè okay, vederla ancora ancora, ma
praticarla
non ci riuscirei proprio. Dovrei contare solo su me stessa e mi
sentirei troppo... sola?»
«Eppure sei partita per Venezia completamente sola»
mi fa notare Peter, con un sorrisetto.
«Sì» affermo io, «è
stata praticamente
la mia prima volta, di solito sto sempre con...» il mio
pensiero
va a Danny, ma termino la frase in modo vago, con
“qualcuno”. «In ogni caso, a me piacciono
di
più gli sport di squadra, come la pallavolo o il basket, o,
perché no? Anche il calcio non è male!»
Peter mi mostra un sorriso. «Sei la prima ragazza che me lo
dice.
Voglio dire, spesso sento dirlo in giro ma credo che in
realtà
non sia così. Molte dicono di amare il calcio solo per
rimorchiare di più il sabato sera.»
«Oh, sì, ne so qualcosa.»
Okay, non ammetterò mai che Danny è un rugbista
fanatico
e io invece lo odio – e lui non lo sa. Ma poi, non
è che
sia chissà che, dico bene? Non è che mi sia messa
a
raccontare a tutti che adoro il rugby solo per piacere a lui!
«Dicevo» esordisco dopo una breve pausa,
«già
il fatto che io e mio padre abbiamo interessi diversi non mi
è
mai quadrato. Cioè, non è detto che il figlio
debba avere
gli stessi gusti del padre, però insomma, qualcosa deve pur
averlo preso, no? E io non avevo quasi niente in comune con mio padre,
né dal punto di vista del carattere o dell'aspetto fisico.
Stessa cosa vale per mia madre. Ad esempio lei è una
grandissima
cuoca, ed io invece so fare a malapena una pasta.»
Peter intanto non parla, si limita a fare ogni tanto qualche smorfia
divertita o annuire.
«Non dico che una persona non può stare bene con i
suoi
genitori se condivide poco o niente con loro, infatti io mi sono sempre
trovata da dio in loro compagnia, avremo litigato sì e no
due
volte in tutta la nostra vita! Forse è perché
avendo dei
caratteri diversi si va più d'accordo. Voglio dire, io non
sopporterei un'altra persona con il mio stesso carattere...»
«Oh, sì, neanche io!» esclama a questo
punto Peter.
«Già.»
«Quindi, riassumendo il tutto, non è stato un
dramma scoprire di essere stata adottata.»
«No, affatto, era prevedibile.»
«Ho capito» afferma lui, «forse
sembrerà
stupido, ma sono davvero contento che ti sei confidata con me, non
credo che queste cose le dici alla prima persona che capita,
giusto?»
«Giusto.»
Oddio, adesso mi salgono mille dubbi... non avrò mica
esagerato?
«Ed è per questo che voglio ringraziarti come si
deve» aggiunge dopo poco, con un sorriso a trentadue denti.
«Dato che ho un'amica che fa al caso tuo.»
Corrugo una sopracciglia, interrogativa.
«Vieni, te la presento.»
Pochi minuti dopo stiamo camminando uno a fianco all'altro, io mi
guardo intorno cercando di stamparmi nella mente immagini dell'ospedale
che potrebbe sempre essermi utile, mentre Peter prosegue spedito come
se conoscesse il posto meglio delle sue tasche.
«Ci siamo quasi» mi assicura dopo un po', girando a
destra,
«lei sta nel reparto maternità di
solito.»
Pochi minuti dopo siamo al piano superiore, in un nuovo ambiente e tra
altri tipi di persone. Sì, perché qui non
è
più il posto dove dei bambini malati passano le loro
giornate,
ma dove delle donne danno alla luce i loro figli.
«Che bello qui» commento, con un'inspiegabile
sorriso di felicità sul volto.
«Sì, c'è una bella atmosfera.»
Alla mia sinistra c'è il nido, dove i neonati con poche ore
di
vita dormono o urlano nelle loro culle tutte uguali tolto per il fiocco
rosa o azzurro.
«Aspetta un attimo, vado a vedere se
c'è» fa Peter, sfiorandomi leggermente il braccio
con delicatezza.
«Okay» mormoro io, «ti aspetto
qui.»
Intanto che lui si avvia lungo il corridoio, mi metto ad osservare ogni
singolo movimento di questi teneri scriccioli. Sono così
piccoli
e indifesi, lì nel loro lettino, praticamente appena nati,
con
tutta una vita burrascosa davanti.
Dio, c'è n'è uno in prima fila che è
così
dolce, muove appena appena una manina e ha l'aria di chi ha tanta fame.
Chissà quando avrò io un figlio...
«Evelyn» mi chiama Peter, facendomi tornare alla
realtà. «Ti presento Viola.»
Alzo di scatto lo sguardo e mi ritrovo davanti una ragazza dai
lineamenti dolci, capelli color del miele e degli occhi chiari
bellissimi, più o meno della mia stessa età.
«Oh, molto piacere» esclamo, alzando un poco la
voce e porgendole la mano con un sorriso.
«Piacere mio» fa lei di rimando, stringendomi la
mano.
«Vi va di scendere al bar e bere qualcosa con
calma?» propone dopo una breve pausa Peter, amichevolmente.
«Sì, certo» accetto subito io,
sorridendo.
Anche Viola annuisce, indicando il corridoio dietro di lei e
affermando: «Da quella parte.»
«Allora, come posso aiutarti?» chiede Viola, appena
la
cameriera che è venuta a portarci il caffè si
è
allontanata.
Afferro la mia tazzina e la porto alla bocca. «Come ti ha
detto
Peter, pochi giorni dopo la mia nascita sono stata adottata»
racconto, dopo aver dato un lungo sorso alla bevanda. «E, in
parole povere, quando mi hanno detto di essere stata partorita qui sono
partita per cercare i loro nomi.»
«D'accordo» dichiara Viola, «beh,
l'ospedale tiene
archiviati tutti i dati relativi alle nascite nei computer... posso
trovarti il nome di tua madre, ma non è detto che ci sia
anche
quello di tuo padre, non sempre viene espresso... in che anno sei
nata?»
«Oh, ho capito» dico, dopodiché tiro
fuori dalla
borsetta il block-notes che tengo sempre di scorta e scrivo la data
precisa, infine lo passo a Viola.
«Perfetto, posso anche sapere i nomi dei tuoi genitori
adottivi?»
«Certo. Allora, mia madre si chiama Amanda Barry, mentre mio
padre Thomas Evans» rispondo io. «Vuoi che te li
scrivo
sotto la mia data di nascita già che ci sono?»
«Buona idea» aggiudica lei, ridandomi il foglietto.
«Ecco» annuncio appena ho finito di scrivere in
stampatello in modo che sia chiaro da leggere.
«Okay, farò la ricerca il prima
possibile» rassicura
lei dopo averlo messo in tasca. «Di dove sei?»
«Di Monza, in provincia di Milano. Tu invece? Sei di
Venezia?»
«Sono nata a Perugia, poi ho abitato per un brevissimo
periodo a
Bologna e quando ho compiuto otto anni mi sono trasferita a Firenze.
Sono venuta a Venezia per studiare medicina e ci sono rimasta. Abito a
Mestre.»
«Oh, bello. Sicuramente hai visto più posti di me,
io ho
sempre abitato a Monza, tolto qualche piccola vacanza qua e
là,
ma niente di che» dico, stringendomi nelle spalle.
Ora che ci penso sono proprio una donna monotona e noiosa, come posso
aver visitato così poche città alla mia
età? Se
non lo faccio adesso quando avrò intenzione di farlo? Quando
avrò una famiglia e sarò comunque legata in
qualche modo?
Voglio dire, ho quasi ventisei anni e per ora ho visto solo Roma con
Katie quando ci siamo diplomate, il lago di Garda dato che i miei hanno
la casa là e ci andavamo praticamente tutte le estati fino a
quando sono andata ad abitare con Danny e durante le nostre ferie
andavamo sempre in montagna nella sua roulotte.
Dio, devo fare più esperienza. Il mondo è
così grande, come posso avere visto così pochi
posti?
«Davvero?!» sbotta a questo punto Peter,
strabuzzando gli occhi.
Arrossisco all'istante, senza però sapere cosa dire.
«Devi assolutamente fare qualche bel viaggio, vale la pena di
conoscere il mondo in cui viviamo!» esclama poi, facendomi
l'occhiolino. «Io ne so qualcosa.»
«Non ti fermi in un posto per più di un mese da
quanto, otto anni?» commenta ridacchiando Viola.
Mi volto istintivamente verso Peter, lanciandogli un'occhiata un po'
ammirata un po' divertita.
«Nove» la corregge lui, ridendo, «ho
iniziato a viaggiare a vent'anni.»
E così ha tre anni in più di me.
«Che figo!» esclamo a questo punto io,
«una volta mi
descriverai tutti i posti che hai visto e tutte le persone che hai
conosciuto nei dettagli, sono curiosa!»
«Oh, certo» accetta sorridendomi lui.
«Comunque non è colpa nostra, intanto che tu
giravi il
mondo io e Viola stavamo studiando per laurearci, dico bene,
Viola?» aggiungo, alzando il mento ironicamente.
«Giusto» conferma lei, scoppiando a ridere.
«Tu che lavoro fai, Evelyn?»
«Io faccio la psicologa, ho un ufficio privato da un annetto.
Tu invece sei ostetrica?»
«Mi sto specializzando in ginecologia e ostetricia»
puntualizza lei, sorridendo.
«Bello» considero io, «anche se io non
sono portata per la medicina.»
«È uno di quei lavori che puoi fare solo se ami e
hai una
forte motivazione alle spalle. Era quello che mi diceva sempre uno dei
miei professori all'università» racconta lei,
facendo un
gesto d'assenso con il capo.
«Sì, è vero.»
Dopo un breve silenzio, Viola alza lo sguardo verso l'orologio appeso.
«Si sta facendo tardi, è meglio che vada a cercare
quel
file» annuncia, alzandosi e finendo rapidamente il suo
caffè. «Aspettatemi qui.»
Appena vedo Viola entrare con una cartella in mano, le sorrido contenta
che abbia trovato il file di cui parlava prima. «Ecco, qui ci
sono tutte le informazioni che ha l'ospedale» annuncia,
appoggiandola sul tavolino.
«Dio, ti devo un favore enorme» esclamo, prendendo
la
cartelletta gialla tra le dita, «grazie mille
davvero.»
«Figurati, spero che trovi quello che stavi
cercando.»
«Oh, ne sono sicura» affermo subito io, senza
smettere di
sorridere. «Andrò in bagno ad
aprirla...» aggiungo
dopo una breve pausa, alzandomi in piedi.
Lo so che può sembrare stupido e infantile, ma credo di aver
bisogno di un po' di intimità.
Intanto Viola e Peter in tutta risposta annuiscono con un sorriso.
A questo punto, mi avvio alla toilette con un lungo sospiro
d'incoraggiamento. Forza, posso farcela. In fondo è solo un
nome, alla fine non mi cambia molto ora come ora.
Apro la porta del bagno delle donne e mi siedo sulla tavoletta del
water. Solamente adesso mi decido finalmente ad aprirla.
Nella prima pagina ci sono le informazioni che riguardano me.
Nome e cognome:
Anna Cattaneo.
Già alla prima riga il mio cuore perde un battito. In
realtà io mi sarei dovuta chiamare Anna... Mi guardo allo
specchio e penso che sì, assomiglio al nome Anna.
Dopo poco scorro le informazioni seguenti senza soffermarmici troppo.
Data di nascita, luogo
di nascita, gruppo sanguigno, fattore rh, allergie...
Nome del padre,
vuoto.
Nome della madre:
Madelyn Cattaneo.
Madelyn.
Ripeto il suo nome ad alta voce. Madelyn. Mamma Madelyn.
No, non è mia mamma. Non lo è mai stata. Cosa sto
dicendo?
Chiudo di scatto la cartelletta con rabbia. Perché sto
facendo
tutto questo? Ha davvero un senso? Probabilmente non esisto
più
per lei. Sono stata cancellata dalla sua vita. Perché sono
così ossessionata da lei che oramai mi avrà
sicuramente
dimenticata?
Perché sei sua figlia, perché sei stata nel suo
grembo per nove mesi, perché ti ha partorito lei.
Sì, sto facendo la cosa giusta.
Con gesti lenti e ancora un po' esitanti riapro la cartella e torno al
punto in cui ero rimasta poco fa.
Ciò che segue è una tabella delle eventuali
malattie della madre e tumori dei familiari non segnalati.
La seconda pagina invece interessa le notizie sulla gravidanza.
Ordine di genitura,
età della
madre, data dell'ultima mestruazione, eventuali emorragie in
gravidanza, primi movimenti fetali, aumento di peso...
Attività
lavorativa della madre: studentessa.
Corso di preparazione al
parto: sì.
Durata della gravidanza:
39 settimane e 2 giorni.
Gravidanza a rischio:
no.
Alla fine della pagina ci sono le notizie sul parto, ma che mi
interessano relativamente.
Luogo e data del parto,
rottura prematura delle membrane, polidramnios, parto spontaneo...
A seguire la firma dell'ostetrica.
Dopo qualche istante in cui sono rimasta con lo sguardo perso davanti a
me senza muovere un muscolo, mi alzo e mi incammino verso Viola e Peter
a testa bassa.
«Tutto bene?» mi chiede gentilmente Peter.
Annuisco, piano. «Però c'è un
problema»
aggiungo poi. «Come sospettavo, non c'è scritta la
residenza di mia madre.»
Viola si morde un labbro e Peter si gratta la nuca, nervoso.
«Come possiamo fare?» domando, sedendomi davanti a
loro.
«C'è la firma dell'ostetrica? Se lavora ancora qui
puoi
chiederle cosa si ricorda!» esclama immediatamente Viola.
«Anche!» approvo io, rasserenandomi.
C'è ancora una possibilità.
«Sì, direi che vale la pena tentare»
afferma Peter,
convinto. «Ora però scusatemi ma devo
assolutamente
andare. Sono invitato a pranzo dai miei e dato che non succede spesso
mi conviene alzare i tacchi» aggiunge dopo una breve pausa,
con
un sorriso di scuse.
«Uh, okay» faccio io. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Oh, tante cose!» esclamo, «di tutto
quello che hai
fatto oggi per me, dalla chiacchierata di prima all'aiuto che mi hai
dato.»
«Figurati» dice lui, sorridendomi,
«comunque se ti va
domani sera suono in un pub molto carino... se non hai niente da fare a
me farebbe piacere se ci fossi.»
«Oh» borbotto io, presa alla sprovvista,
«sì, va bene... Dov'è il pub?»
«Ti scrivo l'indirizzo esatto se vuoi.»
«Okay» dico, passandogli block-notes e penna.
«Ecco.»
«Perfetto, grazie per l'invito.»
«Figurati, allora ci vediamo domani» mi saluta,
alzandosi in piedi.
«Ehi, salutami i tuoi e ringrazia ancora Allyson per la torta
che
ci ha portato ieri. Era deliziosa» esclama Viola a questo
punto.
«Sarà fatto, bellezza» dice lui,
facendole l'occhiolino, «ciao ragazze!»
Appena è uscito dal bar, Viola dichiara, con la sua voce
chiara e convinta: «Gli piaci.»
Non posso non arrossire dopo questa confidenza.
«Ah sì?» mormoro dopo un po', sperando
di mostrarmi noncurante.
A questo punto lei scoppia a ridere con gusto. «Secondo me
sì» afferma poi, facendo spalline.
Dio, perché sto continuamente tenendomi dentro il fatto che
sono
promessa in sposa a Danny? Voglio dire, non è mica un
dettaglio
insignificante. Specialmente dopo l'invito di Peter.
Devo assolutamente sputare il rospo, prima o poi... sì,
possibilmente più prima che poi.
«Claudia, lei è Evelyn Evans» annuncia
Viola alla sua collega sorridendo.
«Piacere» faccio, stringendo la mano a una signora
sui cinquant'anni.
«Evelyn è nata in questo ospedale»
inizia a spiegare
a questo punto Viola, «e, ecco, tramite delle ricerche ha
scoperto che sei stata tu la sua ostetrica... vorrebbe sapere qualcosa
sui suoi genitori biologici e si chiedeva se tu per caso ti ricordassi
qualcosa.»
Claudia si fa improvvisamente attenta, rendendosi conto di quanto sia
seria la questione.
«È nata qui ventisei anni fa, sua madre aveva solo
diciassette anni... alla nascita si chiamava Anna Cattaneo»
aggiunge Viola.
«Oh, capisco» borbotta l'ostetrica, passandosi una
mano dietro la nuca.
«Non so, magari riesci a ricordarti qualcosa di quel
giorno...» ipotizzo io.
«Qualcosa di che tipo?»
«Tipo che persone erano i miei genitori, se c'era anche mio
padre, e soprattutto in che città abitavano... Ad esempio,
ti
ricordi che erano venuti qui a Venezia in vacanza?»
«Sì» risponde lei lentamente,
socchiudendo gli
occhi, «ricordo che lei era corsa in ospedale con il compagno
colta da spasmi e aveva ammesso di non aspettarsi di partorire qui. Mi
aveva raccontato che era stata una cosa abbastanza improvvisa, ricordo
come se fosse ieri quel giorno perché non avevo mai fatto
nascere un bambino con una mamma così giovane. Sai, a quel
tempo
ero appena diventata ostetrica.»
Annuisco, con un breve sorriso. «Il compagno era il suo
fidanzato? Sai se era mio padre? Ti ricordi qualcosa di lui?»
chiedo poi.
«Sì, credo che fosse il suo fidanzato... era alto,
moro,
occhi scuri... non ne sono sicura, però non mi sembra che ti
somigliasse.»
Annuisco per la seconda volta, questa volta senza saper cosa dire.
«Su questo però ne sono certa: venivano da
Rapallo, in
provincia di Genova. Lo ricordo bene perché io dovevo
andarci in
viaggio di nozze durante l'estate con il mio futuro sposo e avevo
chiesto loro che tipo di posto fosse.»
«Oh» faccio, illuminandomi improvvisamente,
«questo mi sarà di grande aiuto!»
Claudia mi sorride, compiaciuta. «Sono contenta di esserti
stata utile.»
«Grazie mille, Claudia» dice Viola, sorridendo
anche lei.
Lei fa uno scherzoso buffetto sulla guancia di Viola.
«Figurati cara, lo sai che sono sempre felice di
aiutare.»
«Ce l'abbiamo fatta!» esclama felice Viola, una
volta che Claudia ha lasciato la stanza.
«Sì» confermo, sorridendo appena.
Non posso non dire di essere contenta di aver appena scoperto altre
cose su mia madre, però devo ammettere di esserci un po'
rimasta. Chissà chi è il mio vero padre...
sicuramente
non il ragazzo che è andato in vacanza con mia madre durante
la
gravidanza, anche perché il mio padre biologico non mi ha
riconosciuta.
«È tutto a posto?» mi domanda Viola,
sfiorandomi il braccio con dolcezza.
«Credo di sì» rispondo, esitante.
«Sono
sì contenta delle cose che abbiamo appena scoperto, solo che
sono rimasta anche un po' scombussolata... speravo che mio padre mi
avesse riconosciuta.»
«Capisco» mormora Viola, annuendo. «Ma
non vuol dire
che non ti abbia amata, anche se solo per un istante... è
pur
sempre l'uomo che ti ha dato vita, Evelyn, e stai facendo la cosa
giusta nel cercarlo, nel voler sapere almeno chi fosse.»
«Lo spero» affermo, stringendomi nelle spalle.
«Sai,
sono così curiosa di conoscerlo, vedere che uomo
è
diventato, come ha conosciuto mia madre, che tipo di vita sta
conducendo adesso, cose di questo tipo... Probabilmente non lo
saprò neanche mai, però ho aspettato
così tanto
tempo che ora voglio almeno fare un tentativo.»
«Fai bene» mi rassicura lei.
Faccio un vago cenno di assenso con il capo, poi dico con un sorriso:
«Comunque grazie davvero per tutto quello che hai fatto per
me,
non lo dimenticherò mai.»
«Non è niente» esclama, poi aggiunge,
abbassando lo sguardo: «Sai, anche io sono stata
adottata.»
Allargo gli occhi, presa alla sprovvista. Prima di parlare
però
lascio passare qualche istante, ho notato immediatamente che non
è molto a suo agio dopo la sua confessione.
«Oh» borbotto, cercando le parole migliori da
usare. «Dalla nascita anche tu?»
«Quando avevo sette anni gli assistenti sociali mi hanno
tolta
dai miei genitori. Sono stata presa in affidamento per qualche mese da
una famiglia a Bologna, poi mi sono trasferita a Firenze dai Dumas. Mi
hanno adottata un anno dopo» mi racconta lei, con un fil di
voce.
«Oddio... io... mi dispiace davvero» sussurro,
cercando di
guardarla negli occhi per farle capire tramite il mio sguardo quanto
sono rimasta toccata.
«È tutto a posto... voglio bene alla mia famiglia
adottiva, molto più bene di quanto abbia mai voluto ai miei
genitori biologici. Sono stata fortunata.»
«Oh, sì, è questa la cosa che conta
alla fine.
Anche io mi trovo benissimo con i miei genitori adottivi, li amo con
tutta me stessa, e ogni giorno ringrazio il cielo che mi abbiano
trovata loro.»
«Ehi, grazie per aver condiviso la tua storia con me. So
quanto
possono essere delicate queste cose. Credo davvero che tu stia facendo
la cosa giusta cercando i tuoi genitori biologici... è
importante capire da dove veniamo, cosa c'era nel nostro
passato»
annuisce lei, parlando lentamente. «Anche se ci troviamo
meglio
nel presente» aggiunge infine.
La guardo nei suoi occhi verdi e dall'intensità del suo
sguardo
capisco che è l'unica persona in grado di capirmi fino in
fondo.
Non posso fare a meno di abbracciarla, è un gesto
automatico.
Finalmente ho incontrato qualcuno come lei, che ha provato le mie
stesse paure, i miei stessi interrogativi, le mie stesse convinzioni,
anche se in maniera un po' diversa.
«Grazie a te, Viola, non ti dimenticherò
mai» affermo con un sussurro, accarezzandole dolcemente la
schiena.
Dio, la conosco da poche ore eppure provo un enorme affetto e simpatia
nei suoi confronti.
«Ehi, ci rivedremo, no?» si accerta lei dopo un
po',
«prima di tornare a casa devi assolutamente passare qui e
raccontarmi com'è andata» aggiunge, staccandosi
dall'abbraccio per guardarmi in viso.
«Oh, sì, sicuramente» approvo
immediatamente io senza smettere di sorridere.
«Cavoli, ora devo proprio andare» fa dopo poco,
sbuffando.
Prima di salutarmi, mi abbraccia un'ultima volta. «Buona
fortuna.»
«Ne auguro tanta anche a te» rispondo, sincera.
*** Spazio Autrici ***
Ok, dire che siamo in ritardo è ancora troppo poco. Siamo in
un fottuto ritardo.
Scusatemi, mea culpa. Quella tenerona della Linda ha provato di tutto
per farmi sbloccare, ha scritto tanto quest'estate, ha insistito sul
fatto che dovevo ancora scrivere le note eccetera, ma nulla
è bastato xD
Perché è così, mi sento terribilmente
bloccata, sono demotivata, ho passato tanto tempo a chiedermi
perché lo faccio e se ne vale la pena... è
orribile. Specialmente perché di conseguenza ho tenuto ferma
anche la povera Linda che credetemi, se fosse per lei, saremmo
già a pochi capitoli dalla fine. Eppure ci sono io che
blocco tutto xD Ho scritto poco o niente pure quest'estate, fate un po'
voi!
Non so esattamente cosa sia, probabilmente perché
quest'estate ho voluto pensare solo a divertirmi e staccare dalla
scuola – l'anno passato m'ero molto impegnata con lo studio,
e sono arrivata alla fine dell'anno scolastico stanchissima. Quindi non
ho aperto praticamente mai Word, ero sempre in giro con gli amici e a
caccia di ragazzi ahahah – tra l'altro a inizio settembre mi
sono pure messa insieme con uno, quindi adesso ho davvero il tempo
contato x)
Bando alle ciance, basta parlare delle cose noiose. Visto
com'è lungo il capitolo 7? :) Spero basti per farmi
perdonare!
Finalmente si sa qualcosa in più sul passato di Evelyn, eh?
E che mi dite del pezzo condiviso con il personaggio di Viola?
Piaciuto? Mi auguro di sì! ^^
Per quanto riguarda la continuazione di Ds3 come ho già
accennato prima, Linda è andata avanti tantissimo ed
è al capitolo 22, mentre io sono rimasta al... –
non lo voglio vedere ç____ç –
11, e non l'ho ancora finito... quanto è comico? (della
serie ridiamoci su sennò rischio di non aprire mai
più il documento di Ds3 causa depressione xDD)
Uh, invece siamo un po' andate avanti nella nuova storiella, the
Eternity of our Moments (in sigla 'EM' ;D) che speriamo di pubblicare
al più presto ;)
Bien, direi che è tutto per oggi. E dato che abbiamo pensato
di aggiornare un po' più di rado, almeno fino a quando non
mi smuovo un po', ci risentiamo tra un paio di settimane!
Un bacio enorme a tutti quelli che sono rimasti con noi nonostante il
nostro ritardo indecente (e scusate ancora, spero di sbloccarmi al
più presto x.x) e grazie davvero di cuore per tutto quello
che fate per noi!!
Much, much love
Lalla and Leslie
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