Capitolo
X
Settembre
1945
Quel
giorno, quando Rebecca corse a prendere i bambini, aveva un sorriso
entusiasta. La notizia che aspettava da anni era finalmente giunta:
la guerra era finita, il Giappone aveva firmato l'armistizio, era
tornata la pace. I soldati dispersi per il mondo sarebbero tornati a
casa.
Anche
Gerald.
«Bambini,
papà sta per tornare!» esclamò con il cuore colmo di gioia,
abbracciando i suoi figli. William e Connor si scambiarono
un'occhiata eccitata, pieni di entusiasmo: il loro sogno si stava
finalmente avverando. William abbracciò il fratellino con slancio,
mentre sulle labbra gli si disegnava un sorriso luminoso. Dopo sei
anni avrebbe rivisto suo padre: Gerald certo non l'avrebbe
riconosciuto, visto che era diventato un ometto, ormai. Ma lui
sarebbe stato in grado di riconoscere il padre? Aveva solo ricordi
vaghi e confusi di lui e non avrebbe saputo dire nemmeno quali
fossero i tratti del suo volto, se non li avesse ammirati per ore in
una vecchia fotografia ingiallita, nelle lunghe sere d'inverno.
Connor,
invece, dopo l'euforia iniziale, cominciò ad essere seriamente
preoccupato. Lui stava bene con la mamma e Will... e se suo padre non
gli fosse piaciuto? O, peggio, se lui non fosse piaciuto a suo padre?
«Forza
bambini, dobbiamo andare a preparare il castello per il ritorno del
papà» esclamò Rebecca, caricandoseli sui sellini della bicicletta.
Ancora non ci credeva che Gerald sarebbe ritornato, che avrebbe
potuto abbracciarlo di nuovo, baciare le sue labbra sottili, sentire
la sua voce, perfino cercare con lui strani insetti per la sua
collezione. Non le importava, avrebbe fatto qualunque cosa pur di non
lasciarlo più andare via. Non poteva sopportare di essere
abbandonata di nuovo dall'uomo che amava con devozione.
Quando
arrivarono a casa, Rebecca e i bambini riaprirono il pesante portone
d'ingresso del castello dei McBride dopo più di un anno che restava
sigillato. Tolsero i teli bianchi che avevano utilizzato per coprire
mobilio, tavoli e poltrone, spazzarono per bene in ogni stanza,
tirarono le pesanti tende di velluto rosso delle finestre, perché la
debole luce di settembre invadesse di nuovo il castello. Indossarono
nuovamente vestiti eleganti e raffinati, Rebecca si acconciò i
capelli, truccò gli occhi e legò al collo una fila di perle, uno
dei pochi gioielli che aveva salvato dalla vendita perché era
appartenuto a sua madre. La donna pettinò i riccioli ribelli di
Connor, aggiustò il papillon a William e lucidò le loro scarpette
di vernice. Tutto doveva essere pronto perché Gerald ritrovasse la
casa in perfetto ordine, uguale a quando era partito; come se non
fosse mai accaduto nulla in quei sei anni.
I
soldati scozzesi sarebbero tornati entro pochi giorni e avrebbero
sfilato per le vie di Edimburgo sotto gli occhi di una folla
festante. Rebecca predispose ogni cosa perché fosse perfetta per
quel giorno. Si era licenziata dalla fabbrica, visto che tanto Gerald
sarebbe tornato a lavorare in banca e non c'era più necessità che
lei si ammazzasse davanti alla pressa. Aveva chiamato un autista
perché li venisse a prendere e li portasse in città: niente più
viaggi in bicicletta, sarebbero stati poco adatti ad una signora.
Le
strade di Edimburgo erano un tripudio di gente, un inno alla vita.
Mogli, sorelle e madri festanti salutavano i soldati che sfilavano in
alta uniforme; ogni volta che una donna riconosceva un familiare gli
correva incontro in lacrime e lo abbracciava.
Rebecca
prese i suoi figli per mano e li condusse per le vie del centro,
lungo il corteo di militari. Scrutava ogni faccia sorridente nascosta
sotto l'elmetto, alla ricerca dei luminosi occhi azzurri del marito.
«Mamma,
dov'è papà?» chiese William, provando a spiare i soldati da sotto
le gambe della folla di gente.
Rebecca
gli rivolse un sorriso gentile. «Non lo so, amore. Adesso lo
cerchiamo» gli rispose.
Rebecca
trascorse un'ora buona a passare in rassegna i volti dei militari
scozzesi, senza trovare traccia del marito. Dopo tutti quei vani
tentativi, cominciò ad agitarsi. «Gerald?» chiamò con voce tesa.
Alcuni soldati si voltarono, ma nessuno di quelli era il suo
Gerald.
«Gerald!»
chiamò ancora, in un tono reso acuto dall'ansia. Nessuno, non c'era
nessuno. Sempre tenendo i figli per mano, si mise a correre
attraverso il corteo, alla ricerca disperata del marito. Non era
possibile che non fosse tornato, ora che la guerra era finita.
Dov'era, dov'era suo marito? Perché non era tornato?
«GERALD!»
gridò, accasciandosi a terra distrutta dal dolore.
Connor
scoppiò a piangere, la folla si scansò da quella scena patetica.
«Rebecca,
vieni via» sussurrò la voce rassicurante di padre Julien, portando
al sicuro la famigliola.
***
Il
soldato alla guida si voltò verso il colonnello con aria stranita.
«Signore, è sicuro di non voler partecipare alla parata di
Edimburgo?» gli domandò in tono serio. Insomma, il colonnello era
il soldato scozzese che avesse raggiunto il grado militare più alto,
la sua presenza era stata data per scontata: avrebbe dovuto guidare
il corteo, deporre la corona di fiori per i caduti e tutto quel
genere di cose che erano richieste ad un colonnello.
L'uomo
scosse debolmente la testa. «No, grazie. Ho un'ultima cosa da fare».
«Allora
dove la porto?» chiese educatamente.
L'uomo
osservò il paesaggio fuori dal finestrino, sovrappensiero. «Nello
Yorkshire» rispose infine. «A Middelton On The Wolds».
La
donna che venne ad aprire la porta aveva un passo talmente
strisciante da far pena. Vestita di nero, con gli occhi tonfi per il
pianto e uno scialle a coprire la testa. L'uomo che si ritrovò alla
porta, in alta uniforme da militare, con una medaglia d'oro al valore
appuntata sul petto, la fece quasi rabbrividire: l'ultima volta che
qualcuno del genere si era presentato a casa sua, era stato per
annunciarle la morte del suo unico figlio.
Il
soldato si levò il cappello con fare rispettoso e poi rivolse
all'anziana donna un sorriso timido. «Signora Watson, sono il
colonnello Fitzgerald McBride. Ero un amico di Josh» si presentò il
giovanotto. La donna trattenne un piccolo singulto, poi si spostò di
lato per permettere al colonnello di entrare in casa.
Lo
condusse verso il salotto e lo fece accomodare su una poltrona un po'
consunta, con il velluto liso. Sul divano di fronte a lui era seduto
un uomo sciupato dal dolore.
«Il
mio Josh era un bravo ragazzo?» domandò la signora Watson,
sedendosi a fianco del marito.
Gerald
si limitò ad un sorriso triste. «Il migliore, signora. Mi ha
salvato la vita innumerevoli volte e se sono ancora qui lo devo a
lui» rispose con sincerità. Dopodiché afferrò la borsa che si era
portato dietro ed estrasse non senza una certa difficoltà, dovuta
all'utilizzo di una sola mano, una scatola di velluto rosso. «È una
magra consolazione, ma dovete sapere che vostro figlio è morto da
eroe, salvando la vita di molti suoi compagni, me compreso» spiegò,
porgendo loro la scatola.
Il
signor Watson la aprì con mani tremanti e vide che conteneva una
medaglia d'oro al valore militare. Nel vedere la preziosa
onorificenza, l'anziana donna scoppiò in lacrime. «Un genitore non
dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio» mormorò sconsolata. «Mai».
Quando
Gerald se ne andò da casa Watson, un'ora più tardi, si sentiva
letteralmente a pezzi, ma era sicuro di aver fatto la scelta giusta.
Il
soldato che gli era stato assegnato come autista, si affrettò ad
aprirgli la portiera della macchina per aiutarlo a salire. «Signore,
dove la porto ora?» gli domandò.
Gerald
si lasciò sfuggire un sospiro. E poi disse quell'unica cosa che
attendeva da sei anni: «In Scozia, a casa».
Il
viaggio verso nord passò silenzioso e tranquillo. Gerlad osservava
il cambiare del paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, fremendo
nell'attesa di rivedere la sua amata brughiera. Quanto gli erano
mancati quei paesaggi brulli e un po' grezzi! La nebbiolina sottile,
i cespugli di erica, il soffio delicato del vento...
Non
riuscì a impedire che una singola lacrima gli attraversasse la
guancia quando vide in lontananza il profilo del castello dei
McBride.
Il
rombo dell'automobile che percorreva il vialetto sterrato turbò la
tranquillità di quel tardo pomeriggio di settembre. Il soldato
parcheggiò poco distante dal portone d'ingresso, poi corse ad aprire
la portiera al colonnello. «Le serve una mano con quella, signore?»
domandò, accennando con il capo alla valigia.
Gerald
scese dalla macchina trascinando il baule con la destra. «No,
grazie, ce la faccio» rispose con un cenno di ringraziamento. «È
licenziato, soldato Pride. Può tornare...» cominciò a dire, ma si
interruppe ad ammirare il suo castello, dopo sei anni di forzato
esilio all'inferno.
«...a
casa».
***
Da
quando padre Julien li aveva riaccompagnati al castello, Rebecca non
aveva smesso di osservare la brughiera fuori dalla finestra con aria
apatica.
Gerald
non era venuto, non era tornato a casa da lei e dai bambini. L'aveva
abbandonata, per sempre. Che senso avevano avuto tutte le sue
fatiche, tutte quelle attese speranzose del suo ritorno,
quell'affacciarsi continuamente alla finestra, nella speranza di
vederlo comparire all'orizzonte? Perché se n'era andato, perché
l'aveva lasciata?
E
poi la vide: una macchina militare che si avvicinava lungo la strada
sterrata.
E
se...?
Un
giovane soldato era sceso dal posto di guida e aveva aperto la
portiera al suo superiore: ne era sceso un militare in alta uniforme,
con un cappello che gli copriva il volto. Ma a Rebecca bastò
un'occhiata di sfuggita quando questo alzò gli occhi sulla casa per
riconoscerlo.
Era
tornato!
«Gerald!»
gridò in preda all'emozione, gettandosi a capofitto giù dalle scale
e poi fino in ingresso.
Non
riusciva ancora a credere che fosse vero! Era tornato!
Ancora
prima che potesse entrare in casa, Rebecca gli gettò le braccia al
collo e scoppiò a piangere. L'uomo abbandonò la valigia a terra e
ricambiò la stretta, inebriandosi del profumo della moglie. «Oh,
Gerald!» esclamò Rebecca, accarezzandogli la nuca, stringendolo a
sé, baciando ogni parte del suo volto. Anche Gerald non riuscì a
trattenere le lacrime, nello sfiorare con le dita i morbidi capelli
di Rebecca e nel baciare le sue labbra umide di pianto.
«Oddio,
Gerald ma...» sussurrò la donna, quando si accorse che la manica
sinistra della giacca era stranamente vuota.
Gerald
sorrise bonario. «Non è nulla» rispose scuotendo la testa.
«Non
è nulla» confermò Rebecca, pensando che la perdita di un braccio
era qualcosa di infinitamente minuscolo, rispetto alla possibilità
di perderlo di nuovo. Dopodiché si strinsero in un altro abbraccio
pieno di amore.
«Papà!»
esclamò la voce di un bambino. Gerald si sciolse dall'abbraccio
della moglie e vide che c'era un ragazzetto moro, ritto in piedi
sull'uscio di casa. Era alto per i suoi otto anni, con due
meravigliosi occhi verdi come la brughiera. Era cresciuto il suo
William, rispetto al bimbetto paffutello che popolava i suoi sogni e
ricordi.
«Ciao,
figliolo» mormorò Gerald, con la voce incrinata dall'emozione.
Il
bambino si asciugò velocemente una lacrima, poi corse a gettare le
braccia al collo del padre. «Mi sei mancato, papà»
«Anche
tu, William» mormorò Gerald, sopraffatto dalla nostalgia. «Anche
tu».
«Amore»
lo richiamò Rebecca. L'uomo si voltò verso di lei e vide che la
moglie teneva per le spalle un altro bambino, che poteva avere cinque
o sei anni. Dei morbidi riccioli castani gli incorniciavano il viso
attraversato da una sfumatura ansiosa.
«Questo
è tuo figlio Gerald Connor McBride» lo presentò Rebecca, con un
sorriso incoraggiante.
Gerald
si levò il cappello militare e si inginocchiò davanti al bambino,
visibilmente emozionato. «Ciao, piccolino» mormorò. Era diventato
padre per la seconda volta e nemmeno lo sapeva.
Connor
lo squadrò con curiosità e timore insieme. Per una frazione di
secondo, i loro occhi, entrambi così azzurri, si incontrarono. E
Connor capì che tutte le sue preoccupazioni non avevano avuto senso,
perché quello era suo padre e gli avrebbe voluto bene di sicuro.
Sorrise.
«Bentornato
a casa, papà».
Ebbene
sì, siamo giunti alla fine di questa storia.
Premetto
che, sebbene io stessa abbia scritto questo capitolo, tutte le volte
che lo rileggo mi vengono i brividi e quasi piango. Forse sono un po'
troppo impressionabile, ma trovo che le scene finali siano davvero
toccanti. Spero di essere riuscita ad emozionare anche voi!
William
che chiede “Mamma, dov'è papà” esattamente come aveva fatto a
due anni quando lui è partito per il fronte, Rebecca alla disperata
ricerca del marito, Connor preoccupato di non piacere a suo padre,
Gerald che porta la medaglia d'oro ai genitori di Josh... ma la scena
più straziante è il ritorno a casa dell'uomo, dopo sei anni di
esilio. Insomma, mi commuove! E, ve l'avevo detto che sono per i
lieti fini... non potevo impedire a Gerald di tornare a casa, dopo
tutto quello che ho fatto passare a lui e alla moglie.
Comunque,
basta! QUI l'immagine di Rebecca che attende il ritorno del marito
guardando fuori dalla finestra.
Spero
tanto che questa storia vi abbia regalato qualche emozione. Grazie a
tutti coloro che hanno seguito, letto e commentato le avventure dei
coniugi McBride.
Alla
prossima occasione!
Beatrix
B.
Edit: La storia ha partecipato al concorso "Competition for long-fic pubblished (qui il link), classificandosi prima a parimerito. Tra le recensioni a questo capitolo, il giudizio del giudice NonnaPapera.
Qui sotto il banner:
|