Titolo:
Dei sorrisi coperti da nastri
Tipologia: one shot
Lunghezza: 6390 parole (contatore)
Genere: generale, vagamente erotico e
romantico
Avvertimenti: nessuno
Rating: giallo
Credits: i personaggi e tutto
ciò che compare nella storia mi appartiene, eccetto il nome
Mary Douglas, mutuato da una nota antropologa. Ovviamente il
personaggio non ha nulla a che spartire con la persona, ma mi sembrava
giusto dirlo.
Nelle prime due righe si trova un citazione adattata da “La
casa degli spiriti” di Isabella Allende, mentre ad un certo
punto, credo a pagina sette, compare la frase “Tu non
devi!”, traduzione di “Thou shalt not.”,
parte di un verso della poesia “The garden of love”
di William Blake.
Note dell'autore:
la storia riprende le fila di “Requiem
d'uccel migratore”, un racconto originale che
scrissi tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009. Ovviamente
è perfettamente comprensibile senza averla letta.
Che dire, io a questi personaggi sono molto affezionata e ogni tanto
ipotizzo nuovi sviluppi per la loro ricomparsa. Questo concorso
è stato, alla fine dei conti, il pretesto per concretizzarne
uno.
Introduzione alla storia: dare a una donna
quello di cui ha bisogno non significa degradarla al semplice sesso,
anche una storia può realizzare il suo sogno.
Sa,
se fosse stato vero quello che le mie prozie raccontavano, ossia che
mio padre, Robert Scott, avesse ereditato tutta la pazzia della
famiglia, altrettanto si doveva dire della pazza serietà di
suo cugino Ernesto. Non ho mai capito perché non lo
facessero, ma per come la vedo il solo fatto di accettare un nome come
Ernesto denota una grave mancanza affettiva.
Erny
– non mi guardi male, tutti in famiglia lo chiamavano
così – era, a detta di molti, un passivo nato. Non
so se la cosa si riflettesse nel talamo nuziale, anche se, visto quanto
sto per raccontarle, ne dubito, eppure sembrava veramente trascorrere
la sua vita nella più completa apatia, quasi non gli
importasse di essere stato messo al mondo e di cosa poteva fare per
sdebitarsi.
Naturalmente
c’erano opinioni discordi in materia: secondo sua madre, Erny
aspettava qualcosa che lei, una buona contadina veneta arrivata e
sposatasi per un treno sbagliato, non riusciva a capire, ma suo padre,
saldatore con un contratto fisso e tre figli a carico, semplicemente lo
riteneva uno stupido.
Be’,
ora che ci penso, tutti ritenevamo Ernesto molto stupido e nessuno si
preoccupava di nasconderlo. In fondo, certe occhiate pietose lanciate
durante la cena non possono passare inosservate.
Ecco,
pensi alla più classica delle cene di famiglia: la nonna che
si lamenta perché la minestra è troppo salata, i
bambini che bisticciano e si rincorrono intorno al tavolo, mentre i
giovani discutono coi padri di politica; ecco, in un momento come
questo Ernesto viene puntualmente etichettato come il ritardato della
famiglia. Non ci sono referti medici che lo provino, ma è
cosa certa: Erny è così, lo sanno tutti e ognuno
si adegua alla cosa tra sospiri ottocenteschi e frasi di compassione.
Brutte le
frasi di compassione, ne conviene? Sono lapidarie e disarmanti
perché ti impediscono di rispondere senza sembrare stupido a
tua volta. Eppure anche in quelle cene erano tutti nel torto,
perché Erny leggeva, leggeva tanto e bene.
Devo
ammettere che mi sono pentita di non averlo conosciuto meglio, ma
quando ho potuto visitare la sua biblioteca ho avuto
l’impressione che qualcuno avesse appeso un immenso
striscione con scritto “vi ho fregati”, ed era un
bello striscione, pieno di colori sgargianti e ricerca accurata per i
rimandi della trama e l'intreccio...
Mi scusi,
sto nuovamente divagano ed è un’abitudine
veramente pessima.
Ad ogni
modo, il cugino Ernesto non si curava nemmeno di rispondere a questi
giudizi – l'avevo avvisata di questa sua apatia? Mi sembra
d'averlo fatto, ma non ricordo bene – e continuava a
spiluccare la sua minestra. Sì, nemmeno io avrei detto che
si potesse spiluccare la minestra, eppure lui sembrava capace di farlo.
Comunque,
spiluccava e, tra una cucchiaiata e l'altra, metteva in mostra il suo
avambraccio fasciato, suscitando lo sdegno, i pianti e la
disapprovazione di quelle ormai note prozie.
Ecco,
quell'avambraccio era la cosa più singolare del povero
cugino Erny, perfino più singolare della sua collezione di
tappi di detersivo.
Lei deve
capire che l'ultima volta che lo vidi avevo appena quattro anni ed ero
imbottita di antidolorifici... ora che ci penso, doveva essere in una
festa tenutasi pochi giorni prima che abbandonassimo il quartiere
popolare che aveva segnato la nostra infanzia per trasferirci dai nonni
materni nel centro della città.
Oh, mi
scusi, questa storia la conosce già. Non si arrabbi, ora le
racconterò qualcosa su quel 'singolare' cugino.
Dicevo,
avevo solo quattro anni e quell'avambraccio era tale motivo d'imbarazzo
e rimbrotti nella mia famiglia che non mi fu mai concesso vederlo
scoperto della fasciatura e questo, come può immaginare,
solleticò la mia fantasia di bambina, portandomi ad
immaginare gli scenari più assurdi. Devo averlo anche
creduto un pirata stupido, ad un certo punto.
Per anni
mi domandai quale sfregio nascondesse e se fosse stato causato da
qualcuno della famiglia, senza però ottenere risposta da
alcuno. Solo alla sua morte, quando sola mi presentai alla chiusura
della bara, scoprii il segreto, quando l'impresario delle pompe
funebri, stranito, mi chiese spiegazioni per il morso nascosto sotto il
raso.
Sì,
ha capito bene. Sotto quella fasciatura di raso colorato, il buon
cugino Ernesto nascondeva un morso. No no, non sempre lo stesso
perché, come ben sa, il segno di un morso non può
durare per anni, ma a quanto pareva si preoccupava di averne sempre uno
da sfoggiare. O almeno ho interpretato così quanto
insinuavano le nostre maliziose cugine durante i pranzi in cui non
interveniva.
Lo so,
sembra una cosa da pazzi autolesionisti, ma le giuro che non era
così: Erny non si mordeva certo da solo, solamente chiedeva
alle sue compagne di farlo e poi nascondeva il segno sotto un nastro
colorato, legato con diversi giri ed adornato con un vistoso fiocco.
Be',
effettivamente detta così sembra proprio l'atto di un pazzo,
ma se mi lascerà raccontare capirà tutto.
Quello che
mi risultava più strano, venuta a capo del mistero, era che
potesse sempre sfoggiarne uno perché, sebbene nessuno dei
parenti maschi lo ritenesse possibile, sembrava sempre trovare chi lo
mordesse. Ed, a quanto si dice, spesso era pure qualcuno che aveva un
uomo a casa, un uomo identico ai nostri parenti maschi gonfi e tronfi,
che veniva puntualmente abbandonato per quell'individuo dalla faccia
pulita.
Oh,
sarà stato anche stupido, ma Ernesto, nonostante il nome,
doveva essere sempre circondato da donne. In fondo, se ci penso meglio,
come si poteva resistere a due grandi occhi verdi e ad un sorriso da
timido topo di biblioteca stampati su un omone alto quasi due metri?!
Sa, dopo
queste scoperte ho immaginato tantissime volte come dovesse svolgersi
la loro scena madre e ogni volta loro due sono lì, distesi
nudi su un letto, accaldati e sudati dopo aver fatto l'amore, persi in
quel momento di torpore che segue la soddisfazione e precede il sonno.
Non mi sono mai preoccupata di dare un volto a quella donna, Erny ne
deve aver conosciute così tante che potremmo incollarle uno
smile sopra senza troppi problemi, ma ho sempre pensato avesse
un'espressione di pure benessere, la stessa del gatto che ha appena
mangiato la crema ed ora vorrebbe solo sonnecchiare in un posto
soleggiato.
Oh, non mi
guardi con quel sorrisino ironico. Sì, purtroppo sono
piuttosto orgogliosa della mia famiglia, o almeno di alcuni membri di
essa, e credo che le sue compagne abbia sempre trovato la soddisfazione
sotto le mani e la lingua di quello strano cugino, perché
certamente un tipo simile non può certo limitarsi ad usare
le mani e il proprio uccello. Mi crede una fanfarona? Nel nostro
quartiere circolavano racconti mirabolanti e miracolanti sulle prodezze
di quel rampollo strano della famiglia che voleva dimenticarsi
cambiando nome e tutti avevano voci narranti femminili entusiaste.
Ad ogni
modo, più o meno tutte le mie fantasie cominciano allo
stesso modo: loro sono sul punto di addormentarsi, quando lui comincia
a baciarle il collo e le spalle, tracciando con le dita la curva della
clavicola e le corde visibile sul collo.
La pelle
della ragazza è calda e salata per il sudore, eppure gli
piace quel sapore perché sa di esserne il diretto
responsabile – sì, Ernesto in fondo è
un uomo, vuole che non sia affetto dal più grave peccato
della sua specie, l'orgoglio? – e continua a scendere
giù, oltre le ascelle e verso il fianco, mentre lei
ridacchia per il solletico che le fanno i suoi baffi e la barbetta.
Non rida,
gli imberbi non mi hanno mai interessata troppo: se volessi un
ragazzino diventerei madre, non certo amante. Comunque, qui arriva la
parte interessante, quella che le mie zie devono aver sempre temuto e,
forse, desiderato dai loro mariti flaccidi: la ragazza sta per girarsi
e baciarlo, quando lui finalmente glielo chiede. Ed è una
richiesta strana la sua, ne converrà anche lei, eppure
diretta e semplice: mordimi il braccio, appena sopra il polso.
Oh, avesse
potuto vederlo la sua famiglia in quei momenti, certamente sarebbe
stata orgogliosa di un tale elemento virile.
Lei
arrossisce, un po' per l'imbarazzo, un po' per il timore e vorrebbe
tanto dire di no perché ha una fottuta paura di ritrovarsi
tagliata in un congelatore o nuda ai lati di un'autostrada, ma lui
continua a baciarla sulla pancia, accarezzandole gentilmente il seno.
Ha le mani calde, Ernesto, e la osserva appena attraverso le ciglia
abbassate e lei sicuramente pensa che quella lunghezza sia imbarazzante
perché per ottenere un effetto simile ha dovuto usare litri
di mascara.
Erny le
soffia appena sulla pancia, dandole i brividi. Non sembra cattivo, e
poi ha quegli occhi da bambino e bacia bene... Ed è
così che alla fine cede.
Su su, non
c'è nulla di male in questo piccolo cedimento. Quell'uomo
l'ha fatta godere come non le accadeva da anni e, per quanto strano
possa essere, può certamente soddisfare un suo piccolo
feticismo. Così, respirando a fondo per calmare il proprio
cuore impazzito, gli afferra saldamente il braccio, graffiandolo con le
unghie laccate di verde mela, e affonda i denti nella pelle, non
abbastanza da romperla – sia mai che avesse qualche malattia
–, ma con abbastanza forza da lasciarvi il segno.
Ed
è un segno bello quello che lascia o almeno così
pensa Erny, mentre lo contempla e le accarezza i capelli con riverente
indifferenza. Si immagini uno spicchio di luna appena tratteggiato e
ogni tratto leggermente incavato e rosso, il tutto circondato da una
folta peluria scura. Detta così fa un po' impressione e la
prego di non ridere, perché per il caro cugino era
effettivamente una delle cose più affascinanti che esistesse
al mondo.
E la
ammirava, e la guardava e la studiava col fare dello scienziato
innamorato dei suoi scarafaggi, mentre la sua compagna ridacchiava a
disagio.
«
E poi? »
Alzo
appena lo sguardo e incontro gli occhi verdi della mia interlocutrice,
febbricitanti per l'attesa. L'arancione vivo del suo maglione la
invecchia terribilmente e cozza con la sua carnagione pallida, ma i
suoi preziosi colori pastello freschi di boutique non possono varcare
la soglia del carcere femminile e si è dovuta adattare a
quanto passa il convento.
L'aria
fredda di questo giorno di novembre penetra perfino fra quelle sbarre,
sbattendo fra muri di cemento e porte di sicurezza, probabilmente
facendo rabbrividire qualche detenuta particolarmente freddolosa e
vorrei infilarmi il cappotto, ma temo darei l'impressione sbagliata a
questa testarda donna che sono venuta a visitare e, vista l'opinione
generale della mia redazione, non posso permettermelo.
Giorgio
non capirebbe, nemmeno se provassi a spiegarglielo, perché
sono qui: Mary Douglas è storia vecchia, direbbe, ha fatto a
pezzi il marito ed è stata condannata, fine dello scoop. E
per cosa lo avrebbe fatto? Perché non voleva fare l'amore,
ridicolo, a chi interessa una cosa del genere?
Be', caro
Giorgio, solo una donna può capire la frustrazione di un
altra nel non essere desiderata e quanto uomini come Ernesto fossero
una compensazione per il dilagante egoismo maschile e, con il processo
d'appello alle porte, ogni corda deve essere pizzicata.
«
E poi nulla » dico sorniona, accavallando le gambe,
esattamente come aveva fatto lei quel pomeriggio davanti ad una tazza
di caffè. « Immagino contemplasse per qualche
minuto il suo nuovo distintivo, prima di nasconderlo alla vista
».
E in
effetti riesco a figurarmelo. Vedo lo sguardo felice e soddisfatto di
un bambino mentre traccia con dita tremanti il contorno dei molari e
dei canini, avanti fino agli incisivi e poi giù a completare
l'arcata, prima di poggiarvi un leggero bacio, uno schizzo veloce di
quelli che aveva lasciato sulla sua compagna. Oh, ad Ernesto dovevano
piacere i baci: nei rari momenti di attività familiare ne
elargiva senza pudore, quasi guarissero da ogni male.
Solo
quando si separa da quella sua reliquia, apre il cassetto del comodino
ed estrarre un nastro colorato da una scatola sapientemente infilata in
quell'anfratto. Mi chiedo se fosse sempre piena o se aspettasse
d'averli terminati per rimpinguare la sua scorta, so che negli ultimi
anni della sua vita una ragazza del condominio scendeva fino alla
merceria del quartiere e comprava per lui una scatola da scarpe piena
di nastri di ogni colore e fantasia, anche i più assurdi,
come uno rosa con delle uova di Pasqua alternate a dei pulcini che
aveva indossato il Sabato Santo durante la veglia pasquale. Ed era la
stessa proprietaria a prepararla, memore degli anni passati in cui
Ernesto varcava la sua soglia e srotolava ogni nastro almeno per tre
volte, saggiandone la consistenza e descrivendolo con la passione e il
gusto che si riserverebbero ad un Klimt.
Comunque,
frugando fra i suoi tesori, Ernesto sceglie quello che pensa si adatti
meglio alla sua compagna. Naturalmente per la ragazza dalle unghie
verde mela un nastro dello stesso colore è d'obbligo, e
così Ernesto comincia ad avvolgere la stoffa sul suo
avambraccio in uno, due, tre giri, fino a quando non ha coperto il
segno e lo può solo ricordare e, badi, è un bel
ricordo, uno di quelli che si vorrebbe conservare per sempre chiusi in
un cassetto, per quanto male può fare rivederlo e riviverlo.
«
Speravo in qualcosa di meglio di un masochista ».
E non
posso far a meno di ridere mentre lo dice perché il grugnito
infastidito di Mary Douglas è lo stesso di chi non ha mai
conosciuto quella meraviglia che era Ernesto, lo stesso delle mie
prozie, di mia madre e, forse, mio fino ai vent'anni.
«
Oh, no. Ernesto aveva una soglia del dolore bassissima »
dico, asciugandomi una lacrima, consapevole di avere ormai il trucco
completamente rovinato. « Pensi, non voleva nemmeno fare le
analisi del sangue per il lieve pizzicore dell'ago e viveva con gli
antidolorifici sottomano. Uno così non potrebbe mai essere
un masochista ».
«
E allora perché? »
Già,
perché.
Perché
un uomo avrebbe dovuto farsi mordere, benché non avesse
nessun interesse per le pratiche sadomaso, o comunque non apprezzasse
un minimo di dolore nel proprio letto?
Perché
avrebbe dovuto venerare un marchio fino a nasconderlo perfino ai propri
occhi? E perché esibire, poi, quello stesso nascondiglio al
pubblico ludibrio e alla familiare disapprovazione in un eterno
rimarcare un atto non proibito, ma certamente considerato da tenersi
nel silenzio della camera?
Sarebbe
senza dubbio difficile da spiegarsi, se non avessi passato gli ultimi
mesi a leggere i libri del cugino di mio padre, sviscerando le note a
penna che ne rubricano i margini. « Per il ricordo di un
sorriso, immagino » rispondo con un'alzata di spalle.
Ed era
semplice, chiaro, lampante, proprio come quella mezza luna arrossata e
incavata che accarezzava quasi fosse un gatto. Chissà, forse
la sentiva perfino fare le fusa.
Mary mi
fissa con evidente aspettativa e mi sento quasi in dovere di
continuare, esplicando quanto mi passa per la testa. E' così
diversa dalla chiacchierata che abbiamo avuto nel suo salotto nemmeno
sei mesi fa, ma anche i personaggi e i miei sentimenti sono diversi,
quindi non potrebbe essere altrimenti.
«
Ci pensi. Spesso facciamo foto per ricordare un particolare istante, ma
quando le guardiamo partono i rimpianti ».
«
I rimpianti? »
«
Certo » dico concitata, alzandomi perfino in piedi. Alle mie
spalle mi sembra di sentire la figura di Ernesto sorridere canzonatoria
e vorrei potergli fare un breve cenno d'intesa, ma vorrei anche uscire
di qui stasera senza dover passare per il centro psichiatrico, quindi
è meglio desistere. « I rimpianti del tipo 'Oh,
quanto eravamo felici'. Oppure 'Oh, come sorrideva all'epoca,
perché ora è sempre triste? Non riesco
più a farla sorridere?' ».
E percorro
la stanza avanti indietro con veloci falcate, mentre Mary sorride,
facendo appena ciondolare il piede contro la gamba della sedia. Lei ama
il mio temperamento, ama il mio carattere di fuoco rispecchiato nel
colore dei miei capelli e, forse, ama anche me.
«
Minerva... »
«
Mi lasci finire. Una foto è il ritratto di un istante e
dell'istante si porta dietro tutto, compreso il tratto transitorio,
passato e finito. No, la foto è rimpianto per definizione
».
«
Ma la foto succede il ritratto. E il ritratto era stato pensato per
consegnare qualcosa all'eternità ».
«
Ad un'eternità di rimpianto » aggiungo perentoria,
bloccandomi di fronte alla finestra e mettendomi le mani nei capelli.
Non discutevo dai tempi dell'università di
eternità e transitorietà, eppure le mie idee sono
ancora tutte lì, pronte da eviscerare. « E'
romantico considerare l'eternità come pura gloria, ma allo
stesso tempo è estremamente limitante perché non
considera le altre facciate della visione ».
«
Le piace Pirandello ».
«
Sono una figlia del Novecento » rispondo con sufficienza,
conscia di scadere nella retorica, ma, andiamo, è retorica
pura quella che stiamo facendo, retorica costruita e discussa intorno
al sesso di un uomo e di una donna. « Anche se odiassi
Pirandello, non potrei ignorare la rivoluzione che lui e la psicanalisi
portarono ».
E la sala
dei colloqui sembra allargarsi intorno a noi, mentre la mia avversaria
lascia cadere un silenzio perentorio, è una situazione che
mi mette profondamente a disagio. Lei si ostina a non parlare e io,
presa da un panico, mi volto.
Dio, sono
entrata nella gabbia della leonessa senza la bistecca e ora questa
avrà solo il mio braccio per saziarsi.
I muscoli
delle sue gambe sembrano tendersi, quasi fosse pronta a balzare su di
me per attaccarmi, e posso vederla mentre si imbroncia e stringere le
labbra in una linea sottile, mentre un dente perfettamente bianco
spunta sul labbro inferiore. Sembra una fiera pronta a schiacciarmi e
mi sento troppo piccola per il confronto con questa avversaria.
Dio, da
quando Mary è diventata la mia avversaria? Sono venuta per
raccontarle ancora qualcosa su qualche mio parente strano nella sola
speranza di ingraziarmela per future interviste durante il processo
d'appello, non posso mandare tutto in malora proprio ora prendendola
sul personale.
Ernesto,
se stai ascoltando, sappi che in questo momento ti detesto.
Il suo
sguardo è ancora congelato sul mio volto e la guardia
carceraria ci fissa stupita. Probabilmente quella mattina si aspettava
un colloquio strappalacrime con qualche amica o un'intervista
giornalistica sui particolari più scabrosi di quella
vicenda, certamente non questa storia vagamente erotica e infarcita di
riflessioni ancor meno filosofiche.
Sto giusto
pensando ai possibili modi per coinvolgerla in quella discussione,
giusto per fare qualcosa e non sembrare una completa idiota, quando
Mary sbuffa. « Lei non mi piace ».
E questa
frase mi suona come una doccia gelata. Ma come, proprio quel pomeriggio
nel suo salotto continuava a dirmi quanto le piacessi per il mio
carattere – approfittatore, a suo dire – e i miei
modi diretti e ora... puff... tutto finito?
Devo avere
lo sguardo del cucciolo sperso mentre il padrone urla senza motivo, ma
non può fregarmene di meno. « Ma, Mary...
»
«
Lei non mi piace! » ripete con convinzione, tormentandosi
un'unghia. E Mary Douglas non si tormenta mai le unghie: non lo aveva
fatto nemmeno il giorno del processo, né davanti alla bara
del marito, ha troppa classe per un atto da comuni mortali. «
Ha il relativismo nel codice genetico ».
«
Be', è normale. Sono figlia del... »
«
Del paradosso. Ha talmente assimilato il relativismo da crederlo
infallibile e lo ha fatto diventare un assolutismo, un paradosso
culturale, indegno persino di una pensatrice vagamente accettabile
».
E forse
è vero, penso, mentre la guardo lisciarsi la gonna nera e
stringere le labbra in una smorfia contrita. Davanti a lei mi sento
come la vecchia me delle elementari, immobile sull'attenti accanto alla
maestra di italiano definita incapace di vestirsi dal buon gusto
borghese: una profonda ignorante che deve solo vergognarsi.
Trattengo
a stento un singhiozzo mordendomi il labbro inferiore e mi appoggio
alla fredda parte di cemento, dondolando distrattamente sui talloni.
Quasi quasi mi manca perfino il grande finestrone sulle ninfee del suo
salotto, almeno aveva una parvenza di ospitalità e calore,
cosa che questa stanza e la tensione cancellano.
Il tempo
del colloquio sta quasi per scadere e mi sono quasi risolta ad
allontanarmi sconfitta, quando lei sospira. « E
così voleva ricordare un sorriso » geme, frugando
nell'enorme tasca della gonna, forse in cerca di quel pacchetto di
sigarette che ricorda di portare sempre con sé .
Be',
almeno Ernesto per fortuna le piace. « Credo di
sì, quello e la fiducia che queste donne gli davano
» gemo a mia volta, passandomi una mano sul volto, mentre la
nuca mi pulsa terribilmente. Questa sera avrò un mal di
testa lancinante, ma dubito che a Mary interessi. « Ma forse
non voleva ricordare l'attimo del sorriso. Una foto, in fondo, porta
inevitabilmente il ricordo dell'attimo ».
«
Ha idea del motivo? »
«
Forse per non sentirsi un fallito come i suoi parenti, forse per
sottolineare i loro insuccessi, forse per entrambe le cose. Il morso di
una ventenne, se ci pensa, ha la stessa forma di quello di una
cinquantenne ».
«
Odontoiatri permettendo » insinua con un sorriso praticamente
perfetto.
«
Odontoiatri permettendo. Comunque, quello che intendevo era
più generico. Donne diverse, momenti diversi, ma tutti con
una caratteristica in comune: lui le aveva fatte sorridere »
sentenzio, avvicinandomi al tavolo e lasciandomi ricadere sulla sedia.
Ed
effettivamente poteva essere proprio questo che Erny cercava di dire
alle prozie, mentre esibiva il braccio fasciato: fossi nato prima,
avrei potuto farvi sorridere così, anche se solo per un
momento. E non vi avrei mai tediate con foto e filmati,
perché non vorrei ricordarlo ed essere consapevole di non
saperlo più fare, ma avrei un segno a carattere eterno che
mi sproni a farlo ancora e ancora. E, nonostante non lo crediate
possibile, lo farei, perché sarei quello di cui i vostri
uomini non saranno mai, per quanto li santifichiate nel matrimonio.
Infatti, sotto questo nastro, non ho scritto un “Tu non
devi!”, semmai un comando d'azione.
Povere
prozie, nei loro commenti saccenti probabilmente lo sapevano e, per
passare un momento con quel nipote stupido, avrebbero mandato a monte
senza troppe esitazioni tutta la famiglia gerarchica che vantavano come
fosse il traguardo più importante della loro vita. Forse la
zia Germana lo aveva perfino fatto, visto come gli sfiorava lievemente
il colletto della camicia in ogni momento utile con la scusa di
sistemarlo.
Con
l'immagine di quelle dita rugose e macchiate, osservo di sfuggita la
mia conversatrice. Ha chiuso gli occhi, probabilmente persa nel
desidero d'aver conosciuto un Ernesto negli ultimi anni del suo
matrimonio, magari appena prima che suo marito venisse stroncato da un
“misterioso infarto”, come avevano sostenuto i suoi
avvocati nell'arringa.
Quando
Mary riapre gli occhi mi sembra di scorgere una lacrima fermarsi sulle
ciglia, un tempo perfettamente piegate. E' diversa senza quel trucco
impeccabile, più vulnerabile e terrena. « E bravo
il nostro Ernesto » sussurra, stringendo la manica del
maglione nel pugno e portandosela alle labbra. Ha un sorriso lieve
questa donna, lieve, sincero e aperto, un sorriso da donna innamorata,
anche se solo di un'idea. « Ma non la sta un po'
idealizzando? »
«
Può darsi » dico, ridendo. Effettivamente ho
taciuto la sua pancetta e la sua balbuzie, tutti quei tratti che
rendevano l'Ernesto stupido e bibliofilo buffo e, forse, perfino
amicone, piuttosto che sogno erotico di una casalinga frustrata.
« Ma ci pensi, uomini come Ernesto sono o no creati per
essere idealizzati? »
E in
questo momento anche la guardia giurata ci guarda sognante,
probabilmente immaginando il proprio Ernesto al posto del marito obeso
e teledipendente che ha lascito quella mattina nel letto. Giorgio non
ha proprio capito nulla delle donne: solo una donna può
sapere cosa desidera un'altra donna in un uomo. Una donna o un
omosessuale. Una donna, un omosessuale o Ernesto.
«
Sì, ma magari la sua idealizzazione copre il suo fascino
».
La faccia
della guardia carceraria a questa insinuazione è uno
spettacolo: spaurita, ma pronta a combattere chi offendeva il suo uomo.
Ah, Erny, hai trovato un'amazzone pronta a combattere per il tuo onore
di malizioso fanciullo, anche se non l'hai mai conosciuta, nemmeno nel
tuo letto così frequentato.
«
Fosse così fingerei sul mio compagno o sul tuo povero marito
» ribatto sorniona, avvicinandomi al suo volto. Mi sento una
sgualdrina di un porno di bassa lega nel comportarmi così,
ma è tremendamente divertente vedere la sua aria
calcolatrice riapparire dietro quelle sbarre di metallo e sostituire la
curiosità infantile. « Posso fingere sul suo
aspetto, dipingendo l'Ercole o l'Achille ideale perché non
c'è nulla di male nell'esagerazione in un racconto erotico,
ma la sensibilità e la sapienza sensuale... oh, quelle non
si possono inventare. Si assaporano, magari indirettamente, ma sono
sempre esperienze reali e tangibili ».
«
Aveva quattro anni... »
«
I bambini non sono innocenti. Non conoscono e non potrebbero mai capire
la sensualità raffinata e complessa di un adulto »
e mi sento male nel dirlo, perché so quante volte questo mio
discorso sia stato frainteso. Freud, carissimo, dovevi scrivere
più chiaramente perché in milioni hanno letto il
tuo libro, ma pochi lo hanno capito. « Ma sono nati e la
sensualità viscerale, oh, quella la conoscono e la
riconoscono ».
Ed ora,
finalmente, potevo dare a Mary il secondo cioccolatino della serata,
quello che avrebbe accompagnato l'immagine dell'Uomo. « Sa,
fin da quando ero piccola sognavo di legargli quel nastro intorno al
braccio ».
«
Anche quando avete abbandonato vostro padre? »
«
Sì, anche dopo che i miei si separarono » ribatto,
scattando sulla difensiva. Io non ho mai abbandonato Robert, semmai fu
il contrario, ma quella è storia vecchia e se non
concluderò questo racconto, Mary si ritirerà
nella sua cella senza una parola, annoiata, indispettita e pronta a
rifiutarmi qualsiasi colloquio futuro, perfino durante il processo
d'appello o quello in Cassazione.
Inspiro
forte, lasciando che l'odore di disinfettante e polvere mi inebri per
un attimo e mi calmi. E' una fortuna che quest'ala delle prigioni sia
sempre molto pulita. « Robert, come ben sa, non fu un padre,
ma figure come Ernesto possono sostituirlo, almeno nell'immaginario
».
«
Un'estensione del complesso di Elettra? »
«
Una specie » convengo, abbandonandomi nuovamente sulla sedia
e concedendomi per qualche secondo la libertà di sentire il
ticchettio dell'orologio senza dover scappare da qualche parte.
Il tempo
probabilmente sta per scadere, o forse è già
scaduto e nessuno dei presenti se ne è reso conto o vuole
rendercene consapevoli. Incurante di tutti ridacchio, sentendomi una
sciocca ragazzina, perché in questo caso la guardia, forse
troppo presa dai nostri discorsi e dall'immagine del suo Erny in
mutande leopardate e manette, ha probabilmente deciso di chiudere un
occhio su quell'allungarsi scorretto, ma se non riusciremo a mantenere
alto il suo interesse, mi caccerà senza dubbio in malo modo,
facendomi sentire una discola per non aver rispettato il coprifuoco.
«
Una specie » riprendo, fissando il probabile salto della mia
carriera dritta negli occhi. Comincia ad avere delle piccole rughe sul
lato e le sta spuntando un brufolo sulla fronte, cosa che un tempo non
avrebbe permesso. « O forse semplicemente il risveglio della
sensualità femminile che, si fidi, non poteva non farsi
incantare da quegli occhi verdi e da simili atti romantici ».
E
veramente, per come la penso, quello è il massimo del
romanticismo a cui si possa aspirare. Sarei stata la prima e, forse,
l'unica donna a compiere l'intero rito, dal morso alla formazione del
fiocco, una commistione perfetta in quello che doveva essere un monito
eterno. E andassero al diavolo la marcia nuziale e l'abito bianco, non
è possibile per l'uomo concepire qualcosa di più
intimo ed eterno di un simile atto.
Purtroppo
Mary non deve essere dello stesso avviso, visto che mi fissa curiosa,
quasi fossi un insetto mai conosciuto. « Non sarebbe stata
più appropriata una rosa a gambo lungo? »
Una rosa?!
Vorrei ridere ancora e più forte e con più gusto
di quanto non abbia fatto questo pomeriggio, ma mi trattengo, non tanto
per rispetto, quanto per la conoscenza del carattere permaloso di
quella nobildonna civile.
Una rosa a
gambo lungo?! Sì, e io sono Napoleone.
«
Sa, una mia collega universitaria, a detta di tutti troppo sboccata, a
parer mio troppo sveglia per il bene comune, sosteneva una cosa: la
lunghezza del gambo di una rosa è inversamente proporzionale
alle capacità amatoriali di un uomo ».
«
Letterata? »
«
Fisica. Comunque aveva ragione: le rose rosse arrivano sempre prima del
letto o quando questo è dimenticato da troppo tempo
» continuo, ricordando un enorme mazzo di rose rosse fresche
che campeggiava sul tavolino del salotto di Mary durante la nostra
intervista, avvenuta pochi giorni dopo il decesso del suo onorato e
amato coniuge. « No, Erny ha usato, per la gioia delle donne,
quel letto fino alla sua morte e di questo dovremmo rendere grazie a
Dio ».
Oh, se
almeno la metà delle voci di quel quartiere popolare erano
vere, eccome se l'aveva usato. Ricordo ancora il donnone brasiliano dal
seno immenso e col forte odore di marsiglia mentre lanciava sguardi
languidi e baci a schiocco verso quel giovane Robin Hood della
sensualità femminile e ragazze appena ventenni fissargli
spregiudicate il culo.
Visto come
si poneva, sono sicura che anche l'altera e algida Mary Douglas,
potendo tornare indietro e conoscere quel ragazzo, lo avrebbe
sequestrato e, probabilmente, ora suo marito sarebbe ancora vivo.
Cornificato e umiliato, ma almeno vivo.
I minuti
passano velocemente e non sento la fretta di continuare quella
conversazione. Forse potrei perfino andarmene, se l'immagine delle
unghie devastate di quella che, un tempo, era una delle donne
più eleganti e perfette di Roma non mi devastasse.
Non
c'è molto sole oggi e ogni minuto minaccia, eppure dalla
piccola finestra provengono voci concitate e ordini ringhiati. Le
signore dovevano essere uscite nel cortile e le sorveglianti faticavano
a mantenere l'ordine, mentre nel parlatorio Mary fissa quanto rimane
delle proprie unghie, cercando di recuperare in compostezza e
controllo. « Parlava di una biblioteca, all'inizio
».
Mary Mary,
che fai, ributti la palla al centro? Una volta saresti stata
più prudente.
«
Già, il manifesto ufficiale della fregatura ».
«
E cosa c'era fra gli scaffali? » chiede, mentre un'aria
saputa le illumina volto e le distende la bocca in un mezzo sorriso
soddisfatto, quasi avesse già anticipato la mia risposta e
se la stesse gustando.
Scusami,
carissima carogna, ho sbagliato a sottovalutarti: sai certamente come
riprenderti le situazioni, quando vuoi.
Cosa
c'era, vuoi sapere? Be', è più semplice dire cosa
non ci fosse. Filosofi, linguisti, trattati medici, i grandi narratori
di ogni paese e di ogni tempo appoggiati su riviste di fotografia e
modellini mai completati, tutto in un perfetto ordine e nascosto
sublimemente dalla curiosità familiare e atavica.
«
Di tutto, c'era veramente di tutto. E parlo di un tutto buono. Ma
quello che bisogna ricordare sono certamente gli album ».
«
Album? »
«
Gli album dei suoi morsi. Erny, a quanto sembra, appoggiava un pezzo di
carta sul suo braccio e con una matita anneriva i segni ».
«
E' possibile? » mi chiede Mary perplessa. In effetti
è comprensibile questo suo atteggiamento, perfino io sono
dubbiosa sulla possibilità di un simile gesto, per non
parlare dell'utilità e della coerenza, che avevo risolto
solo dopo averli osservati per giorni.
Sollevo
appena le spalle, fissando un brandello di cielo nuvoloso appena fuori
la finestra. « Lui ci riusciva, ma non mi chieda come
facesse. Comunque, li collezionava in questi immensi album ad anelli e
accanto ad ognuno incollava un pezzetto del nastro corrispondente
».
E quegli
album erano infatti un tripudio di nastri colorati e fantasiosi, un
tripudio intessuto su falci di luna nere e tratteggiate senza un
accenno di nome o memoria per la vera identità della
miracolata: sorrisi, ma anonimi, attribuibili a chiunque.
«
Quindi, in fondo, voleva ricordare ».
«
Sì, ma le proprie capacità. Nessun attimo o donna
specifica, solo la possibilità generale per un uomo di
lasciare un sorriso su quei volti spesso imbronciati ».
«
Ma come, era una narcisista?! » insinua Mary, con tono
fintamente sorpreso. Ha di nuovo lo sguardo di Silvestro di fronte a
Titti, esattamente come quel giorno nel salotto mentre comparavamo il
mio papà con il mio padre biologico.
«
Solo come i migliori amatori si permettono di essere » le
rispondo a tono. Se fossimo in un vecchio film, ora il copione mi
imporrebbe di sorseggiare un whisky on the rocks e di abbassare appena
la sigaretta verso il piano del tavolo. « In fondo, un grande
amante ama anche, e soprattutto, se stesso ».
Ed
è la verità. Lo so io, lo sa Mary e lo sa la
guardia che ci osserva visibilmente curiosa ed interessata.
Donne,
sono facili da capire e catturare, se si è una donna.
«
E poi aveva una collezione di trattati orientali su... »
«
Cosa ci fa la signorina ancora qui?! »
L'urlo fa
trasalire sia me che la guardia, ma non Mary che sbuffa, appena
infastidita dall'interruzione. Probabilmente deve essere terminato il
turno e la collega ha notato l'assenza della mia interlocutrice nel
gruppo delle recluse.
Cavolo,
avrebbe potuto lasciarmi ancora qualche minuto, speriamo che le mie
imboccate bastino a solleticare la curiosità di una
psicopatica come Mary.
Seccata e
preoccupata, mi alzo, conscia del fatto che non mi conviene
assolutamente inimicarmi la sorveglianza. Non se voglio tornare presto,
almeno. « Non si preoccupi, agente. Me ne stavo andando
» mormoro, recuperando la mia borsa. « Mi scusi per
il ritardo, ma ero preoccupata per la signora... »
«
Be', che non capiti più ».
Faccio un
rapido cenno di assenso e mi volto verso Mary e l'altra guardia. La
sorvegliante che ci ha tenuto compagnia per tutto il colloquio
è rimasta in piedi accanto alla porta che conduce alle
celle, ma ora ha lo sguardo basso, probabilmente pronta per un
richiamo, mentre Mary sorride con quel suo fare da gatta, alzandosi a
sua volta, senza però disturbarsi a fare il giro del tavolo
per salutarmi. « Spero di vederla presto, Minerva »
dice, dirigendosi verso alla porta che la riporterà verso la
sua branda.
«
Senz'altro signora Douglas » ribatto con finto sussiego,
osservando la sua schiena. Nonostante quei primi mesi di carcere, il
linciaggio mediatico e l'aspetto distrutto, ha conservato il portamento
fiero e risoluto che avevo potuto ammirare quel lontano pomeriggio nel
suo salotto. « Magari la prossima volta potremmo pensare ad
un'altra intervista ».
«
Non si disturbi. Il suo capo redattore mi considera caso chiuso e, a
meno di una mia prossima assoluzione, i suoi lettori hanno interessi
ben diversi dai miei guai ».
In altre
circostanze avrei detto che quello fosse un addio, eppure Mary si
ostina a non aprire quella porta, quasi a prolungare il nostro
colloquio. La sola idea che possa farlo mi fa sorridere: in certi
momenti sembra così diversa dalla fredda assassina che tutti
descrivono. In altri no, è perfettamente plausibile in quel
ruolo.
«
Ma può tornare a trovarmi » aggiunge quindi, in un
tono che sembra esitante, ma Dio non voglia assolutamente che lo sia.
« Sono certa che avrà altre storie interessanti da
raccontare » conclude, stavolta più fiduciosa,
sparendo oltre quella pesante porta in ferro.
Certo,
Mary Douglas, tornerò. Magari con storie inventate
– o anche no. In fondo, gli anni di sottovalutazione continua
mi hanno resa piuttosto abile nel riconoscere le assurdità
nella mia famiglia – , ma per stanotte concentrati solo nel
sognare un tuo Ernesto.
Ti
dirò di più, sogna perfino il mio caro cugino
Erny, se vuoi, mentre ti implora di imprimere il tuo sorriso da gatta
sul suo braccio. Credo che sapere di riuscire ancora a far sorridere le
donne, nonostante la morte, fosse la sua massima aspirazione.
La
giornata è diventata, se possibile, ancora più
fredda e mi sorprendo a stringermi nel cappotto, mentre i cancelli del
carcere si chiudono alle mie spalle. Attraverso le sbarre decine di
volti insoddisfatti mi scrutano, mentre mi allontano; sono sicura che
stasera Mary condividerà con loro la mia storia durante la
cena e stanotte, stese sulle loro brande, avranno un sorriso
più rilassato, magari alcune saranno pure felici,
perché si convinceranno che lì fuori potranno
incontrare un uomo a cui importi di loro e, magari, imparare
cos'è la felicità.
In fondo,
non è l'ideale a cui ogni uomo tende?
Questa
è, cosa, la novecentesima ovvietà della giornata
e la cosa mi strappa un sospiro, mentre mi sistemo la borsa a tracolla.
Avrò visto decine di volti con quell'espressione rassegnata
durante le mie passeggiate e le mie interviste, eppure ora fra tutti
spicca quello dello strano cugino durante uno dei troppi compleanni
della famiglia.
Ero
piccola, forse avevo appena tre anni, eppure ricordo vivamente quella
festa. Quella sera aveva ben due nastri sul braccio, uno bianco e uno
rosso, eppure per tutto il tempo aveva lanciato occhiate rassegnate ad
un qualche amico dei fratelli, intervenuto puramente per sollevare il
compagno di scuola dalla noia, inevitabile in una serata con quei
matusalemme.
Il sole
sta ormai tramontando e la portiera della mia auto si è
nuovamente bloccata. Dovrò fare un bel discorsetto al
carrozziere: va bene la verniciatura a nuovo, ma gradirei venissero
anche sistemati guasti, la prossima volta.
E proprio
mentre armeggio con le chiavi, mi sorprendo a chiedermi se Erny, dietro
quella sua apatia apparente nel contesto familiare e quello spasmodico
bisogno di aiutare le donne che incontrava, non nascondesse il bisogno
di sorridere a propria volta, magari attorno al braccio di qualcuno per
essere poi nascosto sotto un nastro color miele.
Un po' mi
sembra sciocco, eppure in questi anni, quando la sua mania mi tornava
in mente fra una lezione di danza e le ripetizioni di filosofia, mi
sono sempre chiesta perché non avesse mai usato nastri di
quel colore, visto che, in diverse occasioni, lo aveva descritto come
il colore ideale delle unioni.
Già,
è una buona domanda perché non lo avesse fatto; o
perché non lo avesse fatto fino al giorno della propria
morte: quella mattina infatti, mentre lo vestivano, gli addetti delle
onoranze funebri trovarono sul braccio destro il segno di un morso,
lasciato da qualcuno privo di un molare, nascosto sotto un nastro di
raso rosa a pois bianchi. Tutto nella norma, insomma, se sul braccio
sinistro privo di segni non fosse stato legato, giusto poco sotto la
spalla, un nastro consunto color miele, o che almeno un tempo doveva
essere di quel colore.
Il 24
febbraio del 1978, giusto poco prima di cena, Ernesto Scotti presentava
i primi sintomi dell'infarto che, in poche ore, lo avrebbero portato
alla morte. Proprio quei dolori all'arto sinistro, così
simili a morsi particolarmente feroci, lo avevano spinto a legarsi con
un piccolo, innocuo nastro. Se avesse incontrato qualcuno simile a lui,
probabilmente, avrebbe usato quel nastro molto prima e non si sarebbe
unito con quell'ultima donna.
Sì,
penso, entrando finalmente in macchina e mettendo in moto questa
vecchia Panda scassata che mi ostino a guidare, è un vero
peccato non siano mai nati Ernesta o un Luigi particolarmente
filantropo perché, anche se per un solo momento,
probabilmente lo avrebbero fatto felice.
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