23.
Epilogo - All this time, we were waiting for each other
Put the
past away, save it for a sunny day
Right now there's nothing I can do, except stare right back at you
Put the future aside, I'll try my best to make it right
Right now it just seems so obscene to picture you without me
La folla si alzò in
piedi protestando l’atterraggio di un giocatore della squadra
ospitante da parte di un avversario. Tra i tifosi spiccava una figura
che faceva di tutto pur di farsi sentire dall’arbitro e far
valere la propria opinione.
«È rigore!
Arbitro, non scherziamo, è rigore netto!».
La donna al suo fianco guardava
preoccupata il ragazzo ancora steso a terra che si stringeva il
ginocchio al petto. Lentamente il suo sguardo si posò sul
ragazzo biondo con la fascia di capitano stretta intorno al braccio,
compagno di squadra di quello steso nell’area di rigore.
«E se capitava ad
Arthur?», domandò con un nodo in gola.
«Oh, Linda! Smettila di
preoccuparti per così poco! Guarda, guarda, finalmente
quell’idiota gli ha dato il rigore!».
L’arbitro lo
sentì e gli rivolse uno sguardo fulminante, facendogli segno
che al prossimo richiamo lo avrebbe cacciato al bar
dell’impianto sportivo. Tom sbuffò sonoramente,
roteando gli occhi al cielo, ed affondò le mani nelle tasche.
In campo, intanto, sotto
la pioggerella sottile che aveva accompagnato parte del primo tempo e
continuava tutt’ora nel secondo,
erano intervenuti dei paramedici che stavano portando via in barella il
giocatore a cui era stato fatto il fallo. Arthur fece un pezzo di
strada con loro, parlando col suo migliore amico: «Vedrai che
non è nulla di grave, una settimana al massimo e torni a
giocare».
«Non lo so, amico, questa
volta mi sa che me ne starò fermo per un bel
po’…», disse con una maschera di dolore
dipinta in viso. «Quello ci è andato
giù proprio pesante».
«Adesso ci penso io a
lui», gli promise, dandogli un pugnetto sulla spalla e
sorridendo.
L’amico
ricambiò: «Segna per me, capitano».
«Ci puoi
contare».
Guardò i paramedici
trasportare il suo centravanti migliore sull’ambulanza e
tornò in campo passando accanto alle tribune, su cui
riconobbe i suoi genitori. Sua madre, con entrambe le mani posate sul
petto, gli chiese urlando: «Si è fatto tanto
male?». Arthur ridacchiò e la rassicurò
scuotendo il capo e sventolando una mano.
Vide anche un ragazzo dagli occhi
verdi, appoggiato con le braccia alle transenne che circoscrivevano il
campo. Il suo sorriso era una curva appena accennata sulle labbra, ma
era qualcosa di spettacolare. Arthur si bloccò sul posto e
lo guardò incantato, mentre qualcosa gli pungolava il cuore.
Appena si accorse che suo padre
stava cercando di capire chi fissasse, si affettò a tornare
dai suoi compagni che lo aspettavano nei pressi dell’area
avversaria. Gli porsero il pallone e gli sorrisero
incoraggianti, negli occhi la luce che solo i compagni di
squadra possono avere per il proprio amato capitano. Si fidavano di
lui, credevano in lui, non poteva sbagliare. Non poteva farlo anche per
il suo migliore amico e per Reja, la bambina che l’aveva
spronato a giocare a calcio per la prima volta, quando aveva appena
quattro anni, e che aveva continuato ad incoraggiarlo fino a quando non
l’aveva lasciato, all’età di nove anni.
Dentro di lui, però, aveva continuato a vivere e aveva
dedicato a lei ogni suo goal.
Posizionò il pallone
sull’erba e si portò le mani sui fianchi guardando
di fronte a sé il rettangolo della porta e il portiere della
squadra avversaria che avrebbe fatto del suo meglio per non farlo
segnare.
Socchiuse gli occhi e
respirò profondamente per trovare la concentrazione
necessaria per riuscire nel suo intento. Fu allora che sentì
la voce che più e più volte lo aveva guidato a
fare le scelte migliori sussurrargli nel vento: «Incrocio dei
pali alla sinistra del portiere».
L’arbitro
fischiò. Arthur sorrise, aprì gli occhi e dopo
una breve rincorsa calciò una bomba di sinistro che
andò a finire proprio a quell’incrocio
dei pali. Il portiere si era gettato dalla parte opposta e quando
Arthur fu sommerso dai suoi compagni di squadra urlanti ed esaltati,
rimase lì sdraiato a guardarli festeggiare, frustrato.
Anche la folla sulle tribune, che
aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, quando
realizzò che la loro squadra si era appena portata in
vantaggio scoppiò in un boato pieno di gioia.
Tom iniziò a saltare, gridando
contro il cielo azzurro che si intravedeva dietro un banco di nuvole
bianche che iniziavano a diradarsi per far spazio ai raggi del sole e
ad un arcobaleno, e dopo
qualche secondò trascinò nei suoi festeggiamenti
anche Linda, che baciò impetuosamente.
Arthur, steso sull’erba
sotto i suoi compagni che lo abbracciavano e gli gridavano nelle
orecchie che era il “miglior capitano del mondo”,
guardava quello spicchio di cielo terso
rischiarato dalla luce del sole che
riusciva a vedere oltre le teste dei suoi amici e sorrideva felice e
allo stesso tempo commosso.
Si sollevò, ricordandosi del ragazzo dagli occhi verdi che
l’aveva colpito nel profondo, ma non c’era
più. In compenso, vide suo padre saltare giù
dalle tribune e dirigersi verso l’uscita del campo sportivo.
Tom aveva notato lo sguardo che suo
figlio aveva rivolto a quel ragazzo e non ne era rimasto indifferente,
a dirla tutta, ma si era subito concentrato sul rigore. Dopo, quando
aveva finito di esultare, aveva subito riportato gli occhi su quello
sconosciuto, non trovandolo più. Allora era sceso dalle
tribune e l’aveva visto uscire dal centro sportivo.
Dopo una breve ricorsa –
che però gli procurò ugualmente un po’
di fiatone – lo raggiunse e lo costrinse a fermarsi
prendendogli il braccio. Il ragazzo si girò e lo
guardò negli occhi senza tirarsi indietro; si
lasciò andare persino ad un sorriso, quando gli
domandò: «Ci conosciamo?».
Tom, talmente sbigottito dalla
somiglianza spaventosa che quel giovane uomo aveva con Franky, aveva
persino creduto che fosse lui. Persino la voce era simile, solo un
po’ più profonda. Eppure… Non riusciva
a capire. Un velo di delusione gli ombreggiò gli occhi e
lasciò andare il ragazzo, abbassando il capo e scusandosi.
«Mi… mi ricordavi una persona che
conosco».
«E non la vede da
molto?».
«Sì, sono
passati già dodici anni dall’ultima
volta».
Il ragazzo sospirò e gli
diede una pacca di conforto sul petto. «Persone che stanno
via così a lungo alla fine sono sempre quelle più
vicine, nel cuore e nella mente».
Tom, colpito da quelle parole
così... da Franky,
alzò lo sguardo, ma del ragazzo non vi era più
traccia.
***
Zoe si portò davanti
alle vetrate del salotto che davano sul giardino, sui suoi fiori appena
sbocciati, e soffiò sul contenuto caldo della sua tazza.
«Dodici anni»,
mormorò. «Mi sono svegliata dal coma da dodici
anni e Franky non si è mai fatto vivo una volta.
È pazzesco».
«Già».
«A volte mi chiedo se non
gli sia successo qualcosa».
«Appena ho visto che
stavi bene, me ne sono andato. Non c’era motivo per cui
restassi ancora».
«Esatto! Direbbe proprio
così, il mio Franky…»,
sospirò sorridente e all’improvviso si
sentì stringere da dietro, dolcemente, in un abbraccio
carico di affetto.
«Io sono sempre con
te».
«Lo so, lo so…
Solo che a volte mi manca così tanto…».
Le soffiò un bacio sulla
tempia e rise piano. All’udire quella risata, Zoe
sgranò gli occhi e si voltò, ma non vide nessuno
in salotto.
Bill uscì dalla cucina
e, vedendola così scossa, si avvicinò.
«Tutto bene, amore? Ti ho sentita… con chi
parlavi?».
La donna si voltò di
nuovo verso le vetrate ed alzò lo sguardo verso il
cielo che si stava riaprendo dopo la pioggia.
«Parlavo tra me e me».
***
I haven't seen the sun in seven days
I can't remember when I saw your face
But I still believe that you led me through the wilderness
And you have not forgotten me through all of this
Scese dall’aereo dopo
tutti i passeggeri ed insieme alla sua amica camminò lungo i
corridoi ormai deserti che portavano ai gate e quindi anche
all’uscita. Il suono dei loro passi, intensificato dai tacchi
che portavano, era l’unico udibile in quella che non era
ancora la zona più confusionaria e popolata
dell’aeroporto.
L’hostess con cui si era
trovata a fare più e più viaggi e con la quale
ormai aveva legato particolarmente, disse, nel suo francese perfetto:
«Che programmi hai qui ad Amburgo?».
«Starò dai
miei genitori, è da tanto che non li vedo».
«Oh, è vero
che tu sei di qui! Magari quando hai un momento libero potremmo
vederci, ti va?».
«Sì,
perché no?», sorrise.
«Mi piacerebbe tanto
vedere quel nuovo film… quello degli angeli e dei
demoni!».
Evelyn arricciò il naso.
«Ah… sì, l’ho sentito
nominare».
«Non ti piace il
genere?», chiese indispettita l’amica, notando il
cambiamento della sua espressione.
«Non molto, sono un sacco
di cavolate».
Arrivarono al check-out e
mostrarono i loro passaporti, poi trascinarono i loro trolley nella
grande sala, affollata da uomini d’affari e da turisti appena
sbarcati oppure che aspettavano di partire.
«Pensavo che credessi
negli angeli», esclamò la sua amica.
«Ci credo, infatti. Penso
soltanto che nei libri e nei film, soprattutto, non vengano
rappresentati bene».
«Uhm,
sarà!», sollevò le spalle, con un
sorriso solare sul viso. «Comunque fammi sapere,
okay?».
«Certo! Ciao!».
La guardò allontanarsi e non molto tempo dopo fu inghiottita
dalla folla.
Come tutte le volte che si
ritrovava da sola con i suoi pensieri, il cuore le si strinse in una
debole morsa che però lei notava benissimo: lo sentiva teso,
schiacciato, separato da ciò che lo avrebbe reso completo.
Evitò di trastullarsi ancora in quei sentimenti e si
gettò un’occhiata intorno per scorgere i volti del
suo papà e della sua mamma. Da quando aveva iniziato a fare
l’hostess li vedeva sempre meno, complice il fatto che aveva
deciso di comprarsi un appartamento nella sua amata Ottawa. Se
n’era innamorata durante uno dei suoi continui viaggi: a
causa della neve erano stati cancellati tutti i voli ed aveva trascorso
lì tre giorni, che le erano bastati per capire che quello
era il suo posto.
Non li vide, forse non erano ancora
arrivati, ma in compenso incrociò lo sguardo di un ragazzo
che le fece dimenticare dove fosse, perché e persino come si
chiamasse. Quegli occhi, quel sorriso…
Non doveva avere più della sua età, aveva i
capelli neri spettinati sulla testa ed un accenno di barba sulle
guance; era molto affascinante e il sorriso tenero che le rivolgeva,
con quello sguardo intenso, le fece subito capire che, impossibile o
meno, lui era il suo Franky, l’angelo che amava perdutamente
e che non vedeva da ben dodici anni.
Come quella volta nel campo di
girasoli, poco prima del loro addio, si avvicinarono l’uno
all’altra senza nemmeno rendersene conto, ma in perfetta
sincronia, fino a quando non si trovarono a pochi millimetri di
distanza. Evelyn sollevò incerta le mani, trovandole
tremanti come le sue labbra e i suoi occhi che a stento trattenevano le
lacrime, e gliele posò sulle guance. Lo sentì
consistente, fatto di carne ed ossa sotto le sue dita, e chiuse gli
occhi, gettandosi fra le sue braccia e lasciandosi stringere forte da
lui.
Sognava quel momento da anni, si
era preparata tutto un discorso da fargli, ma ora le uniche cose
importanti erano il suo cuore che batteva contro il proprio, il suo
respiro fra i capelli, il suo profumo, le sue braccia che la tenevano
stretta al suo petto. Era tutto così bello che era
impossibile che fosse vero, aveva paura di riaprire gli occhi e di
vedere la gente intorno a sé che la guardava abbracciare il
vuoto come si guarda una pazza. Aveva paura di non vedere
più Franky e di non sentire più il suo corpo
contro di lei. Per questo ogni secondo che passava lo stringeva
più forte, sempre di più.
«Evelyn, sono
qui», le sussurrò all’orecchio con la
sua voce cresciuta, maturata, ma pur sempre bellissima.
«Ti ho aspettato per
così tanto tempo…».
«Ed ora sono
qui».
Because the pain defining me, is holding
me lifeless
So I am waiting patiently for you to change my name
Ci volle ancora un po’
prima che lei se ne convincesse del tutto e riuscisse a guardarlo
un’altra volta in viso.
«Ogni volta che ti vedo
sei sempre più bella», mormorò
accarezzandole i capelli con entrambe le mani, posandole poi sui lati
della sua mandibola. «E i tuoi occhi continuano a prendere
sempre di più il colore del cielo».
«Chissà, a
furia di guardarlo…», rispose, abbassandoli come
se se ne vergognasse.
Franky scosse docilmente il capo e
con un sorriso impacciato le chiese: «Ti va ti andare a bere
qualcosa?».
La ragazza allora
ridacchiò e rispose affettuosamente, cacciando il dispiacere
solo nei suoi occhi: «I miei genitori dovrebbero arrivare da
un momento all’altro…».
«Ho già
pensato io a loro».
Evelyn lo guardò
aggrottando le sopracciglia e lui ammiccò, prendendola per
un fianco ed invitandola a camminare stretta a lui.
***
Guardò Zoe, seduta al
suo fianco, e le avvolse le spalle con un braccio. Le
massaggiò una spalla e posò la guancia alla sua
testa.
Anche lei ricambiò lo
sguardo e disse: «Qualcosa non va?».
«Ho come la sensazione
che ci siamo dimenticati qualcosa».
La donna ci rifletté su,
poi sorrise e gli prese il viso fra le mani per baciarlo sulla bocca.
«Forse non era così importante».
Bill sorrise ed annuì,
contraccambiando al bacio con una mano sul suo collo candido.
***
Quando la sua protetta si era
finalmente risvegliata dal coma Franky aveva sofferto, o meglio, la sua
anima aveva sofferto la lontananza di tutti quei pezzi. Mentre lo
spirito di Zoe era in Paradiso ne aveva risentito di meno, ma quando
era tornato sulla Terra… si era sentito male, tanto da
costringere i suoi amici e colleghi di lavoro a scendere di sotto e a
recuperare il pezzo fondamentale della sua anima, quello che aveva
donato inconsciamente ad Evelyn quando avevano fatto l’amore.
Erano riusciti a reimpiantare quel
pezzo di anima nel suo corpo e da allora aveva smesso di soffrire in
tutti i sensi, perché in quel modo era anche riuscito ad
allontanarsi ancora di più dalla ragazza che amava e che
fino ad un momento ben preciso non avrebbe potuto mai avere.
«Quindi adesso sei un
arcangelo», riprese lei, ancora un po’ sorpresa.
«Wow, è… fantastico, Franky. Certo, non
so con precisione quanto, ma… sei felice?».
«Abbastanza»,
sorrise annuendo. «Comunque anche tu hai trovato il lavoro
perfetto per te».
«È per la
divisa, vero?», roteò gli occhi al cielo.
«Non pensavo che anche tu potessi dire una cosa del genere,
è così frivola!».
L’arcangelo rise,
stringendole una mano sul tavolo, di fianco alla tazza di
caffè di Evelyn. «Non parlavo della divisa, anche
se ammetto che fa un certo effetto su di te»,
sollevò ancora le sopracciglia, in quel modo ammiccante e un
po’ provocatorio, ma poi tornò serio:
«Parlavo del fatto che hai scelto di volare».
«Un modo come un altro
per sentirti più vicino», abbassò lo
sguardo, leggermente imbarazzata, ed accarezzò col pollice
il dorso della mano di Franky. Dopo un po’, notando il suo
sguardo tenero ancora fisso su di lei, sorrise maliziosa: «E
poi pensavo che magari avevo più opportunità di
fare un incidente, lavorando sempre sugli aerei, e che tu saresti
venuto a salvarmi».
«Dici sul
serio?».
Evelyn sollevò lo
sguardo, colpita dall’improvvisa serietà nella sua
voce, e si accorse della preoccupazione e dello scetticismo che
aleggiavano nei suoi occhi. «Ma no! Stavo
scherzando!», rise, sinceramente divertita. «Ci hai
creduto veramente?».
«Beh, conoscendo tua
madre…».
«Perché, che
ha fatto mia madre?».
Franky scosse il capo,
ridacchiando. «Una volta, da ragazzina, è uscita
di casa col proposito di ficcarsi nei guai, in modo tale che io
corressi a salvarla, solo per vedermi. Ha rischiato molto e, sai, avevo
timore che fosse una cosa genetica».
Evelyn sorrise, anche se colpita
nel profondo. «Qualcosa di genetico deve pur
esserci».
«Come?», chiese
sbigottito.
«Ti sei innamorato sia di
mia mamma che di me; qualcosa di genetico deve pur esserci».
Franky sollevò lo
sguardo e si portò una mano sul mento, meditabondo.
«Può essere… Da piccolo la prima volta
che ho visto la madre di Zoe me ne sono innamorato».
Quella volta fu Evelyn, sconvolta,
ad esclamare con tanto d’occhi: «Dici sul serio?».
L’arcangelo la
guardò per qualche secondo in silenzio, come se non fosse
mai stato più serio in vita sua, però non
resistette a lungo e scoppiò a ridere, contagiando Evelyn e
facendole trarre un sospiro di sollievo: non sapeva come avrebbe
reagito, se Franky fosse stato davvero attratto da sua nonna.
«Visto che siamo in
tema», incominciò l’arcangelo,
«Martin? Nel senso, voi…?».
Non ci fu bisogno che Franky
continuasse, Evelyn aveva capito a cosa si riferiva e rispose, con un
antico dispiacere nella voce: «No, non stiamo più
insieme. E' durata due anni, poi ci siamo lasciati. Abbiamo capito
entrambi che non c’erano speranze per noi, non eravamo fatti
l’uno per l’altra».
«Ho capito»,
mormorò. «E ci sono stati altri, dopo di
lui?».
«Storie brevi, di poco
conto», sventolò la mano, come a scacciare una
mosca fastidiosa – i ricordi delle persone che a volte aveva
usato, nelle quali aveva continuato a cercare qualcosa di Franky, non
trovandolo. «Tu, invece?».
Franky sgranò gli occhi,
indicandosi. Non si aspettava che Evelyn gli rivolgesse la stessa
domanda, forse perché non si aspettava che un giorno avrebbe
dovuto confessarle che anche lui aveva avuto diverse storielle, prive
di significato. A qualche ragazza aveva pure voluto bene, gli era anche
dispiaciuto troncare con loro, ma era stato un dispiacere superficiale,
creato soltanto dalle lacrime che aveva visto sui loro visi. Le ragazze
si innamoravano di lui, lui gli voleva bene, ma non le amava. Non
sarebbe mai stato in grado di amarle.
«Anche io come
te», rispose, schiarendosi la voce.
Forget
everyone else, I've tried to convince myself
That it was only time we lost, but I'm not as strong as I thought
Forget who we've been with, the thought just makes me sick
Forget our year apart, this is where we are
«Da quando ho iniziato a
lavorare a tempo pieno come arcangelo non ho molto tempo per le donne,
le uniche che vedo regolarmente sono Afrodite e Inge, le mie compagne
di lavoro; e poi Kim, ovviamente…».
«Kim», Evelyn
ridacchiò. «Poverina, prima che mi salvasse la
vita da quel demone la odiavo davvero tanto, ero gelosissima».
«Sì, mi
ricordo. Adesso sta con Raphael, un angelo poliziotto, il suo migliore
amico. È una storia un po’ lunga da spiegare, ma
io ero certo che quei due si sarebbero ritrovati, un giorno».
«Lei è
felice?».
«Sì, molto. Ha
finalmente trovato la pace, qualcuno che le permettesse di dimenticarsi
del suo amore terreno».
Evelyn abbassò lo
sguardo, pensando che forse, un giorno, anche Franky avrebbe trovato
qualcuno che gli avrebbe fatto dimenticare lei; nel suo caso, invece,
una persona del genere non esisteva: l’arcangelo sarebbe
sempre stato l’amore della sua vita, quello irraggiungibile;
avrebbe potuto amare qualcun altro, ma mai come aveva amato ed amava
lui.
«Evelyn…».
Sollevò gli occhi ed
incontrò i suoi, bellissimi e traboccanti d’amore.
Franky le prese la mano, se l’avvicinò alla bocca
e ne baciò le nocche, facendola rabbrividire.
«Non devi aver paura,
perché nemmeno io riuscirei ad amare qualcun’altra
come amo te. Capiterà sicuramente, che uno di noi due
troverà una persona che ci vorrà bene per quello
che siamo e noi vorremo bene a quella persona, ma non devi averne
paura: ama, ama e basta».
***
Zoe, accoccolata contro il petto
caldo di Bill, fece una smorfia quando il telefono posato sul suo
comodino incominciò a trillare. Odiava quando qualcuno,
chiunque fosse, rompesse il magico equilibrio dei sensi che si creava
dentro di lei dopo aver fatto l’amore con l’uomo
che amava.
Lo sentì ridacchiare, mentre si girava e si metteva seduta
con la schiena contro la spalliera del letto, il lenzuolo tenuto sul
petto nudo, per rispondere alla chiamata.
«Tom, che cosa
vuoi?», berciò irritata.
«Ciao Zoe, anche io sono
contento di sentirti. Ascolta, è successa una cosa strana
prima, alla partita. A proposito, hanno vinto, Arthur ha anche segnato
un rigore!».
«Bene, sono
contenta».
«Sì infatti,
posso percepire la tua gioia da qui. Comunque, ti dicevo, è
successa una cosa strana. C’era un ragazzo a vedere la
partita e somigliava tremendamente a Franky… Aveva qualche
anno in più, ma aveva i suoi stessi
occhi…».
Zoe, fattasi improvvisamente
più attenta, ripensò a quella mattina, al dialogo
che aveva intrattenuto con una persona che aveva scambiato come la voce
della sua coscienza. «E poi cos’è
successo?», gli chiese.
«Nulla, io sono andato da
lui, l’ho fermato, ma sembrava che non mi conoscesse, anche
se poi ha sparato una di quelle frasi tanto da Franky. Un minuto dopo
non c’era più».
Il cuore ormai le batteva forte nel
petto, alla speranza che forse avrebbe rivisto il suo Franky dopo ben
dodici anni. Voleva ringraziarlo per averla salvata e per quello che
sicuramente aveva fatto durante il suo lungo periodo di coma. Non
ricordava quasi nulla, ma le poche cose che ricordava erano
direttamente legate a lui; a volte non avevano senso, ma era bello
pensare che lui non l’aveva abbandonata un attimo e si era
preso cura di lei per tutto quel tempo, fino a quando non si era
risvegliata.
«Ma scusa,
Zoe…», interruppe i suoi pensieri Tom.
«Dove siete?».
«A casa,
perché?».
«Oggi non doveva mica
arrivare Evelyn? Non dovevate andare a prenderla
all’aeroporto?».
Zoe sgranò gli occhi e
guardò Bill al suo fianco, che a sua volta la
guardò preoccupato. «Evelyn… Ci siamo
dimenticati di Evelyn!».
Bill si tolse di dosso le coperte
in fretta e furia ed incominciò a rivestirsi.
«Menomale che forse non era così
importante!».
***
Tom chiuse la chiamata e scosse il
capo, mentre si grattava la nuca. Non poteva smettere di pensare a
quello strano ragazzo: possibile che fosse davvero Franky?
Decise di andarsi a fumare una
sigaretta per liberarsi un po’ la mente. Si alzò
dal divano, prese il suo giubbino e cercò nelle tasche il
pacchetto di sigarette e l’accendino. Controllò
nelle tasche laterali, dove gettava sempre tutto, ma trovò
soltanto l’accendino.
Spazientito ed arrabbiato,
biascicò: «Se Arthur l’ha fatto di nuovo
giuro che questa volta non la passa liscia», ricordandosi
della volta in cui il figlio gli aveva fregato le sigarette per
fumarsele fuori con gli amici.
Provò a cercare comunque
nelle altre tasche, facendo del suo meglio per mantenere la calma,
quando trovò un pacchetto nella tasca interna. Era
già pronto ad esultare, ma qualcosa lo fermò:
quel pacchetto era nuovo.
Era certo di averne fumato quasi metà, quel pomeriggio alla
partita, e di non averne comprato un altro, quindi… da dove
arrivava?
Nella stessa tasca in cui aveva
trovato il pacchetto misterioso, trovò anche un paio di
fogli piegati in quattro. Li aprì, col cuore già
in tumulto, e sgranò gli occhi di stupore quando vide
scarabocchiato uno spartito, con sopra il titolo: “Sogni
d’oro, Thomas”. Come un flash, gli venne in mente
quando quello strano ragazzo gli aveva dato quella pacca di conforto
proprio sul petto, in corrispondenza a dove c’era la tasca in
questione. Guardò sia gli spartiti che il pacchetto di
sigarette e, soffermandosi su quest’ultimo, si
ricordò anche di quando Franky gli aveva rubato e finito un
intero pacchetto. Che cosa gli aveva detto quella volta? «Mi
devi un pacchetto di sigarette».
Corse nel suo studio, si chiuse
dentro e si mise seduto al pianoforte. Sistemò di fronte a
sé i fogli con gli spartiti e posò le mani
tremanti sulla tastiera. Fece un respiro profondo, poi
iniziò a suonare. Era la stessa melodia che aveva sentito
nei suoi sogni, la stessa che Franky aveva suonato per lui.
Si interruppe prima della metà, chinò il capo e
si portò le mani sul viso senza riuscire a trattenere le
lacrime, pensando che ce l’aveva avuto a tanto
così.
***
«E così Tom
è diventato nonno, eh?», ridacchiò.
Chissà se il suo migliore amico aveva già trovato
ciò che gli aveva lasciato.
«Sì,
è nata una bambina alla fine. Lui avrebbe voluto il
maschietto, lo sapevi, ma appena l’ha vista…
è andato in estasi».
«Immagino».
Franky annuì. «A proposito di padri…
Sai che ho trovato il mio?».
Evelyn lo fissò
intensamente, sorpresa. «Davvero?».
«Già.
È un serafino, a volte ci capita di lavorare insieme. Da
quando io e lui siamo entrati in buoni rapporti, abbiamo fatto
sì che anche gli altri arcangeli ed il resto dei serafini
collaborassero meglio, senza sbranarsi a vicenda. Ovviamente Ares
è un caso perso, gli piace attaccar briga,
però…». Incrociò lo sguardo
perso di Evelyn e rise, coprendosi metà viso con la mano:
«Scusami, non starai capendo nulla».
«No, non importa! Mi fa
piacere che tu mi parli della tua vita».
Tra un po'
sarà anche la tua. Franky
ricambiò il bel sorriso della ragazza e continuò:
«Vedi, io e mio padre non ci eravamo mai incontrati prima che
io diventassi un arcangelo e in realtà nemmeno quella volta
è stata una cosa voluta: ci siamo incrociati per caso e ci
siamo riconosciuti, diciamo. Sinceramente, io all’inizio non
volevo avere nulla a che fare con lui, perché credevo che
avesse lasciato mia madre quando aveva scoperto di essere incinta e che
quindi non avesse mai voluto riconoscermi come suo figlio, ma non era
così. Mi ha spiegato come sono andate in realtà
le cose: poco prima che mia madre scoprisse di avere me, mio padre
aveva scoperto di essere un malato terminale. Non mi ha spiegato nei
dettagli che cosa aveva, ma sapeva che non sarebbe riuscito a vivere
abbastanza a lungo da potermi veder nascere. Per questo ha lasciato mia
madre e perciò anche me, ma non le ha detto nulla della sua
malattia, non voleva che stesse male per lui, anche se alla fine gliene
ha fatto comunque e si è fatto odiare parecchio da
me», sorrise e rimase un minuto in silenzio per riordinare le
idee. Poi riprese: «Mi ha raccontato che una volta morto,
è diventato l’angelo custode di mamma, decidendo
di rimanere a lei invisibile. L’ha aiutata tantissimo durante
la gravidanza, mi ha visto nascere… le ha dato tanto
supporto morale dopo il parto, siccome era sola, e così via,
le è stato vicino proprio come ogni angelo custode. Quando
è morta, è stato un duro colpo anche per lui e
posso capirlo benissimo, ma ha deciso comunque di proseguire la sua
carriera e… indovina di chi è diventato angelo
custode?».
Evelyn lo indicò,
incredula, e Franky annuì portandosi le mani al petto.
«Esatto, è diventato il mio angelo custode. Giuro
che non me ne sono mai accorto, che la sua è stata una
presenza più che silenziosa… io nella vita di Zoe
in confronto a lui sono stato un martello pneumatico!».
«Forse… forse
perché hai deciso di farti vedere»,
ipotizzò lei, con la fronte aggrottata.
«Sì,
sicuramente è così. Ma credo che in certe
occasioni non sarei mai riuscito a starmene in disparte, come invece ha
sempre fatto lui».
«Probabile»,
ridacchiò.
«Riprendendo…
Quando sono morto anche io, ecco, è lì che si
è mostrata la sua vera natura di serafino. E da allora ha
lavorato senza sosta, come se avesse voluto pagare per gli insuccessi
che aveva avuto durante la sua carriera di angelo custode. Se non ci
fossimo incontrati per caso, quella sera, lui stesso mi ha detto che
non mi sarebbe mai venuto a cercare, si sentiva troppo in colpa, sia
per me che per mia madre. Però quando mi ha visto, mi ha
raccontato che si è sentito come sollevato, come se vedere
ciò che ero riuscito a diventare fosse stata la sua
liberazione, e ha trovato il coraggio per riavvicinarsi a me».
«È una storia
molto commovente».
«Spero non ti metterai a
piangere», sorrise beffardo, beccandosi un pugnetto sul
braccio.
«Sei sempre il
solito», rise. «Per fortuna».
L’arcangelo le sorrise e
si passò una mano fra i capelli. «Tu sei cambiata
molto, invece».
«Dici davvero?».
«Non esserne dispiaciuta,
sei cambiata decisamente in meglio. Sei cresciuta, sei una donna forte
adesso».
«Io non oserei
troppo», sorrise imbarazzata, puntando gli occhi sulla sua
mano stretta in quelle di Franky. «Una donna forte
è Susan. Avrai sentito sicuramente di David, no?».
«Sì, il mio
caro zio. È stato meglio così, in quel periodo
non faceva altro che soffrire in silenzio».
«L’hai
incontrato, in Paradiso?». La voce di Evelyn si fece cauta,
come i suoi occhi che avevano sbirciato il viso di Franky prima di
parlare.
Ma lui rispose sereno, come sempre.
«Sì, per un attimo. L’ho abbracciato
forte, come non facevo da tanto tempo, e gli ho detto che andava tutto
bene».
«E adesso sta
bene?».
Franky annuì.
«Sì, molto bene». È
un bellissimo bambino di cinque anni, con due genitori splendidi.
«Non c’eri al
suo funerale…».
«C’ero. Ci sono
sempre stato: dal momento in cui il suo cuore ha smesso di battere al
momento in cui ci siamo separati in Paradiso. Solo che ero in borghese
perché non avrei potuto assentarmi da lavoro. Nemmeno adesso
potrei, diciamo che sono scappato…».
«Credevo che fossi in
vacanza o che so io!», esclamò Evelyn col viso
arrossato, sentendosi in colpa.
L’arcangelo la
tranquillizzò accarezzandole i dorsi delle mani.
«Quando il mondo andrà in vacanza, allora anche
gli arcangeli ci andranno. Fino ad allora,
però…», non concluse la frase
e le fece l’occhiolino.
Fra loro cadde un profondo silenzio
ed Evelyn, soffermandosi a scrutare il suo viso candido e bello come se
lo ricordava, sentì come se un ago le trafiggesse il cuore.
Il suo pensiero era andato al loro bambino che non c’era
più e si rese conto che non ne avevano mai parlato durante
la loro lunga chiacchierata sulle loro vite: era una coincidenza che
avessero evitato entrambi quell’argomento?
La ragazza sollevò gli
occhi, incontrò subito quelli di Franky e si accorse
dell’ombra che li rendeva meno luminosi. Era sicuramente
dovuta al suo ultimo pensiero, perché era certa che se si
fosse guardata allo specchio avrebbe visto la stessa malinconia
aleggiare nei propri.
Sospirò brevemente,
stringendo un po’ più forte la mano di Franky, ed
accennò un sorriso con il quale provò a riportare
il sereno fra loro. Inoltre, sussurrò: «Manca
tantissimo anche a me, il mio piccolo Junior».
«Junior?»,
balbettò l’arcangelo, sgranando un po’
gli occhi.
«Sì»,
mormorò Evelyn, abbassando il capo per celare il rossore
sulle sue guance. «Il nome completo sarebbe Franklin Junior,
ma in tutti questi anni per comodità l’ho sempre
chiamato Junior».
«Gli hai dato un
nome…», disse ancora Franky, con un fil di voce.
«Scusami se
l’ho deciso da sola… Non ti piace,
vero?».
Franky le sollevò le
mani dal tavolo per portasele vicine al viso, con più
precisione alle labbra per accarezzarle con baci lievi. Evelyn fu
costretta ad incontrare di nuovo i sui occhi e questa volta li vide
umidi di lacrime, ma luminosi e felici.
«È un nome
bellissimo», le sussurrò con voce tremante e colma
d’amore. La ragazza si lasciò andare ad una mezza
risata di sollievo e se non fosse stato per la suoneria del suo
cellulare si sarebbe commossa tanto da scoppiare a piangere.
Evelyn rispose portandoselo
all’orecchio senza nemmeno guardare chi fosse.
«Pronto?».
«Tesoro! Perdonaci, ci
siamo proprio dimenticati che saresti arrivata oggi! Ieri me lo
continuavo a ripetere, non vedevo l’ora, ma si vede che la
vecchiaia…».
Franky ridacchiò sotto i
baffi, mentre si alzava ed andava a pagare il caffè di
Evelyn, e lei riuscì ad intendere perfettamente le parole
che le aveva rivolto l’arcangelo qualche tempo prima: «Ho
già pensato io a loro».
«Non fa niente mamma, non
ti preoccupare», rispose, lanciando un’occhiata
eloquente al ragazzo, che continuò a ridersela.
«Dove sei tesoro? Noi
stiamo parcheggiando!».
«Sono… di
fronte al bar. Ci vediamo lì». Chiuse la chiamata
e raggiunse Franky, che l’aspettava col braccio aperto di
fronte all’uscita. Si accoccolò contro di lui
senza pensarci due volte, ma gli rivolse uno sguardo severo,
dicendogli: «Hai fatto dimenticare ai miei genitori di
venirmi a prendere!».
«Non dirmi che non ti ha
fatto piacere che io l’abbia fatto», la
ammonì e le pizzicò il naso, sussurrando
malizioso: «Perché non ti crederei».
Evelyn non poté
ribattere, perché era più che felice che
l’avesse fatto: avevano potuto passare un bel pomeriggio
insieme, dopo così tanto tempo. Il suo cuore ora era come
sazio, alleggerito, libero da qualsiasi peso, anche se già
si preoccupava della loro imminente separazione.
Si girò fra le sue
braccia, dando le spalle alla direzione da cui sarebbero arrivati sua
madre e suo padre, e lo guardò negli occhi intensamente:
«Non andartene».
«Devo, Evelyn».
«Allora…
allora promettimi che verrai presto, prestissimo, a trovarmi di nuovo,
a casa mia», lo guardò supplichevole.
«Sai dove abito, no? Ad Ottawa».
«In Canada? Oh, ora
capisco come mai parli così bene il francese! Come mai ti
sei trasferita proprio lì?», domandò,
non per glissare, ma sinceramente incuriosito.
«Per la neve. Io amo la
neve», rispose senza nemmeno pensarci.
Franky ricordò quella
mattina in cui l’aveva svegliata e le aveva annunciato che
fuori stava nevicando. Sorrise soprappensiero, poi la guardò
negli occhi e le accarezzò i capelli prendendole il volto
fra le mani. «Verrò, te lo prometto».
Evelyn, col cuore che le batteva
forte, si voltò e scorse i visi dei suoi genitori fra la
folla, che si guardavano intorno cercando il bar da lei indicatogli. Si
girò di nuovo verso di lui e farfugliò:
«Il nostro giuramento è ancora valido?».
«Che cosa?»,
balbettò, ma lei non gli diede il tempo per rifletterci
ulteriormente: si sporse verso di lui e lo baciò sulle
labbra.
Franky la guardò
incredulo, ma presto si lasciò andare, chiuse gli occhi e le
avvolse le braccia intorno alla vita, poi la tirò su e se
l’appoggiò addosso per poterla baciare sulla gola.
Evelyn rispose con un rantolo soffocato, intriso di piacere, e non
avrebbe voluto lasciarlo mai, ma l’arcangelo se la fece
scivolare addosso ed ebbe soltanto il tempo di baciarla
un’ultima volta sulla fronte prima di sparire fra la folla.
Evelyn lo perse di vista e si morse il labbro inferiore, sperando con
tutta se stessa che Franky mantenesse la sua promessa.
«Tesoro!»,
sentì strillare sua madre alle sue spalle e si
girò spaventata. La donna le gettò le braccia al
collo e la strinse forte a sé, stordendola ancora di
più. «Mio Dio, tesoro, quanto ci sei
mancata!».
«Anche voi mi siete
mancati tanto», ebbe la forza di rispondere, mentre si
sistemava la giacca del tallieur blu che indossava e che durante
l’abbraccio con Franky si era un po’ gualcita.
«Ma perché non
hai chiamato subito!?», le domandò suo padre,
quando fu il suo turno per i baci e gli abbracci.
«Ho incontrato un mio
amico e mi sono fermata un po’ con lui, il tempo è
volato…».
Zoe notò i suoi occhi
brillare ed arricciò il naso. «Che
amico?».
«Un mio amico,
mamma», ripeté scocciata, pensando che aveva
sbagliato a parlare. Ma nel contempo sorrise, perché la sua
famiglia le era mancata veramente tanto. «Anche lui lavora
volando», aggiunse per soddisfare la curiosità
della madre.
«Uno steward?»,
chiese suo padre.
Evelyn ridacchiò,
annuendo. «Diciamo di sì».
***
Si
torna a casa.
L’aereo
decollò senza problemi, due sue colleghe mostrarono ai
passeggeri le solite procedure da tenere in caso di emergenza, poi
passarono tutte insieme per distribuire da mangiare, da bere ed alcune
riviste.
«Per me un
caffè decaffeinato, per favore».
Evelyn diede la bevanda alla
signora che gliel’aveva chiesta e le sorrise educatamente. La
donna fece per prendere il portafoglio, ma sua figlia, una bambina dai
capelli biondi e un paio di occhiali spessi che le cadevano sul naso,
le prese il braccio e gridò:
«Mamma, mamma! C’è un angelo seduto
sull’ala dell’aereo!».
La madre annuì
comprensiva e guardò l’hostess con sguardo di
scuse, probabilmente pensando che la sua bambina avesse fin troppa
fantasia. Ma Evelyn si abbassò accanto alla bambina e
guardò fuori dall’oblò dal quale si
vedeva l’ala destra dell’aereo.
«Signorina, tu lo
vedi?», le domandò con voce candida.
Evelyn le posò una mano
sui capelli e le sorrise amorevole. «Sì, tesoro,
lo vedo».
La mamma sorrise allo stesso modo,
col cuore sollevato: quell’hostess era davvero carina a stare
al gioco di sua figlia, mentre lei non ne sarebbe mai stata capace,
troppo occupata ad avere una paura tremenda dell’aereo.
Ma in realtà, quello che non sarebbe mai stata capace di
fare sarebbe stato realizzare che Evelyn lo vedeva sul serio,
quell’angelo bello come il sole, che sorrideva ad occhi
chiusi coi capelli e le piume delle ali spettinate dal vento.
Evelyn si sporse verso
l’orecchio della bambina e le sussurrò:
«È bellissimo, non è vero?».
La bimba annuì ed
insieme salutarono quell’angelo, che aprì i suoi
stupendi occhi verdi e ricambiò il saluto, tenendosi ben
saldo all’ala su cui era seduto con l’altra mano.
«Evelyn, niña!».
Raquel era la sua vicina di casa di
origini cilene, simpaticissima e buona come il pane, che da quando la
conosceva non aveva fatto altro che occuparsi di lei come se fosse
stata sua figlia. Aveva persino le chiavi del suo appartamento, casomai
fosse successo qualcosa durante i suoi lunghi periodi di assenza per il
suo lavoro di hostess, ed Evelyn ricambiava tutti i favori occupandosi,
quando poteva, del figlio più piccolo della donna, Caesar,
un bambino dolcissimo e bellissimo che adorava.
Raquel le andò incontro
e l’abbracciò forte di fronte alla porta del suo
appartamento. «Sei tornata, finalmente». La
guardò negli occhi con i propri lucidi e le prese le mani
arrossate e fredde nelle sue. «Caesar mi assilla dal giorno
in cui sei partita, chiedendomi quando tornavi – vuole andare
assolutamente a pattinare con te sul Canale Rideau – e pensa
un po’, adesso che ci sei è da un suo amichetto a
giocare!».
Evelyn rise, col cuore invaso da un
piacevole calore, quasi simile a quello delle mani di Raquel intorno
alle sue congelate. Era quella casa sua, quella la vita che voleva.
«Sono davvero contenta
che tu sia tornata», le disse ancora la donna, materna.
«Anche io. Mi siete
mancati tanto», rispose ricambiando.
«Oh, niña!»,
singhiozzò commossa, ma presto la cacciò via,
spingendola verso la porta del suo appartamento. «Vai via,
prima che tu mi veda piangere!».
La ragazza ridacchiò, ma
fu felice di poter finalmente rientrare in casa. Erano mesi che non vi
entrava ed era sempre bello, tornare e vedere che tutto era rimasto
come l’aveva lasciato, eccetto la posta che aveva ricevuto e
che Raquel le aveva sistemato ordinatamente sul tavolino di fronte al
divano.
Per prima cosa lasciò il
trolley all’ingresso, lo avrebbe sistemato più
tardi. Si tolse i tacchi, lanciandone uno da una parte ed uno
dall’altra, e solo con le calze di nylon camminò
sul pavimento freddo. Si spogliò, disseminando vestiti
ovunque nel corridoio e nel bagno, e si infilò sotto la
doccia calda. I nervi le si rilassarono magicamente, la testa le si
svuotò e sentì tutto il peso della giornata
scivolarle addosso. Quando uscì, fu solo perché
spinta dalla fame. A causa del fuso orario aveva gli orari tutti
sballati, ma era abbastanza abituata ormai.
Andò in cucina e, come
aveva previsto, non trovò quasi nulla: il frigorifero era
vuoto, ovviamente, e quello che c’era nella piccola dispensa
– una scatola di cereali, dei biscotti e un pacco di cracker
– non era proprio quello che desiderava per cena.
Così prese il cordless, digitò il numero del suo
ristorante cinese preferito ed ordinò.
Per ingannare l’attesa si portò due pacchetti di
cracker sul divano ed accese la tv. Ne mangiò a malapena
uno, perché lentamente le palpebre si erano fatte sempre
più pesanti e il sonno aveva minacciato il suo appetito.
Combatté con tutte le sue forze per rimanere sveglia, ma
alla fine crollò esausta con la testa sul bracciolo e le
gambe piegate.
Una lieve pressione
sull’angolo della bocca la fece svegliare di soprassalto. Si
guardò intorno, col cuore che le martellava nel petto, e si
accorse della coperta che l’avvolgeva. Non si ricordava di
essersela portata…
Non poté soffermarsi a
pensarci ulteriormente, perché sentì delle voci
sul pianerottolo, tra cui riconobbe quella di Raquel, e il rumore delle
chiavi che giravano nella toppa del suo appartamento.
«Mi dispiace molto, il
campanello è rotto da tantissimo tempo ormai. E, sa,
è appena tornata da un lungo viaggio, fa la hostess,
probabilmente starà dormendo…». Raquel
alzò lo sguardo e la vide sveglia, ma intontita, stesa sul
divano che spegneva la televisione. Sorrise solare, rivolgendosi al
ragazzo dai tratti asiatici dietro di lei: «Che le
dicevo?». Poi aggiunse, parlando ad Evelyn: «Niña,
è arrivata la tua cena!».
«Grazie»,
gracchiò. «E scusate, è
che…».
«Oh, non
c’è nulla di cui tu ti debba scusare!»,
la rassicurò Raquel.
Evelyn fece per alzarsi per andare
a prendere il portafoglio, ma la donna la fece ricadere stesa sui
cuscini e la ragazza sbuffò col sorriso sulle labbra,
borbottando: «Nella borsa…».
Raquel prese il suo portafoglio
nella borsa, pagò il ragazzo del take-away, poi rimise tutto
al suo posto e posò il sacchetto con ciò che
aveva ordinato sul tavolino di fronte a lei. «Ecco
fatto».
«Grazie mille, niñera»,
ridacchiò all’espressione un po’
indispettita dell’amica all’udire quel soprannome
che le aveva affibbiato quando ancora il soprannome “niña”
(“ragazzina”) non le piaceva; per ripagarla con la
stessa moneta, allora, era andata a cercare su internet come si dicesse
“baby-sitter”, visto che con lei
si comportava proprio come tale. Avevano
avuto diversi battibecchi a proposito di quei soprannomi, ma col
passare del tempo Evelyn aveva iniziato ad affezionarsi al suo, mentre
invece Raquel continuava ad odiarlo. La bionda lo usava ancora solo
quando voleva sottolineare le sue premure eccessive, una specie di
presa in giro affettuosa.
«Davvero, non
dovevi», aggiunse e si mise seduta sul divano, sistemandosi
meglio la coperta sulle gambe. La accarezzò e soprappensiero
si passò anche due dita sull’angolo su cui aveva
sentito quel bacio appena accennato.
«Raquel…», mormorò.
«Me l’hai messa tu questa coperta?».
La donna la guardò senza
capire dove volesse arrivare e rispose: «No, sono stata di
là con Caesar fino a quando il ragazzo del ristorante cinese
non ha suonato da me per chiedermi che fine avessi fatto. Ma
perché me lo chiedi, scusa? Non te la sei messa tu, quando
guardavi la tv?».
Evelyn ne strinse il bordo fra le
mani ed annuì. «Sì, è
probabile».
Raquel fece un passo indietro,
preoccupata dal suo sguardo spiritato che però
confutò alla stanchezza, e disse: «Adesso devo
proprio andare, ho lasciato Caesar di là da
solo…».
«Certo, non ti
preoccupare, vai pure. Grazie mille», rispose la solita
Evelyn di sempre, con un sorriso leggero sulle labbra. «Ah!
Di' a Caesar che questo week-end sono libera, se vuole andare a
pattinare».
«Glielo dirò
sicuramente. Buona serata, niña.
Riposati, mi raccomando».
«Ai suoi
ordini», fece il saluto militare e ridacchiò.
Raquel la rimproverò con
lo sguardo, tradendosi però con un sorriso, poi la
lasciò sola. Evelyn prese la confezione degli spaghetti di
soia e le bacchette ed andò alla finestra del salotto, si
appoggiò con una spalla al muro e mentre mangiava
osservò la collina del Parlamento canadese illuminata e il
cielo scuro punteggiato da piccolissime stelle.
All’improvviso vide una stella cadente e chiuse gli occhi per
esprimere il suo desiderio.
Tornò seduta sul divano
e riaccese la tv, finì di mangiare e solo quando si
rialzò per gettare tutta la spazzatura nel cestino si
accorse di un fogliettino che probabilmente doveva essere caduto quando
Raquel aveva messo il sacchetto sul tavolino. Si inginocchiò
a raccoglierlo e lo lesse senza rialzarsi in piedi:
Dormivi così bene, non potevo
svegliarti.
Un giorno voglio venire anche io a pattinare sul canale ghiacciato,
posso? =)
Non si era firmato, ma Evelyn
conosceva bene quella scrittura e solo una persona sarebbe stata in
grado di entrare in casa sua senza chiavi e senza svegliarla. Quella
persona l’aveva anche baciata.
Tornò alla finestra,
appoggiò una mano sul vetro freddo e dall’altra
parte una mano si sovrappose alla sua. Sollevò lo sguardo ed
incontrò quello di Franky, che si avvicinò al
vetro e, chiudendo gli occhi, posò le labbra su di esso.
Evelyn fece lo stesso, rimase in quella posizione per qualche secondo,
poi sollevò le palpebre e l’arcangelo non
c’era più.
Ma l’avrebbe
rivisto, ne era certa. Avrebbero pattinato insieme sul canale
ghiacciato.
The End
____________________________________
Ho scritto "The End", ma dopo aver
scritto questo terzo e del tutto inaspettato sequel ho capito che
è veramente difficile stabilire quando qualcosa, soprattutto
una storia alla quale ci si affeziona in questo modo, deve finire.
Quindi è solo una formalità, anche se non credo
che... ah, meglio che sto zitta :)
Spero che questo epilogo vi sia
piaciuto, credo che sia uno dei più bei finali che io abbia
mai scritto (apriti cielo, ho detto che un mio finale è
bello!).
Ringrazio davvero di cuore tutti quelli
che mi hanno sostenuta, che hanno reso grande questa FF, che si sono
affezionati, emozionati e che hanno sempre dato prova della loro
vicinanza. In questo caso ringrazio ovviamente chi ha recensito
capitolo per capitolo, chi più chi meno, e le persone
fisiche che non c'è bisogno nemmeno di nominare,
perchè lo sanno. Come dire, questa storia è
dedicata a loro <3
Di particolare importanza sono le
canzoni usate in questo capitolo: Faith in fate, dei The Coronas e Change
my name, dei Trading Yesterday.
Non so proprio come avrei fatto senza la mia colonna sonora, come al
solito la musica mi ha salvato la vita ;)
Spero di rivedervi tutti presto
e... che dire. Boh, non ho più parole. Le migliori che avevo
ho cercato di metterle tutte in questa storia, ci ho messo proprio
l'anima... sì, è proprio come se in ogni capitolo
ci fosse un pezzetto della mia anima. Abbiatene cura.
_Pulse_
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