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Autore: _Pulse_    12/10/2011    4 recensioni
Il ragazzo seduto sul ramo si voltò e lei ebbe la sua conferma: era lui.
Franky si alzò in piedi e saltò di ramo in ramo senza alcuna paura, fino ad arrivare a quello più vicino alla finestra. Si acquattò ad un palmo dal suo viso e in quel modo riuscirono a guardarsi negli occhi senza alcuna difficoltà.
[...] «Io l’avevo detto che avresti avuto i suoi occhi», sussurrò soddisfatto.
{Sequel di Nothing to lose e Everything to gain}
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lose and Gain'
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23. Epilogo - All this time, we were waiting for each other

Put the past away, save it for a sunny day
Right now there's nothing I can do, except stare right back at you
Put the future aside, I'll try my best to make it right
Right now it just seems so obscene to picture you without me

La folla si alzò in piedi protestando l’atterraggio di un giocatore della squadra ospitante da parte di un avversario. Tra i tifosi spiccava una figura che faceva di tutto pur di farsi sentire dall’arbitro e far valere la propria opinione.

«È rigore! Arbitro, non scherziamo, è rigore netto!».

La donna al suo fianco guardava preoccupata il ragazzo ancora steso a terra che si stringeva il ginocchio al petto. Lentamente il suo sguardo si posò sul ragazzo biondo con la fascia di capitano stretta intorno al braccio, compagno di squadra di quello steso nell’area di rigore.

«E se capitava ad Arthur?», domandò con un nodo in gola.

«Oh, Linda! Smettila di preoccuparti per così poco! Guarda, guarda, finalmente quell’idiota gli ha dato il rigore!».

L’arbitro lo sentì e gli rivolse uno sguardo fulminante, facendogli segno che al prossimo richiamo lo avrebbe cacciato al bar dell’impianto sportivo. Tom sbuffò sonoramente, roteando gli occhi al cielo, ed affondò le mani nelle tasche.

In campo, intanto, sotto la pioggerella sottile che aveva accompagnato parte del primo tempo e continuava tutt’ora nel secondo, erano intervenuti dei paramedici che stavano portando via in barella il giocatore a cui era stato fatto il fallo. Arthur fece un pezzo di strada con loro, parlando col suo migliore amico: «Vedrai che non è nulla di grave, una settimana al massimo e torni a giocare».

«Non lo so, amico, questa volta mi sa che me ne starò fermo per un bel po’…», disse con una maschera di dolore dipinta in viso. «Quello ci è andato giù proprio pesante».

«Adesso ci penso io a lui», gli promise, dandogli un pugnetto sulla spalla e sorridendo.

L’amico ricambiò: «Segna per me, capitano».

«Ci puoi contare».

Guardò i paramedici trasportare il suo centravanti migliore sull’ambulanza e tornò in campo passando accanto alle tribune, su cui riconobbe i suoi genitori. Sua madre, con entrambe le mani posate sul petto, gli chiese urlando: «Si è fatto tanto male?». Arthur ridacchiò e la rassicurò scuotendo il capo e sventolando una mano.

Vide anche un ragazzo dagli occhi verdi, appoggiato con le braccia alle transenne che circoscrivevano il campo. Il suo sorriso era una curva appena accennata sulle labbra, ma era qualcosa di spettacolare. Arthur si bloccò sul posto e lo guardò incantato, mentre qualcosa gli pungolava il cuore.

Appena si accorse che suo padre stava cercando di capire chi fissasse, si affettò a tornare dai suoi compagni che lo aspettavano nei pressi dell’area avversaria. Gli porsero il pallone e gli sorrisero incoraggianti, negli occhi la luce che solo i compagni di squadra possono avere per il proprio amato capitano. Si fidavano di lui, credevano in lui, non poteva sbagliare. Non poteva farlo anche per il suo migliore amico e per Reja, la bambina che l’aveva spronato a giocare a calcio per la prima volta, quando aveva appena quattro anni, e che aveva continuato ad incoraggiarlo fino a quando non l’aveva lasciato, all’età di nove anni. Dentro di lui, però, aveva continuato a vivere e aveva dedicato a lei ogni suo goal.

Posizionò il pallone sull’erba e si portò le mani sui fianchi guardando di fronte a sé il rettangolo della porta e il portiere della squadra avversaria che avrebbe fatto del suo meglio per non farlo segnare.

Socchiuse gli occhi e respirò profondamente per trovare la concentrazione necessaria per riuscire nel suo intento. Fu allora che sentì la voce che più e più volte lo aveva guidato a fare le scelte migliori sussurrargli nel vento: «Incrocio dei pali alla sinistra del portiere».

L’arbitro fischiò. Arthur sorrise, aprì gli occhi e dopo una breve rincorsa calciò una bomba di sinistro che andò a finire proprio a quell’incrocio dei pali. Il portiere si era gettato dalla parte opposta e quando Arthur fu sommerso dai suoi compagni di squadra urlanti ed esaltati, rimase lì sdraiato a guardarli festeggiare, frustrato.

Anche la folla sulle tribune, che aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, quando realizzò che la loro squadra si era appena portata in vantaggio scoppiò in un boato pieno di gioia.
Tom iniziò a saltare, gridando contro il cielo azzurro che si intravedeva dietro un banco di nuvole bianche che iniziavano a diradarsi per far spazio ai raggi del sole e ad un arcobaleno, e dopo qualche secondò trascinò nei suoi festeggiamenti anche Linda, che baciò impetuosamente.

Arthur, steso sull’erba sotto i suoi compagni che lo abbracciavano e gli gridavano nelle orecchie che era il “miglior capitano del mondo”, guardava quello spicchio di cielo terso rischiarato dalla luce del sole che riusciva a vedere oltre le teste dei suoi amici e sorrideva felice e allo stesso tempo commosso.
Si sollevò, ricordandosi del ragazzo dagli occhi verdi che l’aveva colpito nel profondo, ma non c’era più. In compenso, vide suo padre saltare giù dalle tribune e dirigersi verso l’uscita del campo sportivo.

Tom aveva notato lo sguardo che suo figlio aveva rivolto a quel ragazzo e non ne era rimasto indifferente, a dirla tutta, ma si era subito concentrato sul rigore. Dopo, quando aveva finito di esultare, aveva subito riportato gli occhi su quello sconosciuto, non trovandolo più. Allora era sceso dalle tribune e l’aveva visto uscire dal centro sportivo.

Dopo una breve ricorsa – che però gli procurò ugualmente un po’ di fiatone – lo raggiunse e lo costrinse a fermarsi prendendogli il braccio. Il ragazzo si girò e lo guardò negli occhi senza tirarsi indietro; si lasciò andare persino ad un sorriso, quando gli domandò: «Ci conosciamo?».

Tom, talmente sbigottito dalla somiglianza spaventosa che quel giovane uomo aveva con Franky, aveva persino creduto che fosse lui. Persino la voce era simile, solo un po’ più profonda. Eppure… Non riusciva a capire. Un velo di delusione gli ombreggiò gli occhi e lasciò andare il ragazzo, abbassando il capo e scusandosi. «Mi… mi ricordavi una persona che conosco».

«E non la vede da molto?».

«Sì, sono passati già dodici anni dall’ultima volta».

Il ragazzo sospirò e gli diede una pacca di conforto sul petto. «Persone che stanno via così a lungo alla fine sono sempre quelle più vicine, nel cuore e nella mente».

Tom, colpito da quelle parole così... da Franky, alzò lo sguardo, ma del ragazzo non vi era più traccia.

 

***

 

Zoe si portò davanti alle vetrate del salotto che davano sul giardino, sui suoi fiori appena sbocciati, e soffiò sul contenuto caldo della sua tazza.

«Dodici anni», mormorò. «Mi sono svegliata dal coma da dodici anni e Franky non si è mai fatto vivo una volta. È pazzesco».

«Già».

«A volte mi chiedo se non gli sia successo qualcosa».

«Appena ho visto che stavi bene, me ne sono andato. Non c’era motivo per cui restassi ancora».

«Esatto! Direbbe proprio così, il mio Franky…», sospirò sorridente e all’improvviso si sentì stringere da dietro, dolcemente, in un abbraccio carico di affetto.

«Io sono sempre con te».

«Lo so, lo so… Solo che a volte mi manca così tanto…».

Le soffiò un bacio sulla tempia e rise piano. All’udire quella risata, Zoe sgranò gli occhi e si voltò, ma non vide nessuno in salotto.

Bill uscì dalla cucina e, vedendola così scossa, si avvicinò. «Tutto bene, amore? Ti ho sentita… con chi parlavi?».

La donna si voltò di nuovo verso le vetrate ed alzò lo sguardo verso il cielo che si stava riaprendo dopo la pioggia. «Parlavo tra me e me».

 

***

 

I haven't seen the sun in seven days
I can't remember when I saw your face
But I still believe that you led me through the wilderness
And you have not forgotten me through all of this

Scese dall’aereo dopo tutti i passeggeri ed insieme alla sua amica camminò lungo i corridoi ormai deserti che portavano ai gate e quindi anche all’uscita. Il suono dei loro passi, intensificato dai tacchi che portavano, era l’unico udibile in quella che non era ancora la zona più confusionaria e popolata dell’aeroporto.

L’hostess con cui si era trovata a fare più e più viaggi e con la quale ormai aveva legato particolarmente, disse, nel suo francese perfetto: «Che programmi hai qui ad Amburgo?».

«Starò dai miei genitori, è da tanto che non li vedo».

«Oh, è vero che tu sei di qui! Magari quando hai un momento libero potremmo vederci, ti va?».

«Sì, perché no?», sorrise.

«Mi piacerebbe tanto vedere quel nuovo film… quello degli angeli e dei demoni!».

Evelyn arricciò il naso. «Ah… sì, l’ho sentito nominare».

«Non ti piace il genere?», chiese indispettita l’amica, notando il cambiamento della sua espressione.

«Non molto, sono un sacco di cavolate».

Arrivarono al check-out e mostrarono i loro passaporti, poi trascinarono i loro trolley nella grande sala, affollata da uomini d’affari e da turisti appena sbarcati oppure che aspettavano di partire.

«Pensavo che credessi negli angeli», esclamò la sua amica.

«Ci credo, infatti. Penso soltanto che nei libri e nei film, soprattutto, non vengano rappresentati bene».

«Uhm, sarà!», sollevò le spalle, con un sorriso solare sul viso. «Comunque fammi sapere, okay?».

«Certo! Ciao!». La guardò allontanarsi e non molto tempo dopo fu inghiottita dalla folla.

Come tutte le volte che si ritrovava da sola con i suoi pensieri, il cuore le si strinse in una debole morsa che però lei notava benissimo: lo sentiva teso, schiacciato, separato da ciò che lo avrebbe reso completo.
Evitò di trastullarsi ancora in quei sentimenti e si gettò un’occhiata intorno per scorgere i volti del suo papà e della sua mamma. Da quando aveva iniziato a fare l’hostess li vedeva sempre meno, complice il fatto che aveva deciso di comprarsi un appartamento nella sua amata Ottawa. Se n’era innamorata durante uno dei suoi continui viaggi: a causa della neve erano stati cancellati tutti i voli ed aveva trascorso lì tre giorni, che le erano bastati per capire che quello era il suo posto.

Non li vide, forse non erano ancora arrivati, ma in compenso incrociò lo sguardo di un ragazzo che le fece dimenticare dove fosse, perché e persino come si chiamasse. Quegli occhi, quel sorriso…
Non doveva avere più della sua età, aveva i capelli neri spettinati sulla testa ed un accenno di barba sulle guance; era molto affascinante e il sorriso tenero che le rivolgeva, con quello sguardo intenso, le fece subito capire che, impossibile o meno, lui era il suo Franky, l’angelo che amava perdutamente e che non vedeva da ben dodici anni.

Come quella volta nel campo di girasoli, poco prima del loro addio, si avvicinarono l’uno all’altra senza nemmeno rendersene conto, ma in perfetta sincronia, fino a quando non si trovarono a pochi millimetri di distanza. Evelyn sollevò incerta le mani, trovandole tremanti come le sue labbra e i suoi occhi che a stento trattenevano le lacrime, e gliele posò sulle guance. Lo sentì consistente, fatto di carne ed ossa sotto le sue dita, e chiuse gli occhi, gettandosi fra le sue braccia e lasciandosi stringere forte da lui.

Sognava quel momento da anni, si era preparata tutto un discorso da fargli, ma ora le uniche cose importanti erano il suo cuore che batteva contro il proprio, il suo respiro fra i capelli, il suo profumo, le sue braccia che la tenevano stretta al suo petto. Era tutto così bello che era impossibile che fosse vero, aveva paura di riaprire gli occhi e di vedere la gente intorno a sé che la guardava abbracciare il vuoto come si guarda una pazza. Aveva paura di non vedere più Franky e di non sentire più il suo corpo contro di lei. Per questo ogni secondo che passava lo stringeva più forte, sempre di più.

«Evelyn, sono qui», le sussurrò all’orecchio con la sua voce cresciuta, maturata, ma pur sempre bellissima.

«Ti ho aspettato per così tanto tempo…».

«Ed ora sono qui».

 

Because the pain defining me, is holding me lifeless
So I am waiting patiently for you to change my name

 

Ci volle ancora un po’ prima che lei se ne convincesse del tutto e riuscisse a guardarlo un’altra volta in viso.

«Ogni volta che ti vedo sei sempre più bella», mormorò accarezzandole i capelli con entrambe le mani, posandole poi sui lati della sua mandibola. «E i tuoi occhi continuano a prendere sempre di più il colore del cielo».

«Chissà, a furia di guardarlo…», rispose, abbassandoli come se se ne vergognasse.

Franky scosse docilmente il capo e con un sorriso impacciato le chiese: «Ti va ti andare a bere qualcosa?».

La ragazza allora ridacchiò e rispose affettuosamente, cacciando il dispiacere solo nei suoi occhi: «I miei genitori dovrebbero arrivare da un momento all’altro…».

«Ho già pensato io a loro».

Evelyn lo guardò aggrottando le sopracciglia e lui ammiccò, prendendola per un fianco ed invitandola a camminare stretta a lui.

 

***

 

Guardò Zoe, seduta al suo fianco, e le avvolse le spalle con un braccio. Le massaggiò una spalla e posò la guancia alla sua testa.

Anche lei ricambiò lo sguardo e disse: «Qualcosa non va?».

«Ho come la sensazione che ci siamo dimenticati qualcosa».

La donna ci rifletté su, poi sorrise e gli prese il viso fra le mani per baciarlo sulla bocca. «Forse non era così importante».

Bill sorrise ed annuì, contraccambiando al bacio con una mano sul suo collo candido.

 

***

 

Quando la sua protetta si era finalmente risvegliata dal coma Franky aveva sofferto, o meglio, la sua anima aveva sofferto la lontananza di tutti quei pezzi. Mentre lo spirito di Zoe era in Paradiso ne aveva risentito di meno, ma quando era tornato sulla Terra… si era sentito male, tanto da costringere i suoi amici e colleghi di lavoro a scendere di sotto e a recuperare il pezzo fondamentale della sua anima, quello che aveva donato inconsciamente ad Evelyn quando avevano fatto l’amore.

Erano riusciti a reimpiantare quel pezzo di anima nel suo corpo e da allora aveva smesso di soffrire in tutti i sensi, perché in quel modo era anche riuscito ad allontanarsi ancora di più dalla ragazza che amava e che fino ad un momento ben preciso non avrebbe potuto mai avere.

«Quindi adesso sei un arcangelo», riprese lei, ancora un po’ sorpresa. «Wow, è… fantastico, Franky. Certo, non so con precisione quanto, ma… sei felice?».

«Abbastanza», sorrise annuendo. «Comunque anche tu hai trovato il lavoro perfetto per te».

«È per la divisa, vero?», roteò gli occhi al cielo. «Non pensavo che anche tu potessi dire una cosa del genere, è così frivola!».

L’arcangelo rise, stringendole una mano sul tavolo, di fianco alla tazza di caffè di Evelyn. «Non parlavo della divisa, anche se ammetto che fa un certo effetto su di te», sollevò ancora le sopracciglia, in quel modo ammiccante e un po’ provocatorio, ma poi tornò serio: «Parlavo del fatto che hai scelto di volare».

«Un modo come un altro per sentirti più vicino», abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata, ed accarezzò col pollice il dorso della mano di Franky. Dopo un po’, notando il suo sguardo tenero ancora fisso su di lei, sorrise maliziosa: «E poi pensavo che magari avevo più opportunità di fare un incidente, lavorando sempre sugli aerei, e che tu saresti venuto a salvarmi».

«Dici sul serio?».

Evelyn sollevò lo sguardo, colpita dall’improvvisa serietà nella sua voce, e si accorse della preoccupazione e dello scetticismo che aleggiavano nei suoi occhi. «Ma no! Stavo scherzando!», rise, sinceramente divertita. «Ci hai creduto veramente?».

«Beh, conoscendo tua madre…».

«Perché, che ha fatto mia madre?».

Franky scosse il capo, ridacchiando. «Una volta, da ragazzina, è uscita di casa col proposito di ficcarsi nei guai, in modo tale che io corressi a salvarla, solo per vedermi. Ha rischiato molto e, sai, avevo timore che fosse una cosa genetica».

Evelyn sorrise, anche se colpita nel profondo. «Qualcosa di genetico deve pur esserci».

«Come?», chiese sbigottito.

«Ti sei innamorato sia di mia mamma che di me; qualcosa di genetico deve pur esserci».

Franky sollevò lo sguardo e si portò una mano sul mento, meditabondo. «Può essere… Da piccolo la prima volta che ho visto la madre di Zoe me ne sono innamorato».

Quella volta fu Evelyn, sconvolta, ad esclamare con tanto d’occhi: «Dici sul serio?».

L’arcangelo la guardò per qualche secondo in silenzio, come se non fosse mai stato più serio in vita sua, però non resistette a lungo e scoppiò a ridere, contagiando Evelyn e facendole trarre un sospiro di sollievo: non sapeva come avrebbe reagito, se Franky fosse stato davvero attratto da sua nonna.

«Visto che siamo in tema», incominciò l’arcangelo, «Martin? Nel senso, voi…?».

Non ci fu bisogno che Franky continuasse, Evelyn aveva capito a cosa si riferiva e rispose, con un antico dispiacere nella voce: «No, non stiamo più insieme. E' durata due anni, poi ci siamo lasciati. Abbiamo capito entrambi che non c’erano speranze per noi, non eravamo fatti l’uno per l’altra».

«Ho capito», mormorò. «E ci sono stati altri, dopo di lui?».

«Storie brevi, di poco conto», sventolò la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa – i ricordi delle persone che a volte aveva usato, nelle quali aveva continuato a cercare qualcosa di Franky, non trovandolo. «Tu, invece?».

Franky sgranò gli occhi, indicandosi. Non si aspettava che Evelyn gli rivolgesse la stessa domanda, forse perché non si aspettava che un giorno avrebbe dovuto confessarle che anche lui aveva avuto diverse storielle, prive di significato. A qualche ragazza aveva pure voluto bene, gli era anche dispiaciuto troncare con loro, ma era stato un dispiacere superficiale, creato soltanto dalle lacrime che aveva visto sui loro visi. Le ragazze si innamoravano di lui, lui gli voleva bene, ma non le amava. Non sarebbe mai stato in grado di amarle.

«Anche io come te», rispose, schiarendosi la voce.

Forget everyone else, I've tried to convince myself
That it was only time we lost, but I'm not as strong as I thought
Forget who we've been with, the thought just makes me sick
Forget our year apart, this is where we are

«Da quando ho iniziato a lavorare a tempo pieno come arcangelo non ho molto tempo per le donne, le uniche che vedo regolarmente sono Afrodite e Inge, le mie compagne di lavoro; e poi Kim, ovviamente…».

«Kim», Evelyn ridacchiò. «Poverina, prima che mi salvasse la vita da quel demone la odiavo davvero tanto, ero gelosissima».

«Sì, mi ricordo. Adesso sta con Raphael, un angelo poliziotto, il suo migliore amico. È una storia un po’ lunga da spiegare, ma io ero certo che quei due si sarebbero ritrovati, un giorno».

«Lei è felice?».

«Sì, molto. Ha finalmente trovato la pace, qualcuno che le permettesse di dimenticarsi del suo amore terreno».

Evelyn abbassò lo sguardo, pensando che forse, un giorno, anche Franky avrebbe trovato qualcuno che gli avrebbe fatto dimenticare lei; nel suo caso, invece, una persona del genere non esisteva: l’arcangelo sarebbe sempre stato l’amore della sua vita, quello irraggiungibile; avrebbe potuto amare qualcun altro, ma mai come aveva amato ed amava lui.

«Evelyn…».

Sollevò gli occhi ed incontrò i suoi, bellissimi e traboccanti d’amore. Franky le prese la mano, se l’avvicinò alla bocca e ne baciò le nocche, facendola rabbrividire.

«Non devi aver paura, perché nemmeno io riuscirei ad amare qualcun’altra come amo te. Capiterà sicuramente, che uno di noi due troverà una persona che ci vorrà bene per quello che siamo e noi vorremo bene a quella persona, ma non devi averne paura: ama, ama e basta».

 

***

 

Zoe, accoccolata contro il petto caldo di Bill, fece una smorfia quando il telefono posato sul suo comodino incominciò a trillare. Odiava quando qualcuno, chiunque fosse, rompesse il magico equilibrio dei sensi che si creava dentro di lei dopo aver fatto l’amore con l’uomo che amava.
Lo sentì ridacchiare, mentre si girava e si metteva seduta con la schiena contro la spalliera del letto, il lenzuolo tenuto sul petto nudo, per rispondere alla chiamata.

«Tom, che cosa vuoi?», berciò irritata.

«Ciao Zoe, anche io sono contento di sentirti. Ascolta, è successa una cosa strana prima, alla partita. A proposito, hanno vinto, Arthur ha anche segnato un rigore!».

«Bene, sono contenta».

«Sì infatti, posso percepire la tua gioia da qui. Comunque, ti dicevo, è successa una cosa strana. C’era un ragazzo a vedere la partita e somigliava tremendamente a Franky… Aveva qualche anno in più, ma aveva i suoi stessi occhi…».

Zoe, fattasi improvvisamente più attenta, ripensò a quella mattina, al dialogo che aveva intrattenuto con una persona che aveva scambiato come la voce della sua coscienza. «E poi cos’è successo?», gli chiese.

«Nulla, io sono andato da lui, l’ho fermato, ma sembrava che non mi conoscesse, anche se poi ha sparato una di quelle frasi tanto da Franky. Un minuto dopo non c’era più».

Il cuore ormai le batteva forte nel petto, alla speranza che forse avrebbe rivisto il suo Franky dopo ben dodici anni. Voleva ringraziarlo per averla salvata e per quello che sicuramente aveva fatto durante il suo lungo periodo di coma. Non ricordava quasi nulla, ma le poche cose che ricordava erano direttamente legate a lui; a volte non avevano senso, ma era bello pensare che lui non l’aveva abbandonata un attimo e si era preso cura di lei per tutto quel tempo, fino a quando non si era risvegliata.

«Ma scusa, Zoe…», interruppe i suoi pensieri Tom. «Dove siete?».

«A casa, perché?».

«Oggi non doveva mica arrivare Evelyn? Non dovevate andare a prenderla all’aeroporto?».

Zoe sgranò gli occhi e guardò Bill al suo fianco, che a sua volta la guardò preoccupato. «Evelyn… Ci siamo dimenticati di Evelyn!».

Bill si tolse di dosso le coperte in fretta e furia ed incominciò a rivestirsi. «Menomale che forse non era così importante!».

 

***

 

Tom chiuse la chiamata e scosse il capo, mentre si grattava la nuca. Non poteva smettere di pensare a quello strano ragazzo: possibile che fosse davvero Franky?

Decise di andarsi a fumare una sigaretta per liberarsi un po’ la mente. Si alzò dal divano, prese il suo giubbino e cercò nelle tasche il pacchetto di sigarette e l’accendino. Controllò nelle tasche laterali, dove gettava sempre tutto, ma trovò soltanto l’accendino.

Spazientito ed arrabbiato, biascicò: «Se Arthur l’ha fatto di nuovo giuro che questa volta non la passa liscia», ricordandosi della volta in cui il figlio gli aveva fregato le sigarette per fumarsele fuori con gli amici.

Provò a cercare comunque nelle altre tasche, facendo del suo meglio per mantenere la calma, quando trovò un pacchetto nella tasca interna. Era già pronto ad esultare, ma qualcosa lo fermò: quel pacchetto era nuovo. Era certo di averne fumato quasi metà, quel pomeriggio alla partita, e di non averne comprato un altro, quindi… da dove arrivava?

Nella stessa tasca in cui aveva trovato il pacchetto misterioso, trovò anche un paio di fogli piegati in quattro. Li aprì, col cuore già in tumulto, e sgranò gli occhi di stupore quando vide scarabocchiato uno spartito, con sopra il titolo: “Sogni d’oro, Thomas”. Come un flash, gli venne in mente quando quello strano ragazzo gli aveva dato quella pacca di conforto proprio sul petto, in corrispondenza a dove c’era la tasca in questione. Guardò sia gli spartiti che il pacchetto di sigarette e, soffermandosi su quest’ultimo, si ricordò anche di quando Franky gli aveva rubato e finito un intero pacchetto. Che cosa gli aveva detto quella volta? «Mi devi un pacchetto di sigarette».

Corse nel suo studio, si chiuse dentro e si mise seduto al pianoforte. Sistemò di fronte a sé i fogli con gli spartiti e posò le mani tremanti sulla tastiera. Fece un respiro profondo, poi iniziò a suonare. Era la stessa melodia che aveva sentito nei suoi sogni, la stessa che Franky aveva suonato per lui.
Si interruppe prima della metà, chinò il capo e si portò le mani sul viso senza riuscire a trattenere le lacrime, pensando che ce l’aveva avuto a tanto così.

 

***

 

«E così Tom è diventato nonno, eh?», ridacchiò. Chissà se il suo migliore amico aveva già trovato ciò che gli aveva lasciato.

«Sì, è nata una bambina alla fine. Lui avrebbe voluto il maschietto, lo sapevi, ma appena l’ha vista… è andato in estasi».

«Immagino». Franky annuì. «A proposito di padri… Sai che ho trovato il mio?».

Evelyn lo fissò intensamente, sorpresa. «Davvero?».

«Già. È un serafino, a volte ci capita di lavorare insieme. Da quando io e lui siamo entrati in buoni rapporti, abbiamo fatto sì che anche gli altri arcangeli ed il resto dei serafini collaborassero meglio, senza sbranarsi a vicenda. Ovviamente Ares è un caso perso, gli piace attaccar briga, però…». Incrociò lo sguardo perso di Evelyn e rise, coprendosi metà viso con la mano: «Scusami, non starai capendo nulla».

«No, non importa! Mi fa piacere che tu mi parli della tua vita».

Tra un po' sarà anche la tua. Franky ricambiò il bel sorriso della ragazza e continuò: «Vedi, io e mio padre non ci eravamo mai incontrati prima che io diventassi un arcangelo e in realtà nemmeno quella volta è stata una cosa voluta: ci siamo incrociati per caso e ci siamo riconosciuti, diciamo. Sinceramente, io all’inizio non volevo avere nulla a che fare con lui, perché credevo che avesse lasciato mia madre quando aveva scoperto di essere incinta e che quindi non avesse mai voluto riconoscermi come suo figlio, ma non era così. Mi ha spiegato come sono andate in realtà le cose: poco prima che mia madre scoprisse di avere me, mio padre aveva scoperto di essere un malato terminale. Non mi ha spiegato nei dettagli che cosa aveva, ma sapeva che non sarebbe riuscito a vivere abbastanza a lungo da potermi veder nascere. Per questo ha lasciato mia madre e perciò anche me, ma non le ha detto nulla della sua malattia, non voleva che stesse male per lui, anche se alla fine gliene ha fatto comunque e si è fatto odiare parecchio da me», sorrise e rimase un minuto in silenzio per riordinare le idee. Poi riprese: «Mi ha raccontato che una volta morto, è diventato l’angelo custode di mamma, decidendo di rimanere a lei invisibile. L’ha aiutata tantissimo durante la gravidanza, mi ha visto nascere… le ha dato tanto supporto morale dopo il parto, siccome era sola, e così via, le è stato vicino proprio come ogni angelo custode. Quando è morta, è stato un duro colpo anche per lui e posso capirlo benissimo, ma ha deciso comunque di proseguire la sua carriera e… indovina di chi è diventato angelo custode?».

Evelyn lo indicò, incredula, e Franky annuì portandosi le mani al petto. «Esatto, è diventato il mio angelo custode. Giuro che non me ne sono mai accorto, che la sua è stata una presenza più che silenziosa… io nella vita di Zoe in confronto a lui sono stato un martello pneumatico!».

«Forse… forse perché hai deciso di farti vedere», ipotizzò lei, con la fronte aggrottata.

«Sì, sicuramente è così. Ma credo che in certe occasioni non sarei mai riuscito a starmene in disparte, come invece ha sempre fatto lui».

«Probabile», ridacchiò.

«Riprendendo… Quando sono morto anche io, ecco, è lì che si è mostrata la sua vera natura di serafino. E da allora ha lavorato senza sosta, come se avesse voluto pagare per gli insuccessi che aveva avuto durante la sua carriera di angelo custode. Se non ci fossimo incontrati per caso, quella sera, lui stesso mi ha detto che non mi sarebbe mai venuto a cercare, si sentiva troppo in colpa, sia per me che per mia madre. Però quando mi ha visto, mi ha raccontato che si è sentito come sollevato, come se vedere ciò che ero riuscito a diventare fosse stata la sua liberazione, e ha trovato il coraggio per riavvicinarsi a me».

«È una storia molto commovente».

«Spero non ti metterai a piangere», sorrise beffardo, beccandosi un pugnetto sul braccio.

«Sei sempre il solito», rise. «Per fortuna».

L’arcangelo le sorrise e si passò una mano fra i capelli. «Tu sei cambiata molto, invece».

«Dici davvero?».

«Non esserne dispiaciuta, sei cambiata decisamente in meglio. Sei cresciuta, sei una donna forte adesso».

«Io non oserei troppo», sorrise imbarazzata, puntando gli occhi sulla sua mano stretta in quelle di Franky. «Una donna forte è Susan. Avrai sentito sicuramente di David, no?».

«Sì, il mio caro zio. È stato meglio così, in quel periodo non faceva altro che soffrire in silenzio».

«L’hai incontrato, in Paradiso?». La voce di Evelyn si fece cauta, come i suoi occhi che avevano sbirciato il viso di Franky prima di parlare.

Ma lui rispose sereno, come sempre. «Sì, per un attimo. L’ho abbracciato forte, come non facevo da tanto tempo, e gli ho detto che andava tutto bene».

«E adesso sta bene?».

Franky annuì. «Sì, molto bene». È un bellissimo bambino di cinque anni, con due genitori splendidi.

«Non c’eri al suo funerale…».

«C’ero. Ci sono sempre stato: dal momento in cui il suo cuore ha smesso di battere al momento in cui ci siamo separati in Paradiso. Solo che ero in borghese perché non avrei potuto assentarmi da lavoro. Nemmeno adesso potrei, diciamo che sono scappato…».

«Credevo che fossi in vacanza o che so io!», esclamò Evelyn col viso arrossato, sentendosi in colpa.

L’arcangelo la tranquillizzò accarezzandole i dorsi delle mani. «Quando il mondo andrà in vacanza, allora anche gli arcangeli ci andranno. Fino ad allora, però…», non concluse la frase e le fece l’occhiolino.

Fra loro cadde un profondo silenzio ed Evelyn, soffermandosi a scrutare il suo viso candido e bello come se lo ricordava, sentì come se un ago le trafiggesse il cuore. Il suo pensiero era andato al loro bambino che non c’era più e si rese conto che non ne avevano mai parlato durante la loro lunga chiacchierata sulle loro vite: era una coincidenza che avessero evitato entrambi quell’argomento?

La ragazza sollevò gli occhi, incontrò subito quelli di Franky e si accorse dell’ombra che li rendeva meno luminosi. Era sicuramente dovuta al suo ultimo pensiero, perché era certa che se si fosse guardata allo specchio avrebbe visto la stessa malinconia aleggiare nei propri.

Sospirò brevemente, stringendo un po’ più forte la mano di Franky, ed accennò un sorriso con il quale provò a riportare il sereno fra loro. Inoltre, sussurrò: «Manca tantissimo anche a me, il mio piccolo Junior».

«Junior?», balbettò l’arcangelo, sgranando un po’ gli occhi.

«Sì», mormorò Evelyn, abbassando il capo per celare il rossore sulle sue guance. «Il nome completo sarebbe Franklin Junior, ma in tutti questi anni per comodità l’ho sempre chiamato Junior».

«Gli hai dato un nome…», disse ancora Franky, con un fil di voce.

«Scusami se l’ho deciso da sola… Non ti piace, vero?».

Franky le sollevò le mani dal tavolo per portasele vicine al viso, con più precisione alle labbra per accarezzarle con baci lievi. Evelyn fu costretta ad incontrare di nuovo i sui occhi e questa volta li vide umidi di lacrime, ma luminosi e felici.

«È un nome bellissimo», le sussurrò con voce tremante e colma d’amore. La ragazza si lasciò andare ad una mezza risata di sollievo e se non fosse stato per la suoneria del suo cellulare si sarebbe commossa tanto da scoppiare a piangere. 

Evelyn rispose portandoselo all’orecchio senza nemmeno guardare chi fosse. «Pronto?».

«Tesoro! Perdonaci, ci siamo proprio dimenticati che saresti arrivata oggi! Ieri me lo continuavo a ripetere, non vedevo l’ora, ma si vede che la vecchiaia…».

Franky ridacchiò sotto i baffi, mentre si alzava ed andava a pagare il caffè di Evelyn, e lei riuscì ad intendere perfettamente le parole che le aveva rivolto l’arcangelo qualche tempo prima: «Ho già pensato io a loro».

«Non fa niente mamma, non ti preoccupare», rispose, lanciando un’occhiata eloquente al ragazzo, che continuò a ridersela.

«Dove sei tesoro? Noi stiamo parcheggiando!».

«Sono… di fronte al bar. Ci vediamo lì». Chiuse la chiamata e raggiunse Franky, che l’aspettava col braccio aperto di fronte all’uscita. Si accoccolò contro di lui senza pensarci due volte, ma gli rivolse uno sguardo severo, dicendogli: «Hai fatto dimenticare ai miei genitori di venirmi a prendere!».

«Non dirmi che non ti ha fatto piacere che io l’abbia fatto», la ammonì e le pizzicò il naso, sussurrando malizioso: «Perché non ti crederei».

Evelyn non poté ribattere, perché era più che felice che l’avesse fatto: avevano potuto passare un bel pomeriggio insieme, dopo così tanto tempo. Il suo cuore ora era come sazio, alleggerito, libero da qualsiasi peso, anche se già si preoccupava della loro imminente separazione.

Si girò fra le sue braccia, dando le spalle alla direzione da cui sarebbero arrivati sua madre e suo padre, e lo guardò negli occhi intensamente: «Non andartene».

«Devo, Evelyn».

«Allora… allora promettimi che verrai presto, prestissimo, a trovarmi di nuovo, a casa mia», lo guardò supplichevole. «Sai dove abito, no? Ad Ottawa».

«In Canada? Oh, ora capisco come mai parli così bene il francese! Come mai ti sei trasferita proprio lì?», domandò, non per glissare, ma sinceramente incuriosito.

«Per la neve. Io amo la neve», rispose senza nemmeno pensarci.

Franky ricordò quella mattina in cui l’aveva svegliata e le aveva annunciato che fuori stava nevicando. Sorrise soprappensiero, poi la guardò negli occhi e le accarezzò i capelli prendendole il volto fra le mani. «Verrò, te lo prometto».

Evelyn, col cuore che le batteva forte, si voltò e scorse i visi dei suoi genitori fra la folla, che si guardavano intorno cercando il bar da lei indicatogli. Si girò di nuovo verso di lui e farfugliò: «Il nostro giuramento è ancora valido?».

«Che cosa?», balbettò, ma lei non gli diede il tempo per rifletterci ulteriormente: si sporse verso di lui e lo baciò sulle labbra.

Franky la guardò incredulo, ma presto si lasciò andare, chiuse gli occhi e le avvolse le braccia intorno alla vita, poi la tirò su e se l’appoggiò addosso per poterla baciare sulla gola. Evelyn rispose con un rantolo soffocato, intriso di piacere, e non avrebbe voluto lasciarlo mai, ma l’arcangelo se la fece scivolare addosso ed ebbe soltanto il tempo di baciarla un’ultima volta sulla fronte prima di sparire fra la folla.
Evelyn lo perse di vista e si morse il labbro inferiore, sperando con tutta se stessa che Franky mantenesse la sua promessa.

«Tesoro!», sentì strillare sua madre alle sue spalle e si girò spaventata. La donna le gettò le braccia al collo e la strinse forte a sé, stordendola ancora di più. «Mio Dio, tesoro, quanto ci sei mancata!».

«Anche voi mi siete mancati tanto», ebbe la forza di rispondere, mentre si sistemava la giacca del tallieur blu che indossava e che durante l’abbraccio con Franky si era un po’ gualcita.

«Ma perché non hai chiamato subito!?», le domandò suo padre, quando fu il suo turno per i baci e gli abbracci.

«Ho incontrato un mio amico e mi sono fermata un po’ con lui, il tempo è volato…».

Zoe notò i suoi occhi brillare ed arricciò il naso. «Che amico?».

«Un mio amico, mamma», ripeté scocciata, pensando che aveva sbagliato a parlare. Ma nel contempo sorrise, perché la sua famiglia le era mancata veramente tanto. «Anche lui lavora volando», aggiunse per soddisfare la curiosità della madre.

«Uno steward?», chiese suo padre.

Evelyn ridacchiò, annuendo. «Diciamo di sì».

 

***

 

Si torna a casa.

L’aereo decollò senza problemi, due sue colleghe mostrarono ai passeggeri le solite procedure da tenere in caso di emergenza, poi passarono tutte insieme per distribuire da mangiare, da bere ed alcune riviste.

«Per me un caffè decaffeinato, per favore».

Evelyn diede la bevanda alla signora che gliel’aveva chiesta e le sorrise educatamente. La donna fece per prendere il portafoglio, ma sua figlia, una bambina dai capelli biondi e un paio di occhiali spessi che le cadevano sul naso, le prese il braccio e gridò:
«Mamma, mamma! C’è un angelo seduto sull’ala dell’aereo!».

La madre annuì comprensiva e guardò l’hostess con sguardo di scuse, probabilmente pensando che la sua bambina avesse fin troppa fantasia. Ma Evelyn si abbassò accanto alla bambina e guardò fuori dall’oblò dal quale si vedeva l’ala destra dell’aereo.

«Signorina, tu lo vedi?», le domandò con voce candida.

Evelyn le posò una mano sui capelli e le sorrise amorevole. «Sì, tesoro, lo vedo».

La mamma sorrise allo stesso modo, col cuore sollevato: quell’hostess era davvero carina a stare al gioco di sua figlia, mentre lei non ne sarebbe mai stata capace, troppo occupata ad avere una paura tremenda dell’aereo.
Ma in realtà, quello che non sarebbe mai stata capace di fare sarebbe stato realizzare che Evelyn lo vedeva sul serio, quell’angelo bello come il sole, che sorrideva ad occhi chiusi coi capelli e le piume delle ali spettinate dal vento.

Evelyn si sporse verso l’orecchio della bambina e le sussurrò: «È bellissimo, non è vero?».

La bimba annuì ed insieme salutarono quell’angelo, che aprì i suoi stupendi occhi verdi e ricambiò il saluto, tenendosi ben saldo all’ala su cui era seduto con l’altra mano.

                         

«Evelyn, niña!».

Raquel era la sua vicina di casa di origini cilene, simpaticissima e buona come il pane, che da quando la conosceva non aveva fatto altro che occuparsi di lei come se fosse stata sua figlia. Aveva persino le chiavi del suo appartamento, casomai fosse successo qualcosa durante i suoi lunghi periodi di assenza per il suo lavoro di hostess, ed Evelyn ricambiava tutti i favori occupandosi, quando poteva, del figlio più piccolo della donna, Caesar, un bambino dolcissimo e bellissimo che adorava.

Raquel le andò incontro e l’abbracciò forte di fronte alla porta del suo appartamento. «Sei tornata, finalmente». La guardò negli occhi con i propri lucidi e le prese le mani arrossate e fredde nelle sue. «Caesar mi assilla dal giorno in cui sei partita, chiedendomi quando tornavi – vuole andare assolutamente a pattinare con te sul Canale Rideau – e pensa un po’, adesso che ci sei è da un suo amichetto a giocare!».

Evelyn rise, col cuore invaso da un piacevole calore, quasi simile a quello delle mani di Raquel intorno alle sue congelate. Era quella casa sua, quella la vita che voleva.

«Sono davvero contenta che tu sia tornata», le disse ancora la donna, materna.

«Anche io. Mi siete mancati tanto», rispose ricambiando.

«Oh, niña!», singhiozzò commossa, ma presto la cacciò via, spingendola verso la porta del suo appartamento. «Vai via, prima che tu mi veda piangere!».

La ragazza ridacchiò, ma fu felice di poter finalmente rientrare in casa. Erano mesi che non vi entrava ed era sempre bello, tornare e vedere che tutto era rimasto come l’aveva lasciato, eccetto la posta che aveva ricevuto e che Raquel le aveva sistemato ordinatamente sul tavolino di fronte al divano.

Per prima cosa lasciò il trolley all’ingresso, lo avrebbe sistemato più tardi. Si tolse i tacchi, lanciandone uno da una parte ed uno dall’altra, e solo con le calze di nylon camminò sul pavimento freddo. Si spogliò, disseminando vestiti ovunque nel corridoio e nel bagno, e si infilò sotto la doccia calda. I nervi le si rilassarono magicamente, la testa le si svuotò e sentì tutto il peso della giornata scivolarle addosso. Quando uscì, fu solo perché spinta dalla fame. A causa del fuso orario aveva gli orari tutti sballati, ma era abbastanza abituata ormai.

Andò in cucina e, come aveva previsto, non trovò quasi nulla: il frigorifero era vuoto, ovviamente, e quello che c’era nella piccola dispensa – una scatola di cereali, dei biscotti e un pacco di cracker – non era proprio quello che desiderava per cena. Così prese il cordless, digitò il numero del suo ristorante cinese preferito ed ordinò.
Per ingannare l’attesa si portò due pacchetti di cracker sul divano ed accese la tv. Ne mangiò a malapena uno, perché lentamente le palpebre si erano fatte sempre più pesanti e il sonno aveva minacciato il suo appetito. Combatté con tutte le sue forze per rimanere sveglia, ma alla fine crollò esausta con la testa sul bracciolo e le gambe piegate.

 

Una lieve pressione sull’angolo della bocca la fece svegliare di soprassalto. Si guardò intorno, col cuore che le martellava nel petto, e si accorse della coperta che l’avvolgeva. Non si ricordava di essersela portata…

Non poté soffermarsi a pensarci ulteriormente, perché sentì delle voci sul pianerottolo, tra cui riconobbe quella di Raquel, e il rumore delle chiavi che giravano nella toppa del suo appartamento.

«Mi dispiace molto, il campanello è rotto da tantissimo tempo ormai. E, sa, è appena tornata da un lungo viaggio, fa la hostess, probabilmente starà dormendo…». Raquel alzò lo sguardo e la vide sveglia, ma intontita, stesa sul divano che spegneva la televisione. Sorrise solare, rivolgendosi al ragazzo dai tratti asiatici dietro di lei: «Che le dicevo?». Poi aggiunse, parlando ad Evelyn: «Niña, è arrivata la tua cena!».

«Grazie», gracchiò. «E scusate, è che…».

«Oh, non c’è nulla di cui tu ti debba scusare!», la rassicurò Raquel.

Evelyn fece per alzarsi per andare a prendere il portafoglio, ma la donna la fece ricadere stesa sui cuscini e la ragazza sbuffò col sorriso sulle labbra, borbottando: «Nella borsa…».

Raquel prese il suo portafoglio nella borsa, pagò il ragazzo del take-away, poi rimise tutto al suo posto e posò il sacchetto con ciò che aveva ordinato sul tavolino di fronte a lei. «Ecco fatto».

«Grazie mille, niñera», ridacchiò all’espressione un po’ indispettita dell’amica all’udire quel soprannome che le aveva affibbiato quando ancora il soprannome “niña” (“ragazzina”) non le piaceva; per ripagarla con la stessa moneta, allora, era andata a cercare su internet come si dicesse “baby-sitter”, visto che con lei si comportava proprio come tale. Avevano avuto diversi battibecchi a proposito di quei soprannomi, ma col passare del tempo Evelyn aveva iniziato ad affezionarsi al suo, mentre invece Raquel continuava ad odiarlo. La bionda lo usava ancora solo quando voleva sottolineare le sue premure eccessive, una specie di presa in giro affettuosa.

«Davvero, non dovevi», aggiunse e si mise seduta sul divano, sistemandosi meglio la coperta sulle gambe. La accarezzò e soprappensiero si passò anche due dita sull’angolo su cui aveva sentito quel bacio appena accennato.
«Raquel…», mormorò. «Me l’hai messa tu questa coperta?».

La donna la guardò senza capire dove volesse arrivare e rispose: «No, sono stata di là con Caesar fino a quando il ragazzo del ristorante cinese non ha suonato da me per chiedermi che fine avessi fatto. Ma perché me lo chiedi, scusa? Non te la sei messa tu, quando guardavi la tv?».

Evelyn ne strinse il bordo fra le mani ed annuì. «Sì, è probabile».

Raquel fece un passo indietro, preoccupata dal suo sguardo spiritato che però confutò alla stanchezza, e disse: «Adesso devo proprio andare, ho lasciato Caesar di là da solo…».

«Certo, non ti preoccupare, vai pure. Grazie mille», rispose la solita Evelyn di sempre, con un sorriso leggero sulle labbra. «Ah! Di' a Caesar che questo week-end sono libera, se vuole andare a pattinare».

«Glielo dirò sicuramente. Buona serata, niña. Riposati, mi raccomando».

«Ai suoi ordini», fece il saluto militare e ridacchiò.

Raquel la rimproverò con lo sguardo, tradendosi però con un sorriso, poi la lasciò sola. Evelyn prese la confezione degli spaghetti di soia e le bacchette ed andò alla finestra del salotto, si appoggiò con una spalla al muro e mentre mangiava osservò la collina del Parlamento canadese illuminata e il cielo scuro punteggiato da piccolissime stelle. All’improvviso vide una stella cadente e chiuse gli occhi per esprimere il suo desiderio.

Tornò seduta sul divano e riaccese la tv, finì di mangiare e solo quando si rialzò per gettare tutta la spazzatura nel cestino si accorse di un fogliettino che probabilmente doveva essere caduto quando Raquel aveva messo il sacchetto sul tavolino. Si inginocchiò a raccoglierlo e lo lesse senza rialzarsi in piedi:

 

Dormivi così bene, non potevo svegliarti.
Un giorno voglio venire anche io a pattinare sul canale ghiacciato, posso? =)

 

Non si era firmato, ma Evelyn conosceva bene quella scrittura e solo una persona sarebbe stata in grado di entrare in casa sua senza chiavi e senza svegliarla. Quella persona l’aveva anche baciata.

Tornò alla finestra, appoggiò una mano sul vetro freddo e dall’altra parte una mano si sovrappose alla sua. Sollevò lo sguardo ed incontrò quello di Franky, che si avvicinò al vetro e, chiudendo gli occhi, posò le labbra su di esso. Evelyn fece lo stesso, rimase in quella posizione per qualche secondo, poi sollevò le palpebre e l’arcangelo non c’era più.
Ma l’avrebbe rivisto, ne era certa. Avrebbero pattinato insieme sul canale ghiacciato.

 

The End

 

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Ho scritto "The End", ma dopo aver scritto questo terzo e del tutto inaspettato sequel ho capito che è veramente difficile stabilire quando qualcosa, soprattutto una storia alla quale ci si affeziona in questo modo, deve finire. Quindi è solo una formalità, anche se non credo che... ah, meglio che sto zitta :)

Spero che questo epilogo vi sia piaciuto, credo che sia uno dei più bei finali che io abbia mai scritto (apriti cielo, ho detto che un mio finale è bello!).

Ringrazio davvero di cuore tutti quelli che mi hanno sostenuta, che hanno reso grande questa FF, che si sono affezionati, emozionati e che hanno sempre dato prova della loro vicinanza. In questo caso ringrazio ovviamente chi ha recensito capitolo per capitolo, chi più chi meno, e le persone fisiche che non c'è bisogno nemmeno di nominare, perchè lo sanno. Come dire, questa storia è dedicata a loro <3

Di particolare importanza sono le canzoni usate in questo capitolo: Faith in fate, dei The Coronas e Change my name, dei Trading Yesterday. Non so proprio come avrei fatto senza la mia colonna sonora, come al solito la musica mi ha salvato la vita ;)

Spero di rivedervi tutti presto e... che dire. Boh, non ho più parole. Le migliori che avevo ho cercato di metterle tutte in questa storia, ci ho messo proprio l'anima... sì, è proprio come se in ogni capitolo ci fosse un pezzetto della mia anima. Abbiatene cura.

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