Capitolo diciassette
Cheers
I
palazzi di Berlino si estendevano come tante formichine sotto Annika
Tempor e Mihael Keehl, che li osservavano dall’alto in
silenzio, attraverso l’oblò dell’aereo.
Entro tre ore sarebbero atterrati all’aeroporto di Luton,
Londra, alle ore 16.51.
Era il 22 Agosto, e sarebbero mancati due giorni al ventitreesimo
compleanno di Nate River se lui fosse stato ancora con loro.
Quando il secondo caso Kira, la cui archiviazione si era svolta in gran
segreto, era terminato, era come se tutti sapessero che cosa fare.
Annika Tempor decise che voleva terminare gli studi, Mihael Keehl che
desiderava tornare in patria. I due desideri si conciliarono in una
maniera estremamente semplice, e i due decisero che sarebbero andati a
cercare casa a Berlino assieme. La vecchia casa di Ansgar Keehl era di
proprietà del figlio, e siccome l’uomo doveva
scontare diversi anni di prigione per violenza aggravata e omicidio
colposo a danni di un povero malcapitato che, un giorno di qualche anno
prima, aveva attraversato la sua strada ubriaca e barcollante, la casa
era libera da circa due anni e lo sarebbe stato per altri due e mezzo.
Ma prima di stabilirsi nella zona più oscura della capitale
tedesca Annika Tempor decise di fare un viaggio a casa. Vendette il
grosso appartamento ormai di sua proprietà ad una cifra
molto buona, lo svuotò delle poche cose che desiderava
tenere con sé, lasciò
l’università che frequentava compilando tutti i
documenti per un trasferimento all’estero e infine scrisse
una lettera. Era indirizzata a Stephen Tempor. La lettera rimase
sepolta nel terreno di fronte alla tomba dell’uomo per sette
mesi, prima di decomporsi del tutto.
Con i soldi di Annika lasciatigli dal padre, assieme a Mihael fecero un
vero restauro di quella piccola casetta piena di polvere e incubi.
Mihael avrebbe voluto andare a vivere da un'altra parte, ma doveva
affrontare la realtà, ossia che non avevano abbastanza
denaro. Per più di un anno Mihael covò la
speranza di andarsene, e grazie ad alcune raccomandazioni da parte di
un certo detective soprannominato L,
divenne criminologo e cominciò a lavorare per la polizia
segreta tedesca. In poco tempo ebbe a disposizione un capitale
più che sufficiente per comprare una casa molto spaziosa,
troppo spaziosa per sole due persone, vicino alla Porta di Brandeburgo
nel centro di Berlino.
Annika, dopo aver imparato correttamente la lingua -cosa per cui non
impiegò più di due mesi-, si iscrisse alla
Technische Universitat Berlin, Università interamente
dedicata alle scienze, nella facoltà di matematica. Poco
dopo essersi laureata divenne insegnante nella stessa, e scrittrice di
saggi incomprensibili ai più dedicati all’infinito
mondo dei numeri, così logico e così perfetto che
era impossibile non amarlo!
Un giorno Mihael, rovistando nel suo vecchio pc, ebbe l’idea
di entrare nella casella postale intestata a Near che Matt gli aveva
aperto quando erano ancora alla Wammy’s House. Non ebbe idea
di come, forse fu il caso, ma trovò diverse mail da parte di
un funzionario statale americano. A quanto pare qualcuno che doveva dei
favori a Near, poiché non esitava a fornirgli informazioni
riservate. Per i primi scambi di mail Mihael non ebbe niente di che
ridire, ma quando arrivò ad un certo punto
cominciò a leggere con più interesse. Quando ebbe
finito e riletto le ultime mail due volte, spalancò gli
occhi in un’espressone di sorpresa e comprensione.
“Annika!” Il ragazzo si alzò,
trascinando il computer con sé. “Annika
è stato Near! E’ stato Near!” Corse
nello studio e trovò la ragazza intenta a studiare, china su
dei grossi libri. “E’ stato Near! Con Matt, e
Diane!”, esclamava estasiato, confondendo le parole e
sorridendo.
“Che cosa?”, domandò la ragazza senza
capire.
“E’ stato Near. Near ha scoperto che Diane Colfer
era la madre di Matt! Ed è stato lui a convincere L che era
la migliore da assoldare per il secondo caso Kira.”
Annika rimase sorpresa. “Dici davvero?”
“Sì, sì!”, esclamò
Mello entusiasta spazzando via i libri di Annika e poggiando il
computer sulla scrivania. “E’ tutto scritto qua,
guarda. Leggi queste.”
Dopo aver scorso alcune mail, sotto l’attenta supervisione di
Mihael che le teneva le mani sulle spalle, Annika si morse un labbro.
“Dovremmo dirlo a Mail?”
“A Matt?”, domandò il ragazzo. Rimase
pensieroso un secondo, poi si strinse nelle spalle. “No,
perché? Meglio lasciarlo pensare che sia stato…
che ne so, il destino.”
A dir la verità non sentivano Mail da quando si erano
separati, alla fine del caso. Si mantenevano in blando contatto,
scambiandosi ogni tanto qualche e-mail.
Mail Jeevas era residente a New York, in un alto palazzo dai vetri che
riflettevano il mondo circostante, a soli pochi isolati dalla casa di
Diane Colfer. Grazie alla madre aveva ottenuto un posto alla CIA, nel
reparto spionaggio, ed era specializzato in intercettazioni di
carattere informatico. In parole povere, era un hacker. Ma questa volta
era più o meno legalizzato. Non aveva pensato a rinunciare
al suo nome di hacker Fermat
nemmeno una volta, ma pian piano aveva iniziato a selezionare sol i
clienti dai casi più interessanti e aveva abbassato
notevolmente il suo onorario. In otto anni era riuscito a collezionare
un numero incredibile di consolle e videogiochi, che entravano
comodamente nel suo appartamento al trentottesimo piano. Ogni mattina
si alzava alle otto e tornava alle sei di sera, tranne quando qualche
caso particolare lo costringeva a fare gli straordinari. Era riuscito
ad inventare un gioco di logica e azione per pc, nel quale si arrivava
all’ultimo livello a forza di pistole e dopo aver superato
parecchi enigmi.
Mail Jeevas, assieme a Diane Colfer e qualche altro collaboratore,
formavano una delle migliori squadre che si erano mai viste alla CIA.
Veloci, efficienti, e attaccati al lavoro più di una cozza
allo scoglio. Per Mail non era un grosso problema: quel lavoro
conciliava perfettamente con il suo hobby. Non tanto il frugare nella
vita privata di qualcun altro, ma piuttosto riuscire a superare gli
ostacoli della rete senza farsi scoprire.
Per Diane Colfer invece era stato problematico all’inizio
tornare al lavoro a tempo pieno: aveva dovuto riabituarsi ai ritmi
serrati dell’ufficio, e dopo aver formalmente adottato
Georgie Jonsson era diventato ancor più complicato e
faticoso. Ciò nonostante Georgie Colfer aveva finalmente
trovato una sede stabile, di fronte a Central Park, assieme al piccolo
cane nervoso Biancaneve e con due genitori che, sebbene sapesse
benissimo che erano adottivi, le davano tutto quel che fino ad allora
le era stato negato. Dopo aver frequentato con successo le scuole
elementari ed aver preso posto stabile in una scuola di danza classica
si era iscritta all’istituto di istruzione media
più vicino, che stava esattamente a metà fra casa
sua e quella dello ‘zio Mail’. Mail aveva cercato
di spiegarle decine di volte che non era suo zio, e che piuttosto
doveva considerarlo un fratello, o per lo meno un fratellastro, ma
Georgie non aveva voluto cedere di un passo. Spesso andava a casa dello
zio per
farsi dare ripetizioni di geometria, materia nella quale andava peggio.
Era contenta che suo zio fosse tanto bravo in quelle cose,
perché così non avrebbe dovuto pagare nessun
insegnante privato, e per di più passare del tempo con lui
le piaceva.
Né Mail, né Diane né tantomeno Georgie
si erano dimenticati di Mello, Noodle, L e soprattutto di Near, ma si
sentivano solo ogni tanto tramite computer. Per un po’
avevano sentito solo Mello e Noodle, e si erano a fatica abituati a
pensare a loro come Annika e Mihael. Sapevano che erano entrambi a
Berlino e vivevano assieme. Ogni tanto arrivava nel nuovo continente
qualche eco di un saggio scritto dalla matematica Annika Tempor, ma
siccome nessuno di loro ci capiva poi molto, si limitavano a leggere il
trafiletto sul giornale del mattino con un mezzo sorriso.
Di L avevano perso tutte le tracce.
Un giorno, quasi due anni dopo il secondo caso Kira, Georgie e Mail
andavano in giro per il centro città, e mentre Georgie non
faceva altro che mendicare un gelato Mail la trascinò dentro
alla libreria nella quale lavorava una commessa molto graziosa, con la
promessa che poi le avrebbe comprato quello alla crema e alla fragola
che le piaceva tanto. Mail gironzolò per la grande libreria
per un po’, fingendo a momenti di guardare i libri, e a
momenti aguzzando lo sguardo azzurro di lenti colorate per scorgere la
graziosa commessa. Quando la vide e la raggiunse, tentando di ostentare
tutta la noncuranza di cui era capace, lei stava sistemando dei libri
lungo uno scaffale.
“Ciao”, esordì Mail.
“Ciao. Ancora qui, eh?”, disse la ragazza
sorridendo, senza smettere di fare il suo lavoro e indirizzando solo
un’occhiata a Mail.
“Eh già. Non ho ancora trovato il libro giusto per
me. Mi consigli qualcosa?” Mail si appoggiò allo
scaffale.
“Dipende che cosa t’interessa.”
“Computer. Giochi…”, disse vagamente
Mail, temendo di non sembrare interessante.
“Se ti riferisci ai manuali, mi spiace ma non posso aiutarti
in maniera molto tecnica, però posso dirti dove andare a
cercare. A dire la verità sono specializzata nella sezione
romanzi”, disse la graziosa commessa senza smettere di
sorridere.
“Be’, vediamo… i gialli ad esempio.
Fatti bene però, mi piace scoprire chi è il
colpevole.”
“Oh, un detective. E quanti gialli hai letto fin
ora?”
“Veramente nessuno, però ho guardato molti
film”, disse Mail come se quello fosse un valido sostitutivo.
La ragazza si fermò e gli gettò
un’occhiata critica, la lingua fra i denti come se stesse
trattenendo una risata. Al posto di sistemare l’ultimo libro
sullo scaffale lo tenne in mano e lo porse a Mail. “Se
davvero t’interessa prova a leggere questo”, gli
mise in mano il pesante volume. “E’ di un autore
inglese esordiente, dicono che là in Europa abbia fatto il
giro di tutte le librerie. Adesso scusami ma devo andare.”
Mail sorrise e sventolò il libro. “Okay
d’accordo. Quando lo finisco torno! Ti dico cosa ne
penso!”
“Mi farebbe molto piacere”, disse la graziosa
commessa in risposta, voltandosi a guardarlo. Sparì dietro
l’angolo e Mail diede un’occhiata al libro.
Cosa può fare
uno shinigami annoiato, di Adam Livret.
Il ragazzo sgranò gli occhi e aprì la prima
pagina.
Nate River guidava lungo
la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di aver
ricevuto un messaggio…
Tornò a casa e lesse fino a notte fonda.
Alla fine di ogni caso L Lawliet sentiva un senso di spossatezza e
smarrimento invaderlo. La spossatezza poteva forse spiegarla come un
effetto collaterale dovuto alla mole di lavoro che lo aveva appena
investito con la stessa forza di un camion, e alle ore di sonno che
anche lui a volte necessitava di recuperare. Quello poteva risolverlo.
Ma non lo smarrimento; era un problema del suo cervello, che si perdeva
terribilmente nella semplicità della vita quotidiana. Per
quanto fosse astuto e colto, anche di psicologia, non aveva idea di
come togliersi quella fastidiosa sensazione di dosso. Per qualche
giorno vagava per la sua casa di campagna dello Yorkshire, fra i mobili
in legno, i soffitti alti e le finestre così piene di
campagna, senza sapere cosa fare o dove andare per cercare pace a
quella sensazione di perdita e di confusione che sentiva. Era come
noia, mescolata a qualcosa di più grande che non riusciva a
controllare.
La fine del secondo caso Kira tuttavia fu diverso. Non c’era
stanchezza, non c’era perdita ad invaderlo. Più
che altro… fremeva.
Fremeva di curiosità, di ansia, di voglia di cominciare.
Cominciare a scrivere naturalmente. L’ultima notte prima di
incontrare Light Yagami aveva scritto sei pagine in poco più
di un’ora. Poi non aveva più toccato il pc se non
prima di stabilirsi nella casetta di campagna.
Era stato un rituale: era arrivato alle 8.27 del mattino, aveva messo
tutti suoi averi al proprio posto. I vestiti, il pc con tutti i suoi
cavi e le sue prese. Aveva fatto un’abbondante spesa, aveva
messo un po’ a posto la casa e si era preparato un dolce al
cioccolato. Aveva preparato un tè verde e acceso il
computer. Si era seduto davanti al pc con una fetta di torta e una
tazza di tè affianco. Poi aveva iniziato a scrivere. Aveva
scritto ininterrottamente per sei ore, poi si era ricordato della torta.
Un anno dopo, a libro terminato, aveva inviato il manoscritto ad una
piccola casa editrice. Loro lo avevano preso, redatto, gli avevano
consigliato di apportare qualche modifica e lui aveva coraggiosamente
difeso le sue idee, decidendo poi per un leggero cambiamento al titolo
della storia. Aveva scelto uno pseudonimo e la casa editrice aveva
stampato cinquecento copie del suo manoscritto. La carta usata era
sottile, la copertina molle, le pagine 639. Costava 9 sterline e 55
cents. Cinque mesi dopo un editore di un’importante catena
editoriale lo aveva notato e gli aveva proposto di stampare il libro
con la loro casa. L aveva accettato.
Dopo un’ampia pubblicità e diversi incontri con il
suo editore le pagine erano diventate di una carta un po’
meno fragile ed erano aumentate con il diverso formato del libro. La
copertina era rigida e il prezzo era lievitato. La prima ristampa si
era avuta dopo appena due mesi dall’uscita ufficiale.
Otto anni e tre libri dopo, Adam Livret, alias L Lawliet, scese dal bus
che lo aveva portato nella città di Dover, nel sud
dell’Inghilterra. Era la città più
vicina alla Francia, da lì si poteva raggiungere il blocco
europeo anche a nuoto, se si era abbastanza allenati, era un cittadina
rispettabile e piena di gente per bene, nonché luogo di
nascita di Nate River.
Quando L scese dall’autobus mancava un solo giorno al grande
giorno. Chiamò un taxi, si fece portare all’hotel
nel quale aveva affittato una stanza e si mise subito a letto. Una
volta tanto era stanco anche lui.
La sveglia suonò il mattino dopo alle nove in punto. L si
alzò, andò in bagno, fece la doccia e scese a
fare colazione. Mangiò brioches al cioccolato e bevve latte
fresco, poi si ritirò nella sua stanza.
L’appuntamento era all’una, per pranzo, in un
elegante ristorante. Decise che avrebbe fatto un giro per Dover,
così prese portafoglio, cellulare e giacca, e
uscì nella tipica mattinata inglese. Quel giorno fece
follie: comprò un paio di jeans, un libro fantasy per un
pubblico adulto (per sperimentare nuovi generi) e dei pasticcini alla
cannella. Poi prese un taxi e si fece portare al ristorante. Di fronte
all’edificio c’era un piccolo parco giochi con
delle panchine. Scelse una posizione strategica, per vedere la porta
del ristorante, e si immerse nel suo libro. Quando alzò lo
sguardo la prima volta erano passate ventisette pagine e non vide nulla
di interessante, a parte un gruppo di ragazzi vestiti di borchie e
catene che passavano per strada. S’immerse di nuovo. Alla
seconda occhiata vide una coppia che si teneva per mano. Erano biondi,
e a giudicare dal loro abbigliamento soffrivano parecchio il caldo che
ristagnava nella città. L mise via il libro, si
alzò, e li raggiunse. Quando era vicino a loro
udì l’ultima parte del discorso di lei in una
lingua secca. Tedesco. L si avvicinò e sorrise, gli occhi
grandi e tondi. “Mihael. Annika”, salutò
annuendo in segno di saluto.
I due si voltarono, in viso un’aria stupita e allegra.
“L!”, salutò Annika abbracciandolo.
“Come stai? Tutto bene? Ma lo sai che abbiamo tutti i tuoi
libri a casa?”
“Oh grazie mille. E voi?” Si staccò da
Annika e scambiò una vigorosa stretta di mano con Mihael.
“Tutto bene. Proprio tu, dovresti saperlo no? Se non ricordo
male qualcuno mi ha raccomandato.”
L fece un sorrisino e distolse lo sguardo. “Non sono
più nel ramo delle indagini.”
“Ma potresti riprendere quando vuoi. Con me e Matt puoi
scegliere: America o Germania?”, disse Mihael ghignando.
L stava per rispondere, quando vide tre persone camminare verso di loro
a passo svelto. Una ragazzina che poteva avere si e no quattordici anni
corse verso di loro. “Ciao!”, salutò.
Annika la osservò corrugando le sopracciglia.
“Georgie”, disse, portando gli occhiali da vista
dalla fronte al viso. “Sei cresciuta”,
constatò.
Georgie sorrise, nel frattempo li raggiunsero Mail e Diane.
“Mihael!”, esclamò il ragazzo.
“Come stai? Annika, ciao.”
Quando i saluti furono terminati Diane domandò:
“Entriamo? Ho prenotato un tavolo settimane fa”.
La prenotazione era a nome Colfer. Il cameriere, un giovane
dall’aria cortese, li fece sedere ad un tavolo rettangolare.
Ordinarono piatti tipici del luogo e quando ebbero consumato tutto e i
camerieri ebbero liberato il tavolo, le pance di ognuno erano piene e
tutti sapevano tutto dei compagni che non vedevano da anni.
Un cameriere arrivò con altri tre menù e
domandò: “Desiderate il dolce?”.
“Io sì grazie”, disse Georgie allegra.
“Anch’io”, disse L.
Il cameriere porse loro le liste e domandò.
“Qualcun altro?” Tutti scossero la testa.
“Caffè?”
“Sì grazie”, disse Annika. Si unirono a
lei altre quattro voci.
“Torno subito”, disse il cameriere.
“Un altro po’ di vino?”,
domandò Mihael.
“Posso berlo anch’io?”,
domandò Georgie. Diane per un secondo parve replicare, ma
Mihael fu più veloce e versò qualche goccio di
vino alla ragazzina.
“Vogliamo brindare?”, domandò infine il
ragazzo. Tutti alzarono i loro calici e attesero che qualcuno parlasse.
Fu Mihael a prendere la parola, e tutti pensarono intimamente che fosse
il più adatto. Non disse poi molto, in realtà, ma
fu come se invece stesse facendo un discorso lungo e profondo.
“A Nate.”
“A Nate”, ripeterono tutti.
Appena dopo che Ryuk scomparve ritornò nel Mu tramite la
porta che lo separava dal mondo degli umani, e da altri mondi che non
possiamo neanche immaginare. Quando ritirò le ali nere era
di nuovo nel deserto desolato e triste che conosceva bene. Fece un
grosso sospiro e ghignò.
Era impressionante come una minuscola azione potesse condizionare in
modo tanto radicale la vita di più persone. Gli umani
potevano diventare esseri straordinari, pensò Ryuk, sia nel
bene che nel male. Non stava a lui giudicare cosa fosse bene e cosa
male, tuttavia aveva una particolare predilezione per i malvagi. E
comunque stessero le cose gli umani erano sempre inferiori ad uno
Shinigami, ragionò il dio della morte. Se l’azione
di un uomo poteva causare tanti cambiamenti, quella di uno Shinigami
poteva sconvolgere un mondo intero. Per un secondo Ryuk si
sentì orgoglioso di questa sua capacità.
Ricordò quando tutto era cominciato: da quando aveva fatto
cadere il suo vecchio Death Note e Light Yagami l’aveva
raccolto. Si annoiava, il motivo era soltanto quello. Ancora non aveva
idea di come lui fosse potuto tornare, ma scacciò il
pensiero.
Si diresse verso gli altri, che giocavano a dadi sotto la carcassa di
un enorme animale non meglio identificato. “Ciao
Ryuk!”, disse uno di loro.
“Ciao! Come va qui?”
“Ah, tutto come al solito.”
“Stephen, come stai?”, domandò Ryuk
guardandolo intensamente.
Era totalmente cambiato da quando lo aveva visto l’ultima
volta. Se quando era partito poteva sembrare ancora un uomo dalle
bizzarre fattezze, ora nulla in lui denotava che una volta era stato un
esponente della razza umana. Aveva la pelle di un colore verde marcio e
bianca, i capelli di un verde più scuro e una sorta di
elmetto di osso gli copriva la parte superiore del viso. Aveva lunghe
braccia e gambe, ma al contrario di molti altri Shinigami camminava
dritto, ergendosi in tutta la sua statura. Aveva una tasca naturale
sulla schiena, e dentro Ryuk vi scorse un Death Note nuovo di zecca.
Lo Shinigami si volse verso di lui e accennò un sorriso
storto e deforme. “Tutto bene Ryuk. Anzi! Oggi mi sento
più in forma del solito.”
“Sono contento Stephen, sono contento per te.”
“Hey Ryuk!”, gridò un altro mostro.
“Il Grande Capo ti cerca!”
Ryuk si congedò, passando dietro a Stephen e dandogli una
pacca sulla spalla, diretto dal Re degli Shinigami. Lo cercò
per molto tempo. O forse per poco. Il tempo, nel Mu, era qualcosa di
relativo e di scarsa importanza. Passava appiccicoso e melmoso sulle
loro pelli secche.
Quando Ryuk trovò il Re quello stava seduto su uno scranno,
leggendo nomi da un Death Note. Quando si accorse della sua presenza
alzò lo sguardo. “Ryuk, mi hanno detto della tua
scampagnata sulla terra. Divertito?”
“Abbastanza”, rispose lui.
“Ryuk, mi chiedevo…”, il Re si
chinò su di lui con fare misterioso. “Mi hai
portato qualche mela?”
Lo Shinigami sghignazzò. “Ma certo vostra
altezza.” E così dicendo tirò fuori dal
tascapane diversi frutti e li porse al re.
“Ah!”, esclamò l’altro
fregandosi le mani. “Eccellente, bravo Ryuk.”
“Di nulla signore.” Lo Shinigami fece per
andarsene, sicuro che il suo Re volesse solo un po’ di mele
succose e dolci, ma il mostro lo richiamò indietro.
“Ryuk?”
“Signore?”, domandò lui voltandosi.
“Un po’ di tempo fa stavo sfogliando un tuo vecchio
Death Note, sai che li tengo tutti io. Be’…
ovviamente questo non influirà sugli anni che hai sottratto
a quell’umano ma… ho cancellato un nome. Spero non
ti dispiaccia.”
Ryuk si volse, interessato. “Quale nome?”
Il Re ci pensò su un attimo, dando una morso ad una mela.
“Non ricordo bene, era morto da pochi mesi, era un uomo
giapponese.”
“Posso chiedere a vostra maestà…
perché l’ha fatto?”
Lo Shinigami si strinse nelle spalle. “Mi
annoiavo”, rispose solo.
Ryuk non poté trattenersi dall’esplodere ina una
sguaiata risata. Tu
guarda cosa può causare uno Shinigami annoiato!
A Sergio,
che sta affianco
all'autrice
ogni giorno.
Fine
Questa storia non è
stata scritta a fini di lucro.
Molti personaggi
appartengono a Tsugumi Oba e Takeshi Obata, autori di Death Note e
proprietari di tutti i diritti.
Oh mio Dio.
Non posso crederci che
sia finito.
Cacchio! O.O
...
Ecco, sono rimasta in
sospeso per un po', ora ci sono.
Allora, che dire?
Veramente non c'è molto da dire, o, in realtà, mi
sono già spremuta abbastanza in quest
post del mio blog. Nel caso non abbiate voglia di leggere ve
lo ridico qua:
Un gigantesco grazie a tutte le
persone che hanno seguito la storia, settimana dopo settimana, mese
dopo mese. Grazie
a chi ha solo letto, grazie a
chi ha scritto una recensione, grazie
a chi aspettava che postassi un altro capitolo, grazie a chi
leggeva e voleva sapere come continuava la storia. Adesso è
finita, veramente finita, e io non so ancora dirvi quante vagonate di grazie vi
riverserei addosso! Una tonnellata, o giù di lì.
Quindi, cominciamo con
il primo:
Grazie!
Un saluto a tutti,
Patrizia
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