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Autore: PattyOnTheRollercoaster    30/10/2011    3 recensioni
L torna alla Whammy's House, indeciso se continuare la sua carriera da detective dopo il caso Kira. Near si dà alla filosofia, Mello alla boxe e Matt continua con l'informatica.
Mentre vanno avanti con le loro vite Ryuk scrive un nome sul Death Note, una ragazza trova un quaderno incastrato nel portatile, qualcuno viene ucciso e qualcun'altro rapito. Un nome viene scritto e un'altro cancellato.
Si dice che il battito d'ali di una farfalla può causare un uragano dall'altra parte del mondo. Se una farfalla può causare questo, allora cosa causerà uno Shinigami annoiato?
[Dal capitolo 6]
“Ryuk”, chiamò L.
Lo Shinigami si avvicinò con passo lento. “Sì?”
“Ci sono altri Shinigami che vanno in giro a dare Death Note alle persone?”
Il mostro scosse la testa, gli occhi fissi sul detective. “Non che io sappia.”
“Sei sicuro?!”, intervenne impetuoso Mello. “Allora come cazzo è possibile che una bambina abbia gli occhi dello Shinigami?”
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo diciassette
Cheers





I palazzi di Berlino si estendevano come tante formichine sotto Annika Tempor e Mihael Keehl, che li osservavano dall’alto in silenzio, attraverso l’oblò dell’aereo. Entro tre ore sarebbero atterrati all’aeroporto di Luton, Londra, alle ore 16.51.
Era il 22 Agosto, e sarebbero mancati due giorni al ventitreesimo compleanno di Nate River se  lui fosse stato ancora con loro.
Quando il secondo caso Kira, la cui archiviazione si era svolta in gran segreto, era terminato, era come se tutti sapessero che cosa fare.
Annika Tempor decise che voleva terminare gli studi, Mihael Keehl che desiderava tornare in patria. I due desideri si conciliarono in una maniera estremamente semplice, e i due decisero che sarebbero andati a cercare casa a Berlino assieme. La vecchia casa di Ansgar Keehl era di proprietà del figlio, e siccome l’uomo doveva scontare diversi anni di prigione per violenza aggravata e omicidio colposo a danni di un povero malcapitato che, un giorno di qualche anno prima, aveva attraversato la sua strada ubriaca e barcollante, la casa era libera da circa due anni e lo sarebbe stato per altri due e mezzo.
Ma prima di stabilirsi nella zona più oscura della capitale tedesca Annika Tempor decise di fare un viaggio a casa. Vendette il grosso appartamento ormai di sua proprietà ad una cifra molto buona, lo svuotò delle poche cose che desiderava tenere con sé, lasciò l’università che frequentava compilando tutti i documenti per un trasferimento all’estero e infine scrisse una lettera. Era indirizzata a Stephen Tempor. La lettera rimase sepolta nel terreno di fronte alla tomba dell’uomo per sette mesi, prima di decomporsi del tutto.
Con i soldi di Annika lasciatigli dal padre, assieme a Mihael fecero un vero restauro di quella piccola casetta piena di polvere e incubi. Mihael avrebbe voluto andare a vivere da un'altra parte, ma doveva affrontare la realtà, ossia che non avevano abbastanza denaro. Per più di un anno Mihael covò la speranza di andarsene, e grazie ad alcune raccomandazioni da parte di un certo detective soprannominato L, divenne criminologo e cominciò a lavorare per la polizia segreta tedesca. In poco tempo ebbe a disposizione un capitale più che sufficiente per comprare una casa molto spaziosa, troppo spaziosa per sole due persone, vicino alla Porta di Brandeburgo nel centro di Berlino.
Annika, dopo aver imparato correttamente la lingua -cosa per cui non impiegò più di due mesi-, si iscrisse alla Technische Universitat Berlin, Università interamente dedicata alle scienze, nella facoltà di matematica. Poco dopo essersi laureata divenne insegnante nella stessa, e scrittrice di saggi incomprensibili ai più dedicati all’infinito mondo dei numeri, così logico e così perfetto che era impossibile non amarlo!
Un giorno Mihael, rovistando nel suo vecchio pc, ebbe l’idea di entrare nella casella postale intestata a Near che Matt gli aveva aperto quando erano ancora alla Wammy’s House. Non ebbe idea di come, forse fu il caso, ma trovò diverse mail da parte di un funzionario statale americano. A quanto pare qualcuno che doveva dei favori a Near, poiché non esitava a fornirgli informazioni riservate. Per i primi scambi di mail Mihael non ebbe niente di che ridire, ma quando arrivò ad un certo punto cominciò a leggere con più interesse. Quando ebbe finito e riletto le ultime mail due volte, spalancò gli occhi in un’espressone di sorpresa e comprensione.
“Annika!” Il ragazzo si alzò, trascinando il computer con sé. “Annika è stato Near! E’ stato Near!” Corse nello studio e trovò la ragazza intenta a studiare, china su dei grossi libri. “E’ stato Near! Con Matt, e Diane!”, esclamava estasiato, confondendo le parole e sorridendo.
“Che cosa?”, domandò la ragazza senza capire.
“E’ stato Near. Near ha scoperto che Diane Colfer era la madre di Matt! Ed è stato lui a convincere L che era la migliore da assoldare per il secondo caso Kira.”
Annika rimase sorpresa. “Dici davvero?”
“Sì, sì!”, esclamò Mello entusiasta spazzando via i libri di Annika e poggiando il computer sulla scrivania. “E’ tutto scritto qua, guarda. Leggi queste.”
Dopo aver scorso alcune mail, sotto l’attenta supervisione di Mihael che le teneva le mani sulle spalle, Annika si morse un labbro. “Dovremmo dirlo a Mail?”
“A Matt?”, domandò il ragazzo. Rimase pensieroso un secondo, poi si strinse nelle spalle. “No, perché? Meglio lasciarlo pensare che sia stato… che ne so, il destino.”
A dir la verità non sentivano Mail da quando si erano separati, alla fine del caso. Si mantenevano in blando contatto, scambiandosi ogni tanto qualche e-mail.
Mail Jeevas era residente a New York, in un alto palazzo dai vetri che riflettevano il mondo circostante, a soli pochi isolati dalla casa di Diane Colfer. Grazie alla madre aveva ottenuto un posto alla CIA, nel reparto spionaggio, ed era specializzato in intercettazioni di carattere informatico. In parole povere, era un hacker. Ma questa volta era più o meno legalizzato. Non aveva pensato a rinunciare al suo nome di hacker Fermat nemmeno una volta, ma pian piano aveva iniziato a selezionare sol i clienti dai casi più interessanti e aveva abbassato notevolmente il suo onorario. In otto anni era riuscito a collezionare un numero incredibile di consolle e videogiochi, che entravano comodamente nel suo appartamento al trentottesimo piano. Ogni mattina si alzava alle otto e tornava alle sei di sera, tranne quando qualche caso particolare lo costringeva a fare gli straordinari. Era riuscito ad inventare un gioco di logica e azione per pc, nel quale si arrivava all’ultimo livello a forza di pistole e dopo aver superato parecchi enigmi.
Mail Jeevas, assieme a Diane Colfer e qualche altro collaboratore, formavano una delle migliori squadre che si erano mai viste alla CIA. Veloci, efficienti, e attaccati al lavoro più di una cozza allo scoglio. Per Mail non era un grosso problema: quel lavoro conciliava perfettamente con il suo hobby. Non tanto il frugare nella vita privata di qualcun altro, ma piuttosto riuscire a superare gli ostacoli della rete senza farsi scoprire.
Per Diane Colfer invece era stato problematico all’inizio tornare al lavoro a tempo pieno: aveva dovuto riabituarsi ai ritmi serrati dell’ufficio, e dopo aver formalmente adottato Georgie Jonsson era diventato ancor più complicato e faticoso. Ciò nonostante Georgie Colfer aveva finalmente trovato una sede stabile, di fronte a Central Park, assieme al piccolo cane nervoso Biancaneve e con due genitori che, sebbene sapesse benissimo che erano adottivi, le davano tutto quel che fino ad allora le era stato negato. Dopo aver frequentato con successo le scuole elementari ed aver preso posto stabile in una scuola di danza classica si era iscritta all’istituto di istruzione media più vicino, che stava esattamente a metà fra casa sua e quella dello ‘zio Mail’. Mail aveva cercato di spiegarle decine di volte che non era suo zio, e che piuttosto doveva considerarlo un fratello, o per lo meno un fratellastro, ma Georgie non aveva voluto cedere di un passo. Spesso andava a casa dello zio per farsi dare ripetizioni di geometria, materia nella quale andava peggio. Era contenta che suo zio fosse tanto bravo in quelle cose, perché così non avrebbe dovuto pagare nessun insegnante privato, e per di più passare del tempo con lui le piaceva.
Né Mail, né Diane né tantomeno Georgie si erano dimenticati di Mello, Noodle, L e soprattutto di Near, ma si sentivano solo ogni tanto tramite computer. Per un po’ avevano sentito solo Mello e Noodle, e si erano a fatica abituati a pensare a loro come Annika e Mihael. Sapevano che erano entrambi a Berlino e vivevano assieme. Ogni tanto arrivava nel nuovo continente qualche eco di un saggio scritto dalla matematica Annika Tempor, ma siccome nessuno di loro ci capiva poi molto, si limitavano a leggere il trafiletto sul giornale del mattino con un mezzo sorriso.
Di L avevano perso tutte le tracce.
Un giorno, quasi due anni dopo il secondo caso Kira, Georgie e Mail andavano in giro per il centro città, e mentre Georgie non faceva altro che mendicare un gelato Mail la trascinò dentro alla libreria nella quale lavorava una commessa molto graziosa, con la promessa che poi le avrebbe comprato quello alla crema e alla fragola che le piaceva tanto. Mail gironzolò per la grande libreria per un po’, fingendo a momenti di guardare i libri, e a momenti aguzzando lo sguardo azzurro di lenti colorate per scorgere la graziosa commessa. Quando la vide e la raggiunse, tentando di ostentare tutta la noncuranza di cui era capace, lei stava sistemando dei libri lungo uno scaffale.
“Ciao”, esordì Mail.
“Ciao. Ancora qui, eh?”, disse la ragazza sorridendo, senza smettere di fare il suo lavoro e indirizzando solo un’occhiata a Mail.
“Eh già. Non ho ancora trovato il libro giusto per me. Mi consigli qualcosa?” Mail si appoggiò allo scaffale.
“Dipende che cosa t’interessa.”
“Computer. Giochi…”, disse vagamente Mail, temendo di non sembrare interessante.
“Se ti riferisci ai manuali, mi spiace ma non posso aiutarti in maniera molto tecnica, però posso dirti dove andare a cercare. A dire la verità sono specializzata nella sezione romanzi”, disse la graziosa commessa senza smettere di sorridere.
“Be’, vediamo… i gialli ad esempio. Fatti bene però, mi piace scoprire chi è il colpevole.”
“Oh, un detective. E quanti gialli hai letto fin ora?”
“Veramente nessuno, però ho guardato molti film”, disse Mail come se quello fosse un valido sostitutivo.
La ragazza si fermò e gli gettò un’occhiata critica, la lingua fra i denti come se stesse trattenendo una risata. Al posto di sistemare l’ultimo libro sullo scaffale lo tenne in mano e lo porse a Mail. “Se davvero t’interessa prova a leggere questo”, gli mise in mano il pesante volume. “E’ di un autore inglese esordiente, dicono che là in Europa abbia fatto il giro di tutte le librerie. Adesso scusami ma devo andare.”
Mail sorrise e sventolò il libro. “Okay d’accordo. Quando lo finisco torno! Ti dico cosa ne penso!”
“Mi farebbe molto piacere”, disse la graziosa commessa in risposta, voltandosi a guardarlo. Sparì dietro l’angolo e Mail diede un’occhiata al libro.
Cosa può fare uno shinigami annoiato, di Adam Livret.
Il ragazzo sgranò gli occhi e aprì la prima pagina.
Nate River guidava lungo la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di aver ricevuto un messaggio…
Tornò a casa e lesse fino a notte fonda.

Alla fine di ogni caso L Lawliet sentiva un senso di spossatezza e smarrimento invaderlo. La spossatezza poteva forse spiegarla come un effetto collaterale dovuto alla mole di lavoro che lo aveva appena investito con la stessa forza di un camion, e alle ore di sonno che anche lui a volte necessitava di recuperare. Quello poteva risolverlo. Ma non lo smarrimento; era un problema del suo cervello, che si perdeva terribilmente nella semplicità della vita quotidiana. Per quanto fosse astuto e colto, anche di psicologia, non aveva idea di come togliersi quella fastidiosa sensazione di dosso. Per qualche giorno vagava per la sua casa di campagna dello Yorkshire, fra i mobili in legno, i soffitti alti e le finestre così piene di campagna, senza sapere cosa fare o dove andare per cercare pace a quella sensazione di perdita e di confusione che sentiva. Era come noia, mescolata a qualcosa di più grande che non riusciva a controllare.
La fine del secondo caso Kira tuttavia fu diverso. Non c’era stanchezza, non c’era perdita ad invaderlo. Più che altro… fremeva. Fremeva di curiosità, di ansia, di voglia di cominciare. Cominciare a scrivere naturalmente. L’ultima notte prima di incontrare Light Yagami aveva scritto sei pagine in poco più di un’ora. Poi non aveva più toccato il pc se non prima di stabilirsi nella casetta di campagna.
Era stato un rituale: era arrivato alle 8.27 del mattino, aveva messo tutti suoi averi al proprio posto. I vestiti, il pc con tutti i suoi cavi e le sue prese. Aveva fatto un’abbondante spesa, aveva messo un po’ a posto la casa e si era preparato un dolce al cioccolato. Aveva preparato un tè verde e acceso il computer. Si era seduto davanti al pc con una fetta di torta e una tazza di tè affianco. Poi aveva iniziato a scrivere. Aveva scritto ininterrottamente per sei ore, poi si era ricordato della torta.
Un anno dopo, a libro terminato, aveva inviato il manoscritto ad una piccola casa editrice. Loro lo avevano preso, redatto, gli avevano consigliato di apportare qualche modifica e lui aveva coraggiosamente difeso le sue idee, decidendo poi per un leggero cambiamento al titolo della storia. Aveva scelto uno pseudonimo e la casa editrice aveva stampato cinquecento copie del suo manoscritto. La carta usata era sottile, la copertina molle, le pagine 639. Costava 9 sterline e 55 cents. Cinque mesi dopo un editore di un’importante catena editoriale lo aveva notato e gli aveva proposto di stampare il libro con la loro casa. L aveva accettato.
Dopo un’ampia pubblicità e diversi incontri con il suo editore le pagine erano diventate di una carta un po’ meno fragile ed erano aumentate con il diverso formato del libro. La copertina era rigida e il prezzo era lievitato. La prima ristampa si era avuta dopo appena due mesi dall’uscita ufficiale.
Otto anni e tre libri dopo, Adam Livret, alias L Lawliet, scese dal bus che lo aveva portato nella città di Dover, nel sud dell’Inghilterra. Era la città più vicina alla Francia, da lì si poteva raggiungere il blocco europeo anche a nuoto, se si era abbastanza allenati, era un cittadina rispettabile e piena di gente per bene, nonché luogo di nascita di Nate River.
Quando L scese dall’autobus mancava un solo giorno al grande giorno. Chiamò un taxi, si fece portare all’hotel nel quale aveva affittato una stanza e si mise subito a letto. Una volta tanto era stanco anche lui.
La sveglia suonò il mattino dopo alle nove in punto. L si alzò, andò in bagno, fece la doccia e scese a fare colazione. Mangiò brioches al cioccolato e bevve latte fresco, poi si ritirò nella sua stanza. L’appuntamento era all’una, per pranzo, in un elegante ristorante. Decise che avrebbe fatto un giro per Dover, così prese portafoglio, cellulare e giacca, e uscì nella tipica mattinata inglese. Quel giorno fece follie: comprò un paio di jeans, un libro fantasy per un pubblico adulto (per sperimentare nuovi generi) e dei pasticcini alla cannella. Poi prese un taxi e si fece portare al ristorante. Di fronte all’edificio c’era un piccolo parco giochi con delle panchine. Scelse una posizione strategica, per vedere la porta del ristorante, e si immerse nel suo libro. Quando alzò lo sguardo la prima volta erano passate ventisette pagine e non vide nulla di interessante, a parte un gruppo di ragazzi vestiti di borchie e catene che passavano per strada. S’immerse di nuovo. Alla seconda occhiata vide una coppia che si teneva per mano. Erano biondi, e a giudicare dal loro abbigliamento soffrivano parecchio il caldo che ristagnava nella città. L mise via il libro, si alzò, e li raggiunse. Quando era vicino a loro udì l’ultima parte del discorso di lei in una lingua secca. Tedesco. L si avvicinò e sorrise, gli occhi grandi e tondi. “Mihael. Annika”, salutò annuendo in segno di saluto.
I due si voltarono, in viso un’aria stupita e allegra. “L!”, salutò Annika abbracciandolo. “Come stai? Tutto bene? Ma lo sai che abbiamo tutti i tuoi libri a casa?”
“Oh grazie mille. E voi?” Si staccò da Annika e scambiò una vigorosa stretta di mano con Mihael.
“Tutto bene. Proprio tu, dovresti saperlo no? Se non ricordo male qualcuno mi ha raccomandato.”
L fece un sorrisino e distolse lo sguardo. “Non sono più nel ramo delle indagini.”
“Ma potresti riprendere quando vuoi. Con me e Matt puoi scegliere: America o Germania?”, disse Mihael ghignando.
L stava per rispondere, quando vide tre persone camminare verso di loro a passo svelto. Una ragazzina che poteva avere si e no quattordici anni corse verso di loro. “Ciao!”, salutò.
Annika la osservò corrugando le sopracciglia. “Georgie”, disse, portando gli occhiali da vista dalla fronte al viso. “Sei cresciuta”, constatò.
Georgie sorrise, nel frattempo li raggiunsero Mail e Diane. “Mihael!”, esclamò il ragazzo. “Come stai? Annika, ciao.”
Quando i saluti furono terminati Diane domandò: “Entriamo? Ho prenotato un tavolo settimane fa”.
La prenotazione era a nome Colfer. Il cameriere, un giovane dall’aria cortese, li fece sedere ad un tavolo rettangolare. Ordinarono piatti tipici del luogo e quando ebbero consumato tutto e i camerieri ebbero liberato il tavolo, le pance di ognuno erano piene e tutti sapevano tutto dei compagni che non vedevano da anni.
Un cameriere arrivò con altri tre menù e domandò: “Desiderate il dolce?”.
“Io sì grazie”, disse Georgie allegra.
“Anch’io”, disse L.
Il cameriere porse loro le liste e domandò. “Qualcun altro?” Tutti scossero la testa. “Caffè?”
“Sì grazie”, disse Annika. Si unirono a lei altre quattro voci.
“Torno subito”, disse il cameriere.
“Un altro po’ di vino?”, domandò Mihael.
“Posso berlo anch’io?”, domandò Georgie. Diane per un secondo parve replicare, ma Mihael fu più veloce e versò qualche goccio di vino alla ragazzina.
“Vogliamo brindare?”, domandò infine il ragazzo. Tutti alzarono i loro calici e attesero che qualcuno parlasse. Fu Mihael a prendere la parola, e tutti pensarono intimamente che fosse il più adatto. Non disse poi molto, in realtà, ma fu come se invece stesse facendo un discorso lungo e profondo. “A Nate.”
“A Nate”, ripeterono tutti.

Appena dopo che Ryuk scomparve ritornò nel Mu tramite la porta che lo separava dal mondo degli umani, e da altri mondi che non possiamo neanche immaginare. Quando ritirò le ali nere era di nuovo nel deserto desolato e triste che conosceva bene. Fece un grosso sospiro e ghignò.
Era impressionante come una minuscola azione potesse condizionare in modo tanto radicale la vita di più persone. Gli umani potevano diventare esseri straordinari, pensò Ryuk, sia nel bene che nel male. Non stava a lui giudicare cosa fosse bene e cosa male, tuttavia aveva una particolare predilezione per i malvagi. E comunque stessero le cose gli umani erano sempre inferiori ad uno Shinigami, ragionò il dio della morte. Se l’azione di un uomo poteva causare tanti cambiamenti, quella di uno Shinigami poteva sconvolgere un mondo intero. Per un secondo Ryuk si sentì orgoglioso di questa sua capacità. Ricordò quando tutto era cominciato: da quando aveva fatto cadere il suo vecchio Death Note e Light Yagami l’aveva raccolto. Si annoiava, il motivo era soltanto quello. Ancora non aveva idea di come lui fosse potuto tornare, ma scacciò il pensiero.
Si diresse verso gli altri, che giocavano a dadi sotto la carcassa di un enorme animale non meglio identificato. “Ciao Ryuk!”, disse uno di loro.
“Ciao! Come va qui?”
“Ah, tutto come al solito.”
“Stephen, come stai?”, domandò Ryuk guardandolo intensamente.
Era totalmente cambiato da quando lo aveva visto l’ultima volta. Se quando era partito poteva sembrare ancora un uomo dalle bizzarre fattezze, ora nulla in lui denotava che una volta era stato un esponente della razza umana. Aveva la pelle di un colore verde marcio e bianca, i capelli di un verde più scuro e una sorta di elmetto di osso gli copriva la parte superiore del viso. Aveva lunghe braccia e gambe, ma al contrario di molti altri Shinigami camminava dritto, ergendosi in tutta la sua statura. Aveva una tasca naturale sulla schiena, e dentro Ryuk vi scorse un Death Note nuovo di zecca.
Lo Shinigami si volse verso di lui e accennò un sorriso storto e deforme. “Tutto bene Ryuk. Anzi! Oggi mi sento più in forma del solito.”
“Sono contento Stephen, sono contento per te.”
“Hey Ryuk!”, gridò un altro mostro. “Il Grande Capo ti cerca!”
Ryuk si congedò, passando dietro a Stephen e dandogli una pacca sulla spalla, diretto dal Re degli Shinigami. Lo cercò per molto tempo. O forse per poco. Il tempo, nel Mu, era qualcosa di relativo e di scarsa importanza. Passava appiccicoso e melmoso sulle loro pelli secche.
Quando Ryuk trovò il Re quello stava seduto su uno scranno, leggendo nomi da un Death Note. Quando si accorse della sua presenza alzò lo sguardo. “Ryuk, mi hanno detto della tua scampagnata sulla terra. Divertito?”
“Abbastanza”, rispose lui.
“Ryuk, mi chiedevo…”, il Re si chinò su di lui con fare misterioso. “Mi hai portato qualche mela?”
Lo Shinigami sghignazzò. “Ma certo vostra altezza.” E così dicendo tirò fuori dal tascapane diversi frutti e li porse al re.
“Ah!”, esclamò l’altro fregandosi le mani. “Eccellente, bravo Ryuk.”
“Di nulla signore.” Lo Shinigami fece per andarsene, sicuro che il suo Re volesse solo un po’ di mele succose e dolci, ma il mostro lo richiamò indietro.
“Ryuk?”
“Signore?”, domandò lui voltandosi.
“Un po’ di tempo fa stavo sfogliando un tuo vecchio Death Note, sai che li tengo tutti io. Be’… ovviamente questo non influirà sugli anni che hai sottratto a quell’umano ma… ho cancellato un nome. Spero non ti dispiaccia.”
Ryuk si volse, interessato. “Quale nome?”
Il Re ci pensò su un attimo, dando una morso ad una mela. “Non ricordo bene, era morto da pochi mesi, era un uomo giapponese.”
“Posso chiedere a vostra maestà… perché l’ha fatto?”
Lo Shinigami si strinse nelle spalle. “Mi annoiavo”, rispose solo.
Ryuk non poté trattenersi dall’esplodere ina una sguaiata risata. Tu guarda cosa può causare uno Shinigami annoiato!










Sergio,
che sta affianco all'autrice
ogni giorno.





















Fine
Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.
Molti personaggi appartengono a Tsugumi Oba e Takeshi Obata, autori di Death Note e proprietari di tutti i diritti.










Oh mio Dio.
Non posso crederci che sia finito.
Cacchio! O.O
...
Ecco, sono rimasta in sospeso per un po', ora ci sono.
Allora, che dire? Veramente non c'è molto da dire, o, in realtà, mi sono già spremuta abbastanza in quest post del mio blog. Nel caso non abbiate voglia di leggere ve lo ridico qua:
Un gigantesco grazie a tutte le persone che hanno seguito la storia, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Grazie a chi ha solo letto, grazie a chi ha scritto una recensione, grazie a chi aspettava che postassi un altro capitolo, grazie a chi leggeva e voleva sapere come continuava la storia. Adesso è finita, veramente finita, e io non so ancora dirvi quante vagonate di grazie vi riverserei addosso! Una tonnellata, o giù di lì.
Quindi, cominciamo con il primo:
Grazie!
Un saluto a tutti,
Patrizia
   
 
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