Il
Limbo
C’è
un’insegna al neon mal funzionante ad attirare i ragazzini,
il
sabato, e loro accorrono a quel Lim
che illumina la strada, ansiosi di assaggiare un sorso di fasulla
maturità. Viso troppo giovane e movimenti sgraziati, di chi
non
riconosce quel corpo cambiato troppo in fretta; negli occhi una
rabbia distruttiva contro il mondo, contro quella città
troppo
lontana, contro i tuoi che non ti permettono di andarci – e
contro
tuo fratello che quei ventisette chilometri se li fa ogni sera in
macchina. Ma a quattordici anni puoi avere solo un bar di provincia
vecchio di vent’anni e un’insegna al neon mal
funzionante.
C’è
un barista che sta lì da sempre, in mezzo a marmocchi che
fanno le
prove generali per l’entrata in scena – la prima
sigaretta tra
tosse e lacrime, un bicchiere svuotato in fretta, caramelle alla
menta nella speranza di non farti fregare dall’alito.
Speranza
vana, finché non scopri le PIP; stronzo tuo fratello che si
diverte
troppo per dartene una, ingenuo tu che non capisci come riesca lui a
non farsi mai beccare. Ma a quattordici anni sei ancora lontano
dall’entrata in scena, e puoi sbagliare quanto vuoi nelle
prove
generali.
C’è
il sapore di proibito, lo sguardo che segue due gambe nude un
po’
insicure sui tacchi; un pugno serrato in tasca e il cuore che batte a
mille. L’odore di donna che puoi solo immaginare e quello
delle
moto in corsa che desideri altrettanto. Al bisogno ricicli e
reinventi i racconti di tuo fratello, tra l’ammirazione degli
amici, finendo quasi per crederci anche tu. Ma a quattordici anni in
fondo lo sai tu e lo sanno gli altri, che le scopate e le gare ancora
non fanno per te.
Rende
onore al suo nome, il Limbo: accoglie ragazzini e ragazzine che non
vedono l’ora di andarsene, di abbandonare lo squallore
provinciale
per raggiungere la città – illudendosi che oltre
quei ventisette
chilometri ci sia l’età adulta, perfetta come la
vorrebbero. È il
luogo in cui i bambini crescono, affamati di vita e libertà;
si
muovono incerti lungo il confine, odiando quella terra di mezzo che
li imprigiona, e il passato troppo vicino, e il futuro troppo
lontano. È il filo su cui danzano e cambiano e cadono; si
rialzano
sempre, ogni volta con un livido in più, finché
non hanno la pelle
dura abbastanza da gettarsi nel vuoto e non tornare indietro. Ma
c’è
chi l’ha fatto troppo presto, e chi invece non si
è mai buttato.
~
«Te
ne andrai.»
Fu
solo un sussurro, un
singhiozzo impastato di parole, quasi coperto dal tonfo del pennello
nel secchio del colore. Strisciato dalla mente alle labbra, rimasto a
lungo in gola a strozzarle il respiro, aveva infine vinto
l’incertezza e il silenzio.
Lui
asciugò l’ultimo
bicchiere senza voltarsi a guardarla.
«Sono
qui.»
«Adesso.
Ma poi?»
Poi
non lo so. Poi
magari non ce la farò più a sopportare tutto
questo e fuggirò
davvero. Poi magari svuoterò il flacone dei sonniferi e
allora mi
avrai qui per sempre.
Ingoiò
la risposta
insieme alla saliva, costringendosi a rimanere in silenzio.
«Poi,
Andrea?»
Non
ascoltarla.
«Poi
te ne andrai.
Come lui.»
Non
sa quello che dice.
Non ascoltarla.
«Perché
anche a te fa
schifo questo posto. Lo odi. Tu sei un esteta, tu vuoi la perfezione
e te ne andrai a cercarla, vero? E sai qual è la parte
divertente?»
rise, stridula, isterica. «Che poi tornerai,
perché di perfetto non
c’è niente, e io ti aprirò la porta e
sarò addirittura felice
che tu sia di nuovo qui.»
Non
ascoltarla, cazzo!
Si
voltò più per
riflesso che per costrizione, quando lei gli afferrò il
braccio.
Osservò nauseato la sua smorfia per aver sforzato il polso,
la mano
sana scattare protettiva intorno agli aloni violacei. Non rimaneva
più nemmeno la rabbia, da quanto era esausto –
solo il disgusto,
l’impotenza. Guardarla morire e non avere la forza o il
coraggio
d’impedirlo.
«Non
sono lui. Non
sono un codardo.» mormorò.
«Te
ne andrai.»
ripeté lei, con voce di nuovo flebile.
«Sono
qui.» le
strinse goffamente le spalle, nell’abbraccio incerto di chi
non c’è
più abituato. «Non sono lui. Adesso ci sono, e...
e rimarrò.
Sempre. Sempre, mamma.»
Mentì.
~
«Io
non capisco perché
stai ancora qua.» esordisce una ragazzina, sedendosi al
bancone e
gettando il grembiule da cameriera sullo sgabello accanto.
Lui
le versa
un’aranciata con un sorriso, curioso di sentire gli
immancabili
commenti post chiusura.
«Insomma,
cosa ci
trovi?» beve un sorso e lancia al locale vuoto uno sguardo
tra
l’annoiato e il disgustato. «Un branco di ragazzini
che dalle
undici in poi stanno piegati sul marciapiede a vomitare
l’anima.»
«Scarsi,
io alla
vostra età resistevo fino a mezzanotte.» ridacchia.
«E
poi quel muro è veramente orribile.» accenna alla
propria destra,
ignorandolo. «Io l’avrei già fatto
imbiancare. Facciamo una
colletta, “Per
rendere decoroso il Limbo”,
e vedi quanti soldi tiriamo su per la vernice. Naturalmente dovrai
offrirmi aranciata a vita, dato che l’idea è stata
mia.»
Lui
non la ascolta più.
È girato verso la parete e fissa il dipinto incompleto che
avrebbe
dovuto ricoprirla – volti appena abbozzati, le bocche
cavità
incolori spalancate sul nulla, gli occhi inesistenti sul colore
uniforme della pelle. Volute di fumo grigiastro e violaceo risalgono
dal pavimento, interrotte bruscamente prima di riuscire a
circondarli, come se l’artista avesse cambiato idea a
metà strada;
e in effetti è stato così, ma lei non
può saperlo.
«Sul
serio, Andre,
lasciare là quella roba non ha minimamente senso.»
Torna
a voltarsi verso
il bancone, ma lei non riesce a decifrare la piega delle sue labbra.
«E
invece ha senso,
Lena.» la guarda negli occhi scuri, uguali ai propri,
cercando le
parole più adatte a spiegare – ma non si possono
spiegare certe
cose a una quattordicenne.
«Non-»
«Credimi,
ce l’ha.
Non tutto può essere perfetto – niente
lo è.»
~
Alla
fine l’aveva
trovato, nonostante gli anni e i chilometri: il passato gli era
crollato addosso e in quattro minuti di telefonata aveva distrutto il
futuro. Era rimasto attonito per giorni, schiacciato dal peso di
tutto ciò da cui era fuggito, tutto ciò che lo
disgustava, tutto
ciò che non avrebbe mai voluto ricordare.
Il
bastardo se n’era
andato; per sempre, questa volta. E lui doveva tornare,
perché
avevano bisogno di aiuto e perché senza entrambi sua madre
stava
impazzendo sul serio.
Pazienza
se aveva una
vita e dei progetti e dei sogni, se erano diventati degli estranei,
se la sola idea di tornare da lei lo nauseava. «Siamo la tua
famiglia.» aveva detto seccamente Davide, prima di chiudere
la
chiamata, e a lui era rimasta la voglia di urlare quelle repliche
bloccate in gola.
Udì
Clarisse mormorare
qualcosa e si voltò, guardandola mentre arrestava il
movimento
dell’altalena, ascoltando la sua voce intrisa
d’insicurezza –
non le aveva ancora parlato della telefonata, ma doveva aver intuito
qualcosa, e ormai aveva solo due giorni di tempo prima di partire.
Sussurrò
spiegazioni
scarne, senza lasciarsi sfuggire parole che sarebbero state solo
un’inutile sofferenza in più. Non offrì
conforto al suo silenzio
incredulo; si limitò a percorrerla con lo sguardo, scolpendo
nella
memoria ogni dettaglio, con la speranza che rimanesse intatta e
perfetta nei ricordi com’era sempre stata nella
realtà. Gli
sembrava impossibile che qualcosa sarebbe potuto cambiare –
non
sentire più il profumo dei suoi capelli chiari, o la sua
voce
sussurrargli citazioni come fossero promesse d’amore, o le
sue dita
intrecciate alle proprie. Aveva trovato la perfezione ma presto
avrebbe dovuto abbandonarla, tornando a consumarsi in
un’ossessione,
all’ombra dei deliri di una donna sempre più folle.
«Quando
torni?» la
sentì chiedere, la voce un bisbiglio quasi inudibile.
Un
mai pesava
tra loro, opprimendoli, ma rimase inespresso – forse se non
l’avesse detto non sarebbe accaduto, forse avrebbero trovato
una
soluzione per continuare a vedersi, forse le cose si sarebbero
sistemate in qualche modo. Forse si stava illudendo, ma questo
preferì non pensarlo.
- ~
«E
tu come fai a
dirlo?» sbotta, improvvisamente irritata. «Come fai
a dire che
niente è perfetto?»
L’uomo
stringe le labbra. È presto per
affrontare l’argomento – ha quattordici anni,
è solo una
ragazzina. È presto ma ha iniziato il discorso comunque,
perché
l’ha vista e l’ha capita meglio di quanto lei
pensi, e sa che si
sta già perdendo in un’ossessione.
«Ho
parecchi anni più
di te, Lena. Per questo posso dirlo.»
«Non
è che tu
non sei riuscito a trovarla?» la sua voce e il suo sguardo
grondano
scherno. «Smettetela di dirmi tutti che cerco
l’impossibile,
perché continuo comunque!»
«Continui
a fare cosa?
A non vivere come una della tua età? A disprezzare il mondo
perché
non è perfetto come vorresti?»
«E
se anche fosse?»
ormai è quasi arrivata a gridare, senza rendersene conto, ma
ormai
il Limbo è chiuso e nessun altro può sentirla.
«Questo posto mi fa
schifo, va bene? Quei cretini superficiali e la gente ipocrita e il
muro mezzo dipinto e tutto il resto, e se tu vuoi rimanere qua ad
ammuffire senza cercare di meglio fai pure, ma io non voglio fare la
stessa fine!»
~
Erano
rannicchiati sui
divanetti del bar, che in quel momento era davvero un limbo, una
strana dimensione sospesa tra il dolore e
l’incredulità – perché
non poteva essere vero, faceva troppo male e la vita è
bastarda ma
non così tanto, doveva essere un incubo, sì, solo
un incubo. Udiva
Giulia singhiozzare, Davide sussurrarle inutili parole di conforto;
Elena aveva smesso di piangere contro il suo petto, probabilmente
addormentata, ma non smise di stringere il suo corpo piccolo e
sfinito. Al funerale si era sentito quasi un estraneo – lui,
il
traditore che andandosene l’aveva quasi fatta impazzire di
dolore.
Lui, il vigliacco che di fronte a quel bastardo non aveva mai avuto
il coraggio di difenderla, rimanendo a guardare mentre la copriva di
lividi. Lui, il vagabondo che era tornato controvoglia, trovando una
sorella mai conosciuta e una madre ancor più instabile e
soffocante
di prima.
Respirò
l’odore di
chiuso del locale, che gli portava alla mente anni interi passati
là
– litigi e risate e parole canticchiate a mezze labbra, e
partenze
e ritorni e follia che si faceva strada. Sapeva di umana
imperfezione, ma ormai non lo turbava più, pensò
fissando i volti
incompleti che decoravano la parete di fronte.
«Non
ha più dipinto
da quando te ne sei andato.» mormorò Davide,
seguendo il suo
sguardo.
«Lo
so.»
E
lo sapeva davvero, perché era uno di quei discorsi
affrontati mille
volte, uno di quei tasselli di storia incastrati a forza nel suo
mosaico attraverso racconti e accuse, quando ormai il tempo di
viverli era passato.
Scostò
Elena da
sé e aprì una mano, mostrando un foglio
accartocciato: poche righe
di spiegazioni e di scuse, un addio tracciato con grafia incerta
–
tutto ciò che concedeva ad una donna che in
realtà aveva già
salutato anni prima, quando un mai
non detto aveva mozzato il respiro ad entrambi. Lo ripiegò
con cura
e lo porse al fratello.
«Spediscila
tu.»
mormorò.
L’altro
annuì,
liberando un braccio dalla stretta di Giulia per metterlo in tasca.
«E le altre?»
«Bruciale.»
Finiva
così, la sua
ossessione. Con pile di carta gettate nel fuoco, distanza e
tradimenti accumulati negli anni e una manciata di ricordi sbiaditi.
E forse un po’ di rimpianto per quella ragazza conosciuta una
notte
d’estate, tra citazioni e sorrisi – per la
felicità che era
scivolata via con l’inchiostro di lettere sempre
più rade, sempre
più fredde, sempre più imperfette. Ma in fondo,
si rese conto
pensando senza dolore alle fiamme che le avrebbero inghiottite, la
perfezione incarnata da quella ragazza non era stata che
un’illusione, distrutta dalla realtà che anni
prima aveva bussato
alla porta con una telefonata.
~
«Credi
che altrove ci
sia altro, Lena?» chiede, aspro. «Altrove
è esattamente come qui.
Con le cose lasciate incomplete e imperfette. Con la gente che non ti
piace e quella che invece ti starebbe simpatica, se solo scendessi
dal piedistallo e ci parlassi. E magari con qualcuno o qualcosa che
scambi per la perfezione, ma si cresce e si cambia e prima o poi
tutto finisce.»
«Solo
perché a te
è capitato così non significa che-»
«No,
adesso taci e mi
lasci parlare. Finirai ossessionata da questa cosa, se non lasci
perdere in fretta. La perfezione non esiste, è inutile
perdere tempo
a cercarla, e la bellezza della vita la trovi solo se non stai dietro
a sogni impossibili. Permetti che ne sappia qualcosina più
di te?»
conclude quasi ringhiando, senza pensare che ha quattordici anni, che
alla sua età nemmeno lui avrebbe capito – ma non
vuole che compia
i suoi stessi errori prima di arrivare a comprendere.
«Io
sono un’esteta,
non una ragazzina idiota come quelle che vengono qua! Ma tu di sogni
non ne hai e quindi non devo averceli neanche io, vero? Tu non hai
trovato quel che cercavi e allora hai deciso che non esiste, e non
vuoi che qualcun altro lo trovi, non vuoi dover ammettere che sei un
fallito!» grida senza controllo, rigurgita la rabbia che la
soffoca
da troppo tempo.
Sa
di aver osato
troppo, di aver passato il limite. Si aspetta uno schiaffo quando lo
vede alzare una mano, ma dopo qualche istante lui la lascia ricadere
inerte sul bancone. Incontra i suoi occhi, improvvisamente pieni di
stanchezza, e le sembra così debole da farle quasi pena.
«Io
voglio solo che tu
non te ne vada.» mormora, in una preghiera che sa
già essere
inutile. «Voglio solo che tu non sparisca da un giorno
all’altro
per seguire un’illusione.»
«Sei
proprio come
mamma.» risponde a voce altrettanto bassa, e lui riconosce
nei suoi
occhi la stessa fame di libertà e perfezione che lo animava.
«E
tu sei proprio come
me.»
Purtroppo.
* * *
Questa storia si è classificata seconda all'Original
Concorso 12 Il
Limbo e... l'Esteta indetto da Eylis, con 54,5/60
punti. Potete trovare la valutazine qui.
I dettagli poco chiari sono spiegati in Clarisse, un'altra mia storia a
cui questa è legata, o verranno chiariti in scritti
successivi. Non a caso ho scelto di creare una serie apposita per
questi personaggi. Per chi volesse leggere di qualche momento o
personaggio particolare, lo chieda pure e cercherò di
accontentarlo, se non è già un argomento in
programma.
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