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Autore: TuttaColpaDelCielo    08/11/2011    0 recensioni
È il luogo in cui i bambini crescono, affamati di vita e libertà; si muovono incerti lungo il confine, odiando quella terra di mezzo che li imprigiona, e il passato troppo vicino, e il futuro troppo lontano. È il filo su cui danzano e cambiano e cadono; si rialzano sempre, ogni volta con un livido in più, finché non hanno la pelle dura abbastanza da gettarsi nel vuoto e non tornare indietro. Ma c’è chi l’ha fatto troppo presto, e chi invece non si è mai buttato.
Seconda classificata, con 54.5/60 punti, all'original concorso 12 "Il Limbo e... l'Esteta" indetto da Eylis.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sfumature'
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Il Limbo



C’è un’insegna al neon mal funzionante ad attirare i ragazzini, il sabato, e loro accorrono a quel Lim che illumina la strada, ansiosi di assaggiare un sorso di fasulla maturità. Viso troppo giovane e movimenti sgraziati, di chi non riconosce quel corpo cambiato troppo in fretta; negli occhi una rabbia distruttiva contro il mondo, contro quella città troppo lontana, contro i tuoi che non ti permettono di andarci – e contro tuo fratello che quei ventisette chilometri se li fa ogni sera in macchina. Ma a quattordici anni puoi avere solo un bar di provincia vecchio di vent’anni e un’insegna al neon mal funzionante.

C’è un barista che sta lì da sempre, in mezzo a marmocchi che fanno le prove generali per l’entrata in scena – la prima sigaretta tra tosse e lacrime, un bicchiere svuotato in fretta, caramelle alla menta nella speranza di non farti fregare dall’alito. Speranza vana, finché non scopri le PIP; stronzo tuo fratello che si diverte troppo per dartene una, ingenuo tu che non capisci come riesca lui a non farsi mai beccare. Ma a quattordici anni sei ancora lontano dall’entrata in scena, e puoi sbagliare quanto vuoi nelle prove generali.

C’è il sapore di proibito, lo sguardo che segue due gambe nude un po’ insicure sui tacchi; un pugno serrato in tasca e il cuore che batte a mille. L’odore di donna che puoi solo immaginare e quello delle moto in corsa che desideri altrettanto. Al bisogno ricicli e reinventi i racconti di tuo fratello, tra l’ammirazione degli amici, finendo quasi per crederci anche tu. Ma a quattordici anni in fondo lo sai tu e lo sanno gli altri, che le scopate e le gare ancora non fanno per te.

Rende onore al suo nome, il Limbo: accoglie ragazzini e ragazzine che non vedono l’ora di andarsene, di abbandonare lo squallore provinciale per raggiungere la città – illudendosi che oltre quei ventisette chilometri ci sia l’età adulta, perfetta come la vorrebbero. È il luogo in cui i bambini crescono, affamati di vita e libertà; si muovono incerti lungo il confine, odiando quella terra di mezzo che li imprigiona, e il passato troppo vicino, e il futuro troppo lontano. È il filo su cui danzano e cambiano e cadono; si rialzano sempre, ogni volta con un livido in più, finché non hanno la pelle dura abbastanza da gettarsi nel vuoto e non tornare indietro. Ma c’è chi l’ha fatto troppo presto, e chi invece non si è mai buttato.

~

«Te ne andrai.»
Fu solo un sussurro, un singhiozzo impastato di parole, quasi coperto dal tonfo del pennello nel secchio del colore. Strisciato dalla mente alle labbra, rimasto a lungo in gola a strozzarle il respiro, aveva infine vinto l’incertezza e il silenzio.
Lui asciugò l’ultimo bicchiere senza voltarsi a guardarla.
«Sono qui.»
«Adesso. Ma poi?»
Poi non lo so. Poi magari non ce la farò più a sopportare tutto questo e fuggirò davvero. Poi magari svuoterò il flacone dei sonniferi e allora mi avrai qui per sempre.
Ingoiò la risposta insieme alla saliva, costringendosi a rimanere in silenzio.
«Poi, Andrea?»
Non ascoltarla.
«Poi te ne andrai. Come lui.»
Non sa quello che dice. Non ascoltarla.
«Perché anche a te fa schifo questo posto. Lo odi. Tu sei un esteta, tu vuoi la perfezione e te ne andrai a cercarla, vero? E sai qual è la parte divertente?» rise, stridula, isterica. «Che poi tornerai, perché di perfetto non c’è niente, e io ti aprirò la porta e sarò addirittura felice che tu sia di nuovo qui.»
Non ascoltarla, cazzo!
Si voltò più per riflesso che per costrizione, quando lei gli afferrò il braccio. Osservò nauseato la sua smorfia per aver sforzato il polso, la mano sana scattare protettiva intorno agli aloni violacei. Non rimaneva più nemmeno la rabbia, da quanto era esausto – solo il disgusto, l’impotenza. Guardarla morire e non avere la forza o il coraggio d’impedirlo.
«Non sono lui. Non sono un codardo.» mormorò.
«Te ne andrai.» ripeté lei, con voce di nuovo flebile.
«Sono qui.» le strinse goffamente le spalle, nell’abbraccio incerto di chi non c’è più abituato. «Non sono lui. Adesso ci sono, e... e rimarrò. Sempre. Sempre, mamma.»
Mentì.

~

«Io non capisco perché stai ancora qua.» esordisce una ragazzina, sedendosi al bancone e gettando il grembiule da cameriera sullo sgabello accanto.
Lui le versa un’aranciata con un sorriso, curioso di sentire gli immancabili commenti post chiusura.
«Insomma, cosa ci trovi?» beve un sorso e lancia al locale vuoto uno sguardo tra l’annoiato e il disgustato. «Un branco di ragazzini che dalle undici in poi stanno piegati sul marciapiede a vomitare l’anima.»
«Scarsi, io alla vostra età resistevo fino a mezzanotte.» ridacchia.
«E poi quel muro è veramente orribile.» accenna alla propria destra, ignorandolo. «Io l’avrei già fatto imbiancare. Facciamo una colletta, Per rendere decoroso il Limbo, e vedi quanti soldi tiriamo su per la vernice. Naturalmente dovrai offrirmi aranciata a vita, dato che l’idea è stata mia.»
Lui non la ascolta più. È girato verso la parete e fissa il dipinto incompleto che avrebbe dovuto ricoprirla – volti appena abbozzati, le bocche cavità incolori spalancate sul nulla, gli occhi inesistenti sul colore uniforme della pelle. Volute di fumo grigiastro e violaceo risalgono dal pavimento, interrotte bruscamente prima di riuscire a circondarli, come se l’artista avesse cambiato idea a metà strada; e in effetti è stato così, ma lei non può saperlo.
«Sul serio, Andre, lasciare là quella roba non ha minimamente senso.»
Torna a voltarsi verso il bancone, ma lei non riesce a decifrare la piega delle sue labbra.
«E invece ha senso, Lena.» la guarda negli occhi scuri, uguali ai propri, cercando le parole più adatte a spiegare – ma non si possono spiegare certe cose a una quattordicenne.
«Non-»
«Credimi, ce l’ha. Non tutto può essere perfetto – niente lo è.»

~

Alla fine l’aveva trovato, nonostante gli anni e i chilometri: il passato gli era crollato addosso e in quattro minuti di telefonata aveva distrutto il futuro. Era rimasto attonito per giorni, schiacciato dal peso di tutto ciò da cui era fuggito, tutto ciò che lo disgustava, tutto ciò che non avrebbe mai voluto ricordare.
Il bastardo se n’era andato; per sempre, questa volta. E lui doveva tornare, perché avevano bisogno di aiuto e perché senza entrambi sua madre stava impazzendo sul serio.
Pazienza se aveva una vita e dei progetti e dei sogni, se erano diventati degli estranei, se la sola idea di tornare da lei lo nauseava. «Siamo la tua famiglia.» aveva detto seccamente Davide, prima di chiudere la chiamata, e a lui era rimasta la voglia di urlare quelle repliche bloccate in gola.
Udì Clarisse mormorare qualcosa e si voltò, guardandola mentre arrestava il movimento dell’altalena, ascoltando la sua voce intrisa d’insicurezza – non le aveva ancora parlato della telefonata, ma doveva aver intuito qualcosa, e ormai aveva solo due giorni di tempo prima di partire.
Sussurrò spiegazioni scarne, senza lasciarsi sfuggire parole che sarebbero state solo un’inutile sofferenza in più. Non offrì conforto al suo silenzio incredulo; si limitò a percorrerla con lo sguardo, scolpendo nella memoria ogni dettaglio, con la speranza che rimanesse intatta e perfetta nei ricordi com’era sempre stata nella realtà. Gli sembrava impossibile che qualcosa sarebbe potuto cambiare – non sentire più il profumo dei suoi capelli chiari, o la sua voce sussurrargli citazioni come fossero promesse d’amore, o le sue dita intrecciate alle proprie. Aveva trovato la perfezione ma presto avrebbe dovuto abbandonarla, tornando a consumarsi in un’ossessione, all’ombra dei deliri di una donna sempre più folle.
«Quando torni?» la sentì chiedere, la voce un bisbiglio quasi inudibile.
Un mai pesava tra loro, opprimendoli, ma rimase inespresso – forse se non l’avesse detto non sarebbe accaduto, forse avrebbero trovato una soluzione per continuare a vedersi, forse le cose si sarebbero sistemate in qualche modo. Forse si stava illudendo, ma questo preferì non pensarlo.

~

«E tu come fai a dirlo?» sbotta, improvvisamente irritata. «Come fai a dire che niente è perfetto?»
L’uomo stringe le labbra. È presto per affrontare l’argomento – ha quattordici anni, è solo una ragazzina. È presto ma ha iniziato il discorso comunque, perché l’ha vista e l’ha capita meglio di quanto lei pensi, e sa che si sta già perdendo in un’ossessione.
«Ho parecchi anni più di te, Lena. Per questo posso dirlo.»
«Non è che tu non sei riuscito a trovarla?» la sua voce e il suo sguardo grondano scherno. «Smettetela di dirmi tutti che cerco l’impossibile, perché continuo comunque!»
«Continui a fare cosa? A non vivere come una della tua età? A disprezzare il mondo perché non è perfetto come vorresti?»
«E se anche fosse?» ormai è quasi arrivata a gridare, senza rendersene conto, ma ormai il Limbo è chiuso e nessun altro può sentirla. «Questo posto mi fa schifo, va bene? Quei cretini superficiali e la gente ipocrita e il muro mezzo dipinto e tutto il resto, e se tu vuoi rimanere qua ad ammuffire senza cercare di meglio fai pure, ma io non voglio fare la stessa fine!»

~

Erano rannicchiati sui divanetti del bar, che in quel momento era davvero un limbo, una strana dimensione sospesa tra il dolore e l’incredulità – perché non poteva essere vero, faceva troppo male e la vita è bastarda ma non così tanto, doveva essere un incubo, sì, solo un incubo. Udiva Giulia singhiozzare, Davide sussurrarle inutili parole di conforto; Elena aveva smesso di piangere contro il suo petto, probabilmente addormentata, ma non smise di stringere il suo corpo piccolo e sfinito. Al funerale si era sentito quasi un estraneo – lui, il traditore che andandosene l’aveva quasi fatta impazzire di dolore. Lui, il vigliacco che di fronte a quel bastardo non aveva mai avuto il coraggio di difenderla, rimanendo a guardare mentre la copriva di lividi. Lui, il vagabondo che era tornato controvoglia, trovando una sorella mai conosciuta e una madre ancor più instabile e soffocante di prima.
Respirò l’odore di chiuso del locale, che gli portava alla mente anni interi passati là – litigi e risate e parole canticchiate a mezze labbra, e partenze e ritorni e follia che si faceva strada. Sapeva di umana imperfezione, ma ormai non lo turbava più, pensò fissando i volti incompleti che decoravano la parete di fronte.
«Non ha più dipinto da quando te ne sei andato.» mormorò Davide, seguendo il suo sguardo.
«Lo so.»
E lo sapeva davvero, perché era uno di quei discorsi affrontati mille volte, uno di quei tasselli di storia incastrati a forza nel suo mosaico attraverso racconti e accuse, quando ormai il tempo di viverli era passato.
Scostò Elena da sé e aprì una mano, mostrando un foglio accartocciato: poche righe di spiegazioni e di scuse, un addio tracciato con grafia incerta – tutto ciò che concedeva ad una donna che in realtà aveva già salutato anni prima, quando un mai non detto aveva mozzato il respiro ad entrambi. Lo ripiegò con cura e lo porse al fratello.
«Spediscila tu.» mormorò.
L’altro annuì, liberando un braccio dalla stretta di Giulia per metterlo in tasca. «E le altre?»
«Bruciale.»
Finiva così, la sua ossessione. Con pile di carta gettate nel fuoco, distanza e tradimenti accumulati negli anni e una manciata di ricordi sbiaditi. E forse un po’ di rimpianto per quella ragazza conosciuta una notte d’estate, tra citazioni e sorrisi – per la felicità che era scivolata via con l’inchiostro di lettere sempre più rade, sempre più fredde, sempre più imperfette. Ma in fondo, si rese conto pensando senza dolore alle fiamme che le avrebbero inghiottite, la perfezione incarnata da quella ragazza non era stata che un’illusione, distrutta dalla realtà che anni prima aveva bussato alla porta con una telefonata.

~

«Credi che altrove ci sia altro, Lena?» chiede, aspro. «Altrove è esattamente come qui. Con le cose lasciate incomplete e imperfette. Con la gente che non ti piace e quella che invece ti starebbe simpatica, se solo scendessi dal piedistallo e ci parlassi. E magari con qualcuno o qualcosa che scambi per la perfezione, ma si cresce e si cambia e prima o poi tutto finisce.»
«Solo perché a te è capitato così non significa che-»
«No, adesso taci e mi lasci parlare. Finirai ossessionata da questa cosa, se non lasci perdere in fretta. La perfezione non esiste, è inutile perdere tempo a cercarla, e la bellezza della vita la trovi solo se non stai dietro a sogni impossibili. Permetti che ne sappia qualcosina più di te?» conclude quasi ringhiando, senza pensare che ha quattordici anni, che alla sua età nemmeno lui avrebbe capito – ma non vuole che compia i suoi stessi errori prima di arrivare a comprendere.
«Io sono un’esteta, non una ragazzina idiota come quelle che vengono qua! Ma tu di sogni non ne hai e quindi non devo averceli neanche io, vero? Tu non hai trovato quel che cercavi e allora hai deciso che non esiste, e non vuoi che qualcun altro lo trovi, non vuoi dover ammettere che sei un fallito!» grida senza controllo, rigurgita la rabbia che la soffoca da troppo tempo.
Sa di aver osato troppo, di aver passato il limite. Si aspetta uno schiaffo quando lo vede alzare una mano, ma dopo qualche istante lui la lascia ricadere inerte sul bancone. Incontra i suoi occhi, improvvisamente pieni di stanchezza, e le sembra così debole da farle quasi pena.
«Io voglio solo che tu non te ne vada.» mormora, in una preghiera che sa già essere inutile. «Voglio solo che tu non sparisca da un giorno all’altro per seguire un’illusione.»
«Sei proprio come mamma.» risponde a voce altrettanto bassa, e lui riconosce nei suoi occhi la stessa fame di libertà e perfezione che lo animava.
«E tu sei proprio come me.»
Purtroppo.


*     *    *
Questa storia si è classificata seconda all'Original Concorso 12 Il Limbo e... l'Esteta indetto da Eylis, con 54,5/60 punti. Potete trovare la valutazine qui.
I dettagli poco chiari sono spiegati in Clarisse, un'altra mia storia a cui questa è legata, o verranno chiariti in scritti successivi. Non a caso ho scelto di creare una serie apposita per questi personaggi. Per chi volesse leggere di qualche momento o personaggio particolare, lo chieda pure e cercherò di accontentarlo, se non è già un argomento in programma.
   
 
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