Per
te, piccolo =*
Ti voglio già bene!
Lucciole
Metatron si sforzava di correre velocissimo. Non
badava al lieve
schiaffo che, ad ogni falcata, il pavimento freddo sembrava dare alle
piante dei suoi piedi nudi, prestava solo attenzione a non far
diminuire il vantaggio sulla suora che lo seguiva.
Non poteva
permettersi di essere raggiunto, pensava deciso, nonostante
avesse ormai il fiato mozzo. Erano ben tre sere che cercava di
sgusciare via: stavolta ci sarebbe riuscito.
Nel momento
in cui vide davanti a sé il portone che gli
avrebbe permesso di uscire nei giardini, il bambino
dimenticò istantaneamente ogni stanchezza. Sveltì
la corsa, ignorando i ripetuti richiami della sorella – lei
sì, ormai aveva il fiato corto – e spinse forte i
battenti, ritrovandosi così all’aria aperta.
Immediatamente,
scappò a nascondersi dietro uno dei cespugli
fioriti che fiancheggiavano il vialetto di sassi. Si
rannicchiò stretto, senza badare alle eventuali macchie di
verde che sarebbero potute comparire sulla camicetta da notte bianca
che indossava, dopodiché attese pazientemente che la suora,
ormai giunta a propria volta nel giardino, passasse oltre, gridando il
suo nome.
Dopodiché,
rimase ad aspettare che il cielo scurisse ancora
un po’, che l’aria si facesse più fresca
e tersa, annunciando la notte imminente. E che la suora si persuadesse
che lui doveva essere rientrato, e tornasse di conseguenza
all’interno del Palazzo Bianco.
A quel
punto, il bambino sgattaiolò rapidamente verso il
centro del prato, allontanandosi dalla stradicciola e preferendo di
gran lunga la morbidezza dell’erba alla sgradevole durezza
della ghiaia. Quasi strillò d’entusiasmo quando
giunse in vista dei cespugli di gelsomino che ricoprivano il muro del
giardino.
Erano
grandi e scuri ma, nella sera ormai calata, i loro fiori chiusi
li punteggiavano di un bianco rassicurante.
Metatron si
avvicinò, esplorando i rametti con le dita
minute, e un’espressione attenta comparve sui suoi lineamenti
infantili.
Rimpiangeva
di non aver portato con sé il Coniglio per farsi
consigliare, ma l’occasione di una fuga si era presentata
quando il pupazzo era lontano da lui, e aveva dovuto lasciarlo dentro.
I minuti
passavano e niente sembrava accadere, tanto che Metatron
iniziò a gonfiare le guance in un’espressione
atrocemente delusa. Poi, finalmente, il suo sguardo venne catturato da
un lieve e palpitante luccichio proveniente dalla zona più
bassa dei cespugli.
«A-ah!»
esclamò il bambino,
illuminandosi.
Si
piegò sulle ginocchia, mentre la brezza notturna
scompigliava i suoi capelli chiari. Allungò una mano verso
il puntino dorato che guizzava tra le foglie del cespuglio.
E quando le
sue dita toccarono il ramo, gli sembrò di
liberare una vera e propria frotta di meraviglie. Le lucciole, che sino
a quel momento dovevano essersi tenute nascoste, iniziarono a
svolazzare e a brillare intorno a lui.
Quando uno
di quegli insettini sembrò rischiare di sbattere
contro il naso di Metatron, il capo dei Serafini scoppiò a
ridere, per poi portare una mano colpevole sulla bocca, temendo di
poter essere trovato dalle suore.
Si
rialzò, con un po’ di fatica, e i suoi occhi
brillarono quando si ritrovò circondato da quelle pepite
volanti. Allungò una mano verso di loro, ma quelle
sgusciavano ripetutamente tra le sue dita.
Ormai il
cielo si era fatto blu scuro, e il buio aveva allungato le sue
grinfie sul giardino. Metatron, però, nella sua beata
contemplazione dei lumini che gli danzavano attorno, non se ne accorse
proprio.
Quando
però udì dei passi scricchiolare alle sue
spalle, e una voce autorevole chiamare: «Signor
Metatron!», ebbe un sussulto e istintivamente
cercò con gli occhi un rifugio alla base dei cespugli,
tenendo le mani strette l’una all’altra in una
coppa saldamente serrata. Purtroppo non gli riuscì di
scorgere un possibile nascondiglio, e si ritrovò a doversi
voltare, con aria infinitamente colpevole.
Sevoftarta
gli si stava avvicinando a grandi passi e, come ebbe modo di
notare apprensivamente il bambino, sembrava decisamente arrabbiato.
Forse ad
altri non sarebbe parso così ovvio, considerato che
il Consigliere aveva il volto coperto come di consueto, ma Metatron era
abituato a decifrare l’umore del suo tutore solo osservandone
gli occhi.
E gli occhi
di Sevi, in quel momento, mandavano lampi.
«Signor
Metatron!» esclamò nuovamente
Sevoftarta, e anche il tono della sua voce era inequivocabilmente
adirato. «Lei dovrebbe essere a letto! Sa quanto tempo
è che le sorelle la cercano?!»
Metatron si
fece piccolo, la schiena che premeva contro il cespuglio,
ma raccogliendo il coraggio alzò gli occhi a guardare il
Consigliere, ormai giunto di fronte a lui.
«N-non…
Non arrabbiarti, Sevi»
implorò, tenendo le mani a coppa chiuse l’una
contro l’altra. «Volevo solo vedere le lucciole, e
poi sarei rientrato subito».
Il
Consigliere alzò un sopracciglio fine.
«Sì?» domandò, con voce
tremendamente severa. «Allora com’è che
è già passata un’ora da quando
è scappato fuori?»
Metatron
chinò il viso, mortificato, al ché
Sevoftarta sospirò con tolleranza. «Venga, mi dia
la mano» ordinò, tendendogli la propria inguantata.
Metatron,
però, spostò le mani serrate a coppa.
«Signor
Metatron, adesso cosa
c’è?» gli domandò
l’Angelo Bianco, e sembrava che cominciasse davvero a
spazientirsi. «Le ho detto di darmi la mano.
Rientriamo».
«Ma
io… Volevo farti una sorpresa, Sevi»
confessò il bambino, con voce tremula.
Il
Consigliere aggrottò le sopracciglia. «Una
sorpresa?» ripeté, interrogativo.
Metatron
annuì mestamente, quindi si decise a schiudere le
mani. Ne uscirono un paio di lucciole, che palpitarono luminose
nell’aria prima di abbassarsi e tornare verso il cespuglio.
Notando che
Sevi le aveva seguite con lo sguardo, Metatron
osò proferire, timidamente: «Ho fatto tardi
perché non riuscivo a prenderle».
Sevoftarta
rimase in silenzio per quello che al bambino
sembrò un lunghissimo momento. «Andiamo,
adesso» disse infine, e sembrava un po’
più calmo.
Metatron,
seppur ancora un po’ timoroso, mise la propria
manina in quella più grande e inguantata del Consigliere,
accettando di farsi ricondurre all’interno del Palazzo
Bianco. Non aveva però nemmeno mosso due passi che
Sevoftarta lo fece fermare, constatando ad alta voce: «Non ha
niente ai piedi».
Metatron
non seppe cosa replicare, perciò tacque,
aspettandosi di venire sgridato di nuovo. Sorprendentemente,
però, il suo tutore non fece altro che prenderlo in braccio,
e il bambino si aggrappò con una mano alle pieghe del suo
vestito bianco.
Quello di
Sevi sì che era immacolato, non come la sua
camicetta da notte, ormai chiazzata di verde un po’ ovunque.
Il
Consigliere lo portò nelle sue stanze, andando a
poggiarlo sul letto, quindi gli cambiò l’abito.
Metatron non fiatò, sforzandosi di stare buonissimo e
collaborativo.
Alla fine
dell’operazione, Sevoftarta lo guardò
severamente. «Si ricordi di non fare più come
stanotte» lo ammonì. «Si è
comportato irresponsabilmente, scomparendo così a lungo, ma
per questa volta non la punirò».
Metatron,
che aveva mantenuto un’espressione contrita e
sconfortata mentre ascoltava le prime frasi, nell’udire la
conclusione sgranò gli occhi e
s’illuminò.
Agguantò
il Coniglio e nascose un sorriso dietro la testa
del pupazzo.
«Stia
attento, però, a non ripetere questa bravata
in futuro» concluse Sevoftarta.
Metatron si
affrettò ad annuire. «Va bene,
Sevi» promise.
Prima di
uscire dalla stanza, il Consigliere gli diede una carezza sui
capelli, ammettendo: «In fondo, era un bel regalo».
Metatron
non ricordava di essersi mai sentito così felice.
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