When you crash in the clouds - capitolo 21
Capitolo 21
On the road
soundtrack
Con due pesanti trolley ed altrettanti borsoni ci incamminammo per il
terminal, gremito di autobus sebbene fossero le nove di sera, seguiti
da mia madre, alla ricerca della nostra corsa. Les se n’era
rimasto a guardia del SUV, parcheggiato in doppia fila in un posto
alquanto fortuito, giusto per scaricare i bagagli.
“Io ancora non riesco a capire perché non abbiate voluto
prendere l’aereo. È più comodo ed impieghereste
meno tempo …”
Io ed Allison ci scambiammo un’occhiata tanto eloquente quanto scoraggiata.
“È inutile che fate quella faccia” rimbeccò
mia madre, squadrandoci e puntandoci contro l’indice
“sapete bene che ho ragione”
Mentre il fattorino ci aiutava a caricare le valigie sul pullman,
tentai di spiegare ancora una volta a mia madre il perché di
quella scelta: Allison non avrebbe accettato più soldi né
da mia madre né da me né da nessun altro ora che era
quasi, mancavano pochissime ore, maggiorenne, e quelli che era riuscita
a guadagnare occupandosi di Caroline (un lavoro a metà strada
tra babysitter e istitutrice) non bastavano per pagarsi nemmeno un
biglietto in economica.
In più, parte del suo pacchetto “desideri per la maggiore
età” prevedeva un viaggio on the road, come nella migliore
tradizione americana. Tuttavia nessuno dei due era un bravo pilota: lei
non aveva avuto il tempo di fare pratica, scappando subito dopo aver
preso la licenza; io, invece, avevo un rapporto di amore/odio con le
auto. Più che altro, si trattativa di una vera e propria
dominazione dell’automezzo nei miei confronti. Per cui entrambe
avevamo concordato che mettersi alla guida, non era di certo una cosa
fattibile: depressi e sfigati sì, ma alla nostra pellaccia
ancora ci tenevamo.
“Va beh” si arrese mia madre, al momento dei saluti,
disperata nemmeno fossimo in partenza per il Vietnam “ma mi
raccomando, chiamatemi … almeno per farmi sapere che siete vivi
… Tyler non fare come al tuo solito, come quella volta che sei
andato in gita ad Ellis Island”
Come al mio solito?! Ma se prendeva sempre in esempio (l’unico
che aveva) quella gita ad Ellis Island in 5a elementare, quando il
telefono cellulare era ancora un mattone con l’antenna estraibile
e lo schermo monocromatico e solo mio padre che era un milionario
poteva permetterselo.
Madri … quel cordone famoso non sarà mai abbastanza reciso nella loro testa.
Ci abbracciò entrambe, e se non l’avesse smessa con quelle
moine le sarebbero arrivati due bei ceffoni (uno da me, l’altro
da suo marito che a larghe braccia da lontano esprimeva tutta la sua
solidarietà nei nostri confronti), e finalmente ci lasciò
salire sull’autobus.
Per essere l’autobus un mezzo usato, almeno in America, dai meno
abbienti … beh devo dire che non c’è niente di cui
lamentarsi. Sarà stato anche per il parco auto recentemente
rinnovato dalla compagnia, ma non ci mancava proprio nulla: sedili
confortevoli e larghi anche per un spilungone come me, prese della
corrente per ricaricare gli apparecchi elettronici, wireless. Non
avremmo avuto problemi a trascorrere le successive, lunghissime ore.
La durata, infatti, era l’unico problema di quel viaggio: 16
lunghissime ore, lungo le sterminate autostrade americane, a volte
anche nel bel mezzo del nulla.
“Io vicino al finestrino” strillò Allison,
precipitandosi a sedere, sgusciandomi di fianco mentre sistemavo le
giacche nel cassettino sopra le nostre teste.
Mi cacciò una bella linguaccia di soddisfatta vittoria non
appena mi accomodai vicino a lei, e quello fu il primo atteggiamento
vagamente sereno e spensierato da almeno un paio di settimane.
Sicuramente il pensiero di tornare nella sua città natale, il
terrore di incontrare qualche parente o amico per sbaglio la faceva
tremare come una foglia ed agitare. Diceva di sentire come un pugno
forte allo stomaco, una fiammata al cuore e il respiro che le si
troncava in gola ogni volta che pensava a
quell’eventualità. “Cerca di non pensarci” la
incoraggiavo. “Fosse facile” rispondeva puntualmente lei.
Non era solo un semplice ritorno agli affetti, se ancora questo per lei
poteva significare qualcosa, ma era anche e soprattutto un ritorno a
ciò che lei era stata, un faccia a faccia con la ragazzina
innocente ma ribelle e la piccola donna ormai tranquilla ma con un
carico di tormenti sulle spalle.
Avevamo provato a fare programmi, nei giorni precedenti alla nostra
partenza, anche per distrarla un po’, ma anche solo cercare un
albergo dove dormire, per lei era un dolore ed una fatica in
più. Quello no…era il padre di un suo compagno di scuola,
quell’altro nemmeno…sua madre giocava a bridge con la
figlia del proprietaro. Quell’altro nemmeno a parlarne…era
la pensione ultraeconomica dove la portavano i ragazzi quando aveva
iniziato il suo giro di amicizie “intime”.
Speravo di sbagliarmi, lo speravo con tutto me stesso, ma niente mi
levava dalla testa che quel viaggio sarebbe stato un disastro.
E il fatto che il suo umore fosse sottoterra, ai minimi storici da
quando la conoscevo, non faceva che rafforzare la mia ipotesi.
“Sei davvero sicura?” le
chiesi, titubante, ancora una volta. S’era messa in testa di
voler chiamare i suoi, prima di partire per Indianapolis, almeno per
capire che aria tirava.
Senza proferire verbo annuì
vigorosamente, fissando il telefono come fosse un mostro letale.
“Devo” precisò; afferrò la cornetta di quel
vecchio apparecchio che Les ancora teneva in casa, nello studiolo,
attentamente, quasi scottasse e iniziò a comporre le cifre a
memoria, senza neanche controllarle sul file che mio padre ci aveva
fatto avere e che era da giorni aperto nel computer di mia madre:
d’altronde era pur sempre il numero telefonico di casa sua.
Una mano reggeva la cornetta, con
l’altra si aggrappava stretta al bordo della scrivania; il suo
respiro era affannato, irregolare, non ero sicuro che avrebbe retto a
lungo. Non era il suo primo tentativo, ma tutti erano falliti
miseramente, interrotti richiudendo malamente l’apparecchio prima
che potesse anche solo sentire una risposta. L’ultima volta che
ci aveva provato, solo il giorno precedente, aveva resistito un bel
po’, prima che scattasse la segreteria telefonica.
Dopo cinque squilli e i suoi nervi
ancora saldi e decisi nell’andare avanti, sentii una voce
maschile rispondere all’altro capo del telefono. Ma lei era
diventata pallida e muta, turbata da quella voce a lei evidentemente
familiare.
“Pronto? Pronto?! Ma chi
è?!” continuò l’interlocutore, mentre lei
riusciva solo a respirare rumorosamente, finché non si risolse a
riattaccare, ancora.
Scattò via, furiosa,
probabilmente imbarazzata da quella figura appena rimediata. Ma doveva
capire che non era colpa sua, era del tutto naturale essere impacciati
in una circostanza simile. “Allison! Allie!” le corsi
appresso, per cercare di calmarla, ma lei non voleva sentire ragioni.
Entrati in camera sua – era già tanto che non mi avesse
chiuso la porta in faccia – accese lo stereo
a palla, mettendo su qualcosa di veramente pesante. Aveva iniziato a
maltrattarsi labbra, mani e capelli, segno evidente che qualcosa non
andava. Girava intorno nella stanza, torcendo quella povera malcapitata
di una tshirt bianca che usava in casa.
“Allie!” la presi e la fermai, placcandola con le mie mani sulle sue braccia “calmati!”
Bisognava essere fermi e decisi in
quelle situazioni, soprattutto con lei che era la regina nel passare da
una crisi depressiva ad una isterica. Era necessario prevedere e
prevenire ogni sua mossa.
Quando si fu calmata, quando il suo
respirò sembrò regolarizzarsi e i suoi incisivi avevano
smesso di solcare a sangue le sue belle labbra carnose e rosse, la
lasciai libera e placai anche il mio tono di voce.
“Perché sono così
stupida?!” borbottò tra sé e sé, severa
contro il suo riflesso allo specchio sulla toletta, rimproverandosi
evidentemente per quella conversazione mai iniziata. “È
tuo padre cazzo!” continuò “Cosa c’è di
più normale che parlare con tuo padre…cogliona! Sei
sempre la solita emerita cogliona…fatta apposta per rovinare
tutto!”
Non le avrei permesso di
autodistruggersi così, neanche se avesse avuto ragione di farlo
– e non era quello il caso. C’era una cattiveria ed un
rancore nei confronti di sé stessa che poteva essere
particolarmente deleterio; quell’indice puntato in maniera feroce
all’immagine allo specchio, uno sguardo sprezzante rivolto a
sé stessa che non avevo mai visto. L’avevo vista
disprezzare gli altri, odiare l’immagine che di sé avevano
gli altri, deprecare il suo lavoro anche…ma lo sterminato
orgoglio innato le avevano sempre conferito una straordinaria pienezza
di sé. Ma non negli ultimi giorni, non da quando le ultime
barriere erano cadute.
Mi era sembrato di aver letto il nome Pittsburgh da qualche parte sui
cartelloni stradali che sfilavano lungo l’autostrada. Era
difficile esserne sicuri quando sei appena sveglio dopo una dormita su
un autobus in viaggio, alle primissime luci dell’alba, quando non
capisce bene se è notte o giorno, con i fari delle auto che
sfrecciano veloci tutt’intorno. In ogni caso i cartelloni
pubblicitari e il paesaggio intorno a noi, vagamente lussureggiante
rispetto alle abituali colate di cemento delle mie zone, mi diedero da
pensare che avevamo lasciato alle nostre spalle i popolosi stati di New
York e del Connecticut ed ci eravamo lanciati a capofitto nella
cavalcata verso il West, incominciando con la Pennsylvania. Buttai un
occhio all’ipod che ancora suonava della musica
techno negli auricolari, che come un innocuo moscerino ti da fastidio
ma cerchi di ignorare; l’orologio del lettore segnava le 7.30 del
mattino - orario di New York, ma noi stavamo andando in Indiana, quindi
una volta arrivati avrei dovuto ricordami di portare le lancette
un’ora indietro. Attorno a noi era tutto ancora buio ed
addormentato, gli altri passeggeri rispettavano il silenzio imposto
nella vettura, visto che qualcuno era ancora assopito.
Cercai Allison, che di solito aveva l’abitudine di addormentarsi
usando le mie spalle come suo cuscino; ma stavolta non era così,
aveva scelto il vetro freddo ed umido, ammorbidito dal cappuccio della
felpa e dal piccolo collare di gomma gonfiabile che mia madre le aveva
dato prima di partire.
Era da un paio di giorni che era strana, imbronciata, silenziosa. Era
come covasse qualcosa dentro, ed avevo la netta sensazione che era una
malinconia comune: entrambi vedevamo la realtà in faccia,
vedevamo il punto di svolta sempre più vicino, al di là
di ciò che sarebbe potuto accadere; e ne eravamo spaventati a
morte, ma invece di aiutarci a vicenda ci evitavamo l’un
l’altro. Era un muto addio, un abituarsi all’idea che non
sarebbe stata più la stessa cosa tra noi.
Se qualcosa fosse andato storto, ed egoisticamente ad essere sinceri me
lo auguravo proprio, forse sarebbe tornata con me a New York, ma non
sarebbe stato più lo stesso: non sarei stato più la
persona più importante della sua vita, quella a cui rivolgersi
per un problema, l’unica che potesse garantirle aiuto e riparo.
Non osavo nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto quando avrebbe
rivisto sua madre, ammesso che avrebbe accettato di rivederla, cosa di
cui non ero sicuro. Non si poteva negare, però, che a suo padre
non aveva intenzione di rinunciare. Se lei provava per suo padre il
bene incondizionato che Caroline provava per nostro padre, nonostante
tutti gli sbagli in cui lui perseverava, lo avrebbe rivoluto nella sua
vita con le unghie e con i denti. E poi, a sentir parlarne Allison, suo
padre avrebbe potuto combattere contro il resto del mondo per tenersela
stretta. E faceva bene, anche io lo avrei fatto se fosse stato un mio
diritto.
Ma non lo era, ed eccomi su un autobus per riportarla a casa, la sua vera casa.
“Che cos’è questa faccia triste Ty?”
Sobbalzai alla voce di Allison che d’improvviso mi richiamò alla realtà.
“Sei sveglia?!” domanda idiota. “Ma niente, non
preoccuparti” le sorrisi cordialmente “sono solo stanco
… ho dormito poco e male”
“Sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata”
commentò, sibillina, puntando uno sguardo severo verso
l’orizzonte dove c’era ancora il buio. L’alba,
invece, era alle nostre spalle. “Spero proprio che la prossima
fermata ci sia a breve” disse, stiracchiando le braccia “ho
bisogno di sgranchire le gambe e prendere un po’ d’aria
… ho ancora nelle narici la puzza di fritto della cena di
Bombolo.
Bombolo era un passeggero del sedile davanti a noi, soprannominato
così da Allison per via del suo volume, oltre che per la
quantità immane di ciambelline ingurgitate dal momento della
partenza fino all’1, quando l’autista spense le luci e si
mise anche lui a dormire.
“Siamo nei pressi di Pittsburgh” la informai
“lì ci fermeremo. Io ho proprio bisogno di una
sigaretta!”
“Nervoso?” domandò. Scossi la testa: “dicono
che il fumo porti dipendenza … non si può stare molte
senza fumare e mi pare che dovresti saperne qualcosa …”
Mi cacciò la lingua, indispettita come tutte le volte che
provavo ad essere sarcastico con lei, e l’aria tra noi
sembrò tornare vagamente respirabile, escludendo il fatto che,
al di là di qualche parola o informazione, non ci eravamo detti
molto, immersi nella lettura o nelle rispettive playlist.
Alla stazione degli autobus, tra barboni addormentati sulle panchine e
tossicodipendenti che si avvicinano per racimolare qualche soldo
d’elemosina, riuscimmo a darci una rinfrescata in bagno e a
prendere la colazione al bar. Non era Starbucks, ma non era nemmeno
acqua sporca. Seduti allo scalino del marciapiede, al freddo pungente
del mattino, aspettavamo che l’autobus fosse pronto per partire
di nuovo. Ci aspettavano altre 7 ore di viaggio: un calvario se tra me
ed Allie non se ne fosse andata quell’atmosfera da funerale.
Tra un sorso di caffè e un tiro di sigaretta infatti, i cappucci
delle felpe e delle giacche calati sulla testa, gli occhiali a
nascondere le borse sotto gli occhi, non avevamo niente da dirci; e per
due come noi, che per smettere di parlare avevano bisogno di minacce
atomiche, era davvero grave.
E non era come quando si sta bene anche senza dirsi nulla,
perché non si stava bene per niente. Era il classico silenzio
assordante e stridente, fatto di urla e parolacce urlate a vicenda, che
per quanto eravamo coglioni andavamo a letto insieme (per la
verità dopo Capodanno mi aveva mandato in bianco tutte le volte
che ci avevo provato) eppure se c’era un problema da risolvere
non eravamo capaci di dircelo in faccia.
Ma il tempo per dirsi tutto quello che ci passava per la testa, per
giocarsi le ultime carte, era agli sgoccioli; meglio che ti dia una
mossa Tyler!!!
“Come ti senti?” chiesi, usando una domanda generica per
rompere il ghiaccio. Dio, sembravamo due estranei, che cosa patetica!
“Meglio ora, il caffè mi ha rimessa al mondo
proprio!” esclamò soddisfatta, stringendo il bicchierone
fumante del caffè tra le due mani e portandolo vicino alla
bocca, per riscaldarsi meglio oltre che per bere.
“Non mi riferisco a quello” replicai.
“Quanto lo odio quando fai così, Tyler!”
esclamò lei, e sembrò veramente incazzarsi di punto in
bianco. Beh, rispetto all’apatia delle ore precedenti, era
già una certa botta di vita. “Che
c’è?!” chiesi. “Mi fa incazzare questo modo di
fare che hai … sei sempre perennemente criptico! Risparmia il
fiato e dimmi che cosa vuoi sapere?!”
“Innanzi tutto non c’è bisogno di scaldarsi
così tanto, stai calmina” le dissi, alzandomi per buttare
il mio contenitore del caffè. Nel frattempo accesi la sigaretta
numero due, perché mi aveva fatto schizzare di nuovo i nervi
… ma perché era così maledettamente lunatica e
isterica?! “e poi se proprio non ci arrivi da sola, volevo sapere
come ti senti al pensiero che stiamo andando ad Indianapolis”
Prese una lunga boccata di nicotina, lasciando che le invadesse tutte
le vie aeree; conoscevo quella sensazione piacevole e consciamente
letale. Poi si alzò e si diresse verso l’autobus,
liberandosi anche lei del bicchiere di carta del caffè. Notai
così che anche gli altri passeggeri si stavano avvicinando al
bus. Allie chiese all’autista ancora un paio di minuti per finire
la sigaretta, così restammo ancora un po’ di fianco al
portellone del bus. Anch’io feci un altro tiro, eppure non
riuscivo a calmarmi. E la fretta che ci aveva messo addosso
l’autista non aiutava. Forse avrei dovuto provare con una spranga
in testa.
“È una cosa che andava fatta” rispose calma, tirando
fuori l’ultima colonna di fumo. Salì poi con uno scatto i
gradini del pullman ed io la seguii a ruota, buttando la cicca
sull’asfalto e raggiungendola ai nostri posti.
“Non mi sembri felice” constatai. “Dovrei?!” fece lei, disincantata.
“Certo” affermai “domani è il tuo compleanno,
farai 18 anni e rivedrai tuo padre, che credevi morto. Dovresti
sprizzare gioia da tutti i pori … io lo farei. Voglio dire, se
mi dicessero che Michael è vivo io …”
“Hai ragione, scusa” disse, stringendomi la mano “il
problema è che non si tratta solo di mio padre, Tyler, e lo
sai”
“Tua madre?” chiesi. Era bello vedere che tirando fuori i
rospi le cose tornavano a posto tra noi, benché già in
partenza non è che fossero esattamente in ordine. Ma
l’ordine mentale, al momento, anche quello bastava.
Lei annui, senza aggiungere altro, ma solo fissandomi, scrutandomi con
attenzione e la cosa non mi piaceva affatto; sapevo benissimo che era
capace di leggermi dentro, con una sensibilità che mai nessuno
prima d’ora aveva avuto: nessuno mi aveva mai compreso come lei,
e lo odiavo perché non c’era nulla che potessi
nasconderle, niente che da cui potessi proteggerla in quel senso.
Abbassai lo sguardo ma tanto la scansione l’aveva già
fatta e vedevo bene, con la coda dell’occhio, il modo in cui mi
osservava.
“Tu piuttosto …” disse “che è quel
broncio? È da stamattina che ti porti quel muso lungo dietro
… è da un paio di giorni che sei giù, l’ho
notato sai, ma oggi proprio non riesci a mascherarlo. Potevi dirmelo
che è un problema per te accompagnarmi, non mi sarei offesa e
sarei venuta da sola”
“Ma che dici … no, non è come credi” mi
affrettai a replicare. Anche se con la morte nel cuore, non le avrei
mai permesso di fare un viaggio come quello da sola. Come disse lei? Ah
sì: è una cosa che andava fatta.
“Sono solo preoccupato” risposi, genericamente. Non era il
caso di spiegare nei minimi dettagli la mia preoccupazione, anche
perché sarebbe stata la volta buona che mi avrebbe preso per
pazzo e mollato a calci nel sedere alla prima stazione di servizio.
“Tu non lo sei?” incalzai. Era l’unico modo che
conoscevo per distrarmi e distrarla: farla parlare di sé.
“Certo che sono preoccupata. Ma tu non dovresti, Tyler. Dimmi cosa c’è che non va Tyler”
Cosa non andava mi chiedeva? Mi scrutava dentro ma per fortuna non era
ancora in grado di leggermi i pensieri in dettaglio, o sarei stato
spacciato.
Così me ne inventai una … che poi era una mezza verità visto come stavano le cose.
“Non voglio vederti soffrire di nuovo. Non voglio che quella
donna ti tratti come ha fatto mio padre. E non vorrei vedere delle
porte chiuse in faccia. Non lo sopporterei …”
“Oh Ty!” esclamò e si strinse a me prendendomi per
un braccio, come negli ultimi giorni non aveva più fatto
“io non so cosa accadrà se e quando andrò a casa
dei miei genitori. Ma ti prometto che non mi lascerò piegare
… te lo devo per tutte quelle volte che sei stato forte per me.
Perché sei stato tanto forte”
Lei posai delicatamente un bacio sui capelli, mentre stringendosi
ancora più forse Allie intrecciava le sue gambe alle mie,
poggiando finalmente la testa sulla mia spalla. Il sole, seppur timido
e pallido, aveva deciso di fare una comparsata in quella giornata, e le
distese di boschi e radure attorno all’autostrada si rincorrevano
e susseguivano, mentre noi, dall’autobus, li osservavamo, un
po’ più sereni.
Quasi 18 interminabili ore ci erano volute per arrivare a destinazione,
nonostante la compagnia di viaggio assicurasse nei suoi depliant la
massima puntualità. Ma nulla può il mezzo e un buon
autista contro cause di forza maggiore. No, non parlo di traffico,
incidenti stradali, maltempo o bazzecole simili. Parlo delle vesciche
delle nonnette che non riescono a trattenerla ed invece di prendere un
comodo treno optano per prendere il mezzo di trasporto più
selvaggio di tutti: l’autobus.
Raggiunto l’albergo, un Bed & Breakfast a ridosso del centro,
economico ma ben tenuto, di nuova gestione e libero da ogni possibile
legame con la sua vita ad Indianapolis, andammo in camera, a gettarci
nel letto per una dormita decente, in barba a fame o sete, senza
contare che erano solo le due del pomeriggio.
“Hai visto che non c’era niente di cui aver paura?”
esclamò Allie ad alta voce, mentre si asciugava i capelli di
fronte allo specchio, ancora con l’accappatoio addosso. Io invece
me ne stavo morto sul letto e non avevo alcunissima intenzione di
muovermi da lì per il resto della mia vita. “Ti ho detto
che il russo che l’ha fatta è un vero portento … se
non se n’è mai accorto nessuno tra New Orleans e New York
non vedo come potessero accorgersene qui”
“Sarà…ma mi hai fatto sudare freddo
comunque!” Quando infatti Allison estrasse la sua carta di
identità contraffatta al check in alla reception, infatti, avrei
voluto morire, sotterrarmi e decompormi. Non era andare in
villeggiatura al fresco che avevo in mente per festeggiare i suoi primi
18 anni, con l’accusa di contraffazione, pedofilia e rapimento di
minore. Vallo a spiegare alla polizia che, anzi, la stavo riportando
dai genitori …
Lei continuava a ripetere che non c’era altro modo, che non
poteva andare in giro con il suo vero nome, non era ancora sicuro, ed
inoltre mancavano ancora 9 ore alla mezzanotte del 20 gennaio, ora in
cui sarebbe stata finalmente libera da ogni obbligo verso i suoi
genitori e verso la legge che l’avrebbe ricondotta a casa anche
contro la sua volontà.
Così, durante i nostri pernottamenti nella città dei motori, lei sarebbe tornata ad essere Mallory Banning.
“Mi spieghi una cosa?” le chiesi, riflettendoci un po’ su.
“Dimmi!” mi incoraggiò lei.
“Tu mi hai sempre detto che per il tuo … lavoro …
hai sempre usato nomi diversi. Perché hai scelto proprio Mallory
per la tua seconda identità?”
“Ehm…non prenderla a male” iniziò lei, e
già da lì la cosa non mi piacque. Forse non avrei dovuto
chiederlo. “Croce sul cuore!” esclamai, da buono scout.
“Banning è il cognome di mia madre da nubile. Mallory
invece è il secondo nome di Emily. Quando mi chiesero come
volevo farmi chiamare fu il primo nome che mi venne in mente,
perché in fondo avevo sempre la piccola in mente …”
conoscevo bene quella sopraffazione che si prova in certi momenti,
quando vivi e sopravvivi per qualcosa che non è più vivo,
reale, e pure fa parte di te a tal punto che vivi di quei fantasmi.
“Poi anche nel locale dove ballavo a New Orleans iniziarono a
chiamarmi così e non potevo tollerarlo perché sentivo di
macchiare la memoria della mia sorellina, così inventai la
storia dei personaggi diversi e cercai di essere Mallory il meno
possibile. Ma il danno era fatto … a molti piaceva vedermi e
chiamarmi in quel modo e non potevo farci nulla. Ma dentro morivo per
quello che stavo facendo.”
Era terribile quello che aveva passato, e volevo fortemente che sua
madre, la donna che l’aveva messa al mondo, si rendesse conto di
ciò che aveva causato. Volevo che soffrisse per lo schifo
vissuto da sua figlia, ma non sarebbe mai stato abbastanza,
perché non l’avrebbe mai vista come l’ho vista io,
sculettare vestita da prostituta attorno ad un palo, con i genitali
praticamente sbattuti in faccia a chiunque le mettesse la mancia nel
tanga.
“Fa strano” le confidai “sentire quello che mi dici e
ricordare che io ti ho conosciuta proprio come Mallory”
“Già” annuì lei, pacata “è come un cerchio che si chiude”
Ma ormai era il suo sorriso ad essere serrato; con la mia
stupidità le avevo tolto anche quel briciolo di pace che le era
rimasto, riportando a galla ricordi che era meglio lasciare sopiti per
ancora qualche ora.
Accesi la tv per riempirci la testa con le chiacchiere inutili che
quella scatola propinava, il gossip delle riviste patinate e il
bagliore dei flash sui tappeti rossi. Non mi fece alcun effetto vederla
spogliarsi e rivestirsi davanti a me, ne vederla muoversi per la stanza
in mutande e canottiera. Stavo vivendo di nuovo quei momenti di
imbarazzo e profondo schifo, trasportato in un universo parallelo,
nella camera ammobiliata e lercia in cui mi aveva condotto Mallory,
dove avevamo fumato una canna ed avevamo parlato tutta la notte,
decisamente su di giri, e dove, in fondo, avevo lasciato il mio cuore a
farle da guardia.
Capii che Mallory non se n’era davvero mai andata, e se non
l’avesse fatto, se Allison non l’avesse mandata via, niente
sarebbe potuto cambiare. Non solo per quello che avrebbe potuto esserci
tra noi, ma avrebbe complicato ogni suo progetto, ogni relazione.
Lei mi voltò lei spalle e ci mise poco ad addormentarsi, ma a me
la stanchezza aveva sempre procurato l’effetto contrario,
così decisi di uscire ed esplorare un po’ la città.
Preso il mio zaino, le lasciai un appunto sul comodino, un bacio in
fronte ed uscii.
Per quanto decisamente più piccola di New York, Indianapolis
rimaneva comunque una città che non si poteva girare a piedi
senza qualcuno a guidarti. Mi feci chiamare un taxi alla receptionist,
ma non appena montai in macchina mi accorsi di non avere la
benché minima voglia di visitare la città da solo, senza
Allison pronta a viverla con me. Era come passeggiare per New York
senza di lei, una camminata ad occhi chiusi, anziché una
scoperta continua di cose che in 22 anni non avevo mai notato.
“4319 Springwood Trail” ordinai al tassista “il quartiere dovrebbe essere Wynnedale”
Quando un cartello stradale mi indicò l’ingresso nel
quartiere di Wynnedale, mi ritrovai in un delizioso quartiere
residenziale, di quelli da vita tranquilla da serie televisiva, dove le
madri fanno ancora le torte di mele e i bambini vendono la limonata per
strada d’estate. I due lati della strada erano delimitati da
querce alte e probabilmente secolari, che bene si accostavano alla
semplicità e alla familiarità delle villette, costruite
su delle piccole collinette. Il sole di un caldo e anomalo pomeriggio
invernale batteva sul lato della strada che era la mia destinazione, e
le case dipinte con colori tipicamente autunnali si riscaldavano e
avevano tutta l’aria di essere molto accoglienti. Era un bel
posto dove vivere, dove metter su famiglia. Ma è anche un posto
dove è facile – e forse d’obbligo – celare le
proprie disgrazie familiari.
Scesi dal taxi e presi un gran respiro, mi incamminai su per il lungo
viale che mi conduceva alla grande casa marrone, ad un solo piano ma
molto ampia, con un giardino ben curato e una berlina della Cadillac
parcheggiata davanti al garage. Almeno qualcuno era in casa.
Suonando il campanello mi accorsi che sul portone campeggiava una
scritta, incisa su una placchetta d’ottone. Welcome to the Rileys.
Sorrisi amaramente; la loro – ormai – unica figlia era
scappata perché si sentiva una estranea in casa propria e loro
mi auguravano il benvenuto…decisamente il festival
dell’ipocrisia.
Venne ad aprire un uomo alto e grosso, praticamente una montagna. Era
un po’ stempiato, sulla cinquantina probabilmente, invecchiato
per l’età o più probabilmente per colpa di un
destino che non gli aveva risparmiato nulla.
“Il signor Riley?” domandai, tendendo la mano che lui
seppur titubante non rifiutò e strinse.
“Sì?!” rispose, esitante.
“Sono Tyler Hawkins, figlio di Charles Hawkins”
“Hawkins jr?!” chiese conferma, ancor più incerto,
probabilmente la mia visita lo aveva preso in contropiede.
“Sì signore, sono io. Avrei bisogno di parlare con
lei” “Ma..ma certo! Si .. si accomodi!”
Entrai in casa e subito si aprì davanti a me la grande zona
giorno con i mobili in legno scuro e le pareti rosso veneziano; avrei
potuto girare perfettamente per quella casa senza sbagliare e tutto era
rimasto probabilmente come lei lo aveva lasciato e come me lo aveva
raccontato.
“È stato già in ufficio? Le hanno detto loro che mi
avrebbe trovato qui?” chiese l’uomo, preoccupato. Ma io
negai, non era per un’ispezione per conto di mio padre che io ero
lì. “Sa” spiegò “il martedì esco
sempre prima dal lavoro…è stata una casualità che
mi abbia trovato a casa”
Mentre Doug mi invitò ad accomodarmi su una delle poltrone di
fronte al camino in pietra, notai le sedie del tavolo da pranzo ancora
con il cellophane sulla seduta, e le bomboniere disposte maniacalmente
nella vetrinetta insieme ai servizi buoni, esattamente come Allison me
le aveva descritte.
“Signor Hawkins” mi chiamò Doug. “La prego
signor Riley, mi chiami Tyler” lo corressi; non ho mai amato che
delle persone più grandi di me mi chiamassero per cognome solo
perché ero il figlio del capo.
“Va bene Tyler, però tu chiamami Doug” rispose affabile “… lei è mia moglie, Lois”
Mio Dio, era una bellissima donna! Ora capivo la bellezza, semplice
eppure allo stesso tempo sofisticata, di Allison. Capelli dalla piega
impeccabile biondi, ma probabilmente non naturali, indossava una gonna
grigia a tubino, una semplice camicia bianca e delle perle che
impreziosivano il suo look senza strafare. Se Allison a volte mi era
sembrata una principessa, sua madre era una regina. Doug era un uomo
molto fortunato.
Mi alzai e la salutai. Sembrava estremamente timida, una donna tutta casa e chiesa, timorata di Dio e devota alla sua famiglia.
Tuttavia queste erano il genere di sensazioni che di solito la gente
provava quando conosceva mio padre; il che fece suonare il campanello
d’allarme nel mio cervello, e mi consentì di restare
all’erta.
Poteva trattarsi anche di una regina, ma guardando ai suoi trascorsi,
era piuttosto la strega di Biancaneve invece della dolce madre della
Bella Addormentata. Era difficile credere che quella stessa donna che
era davanti a me, era stata capace di tante malignità nei
confronti del suo stesso sangue; ma d’altronde il delitto
perfetto è quello in cui tutte le prove vengono fatte sparire.
I successivi cinque minuti trascorsero in maniera molto formale, con la
signora Riley che preparava del tè ed io e Doug parlavamo del
più e del meno, di mio padre e dell’azienda, del suo
cordoglio per la morte di mio fratello e del mio per la morte della
piccola Emily.
“È stato suo padre a dirglielo?” chiese la signora
Riley, bianca in volto, di ritorno dalla cucina, con la teiera e tre
tazze.
“Non…non esattamente” precisai. Lasciai che Lois
servisse il tè e le chiesi di accomodarsi con noi.
“È per questo che sono qui” spiegai “ho
bisogno di parlare con voi di una cosa che so per certo vi sta molto a
cuore”
Vidi i loro sguardi incrociarsi e diventare apprensivi, scorsi anche
una vaga luce di speranza, negli occhi annoiati di quell’uomo di
mezza età e in quelli afflitti della sua consorte. Uniti ancora
dopo tante prove, uniti nonostante tutto: forse avrebbero avuto loro
qualcosa da insegnare ai miei genitori su come far funzionare un
matrimonio. Ma quella è un’altra storia …
Vidi Lois portarsi una mano davanti alla bocca, incredula eppur felice:
doveva aver capito. “Allison?!” chiese, con una voce piatta
e flebile, ed io non feci altro che annuire.
“Fermi un momento” intervenne Doug, concitato “che
cosa … che cosa significa Allison? Tu conosci mia figlia? Sai
dove si trova?”
“Allison è una delle mie migliori amiche, sì
… diciamo così” non potevo certo dire loro che
eravamo compagni di letto occasionali “l’ho conosciuta per
caso nel posto dove lavorava e l’ho aiutata a rimettersi …
in carreggiata”
Speravo di aver usato le parole più giuste per descrivere una
situazione spiacevole come quella in cui si era cacciata Allison.
Nonostante i motivi che l’avevano costretta a fuggire di casa, i
suoi genitori, specialmente suo padre, non sembravano delle persone
meritevoli di subire altri torti o umiliazioni. Generalmente nessuno
dovrebbe esserlo. “È stata lei” continuai “a
raccontarmi di voi e di Emily”
“Aspetta un attimo giovanotto” prese la parola Doug
“che significa che l’hai rimessa in carreggiata?”
Non avrei voluto dargli quella mazzata, già mio padre mi aveva
consigliato di andarci piano, ma era meglio sentirlo da me che dalla
bocca della propria figlia. Presi un attimo per radunare le parole e li
vidi entrambi tendere verso di me anche con il corpo, sporgendosi dal
divano in pelle su cui erano seduti. Lui le stringeva la mano, era
quasi un piacere per gli occhi vederli così uniti.
“Lei … lei lavorava in un club per adulti … come
entreneuse” tirai fuori tutto d’un fiato, senza guardarli e
senza pensare. Ora, però, dovevo essere pronto alla raffica di
domande che sicuramente mi avrebbero rivolto. Ed invece davanti a me
avevo solo il silenzio di due mummie, imbalsamate e sconvolte, rotto
soltanto dal singhiozzare di Lois, che per disperazione o per vergogna
si era nascosta il viso con le mani. Suo marito
l’abbracciò e lei proseguì il suo pianto sul petto
di Doug, che aveva tutta l’aria di essere la sua roccia.
Avevo giurato a me stesso che non avrei avuto pietà con lei, che
l’avrei fatta sentire uno schifo per come aveva trattato sua
figlia, ed invece erano bastate solo due frasi per massacrarla.
“È colpa mia … è tutta colpa mia”
pianse Lois, abbracciata a suo marito; ma lui non si mosse, non fece
una piega: restò lì ad abbracciarla e a consolarla, a
ricordarle che non era colpa sua e che si sarebbe aggiustato tutto e
tutto sarebbe andato bene.
Fu allora che non ci vidi più: perché posso tollerare una
madre straziata dal dolore, posso capire l’incredulità e
lo shock, ma negare quanto accaduto … beh, mi dispiace, ma non
lo accetto.
“Senta Doug!” dissi, alzandomi “io non so quanto sua
moglie le ha raccontato di ciò che è accaduto mentre lei
era in coma, ma so quello che mi ha raccontato Allison. E so cosa ha
passato in questi anni. Quindi per favore: mi faccia il piacere di non
dire che non è successo niente e che non è colpa di
nessuno”
Doug sembrava impietrito; persino Lois aveva smesso di piangere ed
entrambi mi guardavano come se avessero visto un fantasma, uno spirito
che li ammoniva per le loro azioni.
“Io non sono un pervertito che va per locali di spogliarelliste
… mi trovavo lì per caso ed ho incontrato vostra figlia.
Era … beh, non penso che avreste voluto vederla la notte che ci
siamo conosciuti. Una serie di circostanze hanno fatto sì che
diventassimo amici ed lei mi ha permesso di aiutarla ed ora sono
convinto che riuscireste a stento a riconoscerla per quanto è
bella e buona e fantastica in tutto quello che fa. Ma se è vero
quello che lei mi ha raccontato, ed ho piena fiducia in lei, beh
dovreste smetterla di fingere e assumervi le vostre
responsabilità!”
“Pensi che io stia fingendo?” trillò allora Lois,
che se ne era stata in silenzio fino a quel momento, a riprendersi
dalle lacrime “pensi che io non mi senta in colpa per aver
trascurato mia figlia ed averla fatta finire in una cattiva strada. Se
potessi tornare indietro le starei più vicina, non la lascerei
mai andare via …”
“Lois” la zittì suo marito, prendendola per mano.
“Tyler, io credo che tu abbia frainteso le mie parole”
continuò, rivolgendosi a me “volevo dire che è
inutile stare qui a incolparsi, perché quel che è fatto
è fatto, non si può tornare indietro. Ora dobbiamo
rimettere apposto le cose, per quanto possibile”
“Ma lei…” cercai di ribattere, ma lui me lo
impedì. “Tyler io non ti conosco e non posso giudicarti
… allo stesso modo tu non puoi giudicare noi. Quindi fammi il
favore non dire altro. Noi ci conosciamo, sappiamo cosa è
successo e quali sono le nostre responsabilità e non abbiamo
bisogno di un estraneo che venga a farci una ramanzina già
sentita”
Mi aveva appena tirato addosso una raffica di mitra, freddandomi sul
colpo. Lui aveva ragione, perfettamente ragione; e pensai che tutti
avremmo potuto imparare tanto da lui e dalla sua fierezza, nella quale
riconoscevo tutta quella dignità che Allison portava sempre con
sé. Abbassai il capo e, forse per la prima volta in vita mia,
chiesi perdono. Perché questa volta me lo sarei detto da solo:
sei solo un ragazzino Tyler!
Doug mi si avvicinò e, con dei leggeri pacchi sulla spalla, mi
sorrise. “Vieni, dai” mi disse “andiamo a fare due
passi …”
NOTE FINALI
Eccomi
presente all'appello! Visto che ho pubblicato prima che un mese
passasse...direi che merito un applauso. Scherzo naturalmente!
L'applauso lo meritate voi che rimanete fedelissime...
Dunque...le cose procedono molto velocemente...però non so come giudicarle.
La semi-sfuriata di Tyler, la gentilezza del padre di Allison, e senza
dimenticare la reazione di Lois, la madre. Sono cose che sinceramente
spiazzano anche me ... che posso pianificare una storia, ma fino ad un
certo punto.
Io non dico altro...aspetto che siate voi a commentare. Spero siate numerose come sempre
Grazie mille a tutte
à bientot
Federica
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