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Autore: crazyfred    16/12/2011    13 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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When you crash in the clouds - capitolo 21






Capitolo 21

On the road











soundtrack


Con due pesanti trolley ed altrettanti borsoni ci incamminammo per il terminal, gremito di autobus sebbene fossero le nove di sera, seguiti da mia madre, alla ricerca della nostra corsa. Les se n’era rimasto a guardia del SUV, parcheggiato in doppia fila in un posto alquanto fortuito, giusto per scaricare i bagagli.
“Io ancora non riesco a capire perché non abbiate voluto prendere l’aereo. È più comodo ed impieghereste meno tempo …”
Io ed Allison ci scambiammo un’occhiata tanto eloquente quanto scoraggiata.
“È inutile che fate quella faccia” rimbeccò mia madre, squadrandoci e puntandoci contro l’indice “sapete bene che ho ragione”
Mentre il fattorino ci aiutava a caricare le valigie sul pullman, tentai di spiegare ancora una volta a mia madre il perché di quella scelta: Allison non avrebbe accettato più soldi né da mia madre né da me né da nessun altro ora che era quasi, mancavano pochissime ore, maggiorenne, e quelli che era riuscita a guadagnare occupandosi di Caroline (un lavoro a metà strada tra babysitter e istitutrice) non bastavano per pagarsi nemmeno un biglietto in economica.
In più, parte del suo pacchetto “desideri per la maggiore età” prevedeva un viaggio on the road, come nella migliore tradizione americana. Tuttavia nessuno dei due era un bravo pilota: lei non aveva avuto il tempo di fare pratica, scappando subito dopo aver preso la licenza; io, invece, avevo un rapporto di amore/odio con le auto. Più che altro, si trattativa di una vera e propria dominazione dell’automezzo nei miei confronti. Per cui entrambe avevamo concordato che mettersi alla guida, non era di certo una cosa fattibile: depressi e sfigati sì, ma alla nostra pellaccia ancora ci tenevamo.
“Va beh” si arrese mia madre, al momento dei saluti, disperata nemmeno fossimo in partenza per il Vietnam “ma mi raccomando, chiamatemi … almeno per farmi sapere che siete vivi … Tyler non fare come al tuo solito, come quella volta che sei andato in gita ad Ellis Island”
Come al mio solito?! Ma se prendeva sempre in esempio (l’unico che aveva) quella gita ad Ellis Island in 5a elementare, quando il telefono cellulare era ancora un mattone con l’antenna estraibile e lo schermo monocromatico e solo mio padre che era un milionario poteva permetterselo.
Madri … quel cordone famoso non sarà mai abbastanza reciso nella loro testa.
Ci abbracciò entrambe, e se non l’avesse smessa con quelle moine le sarebbero arrivati due bei ceffoni (uno da me, l’altro da suo marito che a larghe braccia da lontano esprimeva tutta la sua solidarietà nei nostri confronti), e finalmente ci lasciò salire sull’autobus.
Per essere l’autobus un mezzo usato, almeno in America, dai meno abbienti … beh devo dire che non c’è niente di cui lamentarsi. Sarà stato anche per il parco auto recentemente rinnovato dalla compagnia, ma non ci mancava proprio nulla: sedili confortevoli e larghi anche per un spilungone come me, prese della corrente per ricaricare gli apparecchi elettronici, wireless. Non avremmo avuto problemi a trascorrere le successive, lunghissime ore.
La durata, infatti, era l’unico problema di quel viaggio: 16 lunghissime ore, lungo le sterminate autostrade americane, a volte anche nel bel mezzo del nulla.
“Io vicino al finestrino” strillò Allison, precipitandosi a sedere, sgusciandomi di fianco mentre sistemavo le giacche nel cassettino sopra le nostre teste.
Mi cacciò una bella linguaccia di soddisfatta vittoria non appena mi accomodai vicino a lei, e quello fu il primo atteggiamento vagamente sereno e spensierato da almeno un paio di settimane.
Sicuramente il pensiero di tornare nella sua città natale, il terrore di incontrare qualche parente o amico per sbaglio la faceva tremare come una foglia ed agitare. Diceva di sentire come un pugno forte allo stomaco, una fiammata al cuore e il respiro che le si troncava in gola ogni volta che pensava a quell’eventualità. “Cerca di non pensarci” la incoraggiavo. “Fosse facile” rispondeva puntualmente lei.
Non era solo un semplice ritorno agli affetti, se ancora questo per lei poteva significare qualcosa, ma era anche e soprattutto un ritorno a ciò che lei era stata, un faccia a faccia con la ragazzina innocente ma ribelle e la piccola donna ormai tranquilla ma con un carico di tormenti sulle spalle.
Avevamo provato a fare programmi, nei giorni precedenti alla nostra partenza, anche per distrarla un po’, ma anche solo cercare un albergo dove dormire, per lei era un dolore ed una fatica in più. Quello no…era il padre di un suo compagno di scuola, quell’altro nemmeno…sua madre giocava a bridge con la figlia del proprietaro. Quell’altro nemmeno a parlarne…era la pensione ultraeconomica dove la portavano i ragazzi quando aveva iniziato il suo giro di amicizie “intime”.
Speravo di sbagliarmi, lo speravo con tutto me stesso, ma niente mi levava dalla testa che quel viaggio sarebbe stato un disastro.
E il fatto che il suo umore fosse sottoterra, ai minimi storici da quando la conoscevo, non faceva che rafforzare la mia ipotesi.

“Sei davvero sicura?” le chiesi, titubante, ancora una volta. S’era messa in testa di voler chiamare i suoi, prima di partire per Indianapolis, almeno per capire che aria tirava.
Senza proferire verbo annuì vigorosamente, fissando il telefono come fosse un mostro letale. “Devo” precisò; afferrò la cornetta di quel vecchio apparecchio che Les ancora teneva in casa, nello studiolo, attentamente, quasi scottasse e iniziò a comporre le cifre a memoria, senza neanche controllarle sul file che mio padre ci aveva fatto avere e che era da giorni aperto nel computer di mia madre: d’altronde era pur sempre il numero telefonico di casa sua.
Una mano reggeva la cornetta, con l’altra si aggrappava stretta al bordo della scrivania; il suo respiro era affannato, irregolare, non ero sicuro che avrebbe retto a lungo. Non era il suo primo tentativo, ma tutti erano falliti miseramente, interrotti richiudendo malamente l’apparecchio prima che potesse anche solo sentire una risposta. L’ultima volta che ci aveva provato, solo il giorno precedente, aveva resistito un bel po’, prima che scattasse la segreteria telefonica.
Dopo cinque squilli e i suoi nervi ancora saldi e decisi nell’andare avanti, sentii una voce maschile rispondere all’altro capo del telefono. Ma lei era diventata pallida e muta, turbata da quella voce a lei evidentemente familiare.
“Pronto? Pronto?! Ma chi è?!” continuò l’interlocutore, mentre lei riusciva solo a respirare rumorosamente, finché non si risolse a riattaccare, ancora.
Scattò via, furiosa, probabilmente imbarazzata da quella figura appena rimediata. Ma doveva capire che non era colpa sua, era del tutto naturale essere impacciati in una circostanza simile. “Allison! Allie!” le corsi appresso, per cercare di calmarla, ma lei non voleva sentire ragioni. Entrati in camera sua – era già tanto che non mi avesse chiuso la porta in faccia – accese lo stereo a palla, mettendo su qualcosa di veramente pesante. Aveva iniziato a maltrattarsi labbra, mani e capelli, segno evidente che qualcosa non andava. Girava intorno nella stanza, torcendo quella povera malcapitata di una tshirt bianca che usava in casa.
“Allie!” la presi e la fermai, placcandola con le mie mani sulle sue braccia “calmati!”
Bisognava essere fermi e decisi in quelle situazioni, soprattutto con lei che era la regina nel passare da una crisi depressiva ad una isterica. Era necessario prevedere e prevenire ogni sua mossa.
Quando si fu calmata, quando il suo respirò sembrò regolarizzarsi e i suoi incisivi avevano smesso di solcare a sangue le sue belle labbra carnose e rosse, la lasciai libera e placai anche il mio tono di voce.
“Perché sono così stupida?!” borbottò tra sé e sé, severa contro il suo riflesso allo specchio sulla toletta, rimproverandosi evidentemente per quella conversazione mai iniziata. “È tuo padre cazzo!” continuò “Cosa c’è di più normale che parlare con tuo padre…cogliona! Sei sempre la solita emerita cogliona…fatta apposta per rovinare tutto!”
Non le avrei permesso di autodistruggersi così, neanche se avesse avuto ragione di farlo – e non era quello il caso. C’era una cattiveria ed un rancore nei confronti di sé stessa che poteva essere particolarmente deleterio; quell’indice puntato in maniera feroce all’immagine allo specchio, uno sguardo sprezzante rivolto a sé stessa che non avevo mai visto. L’avevo vista disprezzare gli altri, odiare l’immagine che di sé avevano gli altri, deprecare il suo lavoro anche…ma lo sterminato orgoglio innato le avevano sempre conferito una straordinaria pienezza di sé. Ma non negli ultimi giorni, non da quando le ultime barriere erano cadute.

Mi era sembrato di aver letto il nome Pittsburgh da qualche parte sui cartelloni stradali che sfilavano lungo l’autostrada. Era difficile esserne sicuri quando sei appena sveglio dopo una dormita su un autobus in viaggio, alle primissime luci dell’alba, quando non capisce bene se è notte o giorno, con i fari delle auto che sfrecciano veloci tutt’intorno. In ogni caso i cartelloni pubblicitari e il paesaggio intorno a noi, vagamente lussureggiante rispetto alle abituali colate di cemento delle mie zone, mi diedero da pensare che avevamo lasciato alle nostre spalle i popolosi stati di New York e del Connecticut ed ci eravamo lanciati a capofitto nella cavalcata verso il West, incominciando con la Pennsylvania. Buttai un occhio all’ipod che ancora suonava della musica techno negli auricolari, che come un innocuo moscerino ti da fastidio ma cerchi di ignorare; l’orologio del lettore segnava le 7.30 del mattino - orario di New York, ma noi stavamo andando in Indiana, quindi una volta arrivati avrei dovuto ricordami di portare le lancette un’ora indietro. Attorno a noi era tutto ancora buio ed addormentato, gli altri passeggeri rispettavano il silenzio imposto nella vettura, visto che qualcuno era ancora assopito.
Cercai Allison, che di solito aveva l’abitudine di addormentarsi usando le mie spalle come suo cuscino; ma stavolta non era così, aveva scelto il vetro freddo ed umido, ammorbidito dal cappuccio della felpa e dal piccolo collare di gomma gonfiabile che mia madre le aveva dato prima di partire.
Era da un paio di giorni che era strana, imbronciata, silenziosa. Era come covasse qualcosa dentro, ed avevo la netta sensazione che era una malinconia comune: entrambi vedevamo la realtà in faccia, vedevamo il punto di svolta sempre più vicino, al di là di ciò che sarebbe potuto accadere; e ne eravamo spaventati a morte, ma invece di aiutarci a vicenda ci evitavamo l’un l’altro. Era un muto addio, un abituarsi all’idea che non sarebbe stata più la stessa cosa tra noi.
Se qualcosa fosse andato storto, ed egoisticamente ad essere sinceri me lo auguravo proprio, forse sarebbe tornata con me a New York, ma non sarebbe stato più lo stesso: non sarei stato più la persona più importante della sua vita, quella a cui rivolgersi per un problema, l’unica che potesse garantirle aiuto e riparo. Non osavo nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto quando avrebbe rivisto sua madre, ammesso che avrebbe accettato di rivederla, cosa di cui non ero sicuro. Non si poteva negare, però, che a suo padre non aveva intenzione di rinunciare. Se lei provava per suo padre il bene incondizionato che Caroline provava per nostro padre, nonostante tutti gli sbagli in cui lui perseverava, lo avrebbe rivoluto nella sua vita con le unghie e con i denti. E poi, a sentir parlarne Allison, suo padre avrebbe potuto combattere contro il resto del mondo per tenersela stretta. E faceva bene, anche io lo avrei fatto se fosse stato un mio diritto.
Ma non lo era, ed eccomi su un autobus per riportarla a casa, la sua vera casa.
“Che cos’è questa faccia triste Ty?”
Sobbalzai alla voce di Allison che d’improvviso mi richiamò alla realtà.
“Sei sveglia?!” domanda idiota. “Ma niente, non preoccuparti” le sorrisi cordialmente “sono solo stanco … ho dormito poco e male”
“Sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata” commentò, sibillina, puntando uno sguardo severo verso l’orizzonte dove c’era ancora il buio. L’alba, invece, era alle nostre spalle. “Spero proprio che la prossima fermata ci sia a breve” disse, stiracchiando le braccia “ho bisogno di sgranchire le gambe e prendere un po’ d’aria … ho ancora nelle narici la puzza di fritto della cena di Bombolo.
Bombolo era un passeggero del sedile davanti a noi, soprannominato così da Allison per via del suo volume, oltre che per la quantità immane di ciambelline ingurgitate dal momento della partenza fino all’1, quando l’autista spense le luci e si mise anche lui a dormire.
“Siamo nei pressi di Pittsburgh” la informai “lì ci fermeremo. Io ho proprio bisogno di una sigaretta!”
“Nervoso?” domandò. Scossi la testa: “dicono che il fumo porti dipendenza … non si può stare molte senza fumare e mi pare che dovresti saperne qualcosa …”
Mi cacciò la lingua, indispettita come tutte le volte che provavo ad essere sarcastico con lei, e l’aria tra noi sembrò tornare vagamente respirabile, escludendo il fatto che, al di là di qualche parola o informazione, non ci eravamo detti molto, immersi nella lettura o nelle rispettive playlist.
Alla stazione degli autobus, tra barboni addormentati sulle panchine e tossicodipendenti che si avvicinano per racimolare qualche soldo d’elemosina, riuscimmo a darci una rinfrescata in bagno e a prendere la colazione al bar. Non era Starbucks, ma non era nemmeno acqua sporca. Seduti allo scalino del marciapiede, al freddo pungente del mattino, aspettavamo che l’autobus fosse pronto per partire di nuovo. Ci aspettavano altre 7 ore di viaggio: un calvario se tra me ed Allie non se ne fosse andata quell’atmosfera da funerale.
Tra un sorso di caffè e un tiro di sigaretta infatti, i cappucci delle felpe e delle giacche calati sulla testa, gli occhiali a nascondere le borse sotto gli occhi, non avevamo niente da dirci; e per due come noi, che per smettere di parlare avevano bisogno di minacce atomiche, era davvero grave.
E non era come quando si sta bene anche senza dirsi nulla, perché non si stava bene per niente. Era il classico silenzio assordante e stridente, fatto di urla e parolacce urlate a vicenda, che per quanto eravamo coglioni andavamo a letto insieme (per la verità dopo Capodanno mi aveva mandato in bianco tutte le volte che ci avevo provato) eppure se c’era un problema da risolvere non eravamo capaci di dircelo in faccia.
Ma il tempo per dirsi tutto quello che ci passava per la testa, per giocarsi le ultime carte, era agli sgoccioli; meglio che ti dia una mossa Tyler!!!
“Come ti senti?” chiesi, usando una domanda generica per rompere il ghiaccio. Dio, sembravamo due estranei, che cosa patetica!
“Meglio ora, il caffè mi ha rimessa al mondo proprio!” esclamò soddisfatta, stringendo il bicchierone fumante del caffè tra le due mani e portandolo vicino alla bocca, per riscaldarsi meglio oltre che per bere.
“Non mi riferisco a quello” replicai.
“Quanto lo odio quando fai così, Tyler!” esclamò lei, e sembrò veramente incazzarsi di punto in bianco. Beh, rispetto all’apatia delle ore precedenti, era già una certa botta di vita. “Che c’è?!” chiesi. “Mi fa incazzare questo modo di fare che hai … sei sempre perennemente criptico! Risparmia il fiato e dimmi che cosa vuoi sapere?!”
“Innanzi tutto non c’è bisogno di scaldarsi così tanto, stai calmina” le dissi, alzandomi per buttare il mio contenitore del caffè. Nel frattempo accesi la sigaretta numero due, perché mi aveva fatto schizzare di nuovo i nervi … ma perché era così maledettamente lunatica e isterica?! “e poi se proprio non ci arrivi da sola, volevo sapere come ti senti al pensiero che stiamo andando ad Indianapolis”
Prese una lunga boccata di nicotina, lasciando che le invadesse tutte le vie aeree; conoscevo quella sensazione piacevole e consciamente letale. Poi si alzò e si diresse verso l’autobus, liberandosi anche lei del bicchiere di carta del caffè. Notai così che anche gli altri passeggeri si stavano avvicinando al bus. Allie chiese all’autista ancora un paio di minuti per finire la sigaretta, così restammo ancora un po’ di fianco al portellone del bus. Anch’io feci un altro tiro, eppure non riuscivo a calmarmi. E la fretta che ci aveva messo addosso l’autista non aiutava. Forse avrei dovuto provare con una spranga in testa.
“È una cosa che andava fatta” rispose calma, tirando fuori l’ultima colonna di fumo. Salì poi con uno scatto i gradini del pullman ed io la seguii a ruota, buttando la cicca sull’asfalto e raggiungendola ai nostri posti.
“Non mi sembri felice” constatai. “Dovrei?!” fece lei, disincantata.  
“Certo” affermai “domani è il tuo compleanno, farai 18 anni e rivedrai tuo padre, che credevi morto. Dovresti sprizzare gioia da tutti i pori … io lo farei. Voglio dire, se mi dicessero che Michael è vivo io …”
“Hai ragione, scusa” disse, stringendomi la mano “il problema è che non si tratta solo di mio padre, Tyler, e lo sai”
“Tua madre?” chiesi. Era bello vedere che tirando fuori i rospi le cose tornavano a posto tra noi, benché già in partenza non è che fossero esattamente in ordine. Ma l’ordine mentale, al momento, anche quello bastava.
Lei annui, senza aggiungere altro, ma solo fissandomi, scrutandomi con attenzione e la cosa non mi piaceva affatto; sapevo benissimo che era capace di leggermi dentro, con una sensibilità che mai nessuno prima d’ora aveva avuto: nessuno mi aveva mai compreso come lei, e lo odiavo perché non c’era nulla che potessi nasconderle, niente che da cui potessi proteggerla in quel senso.
Abbassai lo sguardo ma tanto la scansione l’aveva già fatta e vedevo bene, con la coda dell’occhio, il modo in cui mi osservava.
“Tu piuttosto …” disse “che è quel broncio? È da stamattina che ti porti quel muso lungo dietro … è da un paio di giorni che sei giù, l’ho notato sai, ma oggi proprio non riesci a mascherarlo. Potevi dirmelo che è un problema per te accompagnarmi, non mi sarei offesa e sarei venuta da sola”
“Ma che dici … no, non è come credi” mi affrettai a replicare. Anche se con la morte nel cuore, non le avrei mai permesso di fare un viaggio come quello da sola. Come disse lei? Ah sì: è una cosa che andava fatta.
“Sono solo preoccupato” risposi, genericamente. Non era il caso di spiegare nei minimi dettagli la mia preoccupazione, anche perché sarebbe stata la volta buona che mi avrebbe preso per pazzo e mollato a calci nel sedere alla prima stazione di servizio. “Tu non lo sei?” incalzai. Era l’unico modo che conoscevo per distrarmi e distrarla: farla parlare di sé.
“Certo che sono preoccupata. Ma tu non dovresti, Tyler. Dimmi cosa c’è che non va Tyler”
Cosa non andava mi chiedeva? Mi scrutava dentro ma per fortuna non era ancora in grado di leggermi i pensieri in dettaglio, o sarei stato spacciato.
Così me ne inventai una … che poi era una mezza verità visto come stavano le cose.
“Non voglio vederti soffrire di nuovo. Non voglio che quella donna ti tratti come ha fatto mio padre. E non vorrei vedere delle porte chiuse in faccia. Non lo sopporterei …”
“Oh Ty!” esclamò e si strinse a me prendendomi per un braccio, come negli ultimi giorni non aveva più fatto “io non so cosa accadrà se e quando andrò a casa dei miei genitori. Ma ti prometto che non mi lascerò piegare … te lo devo per tutte quelle volte che sei stato forte per me. Perché sei stato tanto forte”
Lei posai delicatamente un bacio sui capelli, mentre stringendosi ancora più forse Allie intrecciava le sue gambe alle mie, poggiando finalmente la testa sulla mia spalla. Il sole, seppur timido e pallido, aveva deciso di fare una comparsata in quella giornata, e le distese di boschi e radure attorno all’autostrada si rincorrevano e susseguivano, mentre noi, dall’autobus, li osservavamo, un po’ più sereni.

Quasi 18 interminabili ore ci erano volute per arrivare a destinazione, nonostante la compagnia di viaggio assicurasse nei suoi depliant la massima puntualità. Ma nulla può il mezzo e un buon autista contro cause di forza maggiore. No, non parlo di traffico, incidenti stradali, maltempo o bazzecole simili. Parlo delle vesciche delle nonnette che non riescono a trattenerla ed invece di prendere un comodo treno optano per prendere il mezzo di trasporto più selvaggio di tutti: l’autobus.
Raggiunto l’albergo, un Bed & Breakfast a ridosso del centro, economico ma ben tenuto, di nuova gestione e libero da ogni possibile legame con la sua vita ad Indianapolis, andammo in camera, a gettarci nel letto per una dormita decente, in barba a fame o sete, senza contare che erano solo le due del pomeriggio.
“Hai visto che non c’era niente di cui aver paura?” esclamò Allie ad alta voce, mentre si asciugava i capelli di fronte allo specchio, ancora con l’accappatoio addosso. Io invece me ne stavo morto sul letto e non avevo alcunissima intenzione di muovermi da lì per il resto della mia vita. “Ti ho detto che il russo che l’ha fatta è un vero portento … se non se n’è mai accorto nessuno tra New Orleans e New York non vedo come potessero accorgersene qui”
“Sarà…ma mi hai fatto sudare freddo comunque!” Quando infatti Allison estrasse la sua carta di identità contraffatta al check in alla reception, infatti, avrei voluto morire, sotterrarmi e decompormi. Non era andare in villeggiatura al fresco che avevo in mente per festeggiare i suoi primi 18 anni, con l’accusa di contraffazione, pedofilia e rapimento di minore. Vallo a spiegare alla polizia che, anzi, la stavo riportando dai genitori …
Lei continuava a ripetere che non c’era altro modo, che non poteva andare in giro con il suo vero nome, non era ancora sicuro, ed inoltre mancavano ancora 9 ore alla mezzanotte del 20 gennaio, ora in cui sarebbe stata finalmente libera da ogni obbligo verso i suoi genitori e verso la legge che l’avrebbe ricondotta a casa anche contro la sua volontà.
Così, durante i nostri pernottamenti nella città dei motori, lei sarebbe tornata ad essere Mallory Banning.
“Mi spieghi una cosa?” le chiesi, riflettendoci un po’ su.
“Dimmi!” mi incoraggiò lei.
“Tu mi hai sempre detto che per il tuo … lavoro … hai sempre usato nomi diversi. Perché hai scelto proprio Mallory per la tua seconda identità?”
“Ehm…non prenderla a male” iniziò lei, e già da lì la cosa non mi piacque. Forse non avrei dovuto chiederlo. “Croce sul cuore!” esclamai, da buono scout. “Banning è il cognome di mia madre da nubile. Mallory invece è il secondo nome di Emily. Quando mi chiesero come volevo farmi chiamare fu il primo nome che mi venne in mente, perché in fondo avevo sempre la piccola in mente …” conoscevo bene quella sopraffazione che si prova in certi momenti, quando vivi e sopravvivi per qualcosa che non è più vivo, reale, e pure fa parte di te a tal punto che vivi di quei fantasmi. “Poi anche nel locale dove ballavo a New Orleans iniziarono a chiamarmi così e non potevo tollerarlo perché sentivo di macchiare la memoria della mia sorellina, così inventai la storia dei personaggi diversi e cercai di essere Mallory il meno possibile. Ma il danno era fatto … a molti piaceva vedermi e chiamarmi in quel modo e non potevo farci nulla. Ma dentro morivo per quello che stavo facendo.”
Era terribile quello che aveva passato, e volevo fortemente che sua madre, la donna che l’aveva messa al mondo, si rendesse conto di ciò che aveva causato. Volevo che soffrisse per lo schifo vissuto da sua figlia, ma non sarebbe mai stato abbastanza, perché non l’avrebbe mai vista come l’ho vista io, sculettare vestita da prostituta attorno ad un palo, con i genitali praticamente sbattuti in faccia a chiunque le mettesse la mancia nel tanga.  
“Fa strano” le confidai “sentire quello che mi dici e ricordare che io ti ho conosciuta proprio come Mallory”
“Già” annuì lei, pacata “è come un cerchio che si chiude”
Ma ormai era il suo sorriso ad essere serrato; con la mia stupidità le avevo tolto anche quel briciolo di pace che le era rimasto, riportando a galla ricordi che era meglio lasciare sopiti per ancora qualche ora.
Accesi la tv per riempirci la testa con le chiacchiere inutili che quella scatola propinava, il gossip delle riviste patinate e il bagliore dei flash sui tappeti rossi. Non mi fece alcun effetto vederla spogliarsi e rivestirsi davanti a me, ne vederla muoversi per la stanza in mutande e canottiera. Stavo vivendo di nuovo quei momenti di imbarazzo e profondo schifo, trasportato in un universo parallelo, nella camera ammobiliata e lercia in cui mi aveva condotto Mallory, dove avevamo fumato una canna ed avevamo parlato tutta la notte, decisamente su di giri, e dove, in fondo, avevo lasciato il mio cuore a farle da guardia.
Capii che Mallory non se n’era davvero mai andata, e se non l’avesse fatto, se Allison non l’avesse mandata via, niente sarebbe potuto cambiare. Non solo per quello che avrebbe potuto esserci tra noi, ma avrebbe complicato ogni suo progetto, ogni relazione.
Lei mi voltò lei spalle e ci mise poco ad addormentarsi, ma a me la stanchezza aveva sempre procurato l’effetto contrario, così decisi di uscire ed esplorare un po’ la città. Preso il mio zaino, le lasciai un appunto sul comodino, un bacio in fronte ed uscii.
Per quanto decisamente più piccola di New York, Indianapolis rimaneva comunque una città che non si poteva girare a piedi senza qualcuno a guidarti. Mi feci chiamare un taxi alla receptionist, ma non appena montai in macchina mi accorsi di non avere la benché minima voglia di visitare la città da solo, senza Allison pronta a viverla con me. Era come passeggiare per New York senza di lei, una camminata ad occhi chiusi, anziché una scoperta continua di cose che in 22 anni non avevo mai notato.
“4319 Springwood Trail” ordinai al tassista “il quartiere dovrebbe essere Wynnedale”
Quando un cartello stradale mi indicò l’ingresso nel  quartiere di Wynnedale, mi ritrovai in un delizioso quartiere residenziale, di quelli da vita tranquilla da serie televisiva, dove le madri fanno ancora le torte di mele e i bambini vendono la limonata per strada d’estate. I due lati della strada erano delimitati da querce alte e probabilmente secolari, che bene si accostavano alla semplicità e alla familiarità delle villette, costruite su delle piccole collinette. Il sole di un caldo e anomalo pomeriggio invernale batteva sul lato della strada che era la mia destinazione, e le case dipinte con colori tipicamente autunnali si riscaldavano e avevano tutta l’aria di essere molto accoglienti. Era un bel posto dove vivere, dove metter su famiglia. Ma è anche un posto dove è facile – e forse d’obbligo – celare le proprie disgrazie familiari.
Scesi dal taxi e presi un gran respiro, mi incamminai su per il lungo viale che mi conduceva alla grande casa marrone, ad un solo piano ma molto ampia, con un giardino ben curato e una berlina della Cadillac parcheggiata davanti al garage. Almeno qualcuno era in casa.
Suonando il campanello mi accorsi che sul portone campeggiava una scritta, incisa su una placchetta d’ottone. Welcome to the Rileys.
Sorrisi amaramente; la loro – ormai – unica figlia era scappata perché si sentiva una estranea in casa propria e loro mi auguravano il benvenuto…decisamente il festival dell’ipocrisia.
Venne ad aprire un uomo alto e grosso, praticamente una montagna. Era un po’ stempiato, sulla cinquantina probabilmente, invecchiato per l’età o più probabilmente per colpa di un destino che non gli aveva risparmiato nulla.
“Il signor Riley?” domandai, tendendo la mano che lui seppur titubante non rifiutò e strinse. “Sì?!” rispose, esitante.
“Sono Tyler Hawkins, figlio di Charles Hawkins” “Hawkins jr?!” chiese conferma, ancor più incerto, probabilmente la mia visita lo aveva preso in contropiede. “Sì signore, sono io. Avrei bisogno di parlare con lei” “Ma..ma certo! Si .. si accomodi!”

Entrai in casa e subito si aprì davanti a me la grande zona giorno con i mobili in legno scuro e le pareti rosso veneziano; avrei potuto girare perfettamente per quella casa senza sbagliare e tutto era rimasto probabilmente come lei lo aveva lasciato e come me lo aveva raccontato.
“È stato già in ufficio? Le hanno detto loro che mi avrebbe trovato qui?” chiese l’uomo, preoccupato. Ma io negai, non era per un’ispezione per conto di mio padre che io ero lì. “Sa” spiegò “il martedì esco sempre prima dal lavoro…è stata una casualità che mi abbia trovato a casa”
Mentre Doug mi invitò ad accomodarmi su una delle poltrone di fronte al camino in pietra, notai le sedie del tavolo da pranzo ancora con il cellophane sulla seduta, e le bomboniere disposte maniacalmente nella vetrinetta insieme ai servizi buoni, esattamente come Allison me le aveva descritte.
“Signor Hawkins” mi chiamò Doug. “La prego signor Riley, mi chiami Tyler” lo corressi; non ho mai amato che delle persone più grandi di me mi chiamassero per cognome solo perché ero il figlio del capo.
“Va bene Tyler, però tu chiamami Doug” rispose affabile “… lei è mia moglie, Lois”
Mio Dio, era una bellissima donna! Ora capivo la bellezza, semplice eppure allo stesso tempo sofisticata, di Allison. Capelli dalla piega impeccabile biondi, ma probabilmente non naturali, indossava una gonna grigia a tubino, una semplice camicia bianca e delle perle che impreziosivano il suo look senza strafare. Se Allison a volte mi era sembrata una principessa, sua madre era una regina. Doug era un uomo molto fortunato.
Mi alzai e la salutai. Sembrava estremamente timida, una donna tutta casa e chiesa, timorata di Dio e devota alla sua famiglia.
Tuttavia queste erano il genere di sensazioni che di solito la gente provava quando conosceva mio padre; il che fece suonare il campanello d’allarme nel mio cervello, e mi consentì di restare all’erta.
Poteva trattarsi anche di una regina, ma guardando ai suoi trascorsi, era piuttosto la strega di Biancaneve invece della dolce madre della Bella Addormentata. Era difficile credere che quella stessa donna che era davanti a me, era stata capace di tante malignità nei confronti del suo stesso sangue; ma d’altronde il delitto perfetto è quello in cui tutte le prove vengono fatte sparire.
I successivi cinque minuti trascorsero in maniera molto formale, con la signora Riley che preparava del tè ed io e Doug parlavamo del più e del meno, di mio padre e dell’azienda, del suo cordoglio per la morte di mio fratello e del mio per la morte della piccola Emily.
“È stato suo padre a dirglielo?” chiese la signora Riley, bianca in volto, di ritorno dalla cucina, con la teiera e tre tazze.
“Non…non esattamente” precisai. Lasciai che Lois servisse il tè e le chiesi di accomodarsi con noi. “È per questo che sono qui” spiegai “ho bisogno di parlare con voi di una cosa che so per certo vi sta molto a cuore”
Vidi i loro sguardi incrociarsi e diventare apprensivi, scorsi anche una vaga luce di speranza, negli occhi annoiati di quell’uomo di mezza età e in quelli afflitti della sua consorte. Uniti ancora dopo tante prove, uniti nonostante tutto: forse avrebbero avuto loro qualcosa da insegnare ai miei genitori su come far funzionare un matrimonio. Ma quella è un’altra storia …
Vidi Lois portarsi una mano davanti alla bocca, incredula eppur felice: doveva aver capito. “Allison?!” chiese, con una voce piatta e flebile, ed io non feci altro che annuire.
“Fermi un momento” intervenne Doug, concitato “che cosa … che cosa significa Allison? Tu conosci mia figlia? Sai dove si trova?”
“Allison è una delle mie migliori amiche, sì … diciamo così” non potevo certo dire loro che eravamo compagni di letto occasionali “l’ho conosciuta per caso nel posto dove lavorava e l’ho aiutata a rimettersi … in carreggiata”
Speravo di aver usato le parole più giuste per descrivere una situazione spiacevole come quella in cui si era cacciata Allison. Nonostante i motivi che l’avevano costretta a fuggire di casa, i suoi genitori, specialmente suo padre, non sembravano delle persone meritevoli di subire altri torti o umiliazioni. Generalmente nessuno dovrebbe esserlo. “È stata lei” continuai “a raccontarmi di voi e di Emily”
“Aspetta un attimo giovanotto” prese la parola Doug “che significa che l’hai rimessa in carreggiata?”
Non avrei voluto dargli quella mazzata, già mio padre mi aveva consigliato di andarci piano, ma era meglio sentirlo da me che dalla bocca della propria figlia. Presi un attimo per radunare le parole e li vidi entrambi tendere verso di me anche con il corpo, sporgendosi dal divano in pelle su cui erano seduti. Lui le stringeva la mano, era quasi un piacere per gli occhi vederli così uniti.
“Lei … lei lavorava in un club per adulti … come entreneuse” tirai fuori tutto d’un fiato, senza guardarli e senza pensare. Ora, però, dovevo essere pronto alla raffica di domande che sicuramente mi avrebbero rivolto. Ed invece davanti a me avevo solo il silenzio di due mummie, imbalsamate e sconvolte, rotto soltanto dal singhiozzare di Lois, che per disperazione o per vergogna si era nascosta il viso con le mani. Suo marito l’abbracciò e lei proseguì il suo pianto sul petto di Doug, che aveva tutta l’aria di essere la sua roccia.
Avevo giurato a me stesso che non avrei avuto pietà con lei, che l’avrei fatta sentire uno schifo per come aveva trattato sua figlia, ed invece erano bastate solo due frasi per massacrarla.
“È colpa mia … è tutta colpa mia” pianse Lois, abbracciata a suo marito; ma lui non si mosse, non fece una piega: restò lì ad abbracciarla e a consolarla, a ricordarle che non era colpa sua e che si sarebbe aggiustato tutto e tutto sarebbe andato bene.
Fu allora che non ci vidi più: perché posso tollerare una madre straziata dal dolore, posso capire l’incredulità e lo shock, ma negare quanto accaduto … beh, mi dispiace, ma non lo accetto.
“Senta Doug!” dissi, alzandomi “io non so quanto sua moglie le ha raccontato di ciò che è accaduto mentre lei era in coma, ma so quello che mi ha raccontato Allison. E so cosa ha passato in questi anni. Quindi per favore: mi faccia il piacere di non dire che non è successo niente e che non è colpa di nessuno”
Doug sembrava impietrito; persino Lois aveva smesso di piangere ed entrambi mi guardavano come se avessero visto un fantasma, uno spirito che li ammoniva per le loro azioni.
“Io non sono un pervertito che va per locali di spogliarelliste … mi trovavo lì per caso ed ho incontrato vostra figlia. Era … beh, non penso che avreste voluto vederla la notte che ci siamo conosciuti. Una serie di circostanze hanno fatto sì che diventassimo amici ed lei mi ha permesso di aiutarla ed ora sono convinto che riuscireste a stento a riconoscerla per quanto è bella e buona e fantastica in tutto quello che fa. Ma se è vero quello che lei mi ha raccontato, ed ho piena fiducia in lei, beh dovreste smetterla di fingere e assumervi le vostre responsabilità!”
“Pensi che io stia fingendo?” trillò allora Lois, che se ne era stata in silenzio fino a quel momento, a riprendersi dalle lacrime “pensi che io non mi senta in colpa per aver trascurato mia figlia ed averla fatta finire in una cattiva strada. Se potessi tornare indietro le starei più vicina, non la lascerei mai andare via …”
“Lois” la zittì suo marito, prendendola per mano. “Tyler, io credo che tu abbia frainteso le mie parole” continuò, rivolgendosi a me “volevo dire che è inutile stare qui a incolparsi, perché quel che è fatto è fatto, non si può tornare indietro. Ora dobbiamo rimettere apposto le cose, per quanto possibile”
“Ma lei…” cercai di ribattere, ma lui me lo impedì. “Tyler io non ti conosco e non posso giudicarti … allo stesso modo tu non puoi giudicare noi. Quindi fammi il favore non dire altro. Noi ci conosciamo, sappiamo cosa è successo e quali sono le nostre responsabilità e non abbiamo bisogno di un estraneo che venga a farci una ramanzina già sentita”
Mi aveva appena tirato addosso una raffica di mitra, freddandomi sul colpo. Lui aveva ragione, perfettamente ragione; e pensai che tutti avremmo potuto imparare tanto da lui e dalla sua fierezza, nella quale riconoscevo tutta quella dignità che Allison portava sempre con sé. Abbassai il capo e, forse per la prima volta in vita mia, chiesi perdono. Perché questa volta me lo sarei detto da solo: sei solo un ragazzino Tyler!
Doug mi si avvicinò e, con dei leggeri pacchi sulla spalla, mi sorrise. “Vieni, dai” mi disse “andiamo a fare due passi …”











NOTE FINALI
Eccomi presente all'appello! Visto che ho pubblicato prima che un mese passasse...direi che merito un applauso. Scherzo naturalmente! L'applauso lo meritate voi che rimanete fedelissime...
Dunque...le cose procedono molto velocemente...però non so come giudicarle.
La semi-sfuriata di Tyler, la gentilezza del padre di Allison, e senza dimenticare la reazione di Lois, la madre. Sono cose che sinceramente spiazzano anche me ... che posso pianificare una storia, ma fino ad un certo punto.
Io non dico altro...aspetto che siate voi a commentare. Spero siate numerose come sempre


Grazie mille a tutte

à bientot

Federica
   
 
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