CAPITOLO 13
Bagnoschiuma ai frutti di bosco.
Preso. Senza di esso, la
doccia potevo anche scordarmela. Era l'unico sapone che usavo per il
suo odore delicato e per quella schiuma densa che mi lambiva il corpo.
E, detto sinceramente, non volevo passare quattro giorni senza lavarmi
e puzzare quanto i calzini di Robbeo.
Piastra per capelli.
C'è. Dove volevo andare
senza quell'aggeggio che mi aveva salvato la faccia più di una volta?
Non potevo minimamente immaginarmi senza piastra, anche perché in una
sola occasione ero andata in giro con i capelli au natural e mi era bastato.
Sembrava che avessi indossato una parrucca di paglia e la gente
credette fosse già arrivato Halloween, nonostante le cicale di Giugno
cantassero all’ombra degli alberi. Pareva mi fossi travestita da
spaventapasseri.
Mi sistemai la coda
scompigliata dietro le spalle e appoggiai entrambe le mani sui fianchi
osservando la mia camera per un paio di volte. Stavo preparando la
valigia per la partenza di Londra e non volevo scordare nulla
d’importante a casa, anche perché stavo per andare all'estero ed era la
prima volta che mettevo piede fuori dall'Italia. Certo, mancavano
ancora tre giorni alla partenza ed era un po' presto per preparare le
valigie, ma sapere di dovermi allontanare da casa mia, dal mio piccolo
universo, mi preoccupava e mi spaventava.
Preparare i bagagli,
allora, era diventato una sorta di esorcismo contro il terrore di
lasciare il mio appartamento, le quattro mura in cui mi sentivo sicura
e protetta dal resto del mondo. Inoltre, così facendo, non rischiavo di
dimenticarmi qualcosa. Prepararle con maggior anticipo, era
scientificamente provato dalla sottoscritta, diminuiva il rischio e il
pericolo di lasciare a casa oggetti importanti, vestiti e quant'altro,
senza le quali un soggiorno in un Paese straniero sarebbe stato una
tortura.
A una prima, rapida,
occhiata sembrava che non avessi dimenticato nulla, almeno per il
momento. Abbassai lo sguardo verso la valigia blu e controllai ciò che
avevo messo dentro. Jeans, scarpe da tennis, un paio di chanel eleganti
con il tacco, semmai Ruben avesse avuto la geniale – quanto improbabile
– intuizione di portarmi fuori a cena; un vestito da abbinarci, qualche
maglietta e solo cinque maglioncini. Forse non sarebbero stati
sufficienti, vista la fama di Londra come città abbastanza fredda anche
ad Aprile e non volevo morire assiderata solo perché non mi ero
attrezzata a dovere. Presi dall'armadio altri quattro maglioni più
pesanti, nell'eventualità di trovare il gelo polare e i pinguini
appostati in ogni angolo della città che mi salutavano con le loro
buffe ali e che ridevano di una povera e sprovveduta ragazza italiana
con le stalattiti che le pendevano dal naso.
Acchiappai il maglione
rosso acceso che mia nonna aveva fatto a maglia apposta per me qualche
Capodanno fa e cominciai a piegarlo minuziosamente, in modo da non
sgualcirlo o rovinarlo.
Era rosso. Di un rosso acceso. Di un
rosso caldo.
Rosso come i capelli di
Romeo. Rosso come quelli di Annalisa.
La mia mente si assentò
per qualche attimo, andando a ripercorrere la giornata di pedinamento
per i vari negozi di via Condotti. Ricordavo qualsiasi attimo di quel
pomeriggio, tutto quello che si erano detti il mio migliore amico e
quell'arpia con le unghie fresche di manicure. C'erano state
rivelazioni inaspettate, certo, come il fatto che Romeo era sempre
stato innamorato di me e che ora, invece, provava quegli stessi
sentimenti per qualcun’altra. Questo mi sollevava, anche se
minimamente, visto come lo avevo trattato in tutti i nostri anni di
conoscenza. Solo come amico
e, per giunta, era sempre stata la vittima delle mie prese in giro,
delle mie frustrazioni, del mio nervosismo che si abbatteva sempre su
di lui, calpestando quel suo cuore senza nessun riguardo.
Questo, però, era solo il
problema marginale di tutta la faccenda. Inizialmente non credevo di
aver carpito abbastanza da quel pomeriggio da Sherlock Holmes, ero certa che
fosse stata solo una perdita di tempo, uno spreco inutile di ore che
avrei potuto passare a studiare per l'università. Ed invece non era
stato così, il mio cervello aveva immagazzinato informazioni senza che
io me ne rendessi conto. Lo aveva fatto per tutti quei giorni, per
quelle settimane in cui Ruben si era avvicinato a noi e tutte le
informazioni si erano accumulate in un angolo del mio cervello, si
erano accatastate una sopra l'altra disordinatamente come fogli di
carta, rendendo la mia mente una sorta di archivio sgangherato in cui
nessuno aveva messo piede da giorni interi. Stava a me analizzare
foglio per foglio, sarei stata io l'addetta all'archivio, colei che
doveva mettere un po' d'ordine nel marasma d’idee e sospetti che
infestavano la mia mente.
Fin dal primo giorno in
cui avevo visto Ruben, mi era sembrato di avere l'impressione di
parlare con un attore, con qualcuno che fingesse di essere ciò che non
era. Ovviamente non avevo dato granché peso a tutta la questione, dal
momento che lo avevo inquadrato come un troglodita intellettivamente
non alla mia altezza. Poi lui, senza che me ne rendessi conto e con il
tacito aiuto del destino, era entrato a far parte della mia vita e
tutti i miei sospetti e i miei dubbi su quel misterioso comportamento
erano stati sepolti nella mia mente, chiusi a chiave in un angolo
remoto del mio cervello. Ruben parlava, diceva di essere un fioraio,
diceva di essere un grande amico di Romeo, diceva di essere tra i
conoscenti del famoso Leonardo Sogno ed io non avevo mai fatto una
piega di fronte a queste affermazioni, quasi non avessi mai prestato
veramente ascolto a ciò che mi diceva. Erano tutte idiozie cui io avevo
creduto, alle quali non avevo dato l'importanza che si meritavano. E
aveva trascinato con sé, dentro quel mare di menzogne, non solo il suo
amico-talpa e Annalisa, ma addirittura Romeo. Lo aveva usato come
tramite per arrivare a me e il mio migliore amico non aveva opposto
resistenza, si era lasciato trasportare inerme da Ruben o come cavolo
si chiamava lui e non ne sapevo il motivo. Ero stata talmente cieca,
talmente stupida da non rendermi conto che il mio ragazzo e il mio
migliore amico erano complici nel mantenere chissà quale strano segreto
e me ne rendevo conto solo ora, mentre preparavo le valigie per partire
con un ragazzo di cui sapevo solo il nome, o nemmeno quello. Non
conoscevo il suo cognome, non sapevo dove abitasse, quali fossero le
sue passioni e questo perché lui non si era mai aperto nei miei
confronti. Parlava, parlava sempre, ma mai una volta mi aveva detto
qualcosa di sé, quasi stesse recitando la parte di un personaggio di
cui conosceva soltanto il nome.
Perché avevo aperto
l'archivio solo in quel momento? Perché non mi ero mai resa veramente
conto che Ruben mi nascondeva qualcosa? Qualcosa che dovevo
necessariamente scoprire il prima possibile. Ormai non potevo più far
finta di nulla. Avevo aperto la porta dei miei ricordi ed ero stata
sommersa da una valanga di fogli che non potevo più richiudere dentro
quella parte remota del mio cervello, non potevo ignorarli ancora una
volta e rischiare di farmi più male del dovuto, rischiare di ferirmi
non appena la verità fosse venuta a galla da sola, senza che io facessi
niente per farla uscire allo scoperto. Mi ero lasciata trasportare
troppo da lui, da quel sentimento che stava crescendo in me e che
nutrivo per i suoi occhi e per quel suo sorriso disarmante. Non avevo
dato ascolto al mio subconscio che aveva cercato di farmi rendere conto
di qualcosa, più di una volta. Lo avevo messo a tacere, avevo lasciato
che la parte razionale di me si assopisse, lasciando il posto
all'impulsività.
Gran bell'errore. Hai provato sulla tua
pelle parecchie volte cosa vuol dire mettermi a tacere.
Tutte le volte che avevo
voltato le spalle al mio subconscio, ero stata distrutta dai miei
stessi sentimenti, dalle persone di cui credevo potermi fidare, ma che
in realtà si erano sempre dimostrate pessime, orribili bestie senza
cuore che avevano giocato con i miei sentimenti. Per quel motivo ero
diventata cinica, una pazza furiosa acida quanto uno yogurt tenuto in
frigorifero per cinquant’anni, per non far avvicinare nessuno a me e
rischiare di soffrire ancora, per essere calpestata nuovamente. E aveva
funzionato per un certo periodo. I ragazzi scappavano da me, spaventati
dal mio pessimo e insopportabile carattere. L'unico che era riuscito a
scavalcare le barriere da me imposte, che non si era lasciato
intimidire dalla mia forza d'animo era stato Ruben ed io gli avevo dato
fiducia, nonostante ignorassi chi fosse e tanto meno da dove venisse.
Chi è davvero Ruben?
Era la prima volta che mi
ponevo quella domanda. O meglio, era la prima volta che ero davvero
intenzionata a trovare una risposta a quel mio dubbio. Provavo qualcosa
per lui, un sentimento difficilmente spiegabile, che oscillava tra il
volergli bene e qualcosa di molto più profondo di una semplice
amicizia. Se realmente mi stava nascondendo qualcosa, non potevo
correre il pericolo di innamorarmi
di lui e rischiare di soffrire ancora una volta. Avrei dovuto essere
più accorta nei confronti di Ruben invece di farmi incantare dalle sue
parole e dai suoi sorrisi, dietro ai quali chissà quali segreti si
celavano.
Lanciai il maglione rosso
fatto a maglia sul letto e guardai a lungo la valigia blu aperta e
quasi del tutto colma di cianfrusaglie. Come potevo partire serenamente
insieme a un ragazzo quasi sconosciuto come Ruben? Come potevo fidarmi
di un tipo piombato nella mia vita così di punto in bianco,
sommergendomi di baggianate alle quali io avevo creduto come una
stupida?
Mi ero fatta scivolare
addosso ogni preoccupazione, ma non potevo più fingere che andasse
tutto bene, non potevo più fare finta di nulla e nascondermi dietro
l'infinita voglia che avevo di sperimentare di nuovo l'amore, di farmi
trascinare in una spirale di sentimenti che avevo dimenticato da tempo.
Strizzai gli occhi e mi
passai entrambe le mani sul viso, come se così potessi in un qualche
modo lavare via ogni mia paura. Presi un grande respiro e uscii dalla
mia camera da letto, senza quel solito sorriso ebete che mi
accompagnava da qualche giorno a quella parte. Non c'era nessun motivo
di essere felici, dal momento che quasi sicuramente il mio ragazzo non
era chi aveva detto di essere.
Raggiunsi velocemente il
salotto dove trovai Romeo spaparanzato sul divano mentre si guardava la
puntata di un qualche telefilm stano che trasmettevano sulla Fox. I
suoi occhi assonnati mi seguirono dalla soglia della porta fino al
televisore e si spalancarono d'incredulità quando lo spensi con rabbia.
«Ehi! Che cavolo fai?!»
esclamò irritato, svegliato di soprassalto dalla mia furia.
«Dobbiamo parlare,» dissi
perentoria e il mio tono non ammetteva repliche.
Mi piazzai di fronte a
lui con le braccia incrociate e le labbra che tremavano, nell'inutile
tentativo di trattenere la delusione e la rabbia.
«Di cosa? Di come
rovinare il pomeriggio a Romeo Ciuccio?» ironizzò, ma il mio sguardo lo
trafisse, facendogli perdere quel ghigno di divertimento per la sua
stessa battuta. Sbuffò sonoramente e si sedette dritto sul divano,
invitandomi ad accomodarmi accanto a lui. Declinai l'invito scrollando
appena la testa.
«Lo so che la situazione
tra me e Annalisa è molto equivoca,» cominciò a parlare, pensando
probabilmente che la mia rabbia fosse dovuta alla sua “frequentazione”
con la piattola. «È una ragazza un po' frivola, ma non è così male
passare del tempo con lei. O almeno, non quando mi carica come un mulo
con tutte le sue buste di Bucci e compagnia.»
«Gucci,» lo corressi. «E
comunque questa volta il problema non è Annalisa. Non proprio, insomma.»
«Oh,» disse solamente in
un soffio e spostò lo sguardo su ogni oggetto presente in salotto.
«E... e quale sarebbe il problema?» Domandò dubbioso, senza degnarmi
nemmeno di un'occhiata. «Se è perché non ho sistemato camera mia, ti
prometto che lo faccio appena possibile, prima che ti trasformi in Hulk
e mi uccidi con un cazzotto,» sghignazzò.
«Fa poco lo spiritoso!»
Lo rimbeccai, sempre più seccata.
«E tu fai poco
l'enigmatica. Lo sai che non brillo per acume,» il suo tono di voce
divenne improvvisamente serio e incalzante. «Se vuoi dirmelo, bene,
sennò lasciami guardare la fine della puntata.»
Spostai il peso da un
piede all'altro, mentre mi mordicchiavo l'interno della guancia con
insistenza. Ero agitata e avevo paura. Era da molto tempo che non
sentivo quella strana morsa al cuore che lo avevo intrappolato e che lo
stava accartocciando piano piano, come se fosse un inutile pezzo di
carta straccia. Molto probabilmente perché fino ad allora non avevo mai
permesso a nessuno di avvicinarsi così tanto al mio cuore da poterlo
addirittura sfiorare. Ruben era l'unico cui avevo dato
quell’opportunità, dopo tanti anni passati nel gelido inverno delle mie
emozioni, assopite sotto uno strato di ghiaccio. E forse avevo paura di
scoprire la verità, di privarmi di quel calore che ora, a poco a poco,
mi stava sciogliendo. Se mi fossi fermata in quel momento, mentendo a
Robbeo, non sarebbe accaduto nulla e io e Ruben saremmo rimasti
insieme. Fine della storia.
Non potevo, però, vivere
nella menzogna e nella falsità, fingere di essere un’allocca che
credeva ancora alle sue scuse strampalate e alle sue strambe amicizie.
Dovevo affrontare le mie paure, a testa alta, mostrarmi forte davanti
alle avversità, anche se Ruben sarebbe stato l'ennesima delusione,
l'ennesima ferita che il mio corpo avrebbe dovuto subire in silenzio.
«Riguarda, riguarda…»
Tentai di dire più volte il nome di Ruben, ma le lettere rimasero
incastrate in gola, appigliate alla mia laringe per non uscire.
«Chi o cosa?» Incalzò
Robbeo, allargando le braccia e facendo un mezzo sorriso.
Feci appello a tutto il
mio coraggio e respirai a fondo, cercando di togliermi di dosso la
spiacevole sensazione di soffocamento che stavo provando.
«Ruben.»
Quel nome bastò per far
ammutolire il mio migliore amico. Rimase a fissarmi con gli occhi
sgranati e il volto pallido come un lenzuolo, mentre la lancetta dei
secondi del grande orologio appeso alla parete di fianco alla porta
della cucina scandiva lo scorrere del tempo. Il volume del
ticchettio aumentava a mano a mano che il silenzio si faceva sempre più
concreto tra di noi, come se fosse diventato quasi un muro invalicabile
frapposto tra me e Romeo, tra me e la verità.
«Co-cosa vuoi sapere?» La
sua voce arrivò in un sussurro, susseguita da un rumore gutturale di
saliva che faticava a scendergli giù per l'esofago.
«Non saprei,» scrollai le
spalle e schioccai la lingua. «Forse la verità?»
«Quale verità?» Sorrise,
ma era chiaro che dietro quelle labbra increspate si nascondessero
inquietudine e nervosismo.
«Sono stata una cretina.
O forse è meglio definirmi imbecille,» cominciai rabbiosa, soprattutto
verso me stessa, perché non ero stata in grado di carpire ed elaborare
per tempo tutte le stranezze che ruotavano attorno alla figura di
Ruben. «Mi sono lasciata abbindolare dalle sue storielle e non so
nemmeno io il perché. Fatto sta che, prima, mentre preparavo le
valigie, mi son decisa a togliermi le fette di salame dagli occhi e di
analizzare la situazione con lucidità.» Feci una lunga pausa per
riprendere fiato e per guardare le varie espressioni del volto di
Robbeo. Era passato da un iniziale disinteresse per le mie parole, fino
a diventare inquieto su quel divano via via che il mio discorso
acquisiva consistenza. «Perché, sai, mi sono resa conto che sto per
partire con un ragazzo che nemmeno conosco.
E che forse nemmeno tu conosci… non è così Romeo?»
«Ma se siamo amici da
tempo!» Esclamò, con un sorriso che non aveva nulla di naturale. Gli
angoli della bocca tremavano e i suoi occhi cupi contraddicevano
l'espressione gaia del suo viso.
«Ah già, è vero! Che
sbadata che sono,» ridacchiai, ma la mia pantomima finì due secondi
dopo. «Per chi mi ha presa, Romeo? Per un'idiota? Forse ti ho dato modo
di pensarlo, dato che fino ad adesso mi sono comportata come tale, ma
ho vissuto all'oscuro di chissà cosa per troppo tempo. Avrei dovuto
cercare di far luce subito, piuttosto che aspettare che qualcosa si
smuovesse in me.»
«Non è, non è niente di
che,» cercò di tergiversare e si alzò dal divano, dandomi le spalle e
camminando irrequieto per il salotto.
«Se non è niente di che, perché non me lo
dici tranquillamente, invece di nascondere questo segreto come se fosse
il tesoro più importante?»
«Celeste, davvero, io...»
disse, ma si fermò a metà frase, forse perché non sapeva come
continuarla. «...io non so come dirtelo.»
«Connettere il cervello
alla bocca sarebbe un buon inizio,» dissi sarcastica, ma sull'orlo di
una crisi isterica.
Romeo si fermò a pochi
centimetri dal tavolino di vetro che c'era di fronte al divano. Rimase
immobile per un po', stringendo i pugni, poi si voltò verso di me, con
lo sguardo spento e triste.
«Non sta a me dirtelo,»
mormorò, socchiudendo gli occhi.
«Avanti Romeo! Sei il mio
migliore amico!» Lo spronai. «Se non me le dici tu queste cose, chi
altri dovrebbe dirmele?»
Romeo abbozzò un sorriso
e scosse lentamente il capo.
«Ruben. Dovrebbe dirtele
lui, queste cose, visto che c'è in gioco la serenità di due persone,»
rispose con un tono di voce basso. «Ora scusami, ma ho bisogno di
stendermi.»
Non mi diede modo di
rispondergli, di convincerlo a vuotare il sacco che già era sparito in
corridoio. Sentii la porta della sua stanza sbattere, poi la chiave
girare nella toppa. Allora era vero, Ruben mi nascondeva qualcosa e
anche Romeo era coinvolto in quel giro di bugie nel quale ero stata
intrappolata contro la mia volontà.
Mi massaggiai le tempie
con indice e medio, sentendo che la testa mi stava per scoppiare,
mentre dei passi leggeri si avvicinavano al salotto. L'unica cosa che
potevo fare, in quel momento, era chiamare Ruben e farmi dire la verità
direttamente da lui, anche se non sarebbe stato facile. Avrebbe
accampato scuse su scuse, com’era solito fare.
Andai in camera mia e
afferrai il cellulare, abbandonato sulla colonnetta dalla sera
precedente. Cercai il numero di Ruben nella rubrica e lo guardai a
lungo, come se quei numeri potessero darmi tutte le risposte ai miei
dubbi. Respirai a fondo, prendendo grandi boccate d'aria e chiusi gli
occhi, schiacciando istintivamente il tasto verde di chiamata. Mi
portai il cellulare all'orecchio e cominciai a camminare per la camera
da letto nervosamente, mordendomi le unghie per l'agitazione. Dapprima
pensai che non rispondesse, perché il suo telefonino suonava a vuoto,
ma dopo cinque squilli, finalmente Ruben alzò la cornetta e la sua voce
mi arrivò gelida, distante, quasi fosse quella di uno sconosciuto.
«Bella!»
Non riuscii ad articolare
nemmeno una frase, come se le parole si rifiutassero di uscire dalla
mia bocca e rovinare tutto.
«Celeste?» Disse il mio
nome con un pizzico di dubbio nella voce, non sentendo nessuno
all’altro capo del telefono. «Celeste sei tu?»
«Ci-ciao,» balbettai, e
mi sedetti a peso morto sul letto.
«Per un attimo ho creduto
che volessi farmi uno scherzo,» disse divertito. «Mi aspettavo un Sette giorni rantolato da cagarsi
sotto!»
«Non sono proprio
dell'umore giusto per scherzare.»
Rimase in silenzio per un
po', con il sottofondo di uno strano ronzio, un rumore simile al motore
di una macchina. Chissà dove era diretto. Forse era una delle tante
piccole cose che mi nascondeva per evitare che la verità su di lui
venisse a galla.
«C'è qualcosa che non va
Cel?» Domandò con la voce stranamente seria e con un pizzico di
preoccupazione a incrinarla.
Ingoiai a fatica la mia
stessa voce e strinsi il lenzuolo sotto di me. Stavo per affrontare la
verità, per trovarmi faccia a faccia con qualcosa di spiacevole e non
sapevo se ero in grado di reggere, di sopportare ancora una volta una
presa per i fondelli da parte di una persona a cui mi ero affezionata.
«In realtà sì, qualcosa
che non va c'è,» risposi, cercando di apparire tranquilla, nonostante
sentissi l'incontrollabile voglia di urlargli contro per qualsiasi cosa
mi avesse tenuto nascosto.
«Ehm... è perché non mi
sono fatto sentire? Ero un po' impegnato, sai com'è, i fiori, il
negozio, la nonna...»
Ennesima stupidata che mi
propinava con il suo solito sorriso sghembo sulle labbra. Come avevo
potuto essere così cieca da non capire che mi stesse prendendo in giro?
Che si stava prendendo gioco di me senza che me ne rendessi conto?
«Quale negozio?» Chiesi,
modulando la voce per farla rimanere il più basso possibile.
«Quello di fiori…?»
Rispose lui, dubbioso.
Mi chiedevo il motivo per
cui Ruben continuasse a mentirmi in quella maniera. Già, forse non
avevo brillato per acume e astuzia negli ultimi giorni, forse gli avevo
permesso di potersi prendere gioco di me con troppa facilità e quindi
tutta la colpa non era da attribuire a lui, ma parte era anche mia. Non
capivo, però, che cosa lo spingesse a fingere, quale terribile segreto
mi nascondeva.
«Vuoi sapere qual è il
problema?» Domandai.
«Direi di sì, dato che
non ho ancora capito come si legge nel pensiero degli altri.»
Mi schiarii la voce e mi
sistemai sul letto, mettendomi a mio agio quasi stessi per sostenere
l'esame con la terribile professoressa Torretta, abbonata al quindici
da intere generazioni e che aveva fatto una strage degli studenti mai
vista in un'università.
«Ecco, vedi...» Esordii,
ma Ruben mi bloccò subito con una mezza risata.
«Pensavo mi rispondessi “Beh, leggere il tuo di pensiero non è
molto difficile, visto che non sei i grado di pensare, trogloché che
non sei altro”» disse con voce stridula. «Cavoli, devi essere
proprio inca... volata se non mi prendi a male parole!»
«Vorrei tanto prenderti a
male parole,» risposi, scuotendo la testa. «Ne sento proprio la
necessità, come sento il bisogno di prenderti a pugni!»
«'Azzo!» Si lasciò
scappare. «Che ti ho fatto Cel? Non di aver fatto qualche cazzata 'sti
giorni.»
«Non si tratta di questi
ultimi giorni,» sospirai affranta, più che altro perché mi stavo sempre
di più avvicinando alla verità e mi spaventava dover accettare
nuovamente, a malincuore, il fatto di essere stata ingannata.
«Ma...» Incalzò lui
curioso ed io mi ritrovai di nuovo a respirare profondamente, quasi i
miei polmoni non fossero più in grado di ventilarsi.
«Si tratta di tutto il
periodo in cui ci siamo frequentati,» dissi, una volta trovato il
coraggio di affrontare Ruben, di affrontare la verità, di affrontare me
stessa.
«Non ti seguo,» rispose
solamente.
C'erano tante cose che
volevo dirgli, troppe le parole che desideravo urlargli in faccia e non
sapevo da dove cominciare, quale fosse l'inizio migliore per il mio
discorso. Non avevo idea di che tono usare, come pormi nei suoi
confronti. Se prima potevo pensare che le mie erano solo congetture
senza senso, che ero andata a ricercare il famoso pelo nell'uovo solo
per complicarmi la vita, ora avevo quasi la certezza che non mi ero
immaginata tutto, che Ruben mi stesse mentendo ed era stato Romeo, con
il suo atteggiamento, a darmene la conferma.
«Che cosa mi nascondi?»
Domandai solamente, privata di qualsiasi forza dal parassita che si era
stabilito nel mio cervello.
Come immaginavo, Ruben
tacque per un'infinità di tempo, spiazzato da quella domanda a
bruciapelo. Il suo silenzio era solo l'ennesimo tassello del puzzle che
stavo costruendo e la cui conclusione era quasi ultimata.
«In... in che senso?» La
sua voce mi arrivò all'orecchio quasi ovattata, come se fosse distante
chilometri, come se lo avesse solo accennato per paura che io la udissi
e che gli dessi una risposta.
«Il fatto che tu dica di
essere un fioraio, che insinui di essere un grande amico di Romeo,
quando in realtà ci hai parlato solo mezza volta, il fatto che ti porti
appresso quel nano occhialuto che si spaccia per un calciatore,»
risposi, parlando tutto d'un fiato. «Ci avevo creduto e ci credevo fino
a qualche minuto fa, ma poi mi son detta che era impossibile,
accidenti, impossibile che
tutte le cose che mi hai detto fossero vere.»
«Per quale motivo avrei
dovuto mentirti?»
«Non lo so. È quello che
mi sto chiedendo anche io. Ed è quello che voglio scoprire.» Mi
interruppi per qualche secondo, poi ripresi il discorso. «A meno che tu
non mi renda le cose meno complicate del previsto e vuoti il sacco di
tua spontanea volontà.»
«N-Non devo vuotare
nessun sacco!» Sbottò infastidito.
«Che ne dici di iniziare
da una domanda molto semplice?» Gli proposi, perdendo un po' di quella
tranquillità che mi aveva accompagnata fino a quel punto della
discussione «Chi sei? Ti chiami davvero Ruben o anche questo nome lo
hai inventato per la tua pantomima?»
Lui ridacchiò
nervosamente dall'altro capo del telefono, indugiando sulla risposta da
darmi.
«Ce-certo che sono Ruben.
E chi dovrei essere, scusa?»
«Per questo ti ho posto
la domanda! Perché ho bisogno di sapere con chi sto parlando! Con chi
ho passato tutti questi giorni! Con chi mi sono fidanzata!»
Il ronzio di sottofondo
cessò all'improvviso e sentii distintamente lo sportello di una
macchina chiudersi con un tonfo sordo, quasi Ruben o chicchessia
l'avesse sbattuta con brutalità.
«Senti ora non posso
parlare,» disse lapidario. «Il mangia-lumache
mi sta aspettando a casa sua.»
In mezzo a tutta la
confusione che albergava nella mia testa, tra tutta la rabbia che stava
crescendo dentro di me per quella situazione assurda in cui io stessa
mi ero cacciata, ora compariva anche il nome di J. Era da parecchio che
non si faceva sentire e quasi mi ero dimenticata di aver sempre avuto
una cotta colossale per lui. Che cosa c'entrava in quel momento J? Da
quando Ruben frequentava anche lui? Mi era parso di intuire che non lo
sopportasse e oltre tutto, ora, venivo a sapere che andava a passare i
pomeriggi da lui.
«Cosa c'entra J.,
adesso?» Domandai confusa, scombussolata, disorientata da tutto quello
che stava succedendo.
Ruben farfugliò qualcosa
d’insensato e chiuse la comunicazione senza darmi nessuna spiegazione,
senza alcuna risposta ai mille dubbi che mi attanagliavano. Cosa potevo
aspettarmi? Se lui aveva un segreto che non voleva condividere con me,
perché mai avrebbe dovuto cedere alle mie domande e alla mia voce
spezzata dalla delusione? Come al solito avrei dovuto fare tutto da
sola: avrei scoperto la verità con le mie forze e mi sarei ferita con
le mie stesse mani.
Allontanai il telefonino
dall'orecchio e lo strinsi in mano, guardando a lungo la foto di sfondo
che mi ritraeva insieme a Robbeo. Stavamo sorridendo ed eravamo felici
e spensierati, senza nessuno strano ragazzo che minacciasse la nostra
serenità. Era stato così fino a qualche settimana prima, ma tutto
sembrava essere andato perduto per colpa mia e di un mio piccolo
momento di debolezza. Avevo abbassato le difese, avevo lasciato che
Ruben entrasse a far parte di me, a poco a poco, per paura della
solitudine che mi stava sempre di più risucchiando.
Lasciai cadere il
cellulare sul letto e mi diressi verso la mia libreria e lì, da qualche
parte, incastrato in un non ben identificato libro di testo
universitario, c'era un foglietto sul quale J. aveva segnato il suo
indirizzo qualche tempo prima, nella speranza che un giorno lo andassi
a trovare. Finalmente avevo l'occasione di visitare casa Rossi, anche
se non sarebbe stata affatto una visita di cortesia.
Afferrai un libro dopo
l'altro, sfogliando velocemente le pagine e scrollandoli verso il
pavimento, lasciando che post-it e bigliettini vari in cui scrivevo
appunti, fogli interi completamente scritti dalla sottoscritta in cui
avevo annotato scene per il mio romanzo, cadessero sul pavimento. Dopo
averli setacciati, m’inginocchiai a terra esaminando uno ad uno tutti i
pezzi di carta, scavando in mezzo a quei frammenti di fogli nel
disperato tentativo di trovare quel maledetto indirizzo. Ogni qualvolta
fallivo, strappavo il foglio in minuscoli pezzi oppure lo accartocciavo
sfogando la mia frustrazione su quegli inermi e inutili pezzi di carta.
Colta da un'improvvisa rabbia, senza più nessuna speranza di trovare
ciò che cercavo, cominciai a strappare quasi tutte quelle cartacce che
giacevano davanti alle mie ginocchia e mentre agivo accecata dalla
furia e dalla delusione crescente che mi stava piano piano
schiacciando, aiutata dall’infausto destino che sembrava non volesse
aiutarmi, intravidi la calligrafia raffinata di J. Afferrai il pezzo di
carta e mi alzai di scatto, fiondandomi fuori dalla mia stanza e da
casa mia senza nemmeno togliermi il golfino grigio topo con un orribile
fiore rosa sulla spalla e i pantaloni della tuta che avevo sempre usato
per fare educazione fisica. Sembravo una barbona vestita così, ma non
m’interessava se le persone mi avrebbero giudicata come tale. Stavo per
dare l'ennesimo schiaffo alla mia dignità, stavo per intrappolare di
nuovo i miei sentimenti in un enorme blocco di ghiaccio che nessuno
sarebbe mai stato in grado di sciogliere, per cui l'abbigliamento era
solo l'ultimo dei miei pensieri.
Una volta arrivata fuori
dalla palazzina, rilessi il bigliettino stringendolo forte tra le mie
dita per non farlo trasportare dal vento violento che si era abbattuto
sulla città. Mi orientai, guardando le strade intorno a me,
sistemandomi i capelli che danzavano insieme all'aria. La casa di J.
non era molto distante dal mio appartamento, per cui l'avrai raggiunta
a piedi, anche perché era necessaria un po' d'aria fresca, in un
momento come quello. Magari quel vento sarebbe stato in grado di
spazzare via tutte le mie preoccupazioni, forse sarebbe riuscito a
lenire quel vuoto che, piano piano, mi si stava creando dentro, come
una voragine, un buco nero che mi stava risucchiando a poco a
poco.
Il sole, a mano a mano
che correvo per le strade della Capitale, si stava nascondendo oltre
l'orizzonte, lasciando il posto alla luna e a un cielo macchiato di
rosso scuro. I lampioni cominciarono ad accendersi uno dopo l'altro,
colorando l'asfalto di un bianco tenue. A quell'ora le strade erano
praticamente deserte, dal momento che la maggior parte delle persone
era già a casa, quasi pronta a godersi la cena davanti al consueto quiz
delle sette. Per cui, stavo correndo da sola lungo i marciapiedi con il
fiatone e il cuore che scalpitava in ogni angolo del mio corpo per la
fatica mal sopportata e per la ridicola situazione in cui mi ero
cacciata, con il solo rumore dei miei passi pesanti ad accompagnarmi.
Sembrava quasi surreale quel silenzio che mi circondava. In realtà
tutto era surreale, anche ciò
che mi stava succedendo. Possibile che avessi vissuto quei giorni
all'oscuro di tutto, senza che me ne rendessi conto? Ero sempre stata
fiera della mia arguzia e della mia intelligenza, tanto da vantarmene
perfino con Ruben. E poi lui era il primo che era riuscito a ingannarmi
come una cretina, a prendersi gioco di me come se fossi una bambina che
ancora credeva a Babbo Natale.
Scrollai la testa
sconsolata, fermandomi di fronte all'enorme palazzo in cui abitava J.
Lo guardai dall'alto in basso, respirando a fondo e deglutendo più
volte. Solo pochi passi e qualche piano mi separavano dalla verità.
Quello che Ruben mi aveva tenuto nascosto fino a quel momento si
trovava nell'appartamento di Jean.
M’incamminai verso il
palazzo, ritrovandomi davanti al portone di vetro spalancato e un
sentiero di palloncini blu, bianchi e rossi che conducevano verso
l'ascensore. Rimasi immobile per un tempo indeterminato, forse cercando
di trovare l'ennesima risposta alla medesima domanda senza senso che mi
stavo ponendo. Seguii la direzione indicata dai palloncini francesi e,
attaccato all'ascensore, era stato appeso un annuncio scritto a
caratteri cubitali che invitava tutti a salire all'ultimo piano per
festeggiare insieme il compleanno di J. insieme a un super ospite. A
mano a mano che le mie indagini proseguivano, sempre più dubbi si
affollavano nella mia mente, in procinto di autodistruggersi da un
momento all'altro per la troppa confusione.
Decisi di seguire il consiglio che aveva lasciato J. e
unirmi alla festa, per cui raggiunsi l'ultimo piano. Affacciata al
pianerottolo, c'era una sola porta dietro la quale provenivano
schiamazzi e musica dal volume talmente alto da far vibrare il terreno
sotto i miei piedi.
Sei sicura di voler entrare lì dentro?
Se voglio scoprire la
verità, devo farlo per forza.
Appoggiai la mano sulla
maniglia e trattenni il fiato. I giochetti di Ruben sarebbero
finalmente cessati e lui avrebbe finalmente smesso di prendersi gioco
dei miei sentimenti. Spalancai la porta trovandomi di fronte ad una
stanza buia, illuminata solo da alcune luci colorate e corpi ammassati
di persone che si strusciavano, probabilmente già ubriache alle otto di
sera.
«Permesso, scusate!»
Urlai, facendomi spazio tra quegli sconosciuti e cercando nel frattempo
Ruben con lo sguardo, attraverso corpi di estranei sudaticci che mi si
strusciavano addosso. Purtroppo c'era talmente tanta gente che trovare
il mio ragazzo in mezzo a loro era come cercare un ago nel pagliaio.
Improvvisamente, quando
quasi tutta la mia speranza di trovare Ruben in mezzo a quella calca
informe era evaporata, si levò un urlo dalla folla che mi circondava,
un grido di emozione e gioia cui si unirono altre voci, altri commenti,
altri farfugliamenti senza senso.
«Oh mio Dio! Eccolo!»
«Allora J. non diceva una
cazzata!»
«Sposami!»
Mi feci ancora una volta
spazio tra la gente, incuriosita da tutto quel fermento rivolto a una
sola persona. Era come se fosse arrivata la star del momento e che
tutti lì dentro desideravano sfiorarlo, toccarlo, saltargli addosso. Mi
creai un varco tra la folla, ritrovandomi in uno spiazzo quasi al
centro della stanza e davanti ai me c'era l'ultima persona che mi sarei
aspettata.
Ruben.
Lo avevo trovato e tutti
stavano scalpitando per lui, c'erano mani che si allungavano e che
strusciavano sul suo giacchetto di pelle nera.
«Celeste,» mormorò con
gli occhi sgranati e nonostante la musica alta riuscii a udire la sua
voce, sorpresa e preoccupata al tempo stesso.
«Che cosa significa tutto
questo?» Domandai solamente, urlando per sovrastare la voce dei Black
Eyed Peas.
Ruben mi guardò a lungo,
con gli occhi vacui e la bocca semi-dischiusa, come se da un momento
all'altro potesse uscire dalle sue labbra la risposta che stavo
attendendo. Ma la sua voce non uscì, forse perché incastrata in gola,
perché si rifiutava di dirmi la verità, anche in quel momento che ero
ad un passo dallo scoprirla. Voleva rendermi la cosa ancora più
difficile di quanto fosse già, rimanendo in silenzio, con il volto
contrito in una smorfia d'amarezza e il corpo talmente teso che quasi
tremava.
«Di-di che cosa stai
parlando?»
«Non ha più senso
mentirmi, Ruben!» Esclamai e un chiacchiericcio di dissenso si levò
dagli invitati, che avevano smesso di dimenarsi nel momento in cui io e
il mio quasi ex-ragazzo
avevamo cominciato a discutere. Guardai alcuni dei ragazzi che mi
circondavano. Parte di loro stava ridendo, prendendosi gioco di me,
altri invece scuotevano la testa con vigore come se anche chi non aveva
mai fatto parte della nostra vita sapesse la verità.
Ruben abbassò lo sguardo,
colpevole, stringendo i pugni e torturandosi le labbra con i
denti. Nonostante lo avessi messo alle strette, ancora faticava a
parlare, ad alzare lo sguardo ed affrontarmi una volta per tutte. Le
note house di qualche dj strampalato continuavano a scivolare tra di
noi, come se volessero colmare il vuoto lasciato dal silenzio di Ruben.
«Non hai nemmeno le palle
per dirmi la verità ora che ti ho smascherato? Cos'è, vuoi per caso che
chiami CSI e mi faccia aiutare da loro per sapere che cosa mi
nascondi?» Sbraitai, non tanto per la musica ma per la rabbia che stava
riaffiorando.
«Stavo solo aspettando il
momento giusto per dirtelo,» mormorò, forse speranzoso che non lo
sentissi ma non solo lo avevo udito io, perfino tutti i presenti, dal
momento che la canzone dance si arrestò all'improvviso lasciando il
posto ad un silenzio quasi opprimente.
Ruben si guardò intorno
spaesato, incapace di comprendere il motivo per il quale la musica si
era arrestata di punto in bianco.
«Il momento adatto
sarebbe stato il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti!» Dissi ormai
fuori di me, disinteressata dal momentaneo disorientamento di Ruben.
«Non credevo si sarebbe
creato tutto questo casino,» si giustificò, senza incontrare il mio
sguardo. I suoi occhi verdi, spenti, talmente opachi da sembrare quelli
di una bambola di porcellana, vagavano in quell'enorme stanza adibita a
discoteca, ma mai si posarono sui miei, nemmeno per un istante, come se
avesse paura che potessi trovare la risposta che cercavo scavando nei
suoi occhi. «Non pensavo potesse nascere qualcosa di serio con te. Ero
sicuro che tutto si sarebbe risolto con quel caffè con zucchero di
canna a parte,» esitò per sorridere, ricordando il nostro primo,
piccolo appuntamento. «E invece le cose mi sono sfuggite un po' di
mano.»
Era chiaro che stesse
tergiversando, che fosse in difficoltà e che stesse cercando in tutti i
modi di allontanare il momento in cui avrei scoperto tutto. Stavo per
pregarlo nuovamente di vuotare il sacco, quando un varco si aprì tra
gli ospiti per far passare il festeggiato, vestito di tutto punto con
un maglioncino bianco e un paio di jeans scuri.
«Finalmente ti ho
trovato, superstar!» Esclamò stringendo la spalla di Ruben e
avvicinandolo a sé. «Ti ho cercato dappertutto. Volevo presentarti ai
miei ospiti!»
Ruben si divincolò dalla
stretta di J., scrollandoselo di dosso con un movimento secco delle
spalle. J. sorrise, qualcosa simile a un ghigno e del tutto estraneo ai
dolci sorrisi che era solito dispensare a tutti. Sembrava il ghigno di
Simone, forse ancora più subdolo di quello dell'inglese.
«Lo vogliamo fare un
bell'applauso alla nostra superstar?» Esclamò, rivolto a tutti i suoi
ospiti. «Per ringraziarlo di averci onorato con la sua presenza?»
I ragazzi cominciarono a
battere le mani e J. si voltò verso Ruben, socchiuse gli occhi, poi
piegò gli angoli della bocca sfoderando quello che mi sembrò il sorriso
più meschino che avessi mai visto.
«Grazie di essere qui, Leonardo Sogno.»
«Le-leonardo?» ripetei
incredula.
Fu in quel momento che J.
si voltò verso di me, stupendosi di vedermi tra gli invitati della sua
festa.
«Oh, Celeste, che bella
sorpresa!» Disse entusiasta, mentre Ruben, anzi, Leonardo si stringeva
la testa tra le mani. «Non ti avevo proprio vista. Scusa, Leonardo,
sono proprio sbadato! Ti ho smascherato senza nemmeno volerlo.»
«Bastardo,» sibilò Leonardo, inclinando leggermente il
capo per guardarlo di traverso. «Sei un pezzo di merda! L'hai fatto di
proposito per incastrarmi!» Urlò, stringendo il maglione di J. e
sollevandolo sulle punte per poterlo guardare negli occhi. Il francese
sogghignò divertito, quasi compiaciuto di avermi rivelato il suo
segreto. Poco m’importava del fatto che J. lo avesse fatto di proposito
o meno. Ero ancora scioccata in quel momento, non riuscivo nemmeno a
distinguere le figure e le persone che mi circondavano, talmente mi
aveva stordito quella rivelazione.
Ero stata la vittima di
una montagna di bugie, di un film montato ad arte da Leonardo Sogno in
cui tutti erano co-protagonisti, dal mio migliore amico a quella talpa
rachitica che si era finto Leonardo fino a quel momento, persino nonna
Annunziata era stata al gioco e aveva coperto il suo Chicco. Ero stata
ingannata non solo dal ragazzo con cui avevo intrapreso una relazione,
ma persino dai suoi amici e parenti, oltre che da Romeo.
«Perché te la prendi con
J.?» Domandai, senza in realtà pretendere una risposta. «L'unico
colpevole qua sei tu!»
Delusa non era la parola
adatta per descrivermi in quel momento. Più che altro ero stanca, stufa
di dover sempre subire, di dovermi sempre difendere e di aver sempre
paura di infatuarmi di qualcuno, per poi scoprire di essere stata
ingannata ancora una volta. Non avevo nemmeno la forza di piangere,
anzi non ne avevo per nulla voglia. Avevo versato troppe lacrime in
passato inutilmente, per persone che non lo meritavano e Leonardo non
era degno di vedere il mio viso bagnato.
«Grazie per avermi
rivelato la verità,» dissi velocemente a Jean, guardandolo negli occhi
ed evitando accuratamente di incontrare quelli di Leonardo – ancora mi faceva strano
pensare quel nome. «Buon proseguimento.»
Velocemente mi voltai e
spinsi via le persone che si erano interposte tra me e l'uscita di
quella casa. Oramai era tutto finito, in un soffio, all'improvviso,
esattamente com’era iniziato. L'attimo prima stavo preparando la
valigia per andare a Londra con il mio
ragazzo, quello dopo avevo scoperto che lui stesso non era altro
che il calciatore più famoso al mondo e che mi aveva sempre tenuta
nascosta la sua identità. Ed io gli avevo reso le cose troppo facili
non capendo tutte le stranezze che si erano susseguite. Avrei dovuto
capire fin dall'inizio che lui era Leonardo Sogno e che non lo poteva
essere quella specie di mostro che si portava sempre appresso. Tanti
indizi avrebbero dovuto farmi capire la verità, ma l'illusione di aver
trovato, dopo tanto tempo, una persona con cui condividere emozioni e
alla quale aprire il mio cuore li aveva offuscati, nascosti dietro una
coltre di nebbia che ora si era dissipata.
Era stato meglio così, in
fondo. Almeno avevo finalmente capito che era meglio vivere senza lo
strazio di sopportare un uomo pronto a colpirti alle spalle con le sue
bugie. Dopo quest'ennesima delusione potevo dire di aver chiuso
realmente con gli uomini. Da questo momento in poi avrei pensato solo a
me stessa e avrei lasciato che la mia razionalità vincesse su qualsiasi
sentimento.
«Aspetta Celeste!» Urlò
Leonardo, lasciando andare J. e raggiungendomi, sotto lo sguardo
sbalordito di chi assisteva a quella scena patetica.
«Perché? Non mi sembra
che ci sia molto da aggiungere!» Risposi voltandomi di scatto.
«Dammi almeno il tempo di
spiegarti.»
«Sono proprio curiosa di
sentire,» replicai brusca, incrociando le braccia e sfidandolo con lo
sguardo.
Lui deglutì un paio di
volte, prima di fare un passo verso di me e puntare i suoi occhi
direttamente nei miei. Era la prima volta, durante quella serata, che
Leonardo sostenne il mio sguardo per più di due secondi.
«Non ho mai avuto una
relazione che durasse più di una sera e di certo non avrei mai
immaginato che la mia prima storia seria fosse con una ragazza come te,
così lontana dal mio mondo,» riprese fiato, grattandosi la nuca. «Ti ho
mentito, ho detto di essere chi non ero solo per avere un attimo di
normalità. Sogno di qua, Sogno di là. Sono sempre stato solo il calciatore e non sono mai stato
trattato come uno qualsiasi. Con te mi sono goduto un po' di quella
normalità che sognavo da tempo, fingendomi Ruben il fioraio.»
Leonardo, in quel
momento, non mi sembrò il Ruben arrogante che avevo conosciuto, ma solo
un ragazzo debole, privo di difese. Quel suo comportamento, però, non
bastava per impietosirmi, dopo il modo in cui si era comportato nei
miei confronti.
«Questo non giustifica
quello che hai fatto. Cavoli, Ruben...» Proruppi, ma mi bloccai subito,
sorridendo amaramente, rendendomi conto che ancora mi risultava
difficile chiamarlo con il suo vero nome. «...Leonardo. Hai messo in piedi una
recita patetica, hai coinvolto nella tua stupida farsa persone che non
c'entravano nulla solo per salvarti le tue preziose chiappe! Non solo
sei un arrogante ragazzino viziato, ma sei anche egoista.»
Le parole mi uscivano
spontanee dalla bocca, come se fossero un fiume in piena in grado
perfino di abbattere la diga che le aveva sempre arginate. Leonardo
scosse impercettibilmente la testa, interrompendo il contatto visivo
che c'era stato tra di noi fino a quel momento. Molto probabilmente non
si era nemmeno reso conto del casino che aveva combinato, non si
rendeva conto che tutte le bugie che aveva detto per non farsi scoprire
si stavano ritorcendo contro di lui e non solo avevano ferito me,
distruggendo quello che sarebbe potuto nascere tra di noi, ma avevano
colpito in pieno anche Romeo e la nostra salda amicizia.
«Hai pensato almeno una
volta, UNA, alle conseguenze in tutti questi giorni? Al fatto che
avresti potuto mettere a repentaglio una delle cose più importanti che
ho?» Urlai con furia, stringendo i pugni per cercare di sciogliere un
po' la tensione che si era impossessata dei miei muscoli.
«Che...» Cercò di dire
qualcosa, ma nemmeno lui sapeva in realtà quale fosse la domanda.
«L'amicizia con Romeo,»
spiegai spicciola, abbassando a mia volta lo sguardo. «Ora mi rimane
solo Ven di cui fidarmi.»
«Non era mia intenzione
mettere in mezzo anche Romeo,» confessò.
«Però l'hai fatto!» Lo
aggredii.
«Lui non si è tirato
indietro!» Replicò brusco.
In effetti, non aveva
tutti i torti. Romeo era in bilico tra l'essere una vittima e l'essere
un complice. Per aiutare Leonardo a mantenere il suo segreto si era
fatto mettere i tacchi in testa da Annalisa, diventando anche lui una
povera vittima del gioco di Sogno. Se solo avesse trovato il coraggio
di dirmi la verità, almeno lui, a quest'ora nessuno dei due, anzi, dei tre avrebbe sofferto.
Respirai a fondo e
sollevai di nuovo lo sguardo da terra. Le pareti di quella stanza
stavano convergendo sempre di più, era come se il salotto si stesse
rimpicciolendo e mi stesse opprimendo tra i suoi muri. Dovevo uscire in
fretta da lì e tornarmene a casa se non volevo morire soffocata.
«Hai ragione. Romeo ha
contribuito a minare la nostra amicizia,» convenni con lui, amaramente.
«Però tu, da solo, sei riuscito a rovinarmi la vita.»
E con quelle parole avevo
messo fine alla nostra discussione, oltre che al nostro rapporto. Mi
girai velocemente, intenzionata ad andarmene e dimenticare Leonardo,
cancellarlo dalla mia vita e fingere che lui non ne avesse mai fatto
parte.
«Aspetta Celeste!»
Esclamò afferrandomi per il braccio. «Ti avrò anche detto che mi chiamo
Ruben e che faccio il fioraio, ma io sono sempre la stessa persona che
hai conosciuto.»
«Non posso più fidarmi di
te, accidenti! Mi hai ingannata tutto questo tempo, come hanno fatto
tutti gli altri!» Replicai furibonda, liberandomi dalla sua presa.
«Torna alla tua vita da star,
Leonardo, ai campi di calcio e alle modelle. Dimenticati di me, di noi,
di quello che c'è stato!»
Lo guardai dritto negli
occhi. Le sue iridi mi stavano implorando di perdonarlo, con tutta
quella tristezza condensata nel verde intenso dei suoi occhi e ci fu
anche un istante in cui avrei davvero voluto perdonarlo, ma fu solo un
attimo di debolezza che il secondo dopo era già stato cancellato dalla
rabbia.
Per l'ennesima volta mi
voltai verso la porta e nessuno tentò di fermarmi, lasciandomi
finalmente libera di abbandonare quella casa. Presi l'ascensore e
arrivai al piano terra. Il cielo notturno, ormai, aveva preso il
sopravvento sui raggi solari e l'ara gelida della sera mi obbligò a
stringermi nel golfino grigio. Ora che tutto era finito mi sentivo
terribilmente vuota, avevo un buco proprio al centro del petto che, ero
sicura, nessuno sarebbe mai stato in grado di colmare. Erano secoli che
non provavo quella stessa sensazione. Ormai mi ero abituata a sentire
il mio cuore battere, a percepire un piacevole senso di completezza.
Per qualche giorno Leonardo era riuscito a colmare quel vuoto che gli
altri prima di lui avevano lasciato, ma così come tutti i miei ex,
aveva fallito nel suo intento, scavando ancor più dentro di me e
rendendo quel buco sempre più profondo, sempre più nero.
Percorsi la stessa strada
che avevo fatto per andare a casa di Jean, ma questa volta più
lentamente. Non c'era più l'adrenalina a farmi correre, non c'era più
la voglia di scoprire che mi spronava a correre lungo le strade della
Capitale. Ora ero sola, avevo perso il mio ragazzo e il mio migliore
amico nella stessa notte. Mi sentivo tradita, tradita dalle bugie di
Leonardo e tradita da Romeo che aveva preferito assecondare il suo
idolo piuttosto che dirmi la verità. Di chi avrei potuto fidarmi da
quel momento in poi? Se anche i migliori amici erano pronti a
pugnalarti alle spalle avrei dovuto dubitare di tutti, perfino delle
persone che mi dicevano di volermi bene.
Svoltai nella mia via e
mi fermai non appena mi ritrovai il portone della palazzina di fronte.
Esitai qualche attimo davanti al citofono, con l'indice sospeso a pochi
millimetri dal pulsante con sotto scritto Ciuccio-Fiore. Non appena
avessi messo piede in casa mia, avrei dovuto affrontare anche Romeo e
forse mettere fine alla nostra amicizia che ci legava da ormai più di
dieci anni. Lui sapeva bene quanto avessi sofferto in passato per
essere stata presa in giro e aveva agito comunque alle mie spalle,
anche lui si era abbassato al livello di quei decerebrati che avevano
fatto parte del mio passato.
Pigiai con insistenza il
citofono e, poco dopo, il portone scattò, senza che nessuno
s’informasse su chi potessi essere. Spinsi la porta di vetro ed entrai
velocemente nel palazzo, cominciando a salire le scale. Quando
raggiunsi il mio piano, trovai la porta socchiusa così entrai
rapidamente, chiudendomi il battente alle spalle.
«Oh, eccoti Celeste!»
Esclamò Ven, uscendo dalla cucina mentre sbocconcellava un pezzo di
focaccia. «La nuova libreria che hanno aperto è fantastica. E il
rinfresco che hanno fatto era ottimo! Un po' povero, ma gustoso.
Saresti dovuta venire anche tu!» Disse con un sorriso, ma il suo
entusiasmo si smorzò poco dopo quando vide il mio viso contrito in una
smorfia indecifrabile, un misto tra la rabbia e la frustrazione.
«Dov'è Romeo?» Domandai
secca, senza guardarla negli occhi.
«Sarà nel porcile,»
scrollò le spalle e mangiò un altro boccone. «Ossia la sua stanza,»
specificò poco dopo, sogghignando.
«Tu lo sapevi?» Le chiesi
a bruciapelo, non avendo nemmeno udito le sue parole. Mi sembrava di
essere in una bolla dalle pareti spesse che m’isolavano dal mondo,
rinchiusa lì dentro da sola, insieme al mio dolore. Ven mugugnò
qualcosa, dubbiosa.
«Che Romeo era un
maiale?» Domandò sarcastica. «Lo sanno tutti, perfino chi non lo
conosce. Il suo odore parla da sé.»
«Di Ruben. Che in realtà non è Ruben ma
Leonardo Sogno...»
«Da-davvero?» Balbettò,
battendo più volte le palpebre e abbozzando un mezzo sorriso con le
labbra che le tremavano.
«Già. L'ho scoperto
qualche minuto fa, a casa di J. Era tutto così strano e confuso che ho
dovuto fare assolutamente chiarezza. Dal momento che Romeo non ha
voluto vuotare il sacco, sono andata direttamente alla fonte del
problema.» Scrollai le spalle e sollevai finalmente lo sguardo per
incontrare gli occhi blu di Ven.
Era fin troppo agitata e
il suo comportamento, le sue occhiate sfuggenti e la sua espressione
spaesata erano ambigui. Era come se non le avessi detto nulla di nuovo,
come se anche lei sapesse di Leonardo e si era fatta abbindolare da lui
per mantenere il suo stupido segreto.
«Tu lo sapevi,» commentai
solo, a bassa voce e lei s'irrigidì, confermando il mio sospetto.
«Tu lo sapevi!» Ribadii, questa volta con un tono più alto, scandendo
ogni parola. «Oh mio Dio, quanto sono cretina!» Cominciai a
straparlare, mettendomi le mani nei capelli e camminando su e giù per
il salotto, disperata. Ero sicura che almeno Ven non mi avrebbe mai
mentito ed invece anche lei aveva aiutato Leonardo nel suo stupido
gioco, anche lei aveva partecipato alla commedia messa in scena da
Sogno.
«No Celeste!» Esclamò
lei, stringendomi i polsi e facendomi abbassare le mani, per poi
puntare i suoi occhi nei miei. «Non sapevo niente, te lo giuro! Cioè
sospettavo che ci fosse qualcosa che non andava.»
«E perché non mi hai
detto nulla? Perché non mi hai confidato i tuoi sospetti, almeno mi
sarei risparmiata tutto questo!»
«Non ne avevo la
certezza! Se poi si sarebbe trattato di un abbaglio? Avrei solo fatto
un grande casino!» Rispose con voce ferma e decisa. «Per cui ho
preferito non immischiarmi...»
Sospirai, liberandomi
dalla sua stretta e andai a sedermi sul divano, prosciugata, senza
nemmeno un briciolo di forza che potesse permettermi di stare in piedi.
L'unica cosa di cui ero sicura in quel momento era che Ven non mi aveva
mentito e che era stata l'unica sincera fino a quel momento. Lei non
era mai stata in grado di dire bugie e non perché le espressioni del
suo viso la tradissero, ma perché era tale e quale a me: odiava le
menzogne e tutto quello che le passava per la testa lo trasformava in
parole, senza nessun timore. Mi dispiacque aver dubitato di lei anche
se solo per pochi secondi. La conoscevo da così tanto tempo che non
avrei mai dovuto diffidare della sua buona fede.
«Mio Dio... mi sento
così, così stupida,» dissi prendendomi la testa tra le mani. «La verità
è sempre stata sotto i miei occhi, sempre! Ed io non sono riuscita a
vederla per tutto questo tempo.»
«Non sei stupida
Celeste,» mi consolò Ven, accomodandosi accanto a me e accarezzandomi
la spalla. «Hai solo voluto fidarti di lui, ti sei voluta mettere in
gioco ancora una volta e questo ti ha offuscato la mente. Anche se la
verità era sotto i tuoi occhi, parte del tuo cervello ti ha impedito di
vederla perché tu vivessi serenamente con lui e perché il tuo cuore
potesse ricominciare a battere per qualcun altro.»
«Sarebbe stato molto
meglio saperlo fin da subito che mi stava ingannando. Io che sono così
razionale, ho lasciato che il mio cervello andasse in letargo!»
«Beh, forse è così,»
scrollò le spalle e fece un sospiro rumoroso. «Ma sei stata felice con
lui, no? Ti piaceva stare con… Leonardo.»
«Ruben! Mi piaceva stare con Ruben!»
Rettificai, scocciata.
«Ruben, Leonardo... che
differenza fa un nome?»
Mi mordicchiai l'interno
della guancia nervosamente, voltandomi di tanto in tanto verso la mia
amica per guardarla. Avevo come l'impressione che stesse difendendo
Leonardo e che provasse a tranquillizzarmi, per poi convincermi a
chiamare quel bell'imbusto mentitore ed egoista per rassicurarlo e
annunciargli che la nostra relazione non era finita.
«Se stai cercando di
convincermi a rimettermi con quel bugiardo traditore, non ce la farai.»
«Comprendo che tu sia
arrabbiata...»
«Arrabbiata? Solo
arrabbiata?» La interruppi. «Sono furibonda! E non tentare di farmi
cambiare idea!» La zittii, prima che dalle sue labbra dischiuse uscisse
una qualsiasi replica. «Con Leonardo Sogno ho chiuso per sempre! È
fuori dalla mia vita! Anzi, l'ho già dimenticato!» Mi alzai di scatto
dal divano e camminai a ritroso, continuando a guardare Ven negli
occhi. «Chi è Leonardo Sogno? Boh, non lo so, non l'ho mai conosciuto!»
Ven mi guardò come se
volesse infilarmi dentro ad una scomoda camicia di forza e in realtà
non aveva tutti i torti. Mi stavo comportando come una folle, una pazza
furiosa che fingeva di non ricordarsi dell'unico ragazzo che, dopo
secoli, mi aveva fatto tornare finalmente il sorriso e con il quale
avevo ricominciato a vivere, scoprendo che c'era molto di più oltre ai
libri di letteratura e al mio file di Word nascosto in una cartella del
mio pc. Nonostante tutto, sarebbe stato difficile dimenticarlo, anzi
quasi impossibile, visto che si era guadagnato un piccolo pezzo del mio
cuore che ora si era incrinato, omologandosi alle restanti parti che
quelli prima di lui si erano divertiti a calpestare e a infrangere,
come se fosse un insulso pezzo di vetro.
Lasciai Venera seduta sul
divano, ancora scossa per il mio comportamento e mi diressi verso
camera mia. Mi sarei rinchiusa nel mio angolo di tranquillità e non ne
sarei uscita per lungo tempo. Avevo bisogno di stare da sola, di
riflettere e capire che cosa ci fosse di sbagliato in me, perché
cominciavo seriamente a pensare che il problema fossi io, dal momento
che tutti si divertivano a prendersi gioco di me. Forse non ero così
intelligente e sveglia come volevo far credere, forse ero solo portata
per lo studio, ma in quanto a relazioni sentimentali ero un completo
disastro. Era inutile tornare a sperare, era inutile che m’illudessi
che un giorno anche io avrei potuto trovare l'uomo della mia vita. Non
ero stata dotata di un manuale di istruzioni per amare ed essere amata,
ed io, da sola, non ero in grado di capire l'arcano di questo strano
sentimento.
Non appena appoggiai la
mano sulla maniglia della porta della mia stanza, dalla camera di
fronte spuntò Romeo, vestito solo con un paio di boxer a righe e una
canottiera nera. Aveva il volto basso e lo sguardo spento, conseguenze
della nostra precedente discussione.
«Ciao,» mormorò solamente
e tentò di superarmi, ma lo bloccai e lo feci indietreggiare.
«Perché?» Domandai delusa.
«Perché, cosa?»
«Perché hai preferito lui
a me? Perché hai preferito il tuo idolo alla tua amicizia con me?»
Romeo sfuggì al mio
sguardo e deglutì a fatica. Non rispose per molti secondi, forse anche
minuti, nonostante cercasse di dire qualcosa. Forse stava cercando le
parole adatte per giustificarsi o forse non era in grado di trovare
qualcosa di valido da dire.
«Mi aveva chiesto di
tenere il gioco. E ho accettato,» disse, infine, dopo una quantità
esagerata di tempo passato immersi in un silenzio quasi innaturale.
«Come hai potuto, Romeo?
Come hai potuto mentirmi anche tu che sei il mio miglior amico?» Tentai
di controllarmi e non urlare come avevo fatto con Leonardo, ma
l'amarezza mi costrinse ad alzare la voce.
«Che ne sapevo io che vi
sareste messi assieme? Credevo si sarebbe tutto concluso nel giro di
qualche giorno e mi si era presentata di fronte l'occasione di poter
conoscere il mio idolo! Cosa dovevo fare?» Rispose, adottando il mio
stesso tono di voce.
«Pensare a noi, prima di
tutto, alla nostra amicizia!»
«In che lingua devo
dirtelo?» Ribatté seccato, allargando le braccia. «Non credevo che tu
potessi interessarti a uno come lui. È il tipico ragazzo che tu non
sopporti e con il quale non vorresti avere nemmeno a che fare! Per cui
credevo che lo avresti mandato a quel paese e tanti saluti!»
Tutto sommato Romeo non
aveva torto. Il mio astio nei confronti dei tipi come Leonardo era
chiaro perfino ai muri e il fatto che mi fossi invaghita di lui era una
sorpresa per tutti, perfino per me stessa. Nonostante Romeo avesse in
parte ragione, continuai a fissarlo corrucciata, con le braccia
incrociate.
«Beh,» esordii, anche se
in realtà non sapevo cosa replicare, spiazzata dalla precedente
affermazione. «Però avresti potuto dirmelo quando ci siamo messi
insieme! Sei il mio migliore amico, Romeo! Dovevi dirmi la verità!»
Urlai infine.
«L'ho fatto per te,
accidenti!» Replicò lui alterato. «Perché non lo vuoi capire? Mi sono
fatto schiavizzare da Annalisa per farle mantenere il segreto solo per
te!»
«Non era necessario.»
«E invece sì, Celeste! Tu
eri felice, finalmente FELICE
e non volevo rovinare tutto!» Sbraitò paonazzo in volto, con una
giugulare che gli serpeggiava sul collo.
Rimasi per un attimo
paralizzata, con gli occhi sgranati e le braccia a mezz'aria, indecise
se rimanere ancora conserte oppure abbandonarsi lungo i fianchi. Già,
con Leonardo ero felice, ero tornata finalmente a sorridere dopo molto
tempo, ma un rapporto basato sulla menzogna non aveva nemmeno senso di
esistere, felicità o meno. Avrei preferito di gran lunga rimanere
offesa piuttosto che essere ingannata e calpestata per l'ennesima
volta, sia dal mio ragazzo che dal mio migliore amico. Comportandosi
così, Romeo aveva creduto di proteggermi, ma non si era reso conto che
mi aveva inferto una doppia ferita all'altezza del petto..
«Non volevo che tu
soffrissi,» abbassò il tono e fece un passo verso di me, spalancando le
braccia a cercando di abbracciarmi. Lo respinsi con forza, impedendogli
qualsiasi contratto con me.
«Ma hai fatto in modo che
accadesse,» ribattei brusca, guardandolo per un ultimo attimo negli
occhi e raggiungendo la mia camera.
Sbattei la porta con
violenza e mi ci appoggiai sopra inclinando la testa verso l'alto e
chiudendo gli occhi, come se questo potesse frenare le lacrime. Avevo
cercato di resistere fino a quel momento, avevo interiorizzato tutto e
stavo esplodendo a poco a poco. La tensione, il nervosismo, la ferita
pulsante sul mio cuore, però, non mi permisero di trattenermi ancora,
perciò lasciai che lacrime lente e silenzio mi rigassero il viso. Diedi
una rapida occhiata alla mia camera constatando che tutto era come
l’avevo lasciato, con la valigia adagiata sul letto e il maglione rosso
lanciato sopra di essa. Qualche ora prima mi stavo preparando per
andare a Londra con il mio ragazzo, poco dopo mi ritrovavo appoggiata a
una porta a piangere e a dannarmi per essere stata così maledettamente
stupida. Per la mia cecità, in un attimo avevo perso tutto.
*Rinfodera il fazzoletto nella manica
della felpa e tenta di scrivere un commento finale decente*
Lo sapevo che doveva succedere prima o
poi, lo sapevamo un po' tutte. Da quando questa storia era iniziata,
eravamo a conoscenza che nulla sarebbe andato a finire per il verso
giusto, una volta scoperta la bugia.
Tutto in un attimo. E' proprio
il caso di dirlo. Tutto è successo in poco tempo, quasi come
un'illuminazione che ha folgorato Celeste, un fulmine a ciel sereno che
le ha fatto aprire finalmente gli occhi. Lei che dopo tanto tempo aveva
ricominciato ad amare si è vista portare via tutto da una menzogna e
dal tradimento dei suoi più cari amici.
In questo capitolo non c'è niente di divertente e scherzoso, non ci
sono più i toni leggeri e frivoli dei capitoli precedenti, non c'è
posto per un sorriso. E non c'è nemmeno l'amore, o meglio, c'è ma
sfugge subito dalle dita di Celeste, troppo arrabbiata per poter anche
solo pensare al perdono. Lei che è stata tradita dalle bugie, lei che
ha sempre vissuto nel terrore di rigettarsi in una storia falsa, lei
che si era chiusa in sé stessa, nascondendosi dietro un muro di
cinismo, allontanando gli altri.
Credo che a una persona sia concesso un massimo numero di volte di
innamorarsi.
Spero che Cel non lo abbia raggiunto.
Grazie a chi ci segue e alle new entry!
Ora un
po' di pubblicità:
Ricordate il gruppo Crudelie
si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!
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