Rating capitolo: Verde
Personaggi: Gilbert
Beilschmidt (Prussia)
– Antonio Fernandez Carriedo (Spagna) –
Francis Bonnefoy (Francia)
Osservazioni personali: Ripescato dagli angoli più
tetri e bui del mio
pc (?), una shot veramente vecchia e senza alcuna reale pretesa
d’essere
considerata almeno decente x°
Come ai
vecchi tempi.
Camminava con passo lento
l’albino, facendo attenzione a non
accelerare d’un soffio il suo andamento. Non cercava nemmeno
realmente di
pensare a ciò che stava per fare. Meglio girare la testa,
pensava. Molto meglio
guardare le nuvole che, pigre, stazionavano nel cielo azzurro. Oh, che
poi quel
cielo così limpido sembrasse una presa per il culo bella e
buona lo pensava
veramente. Insomma, l’aveva sempre visto grigio in quegli
ultimi anni. Anche se
veramente non l’aveva mai guardato in quel lungo periodo.
Kesesese, il
magnifico
me non ha bisogno di guardare il cielo per sapere di che colore
è!
In effetti gli bastavano quelle poche
volte in cui alzava
gli occhi per controllare gli scontri aerei. Era sempre grigio il
cielo, in
quei giorni, grigio per il fumo che si alzava dai campi di battaglia. E
se era
grigio in quei giorni, allora doveva esserlo anche per tutti gli altri.
Non
poteva essere altrimenti, d’altronde, se lo diceva lui
c’era da fidarsi.
Stava a guardare quelle nuvole che
sembravano soffici e
leggere, felici per i fatti loro a chissà quale distanza
dalla terra che stava
calpestando. E più le guardava, più vedeva
l’evidente senso di felicità che
avvolgeva quel luogo che passo dopo passo sembrava allontanarsi,
più pensava di
odiarlo quel cielo. Era una bella e buona presa per il culo, quando
tutto quel
bel quadretto felice ti guardava da lontano e ti faceva notare di
quanto fosse
bello stare lassù. Avanti allora, che scendessero pure
queste belle e perfette
nuvole, pensava, voleva quasi che scendessero per fargli vedere come la
situazione fosse ben diversa. Lì, coi piedi sulla terra,
ferma e solida, le
cose andavano in tutt’altro modo, era un inferno. Non che ci
volesse chissà
quale occhio arguto a capirlo, quando anche nei quartieri
più raffinati della
città permeava quello scadente grigiore dei bombardamenti e
delle polveri da
sparo. Non quando la gente vagava per le strade nemmeno fossero dei
fantasmi
spauriti della loro stessa ombra. Non quando due di quei fantasmi
avevano un
aspetto così familiare.
Ah.
Lasciò perdere
le nuvole, in quel loro inutile ed immaginario mondo idilliaco per far
ritorno
alla realtà, per capire che era arrivato. Avanzò
in quell’intricato labirinto
fatto di tavolini, con le mani in tasca ed un sorriso strafottente a
coprirgli
il volto.
Perché era già
arrivato, dannazione, e non era ancora
minimamente pronto. Non che lo sarebbe stato mai.
«Gilbert! »
La voce allegra dello spagnolo lo
fece ritornare nuovamente
alla realtà, e mentre scansava le ultime sedie,
cominciò a ridere, un po’ come
sempre.
«Ragazzi! »
Rispose lui con la sua solita voce
roca, mentre Francis gli
sorrideva assottigliando gli occhi come un gatto.
«Bon
arrivé mon ami!
»
Cinguettava il francese nella sua
lingua madre, in quella
lingua che così tanto amava ma di cui l’albino non
riusciva a capire nemmeno
una parola.
Si salutarono col sorriso sul volto,
come al solito. Si
strinsero calorosamente, mostrando un affetto che non nascondevano a
nessuno,
come al solito. Risero e parlarono a cuore aperto, sicuri di trovare
fidati
amici al loro fianco, come al solito.
Era tutto come sempre, come i bei
vecchi tempi.
Erano loro, il trio più
magnificamente male assortito che il
mondo abbia mai potuto ammirare, eppure non erano loro.
C’era qualcosa di diverso
in quella loro solita routine.
C’era qualcosa che stonava
in quel coro di voci, come i
silenzi di Gilbert, che si andavano facendo sempre più
lunghi man mano che le
ore passavano, come i volti smunti e stanchi di Antonio e Francis che
rimanevano
grigi nonostante le sincere risate, un po’ come quella bella
piazzetta in cui
si trovavano.
C’era qualcosa di diverso,
e tutti ne erano a conoscenza.
C’era qualcosa di diverso,
ed era inutile nasconderlo.
C’era qualcosa decisamente
di diverso, e Gilbert rimaneva in
silenzio.
«Mon
Gilbert. »
La voce bassa e sensuale del francese
attirò la sua
attenzione, facendogli portare lo sguardo al suo.
Ormai era calata la notte, i bei
lampioni di ferro battuto
illuminavano il veloce via vai di quel luogo, mentre la luna faceva
appena
capolino dai tetti delle antiche case.
Tutto di quel luogo gli suggeriva un
malinconico silenzio,
come una lenta ninna nanna, una richiesta di rispetto. Una flebile
preghiera,
in rispetto di quel grigiore di morte che appannava l’aria,
una breve pausa per
ciò ch’era avvenuto fra quelle strade parigine,
per il sangue versato in quello
stesso luogo, così come in innumerevoli altre vie e
città.
Era quel grigiore a zittire
l’animo di Gilbert, lo stesso
che appannava gli occhi di Francia e di Spagna. La stessa triste
melanconia che
gli aveva inculcato lui, con i suoi cannoni e i suoi fucili, con il
loro stesso
sangue, quello del loro popolo che lui stesso aveva versato.
Non era qualcosa di facile ferire
coloro che più amavi. Non
era cosa facile ritornare a sorridere dinnanzi a loro dopo un tale crimine.
«Mon
ami. »
Il sussurro di Francia lo
risvegliò dai suoi pensieri, e lo
sguardo vacillò di fronte a quello delle altre due nazioni.
Vagava sulle ferite
sul volto dello spagnolo, che ormai non erano altro che graffi. Si
soffermavano
sulla postura del francese, così rigido sulla sedia per
chissà quale ferita.
E non riusciva a mantenere il solito
sguardo superiore,
incrociando i loro sorrisi. Non dopo averli trattati in quel modo.
Non avrebbe mai smesso di credere nel
nome in cui aveva
combattuto, mai. Ma nessuno avrebbe
potuto pretendere che rifiutasse la sua parte umana, e di non vacillare
di
fronte al senso di colpa, di cadere sotto il suo stesso peso.
Mai.
«Come ai vecchi tempi,
Gilbert. »
Esclamava gioioso Antonio, alzando un
boccale di birra.
Lo stesso faceva Francis, rimangiando
per più tardi il
risentimento per quella pessima scelta, il vino sarebbe stato
più romantico.
E Gilbert guardava i due, con i
cremisi occhi sgranati. E
fece lo stesso, innalzando il suo boccale e ridendo come uno stupido.
Era uno strano trio, quello. Era male
assortito sotto ogni
punto di vista, fatto di persone che realmente persone non erano, e per
lo più
sciocchi. Non facevano altro che ridere e bere, eppure era un trio
magnificamente male assortito, e chiunque poteva dirlo, mentre
ridevano, e
l’albino tratteneva sotto le palpebre delle poco magnifiche
lacrime.
Era così stranamente
magnifico perché ogni volta
ricominciavano da capo, come ai vecchi tempi. E ogni volta riuscivano
davvero a
ritornarci.
Era un bel trio di zucche vuote, ma
erano davvero degli
ottimi amici.
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