Tre
~
Di quanto costano le
parole
Bisogna
essere in due perché la verità nasca:
uno
per dirla e l'altro per ascoltarla.
–
Henry David Thoreau –
Fu
con il sollievo del condannato a morte che riceve l'assoluzione che
John aprì la portiera e uscì da quell'abitacolo così simile ad una
camera a gas. Lasciò deliberatamente indietro Sherlock ed entrò
nell'albergo.
Baskerville
in novembre era, se possibile, ancora più amena che in ottobre.
Amena e fredda. Amena, fredda e con qualche turista in meno, ma
comunque sempre troppi per i gusti di John. 'Ché non sarebbe bastata
la risoluzione del caso da parte di un certo consulente detective di
Londra a stroncare da un giorno all'altro un mito che da quarant'anni
si nutriva del piacere del mistero. Purtroppo per John, tuttavia,
pochi turisti significava anche una maggiore virulenza nel ficcare il
naso da parte degli avventori dell'albergo.
–
Oh, eravamo sicuri
che sareste tornati! – esclamò il più giovane.
John
mosse la mascella ed emise un sospiro che esternava tutta la sua poca
pazienza.
–
Billy! Billy, ti
ricordi la coppia di Londra? Sono tornati! –
Billy
sporse la testa da retrobottega.
–
Be', tornano sempre,
no? – fece con aria d'intesa.
E
fece l'occhiolino. L'occhiolino. John si passò una mano sulla
fronte.
–
Non per vantarci, ma
i nostri letti non se li scorda nessuno! –
D'accordo.
Ne aveva avuto abbastanza.
–
Niente camera per
questa volta. Avete un tavolo? Siamo in tre. –
–
In tre? –
Cosa
aveva da guardare? Avevano un'ospite, sì. La dottoressa. Un'adulta.
Non erano in tre nel senso che...
Oh,
Dio.
John
schioccò la lingua: – Sì, in tre. –
Era
davvero arrivato ad un punto critico, non c'era che dire.
Complimenti.
–
Billy? – chiamò
di nuovo il ragazzo.
– È
un po' tardi per il pranzo, – li informò la voce di Billy – vedo
cosa ci è rimasto in cucina. –
–
C'è un bagno qui?
Ho bisogno di un bagno. –
John
si voltò sorpreso verso Sherlock. Erano stati lì appena un
mese prima e non ricordava nemmeno dove fosse il bagno?
Il
ragazzo indicò: – In fondo a destra. –
Pallido
in volto, Sherlock si lanciò letteralmente in quella direzione.
–
Hai bisogno di... –
–
Resta qui. Aspetta
la Stapleton. –
John
aprì la bocca, ma pensò bene di richiuderla senza proferire parola.
Non aveva la minima voglia di dare spettacolo.
Cosa
avesse vomitato era un mistero, dato che non mangiava dalla sera
prima. Ma non si comanda alle nausee.
Sherlock
tirò lo sciacquone andò a lavarsi. Avrebbe solo voluto strapparsi
lo stomaco e vivere d'aria per il resto della sua vita. Non era
abituato a tutti questi fastidi: dopo una vita di autocontrollo,
riusciva ormai senza difficoltà a piegare le esigenze del proprio
corpo alla sua volontà.
–
Stai bene? –
Sherlock
lanciò un'occhiata al John riflesso sullo specchio che s'intravedeva
nello spiraglio aperto della porta.
–
La tua abilità nel
tirare fuori domande retoriche mi stupisce ogni volta, John. –
Lui
non rispose, solo scosse appena la testa e richiuse la porta,
svanendo dal riflesso. Sherlock sentì un subitaneo fastidio. Non
voleva che se ne andasse. Ma non voleva nemmeno che restasse lì a
compatirlo con l'aria del medico che “ha fatto tutto il possibile”.
Cos'era meglio, un John fastidiosamente presente o un John
tristemente assente? In verità Sherlock non aveva la minima idea di
quello che voleva.
Quando
uscì dal bagno, l'odore di cibo gli aggredì immediatamente i sensi,
facendogli salire un'altra ondata di nausea. Deglutì il sapore
rancido che gli risaliva l'esofago e s'impose di farsela passare.
John era fuori e riconobbe senza difficoltà il taglio a caschetto
della donna con cui stava parlando. Li raggiunse.
–
Dottoressa. –
–
Signor Holmes. –
Per
lo meno evitava di nascondere l'aria tirata. Anzi, Sherlock notò
come indugiava a lungo sul suo aspetto, catalogando a prima vista lo
stato di salute. John certamente non le aveva ancora detto niente, ma
poteva immaginare come dal momento della telefonata avesse rimuginato
con ansia crescente sulle sue parole.
–
Ah... il tavolo. –
Sherlock
e la dottoressa si voltarono verso John. Lui si mosse verso l'albergo
e loro, dopo un'ultima occhiata, lo seguirono.
–
Lui lo sa? –
Sherlock
strinse le labbra.
–
Sta attraversando la
fase di rifiuto. – disse ironico.
– E
lei? – la Stapleton lo guardò francamente – A che fase è? –
Sherlock
sapeva ammettere, per lo meno con sé stesso, quando non era in grado
di rispondere. Per cui, non rispose.
La
dottoressa non aveva fame e comunque aveva già mangiato qualcosa
alla mensa del laboratorio. Sherlock, ovviamente non era in grado di
trovarsi qualcosa sotto il naso senza correre a rigettare. John finì
con l'ordinare solo per sé.
–
Dunque... vediamo di
capire cosa è successo. –
–
Non c'è niente da
capire. – intervenne Sherlock – È tutto perfettamente chiaro. –
La
Stapleton alzò le sopracciglia e cercò aiuto con la sguardo verso
John. Lui si limitò a stringersi nelle spalle e a continuare a
masticare. Trovava decisamente confortante, in quel preciso momento,
poter impegnare la bocca in qualcosa di utile che gli donasse la
facoltà di non parlare.
–
Bene. – la
dottoressa si schiarì la voce e si mosse sulla sedia, intrecciando
le dita sul tavolo – Partiamo dal principio. Come ha capito il suo
stato? –
Sherlock
la fissò per un momento in silenzio. E John si strozzò con il
proprio boccone, perché aveva capito che stava per partire con una
delle sue analisi deduttive.
–
Appena dopo aver
fatto la sua conoscenza, John ed io abbiamo avuto una discussione
riguardo i miei modi d'interazione sociale. A suo parere, la mia
totale mancanza di empatia, unita all'ostentazione di sicurezza,
minavano in partenza il rapporto con i clienti o potenziali tali, o
comunque andavano a complicare le indagini dei casi. –
John
aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare quella discussione, e
finalmente qualcosa riemerse dalla memoria.
–
Non era certamente
il momento più adatto per mettersi a sottilizzare, ma pur di farlo
tacere gli diedi momentaneamente retta. Gli chiesi dunque cosa
suggeriva di fare e lui disse che non sperava che fossi una persona
normale, ma che sarebbe bastato che facessi finta di esserlo. –
John
batté le palpebre: – Ho detto così? –
–
Sì. – Sherlock lo
degnò appena di uno sguardo – “Torna dentro e stringi la mano
alla dottoressa, l'hai aggredita di domande senza nemmeno
presentarti”. Queste sono state le tue esatte parole. –
– E
lei è rientrato. – la Stapleton annuì lentamente, un'espressione
di allarmante consapevolezza che si faceva strada sul suo volto – E
mi ha stretto la mano. –
–
Precisamente. Quello
è stato l'unico momento in cui posso essere entrato in contatto
diretto con la sostanza che stava testando sulle cavie. Non aveva i
guanti, ma la sensazione al tatto era diversa da quella della pelle.
Pellicola imbibita? Ma certo. Non c'è altra spiegazione. Non ha
detto niente perché era certa che il dosaggio fosse talmente basso
da non causare alcun effetto sugli esseri umani. D'altra parte non
dava risultati positivi sui conigli, dunque perché preoccuparsi? –
–
Come fa a sapere...
–
John
scosse la testa, interrompendo la domanda della dottoressa con un
vago cenno della mano.
–
Quell'informazione
non era collegata al caso, dunque la misi da parte senza prestarvi la
dovuta attenzione. In seguito iniziai ad accusare i primi sintomi, ma
li imputai esclusivamente all'inalazione delle tossine del progetto
HOUND. Avrei dovuto intuire che i sintomi erano ricollegabili a
quello a cui stava lavorando lei, ma il mio stesso stato mentale non
mi forniva la lucidità necessaria. Dunque dovettero passare due
giorni, durante i quali la sostanza ebbe modo di fare effetto sul mio
corpo, indisturbata, prima che mi accorgessi di qualcosa. Il che
avvenne, precisamente, la mattina del terzo giorno. –
John
ricordava fin troppo bene quella mattina. La confusione sul “sogno”,
immediatamente messo da parte, dimenticato dalla propria coscienza. E
quell'assurda discussione con Sherlock. E poi il silenzio, per tutto
il viaggio di ritorno.
–
Naturalmente non
avevo il minimo sospetto che fosse avvenuto un concepimento. –
A
quella parola John si strozzò con il boccone – ancora, sì, stava diventando un rito ormai – facendo voltare su di
sé gli sguardi costernati dei due.
– I
primi sintomi? – chiese la dottoressa.
–
Dopo due settimane.
Nausea costante, vomito, sonnolenza. –
–
Potevano essere
effetti collaterali delle tossine del progetto HOUND. – gli fece
notare la Stapleton.
–
Giusta osservazione,
ma John non presentava gli stessi sintomi e comunque il mio fisico
aveva avuto tutto il tempo per smaltire le tossine. –
–
Poteva essere
un'influenza o un'intossicazione alimentare. – insisté lei –
Perché ha pensato proprio ad una gravidanza? –
John
intercettò lo sguardo di Sherlock. Quella discussione era fin troppo
simile al dialogo che avevano avuto quella stessa mattina.
–
Tre settimane sono
troppe per un'intossicazione alimentare. Mentre l'influenza, che io
sappia, dovrebbe implicare anche febbre, dolori articolari, tosse e
raffreddore. –
– E
dunque... –
Sherlock
posò i gomiti sulla tavola e unì le mani a piramide: – Dunque,
escludendo l'impossibile, ciò che rimane, per quanto
improbabile, deve essere la verità. –
John
alzò gli occhi al cielo. Quanto gli piaceva sentirsi parlare...
–
Ha fatto un test? –
–
Dodici. –
intervenne a quel punto – Ne ha fatti dodici. Ed erano tutti
positivi. Li ho visti. –
La
dottoressa saettò lo sguardo dall'uno all'altro. Si schiarì poi la
voce e abbassò il capo, concentrata su qualche riflessione.
–
Non si strugga,
Jaqui. – Sherlock inarcò un sopracciglio – Non diremo una
parola. –
–
Ma è implicito che
debba aiutarvi. – concluse lei con un sospiro.
Lui
sgranò gli occhi in un'espressione comica: – Vorrebbe forse
lasciare un povero ragazzo-padre a sé stesso? –
John
serrò la mascella, trattenendosi dal lanciargli addosso qualcosa.
Camminare
nel freddo di quel primo pomeriggio era decisamente meglio, per combattere la nausea, che stare rinchiusi tra le pareti di un ristorante.
–
Non posso
semplicemente farvi entrare e usare i mezzi del centro per fare
le analisi. Se scoprono cos'è successo, io sono licenziata e lei
diventa una cavia da laboratorio. –
Era
talmente prevedibile che Sherlock vi aveva pensato ancora prima di
partire per Baskerville. E tuttavia non aveva ancora elaborato una
soluzione. Anche ignorando il fatto che tutta quella faccenda dovesse
essere tenuta completamente sotto silenzio, non si poteva girare attorno al fatto che le competenze della Stapleton e i mezzi a disposizione del
centro fossero indispensabili per gestire ogni cosa.
John
tirò fuori il cellulare e iniziò a digitare: – Chiamo Mycroft. –
–
Cosa?! No! –
Quel
rifiuto categorico suonò così infantile dopo le sue argute
deduzioni di poco prima, che persino la Stapleton lo squadrò con
sorpresa. Sherlock non era pronto per dire una cosa simile a suo
fratello. Non sarebbe mai stato pronto. Non voleva leggere la sua
espressione di compassione e quella sfumatura da “te l'avevo
detto”, come se si fosse sempre aspettato che prima o poi il suo
pestifero fratellino avrebbe fatto un casino tale da aver bisogno
del suo autorevole intervento. Era qualcosa che il suo ego
semplicemente non avrebbe sopportato.
Alla
sua esclamazione, John s'era fermato, con il cellulare in mano e
un'espressione tesa in volto.
–
Hai un'idea
migliore? –
No,
Sherlock non aveva un'idea migliore. Eppure quella gli sembrava di
gran lunga la mossa peggiore che potessero fare.
Alzò,
tuttavia, una mano, in un gesto di seccato consenso. E John, dopo
avergli lanciato un'ultima occhiata, riprese a cercare il numero di
Mycroft sulla rubrica del suo cellulare.
Entrare
nel centro di ricerca più protetto del Regno Unito con un pass
valido, al seguito di Mycroft Holmes, è tutto un altro paio di
maniche. Forse meno divertente che intrufolarsi senza autorizzazione,
ma comunque a John piaceva anche la tranquillità. Giusto ogni tanto,
eh.
–
Spero solo che lei
abbia l'autorità per riuscire a tenere tutto questo nel più
assoluto riserbo. – stava borbottando tesa la dottoressa mentre
camminavano per i corridoi del centro e raggiungevano il suo
laboratorio, fatto preventivamente sgombrare ed isolare dal sistema
di sorveglianza delle telecamere.
–
Oh, io non ho dubbi
che lei, invece, abbia tutte le competente del caso. –
Era
impossibile non restare agghiacciati dal sorriso con cui Mycroft
rispose a quell'affermazione.
–
Dottoressa
Jacqueline Laura Stapleton, “Jacqui” per gli amici. –
Mycrof
aveva messo da parte l'ombrello e aveva tirato fuori dalla tasca
della giacca il solito taccuino, nonappena arrivati al laboratorio.
–
Classe '70, laureata
a pieni voti a Cambridge, specializzata in ingegneria genetica. –
lesse attentamente, mentre la Stapleton, irrigidita, sbiancava
gradualmente – Interventi a conferenze internazionali almeno una
volta all'anno e saggi pubblicati regolarmente sulle maggiori riviste
di campo medico. Oh, questo ha un titolo interessante: Nuove
frontiere per la fecondazione e la gravidanza nel cariotipo maschile
umano. –
Mycroft
le rivolse un sorriso soddisfatto e richiuse il taccuino, andando a
riporlo nella tasca.
–
Devi sempre metterti
in mostra. – sospirò Sherlock.
Ah,
ma da che pulpito! Le sopracciglia di John schizzarono verso
l'attaccatura del capelli.
–
Le tradizioni di
famiglia vanno rispettate. – ribatté Mycroft.
Sherlock
lo ignorò, rivolgendo tutta la sua attenzione alla dottoressa.
“Allora?” diceva il suo sguardo. Lei si umettò le labbra, a
disagio di fronte a quello sfoggio di battute Holmes. John la capiva
fin troppo bene.
Noia.
Dover
sottostare pazientemente a tutte quelle analisi superflue era noioso.
I commenti scontati della Stapleton erano noiosi. Le domande ovvie di
John erano noiose. Le battute prevedibili di Mycroft erano noiose –
e irritanti.
Ammazzare
il tempo davanti al distributore di snack – ipocalorici, imbottiti
di conservanti e coloranti, certamente più deleteri di qualsiasi
sostanza sintetizzata tra quelle mura – in attesa che un computer
fornisse un risultato di cui già conosceva perfettamente la risposta
senza scomodare alcun circuito né sprecare energia elettrica, era
noioso.
E
il fatto che adesso se ne stessero tutti e tre in silenzio davanti a
quel dannato distributore, era assolutamente insopportabile. Lo era
l'educata – e falsissima – indifferenza con cui Mycroft si
metteva da parte in quel momento che avrebbe certamente definito con
superiore ironia “di delicata attesa”. Lo era dover ammettere,
per lo meno con sé stesso, che in quella situazione gli era
indispensabile affidarsi al suo aiuto. Lo era la finta tranquillità
con cui John pretendeva di concentrarsi sul suo caffè,
inevitabilmente infranta nel momento in cui la dottoressa uscì dal
laboratorio. Sherlock aveva le spalle rivolte alla porta e non la
vide, ma gli bastò notare come gli occhi di John si dilatarono nel guardare dietro di lui e come divenne rosso nel buttare
giù il resto del caffè ustionandosi la lingua.
Mycroft
mosse le labbra e inarcò un sopracciglio, nel palese tentativo di
reprimere una risata. Sherlock seguì la dottoressa nel laboratorio,
sfidando con lo sguardo suo fratello a dire qualsiasi cosa.
–
Positivo. –
C'era
qualcosa di profondamente sbagliato in quella parola. In quel
contesto. In mezzo a quelle persone.
–
Mi scusi? – tossì
John, battendo convulsamente le palpebre.
–
Te l'avevo detto. –
sospirò Sherlock.
Mycroft sfoderò un inopportuno sorriso: – Congratulazioni! –
Panico.
Totale, sacrosanto, assordante panico.
John
si umettò le labbra: – Un momento... –
–
Le analisi parlano
chiaro. – fece la Stapleton, posando con drammaticità sul tavolo i
fogli sputati fuori dal computer.
John
li prese in mano, li sfogliò, lesse qua e là termini che la sua
formazione di medico riusciva a fargli comprendere perfettamente. Ma
che continuavano a non avere – a non voler avere – il
minimo senso per lui.
–
Potrebbe... – si
schiarì la voce – essere un falso positivo. –
Guardò
alternativamente i fogli, la dottoressa, ancora i fogli, Sherlock,
Mycroft, i fogli. Nessuno parlava. A parte i fogli, con il loro
rumore di carta e le sigle che parevano urlargli in faccia il loro
significato.
–
No? – pigolò in
un ultimo, disperato appello.
–
Questo tester vale
cinquantamila sterline, dottor Watson. – la Stapleton indicò il
macchinario con aria seria – Il termine “falso positivo” non fa
parte del suo vocabolario. –
Il
silenzio parve posarsi su di loro con teatrale clamore.
–
Dottoressa, posso
parlarle un momento in privato? –
John
registrò appena la domanda di Mycrot. E comprese troppo tardi ciò
che implicava.
–
Oh, Mycroft...
seriamente? –
La
voce di Sherlock appariva quanto mai sferzante in quel momento.
Mycroft
non rispose. Scivolò fuori dal laboratorio assieme alla dottoressa,
distruggendo qualsiasi speranza per John di uscire mentalmente
sano da quella situazione.
–
Cosa... che cosa
facciamo? –
Oh,
era così prevedibile. Compativa il cervello ordinario di John che
ancora, nonostante ogni prova lampante fosse davanti ai suoi occhi,
si ostinava a rifiutare quella realtà. Perché era palese come
dietro quel “cosa facciamo” si stagliasse a lettere cubitali un
terrorizzato “cosa vuoi fare”. Se avesse potuto, John sarebbe
scappato a gambe levate, lasciando a lui la gestione di quella patata
bollente. E quale sollievo avrebbe avuto nell'accontentarlo!
Ma per loro sfortuna, Sherlock aveva già capito che il suo aiuto
sarebbe stato indispensabile.
–
“Facciamo”,
John? Noi non facciamo niente. Io aspetto. –
–
Questo lo vedo. –
sbottò lui.
–
Intendo, – sospirò
lui – aspetto che Mycroft la finisca con i suoi giochetti e lasci
che la Stapleton faccia il suo lavoro. –
La
fronte di John si accartocciò sotto l'inumana pressione che quei
pensieri stavano esercitano sulla sua povera psiche. Sherlock si figurava i neuroni che lampeggiavano allarmati.
–
Sherlock, forse non
ti rendi conto della gravità della situazione... –
Ah,
be', detto da lui era davvero esilarante!
–
Disse quello che
fino a cinque minuti fa non accettava nemmeno l'idea. – fece
sarcastico.
–
Dov'è finito il
discorso “ognuno ha i suoi limiti” eccetera? – ribatté
seccato, camminando nervosamente per la stanza.
La
sua tensione non riusciva a fare presa su Sherlock. Più John
isterizzava, più lui per contrasto sprofondava in una paradossale
tranquillità. Accavallò le gambe, accomodandosi meglio sulla sedia.
–
John, il mio limite
in questo momento siete voi. Tu e Mycroft, sì. – precisò
davanti allo sguardo di stupita confusione che gli rivolse – Avrei
potuto tranquillamente gestire questa faccenda da solo, senza la
vostra interferenza, ma naturalmente... –
– E
come pensavi di gestirla, scusa? –
Il
tono era pericolosamente calmo, il che gli dava la misura di quanto
in realtà John si stesse avvicinando all'orlo di un crollo
psicologico con i controfiocchi.
–
Nell'unico modo in
cui la si può gestire, John. – sentenziò seriamente.
E
avrebbe dovuto prevederlo che avrebbe frainteso del tutto. Era sempre
così melodrammatico, John. Ci si crogiolava nelle catastrofi.
–
Tu vuoi... – lo
vide annaspare, e quasi gli fece pena – Sherlock, non vorrai... –
–
Oh, per l'amor del
cielo, John, no! – interruppe il suo balbettio, esasperato
da quell'eccesso di sentimentalismo – Risparmiami la tua apologia
contro l'aborto. Sei un medico o cosa? –
John
gli si avvicinò di scatto. Sherlock lo guardò dal basso, senza
scomporsi.
–
Essere medico non
m'impedisce di avere una coscienza! – gli scandì in faccia,
congestionato per la rabbia e l'emozione – E credo di poter
affermare un certo diritto di voce in capitolo, se me lo permetti. –
Aveva
il respiro irregolare. Doveva chiarire subito quella faccenda, prima
che gli venisse un collasso.
–
Rilassati. Non ho
intenzione di porre fine a questo esperimento. –
Qualcosa
nel volto improvvisamente rigido di pallore di John gli fece venire
il dubbio di aver detto la cosa sbagliata. Non sapeva cosa, visto che
nella sua frase Sherlock non trovava niente di sbagliato. Ma
certamente ci doveva essere un motivo se il respiro di John adesso
non era più irregolare. Il respiro di John non era più e
basta.
–
Esperimento? –
–
Esperimento,
John. – Sherlock roteò appena la testa e strinse gli occhi,
studiando la sua espressione – Sì. –
Lui
si ritrasse, muto, pietrificato.
–
Cosa ti aspettavi? –
saltò su, scrutandolo accigliato – Sono il primo maschio umano in
stato di gravidanza, è un'occasione unica e irripetibile! –
Si
sentiva sciocco a spiegargli una cosa talmente ovvia, ma
evidentemente ce n'era bisogno.
–
Oh, santo cielo. –
esalò, deglutendo a vuoto.
–
Ti giuro che sei
l'essere più... più... – scosse la testa, alzò le mani, roteò
su sé stesso – Ma come fai a vederlo come un esperimento?!
Sherlock, quello è un bambino! È mio... nostro... quello è
nostro... –
Ah,
ma certo! John Hamish Watson e la sua romantica visione di una vita
nascente, certamente influenzata da una rigorosa educazione borghese,
concretizzata razionalmente dagli studi in medicina e solidificata
senza appello dagli “orrori della guerra”.
–
Oh, ti prego! –
Sherlock fece una smorfia di compatimento – E poi, John? Cosa
farai, mi chiederai di sposarti? –
Il
suo volto, se possibile, s'indurì ulteriormente. Sherlock provò per
un momento ad immedesimarsi in lui, nella sua claustrofobica
mentalità, e a chiedersi quale repulsione dovesse provare il suo
tenero animo nel sentirgli fare dell'ironia su una questione di tale
importanza. Se lo figurava bene, Sherlock. Ma non si sforzò di
provare la minima empatia in merito. Era molto più facile affrontare
John e i suoi bigotti scrupoli degradandoli in quel modo, piuttosto
che ammettere che almeno in parte avesse ragione.
–
Sei un uomo d'onore,
dopotutto, e vorrai rimediare certamente all'“oltraggio”.
Purtroppo mamma non avrà la gioia di vedermi in bianco, ma le spose
col pancione sono sempre così dolci... e poi tra
qualche mese potrà consolarsi con il nipotino. O nipotina?
Dovremmo iniziare a pensare al nome, John. Uno che stia bene con i
nostri cognomi, ovviamente. A proposito, non ho intenzione di
rinunciare al mio. Potremmo adottare quello doppio... Holmes-Watson,
Watson-Holmes... il secondo suona meglio, sì. Ottimo. – Sherlock
interruppe quel monologo stillante gratuita crudeltà – Che c'è?
Perché quella faccia? Sei tu che vuoi giocare alla famigliola
felice, John. –
John
era a mezzo metro da lui, eppure appariva lontanissimo. Sherlock
scoprì, con improvviso e inaspettato dolore, che non gli piaceva.
–
Lo sai, Sherlock,
hai ragione. – il suo sguardo avrebbe potuto farlo a pezzi – Le
parole sono importanti. –
Così
importanti che quella frase restò sospesa nell'aria asettica del
laboratorio e nella mente turbata di Sherlock, virgole e punti
compresi, anche dopo che John uscì a grandi passi da lì, portando
lontano da lui quello sguardo insostenibile.
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