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Autore: Doralice    23/02/2012    8 recensioni
Piccola, azzurra aleggia
una farfalla, il vento la agita,
un brivido di madreperla
scintilla, tremola, trapassa.
Così nello sfavillio d'un momento,
così nel fugace alitare,
vidi la felicità farmi un cenno
scintillare, tremolare, trapassare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
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Tre

~

Di quanto costano le parole


Bisogna essere in due perché la verità nasca:

uno per dirla e l'altro per ascoltarla.

Henry David Thoreau –



Fu con il sollievo del condannato a morte che riceve l'assoluzione che John aprì la portiera e uscì da quell'abitacolo così simile ad una camera a gas. Lasciò deliberatamente indietro Sherlock ed entrò nell'albergo.

Baskerville in novembre era, se possibile, ancora più amena che in ottobre. Amena e fredda. Amena, fredda e con qualche turista in meno, ma comunque sempre troppi per i gusti di John. 'Ché non sarebbe bastata la risoluzione del caso da parte di un certo consulente detective di Londra a stroncare da un giorno all'altro un mito che da quarant'anni si nutriva del piacere del mistero. Purtroppo per John, tuttavia, pochi turisti significava anche una maggiore virulenza nel ficcare il naso da parte degli avventori dell'albergo.

Oh, eravamo sicuri che sareste tornati! – esclamò il più giovane.

John mosse la mascella ed emise un sospiro che esternava tutta la sua poca pazienza.

Billy! Billy, ti ricordi la coppia di Londra? Sono tornati! –

Billy sporse la testa da retrobottega.

Be', tornano sempre, no? – fece con aria d'intesa.

E fece l'occhiolino. L'occhiolino. John si passò una mano sulla fronte.

Non per vantarci, ma i nostri letti non se li scorda nessuno! –

D'accordo. Ne aveva avuto abbastanza.

Niente camera per questa volta. Avete un tavolo? Siamo in tre. –

In tre? –

Cosa aveva da guardare? Avevano un'ospite, sì. La dottoressa. Un'adulta. Non erano in tre nel senso che...

Oh, Dio.

John schioccò la lingua: – Sì, in tre. –

Era davvero arrivato ad un punto critico, non c'era che dire. Complimenti.

Billy? – chiamò di nuovo il ragazzo.

È un po' tardi per il pranzo, – li informò la voce di Billy – vedo cosa ci è rimasto in cucina. –

C'è un bagno qui? Ho bisogno di un bagno. –

John si voltò sorpreso verso Sherlock. Erano stati lì appena un mese prima e non ricordava nemmeno dove fosse il bagno?

Il ragazzo indicò: – In fondo a destra. –

Pallido in volto, Sherlock si lanciò letteralmente in quella direzione.

Hai bisogno di... –

Resta qui. Aspetta la Stapleton. –

John aprì la bocca, ma pensò bene di richiuderla senza proferire parola. Non aveva la minima voglia di dare spettacolo.


Cosa avesse vomitato era un mistero, dato che non mangiava dalla sera prima. Ma non si comanda alle nausee.

Sherlock tirò lo sciacquone andò a lavarsi. Avrebbe solo voluto strapparsi lo stomaco e vivere d'aria per il resto della sua vita. Non era abituato a tutti questi fastidi: dopo una vita di autocontrollo, riusciva ormai senza difficoltà a piegare le esigenze del proprio corpo alla sua volontà.

Stai bene? –

Sherlock lanciò un'occhiata al John riflesso sullo specchio che s'intravedeva nello spiraglio aperto della porta.

La tua abilità nel tirare fuori domande retoriche mi stupisce ogni volta, John. –

Lui non rispose, solo scosse appena la testa e richiuse la porta, svanendo dal riflesso. Sherlock sentì un subitaneo fastidio. Non voleva che se ne andasse. Ma non voleva nemmeno che restasse lì a compatirlo con l'aria del medico che “ha fatto tutto il possibile”. Cos'era meglio, un John fastidiosamente presente o un John tristemente assente? In verità Sherlock non aveva la minima idea di quello che voleva.

Quando uscì dal bagno, l'odore di cibo gli aggredì immediatamente i sensi, facendogli salire un'altra ondata di nausea. Deglutì il sapore rancido che gli risaliva l'esofago e s'impose di farsela passare. John era fuori e riconobbe senza difficoltà il taglio a caschetto della donna con cui stava parlando. Li raggiunse.

Dottoressa. –

Signor Holmes. –

Per lo meno evitava di nascondere l'aria tirata. Anzi, Sherlock notò come indugiava a lungo sul suo aspetto, catalogando a prima vista lo stato di salute. John certamente non le aveva ancora detto niente, ma poteva immaginare come dal momento della telefonata avesse rimuginato con ansia crescente sulle sue parole.

Ah... il tavolo. –

Sherlock e la dottoressa si voltarono verso John. Lui si mosse verso l'albergo e loro, dopo un'ultima occhiata, lo seguirono.

Lui lo sa? –

Sherlock strinse le labbra.

Sta attraversando la fase di rifiuto. – disse ironico.

E lei? – la Stapleton lo guardò francamente – A che fase è? –

Sherlock sapeva ammettere, per lo meno con sé stesso, quando non era in grado di rispondere. Per cui, non rispose.


La dottoressa non aveva fame e comunque aveva già mangiato qualcosa alla mensa del laboratorio. Sherlock, ovviamente non era in grado di trovarsi qualcosa sotto il naso senza correre a rigettare. John finì con l'ordinare solo per sé.

Dunque... vediamo di capire cosa è successo. –

Non c'è niente da capire. – intervenne Sherlock – È tutto perfettamente chiaro. –

La Stapleton alzò le sopracciglia e cercò aiuto con la sguardo verso John. Lui si limitò a stringersi nelle spalle e a continuare a masticare. Trovava decisamente confortante, in quel preciso momento, poter impegnare la bocca in qualcosa di utile che gli donasse la facoltà di non parlare.

Bene. – la dottoressa si schiarì la voce e si mosse sulla sedia, intrecciando le dita sul tavolo – Partiamo dal principio. Come ha capito il suo stato? –

Sherlock la fissò per un momento in silenzio. E John si strozzò con il proprio boccone, perché aveva capito che stava per partire con una delle sue analisi deduttive.

Appena dopo aver fatto la sua conoscenza, John ed io abbiamo avuto una discussione riguardo i miei modi d'interazione sociale. A suo parere, la mia totale mancanza di empatia, unita all'ostentazione di sicurezza, minavano in partenza il rapporto con i clienti o potenziali tali, o comunque andavano a complicare le indagini dei casi. –

John aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare quella discussione, e finalmente qualcosa riemerse dalla memoria.

Non era certamente il momento più adatto per mettersi a sottilizzare, ma pur di farlo tacere gli diedi momentaneamente retta. Gli chiesi dunque cosa suggeriva di fare e lui disse che non sperava che fossi una persona normale, ma che sarebbe bastato che facessi finta di esserlo. –

John batté le palpebre: – Ho detto così? –

Sì. – Sherlock lo degnò appena di uno sguardo – “Torna dentro e stringi la mano alla dottoressa, l'hai aggredita di domande senza nemmeno presentarti”. Queste sono state le tue esatte parole. –

E lei è rientrato. – la Stapleton annuì lentamente, un'espressione di allarmante consapevolezza che si faceva strada sul suo volto – E mi ha stretto la mano. –

Precisamente. Quello è stato l'unico momento in cui posso essere entrato in contatto diretto con la sostanza che stava testando sulle cavie. Non aveva i guanti, ma la sensazione al tatto era diversa da quella della pelle. Pellicola imbibita? Ma certo. Non c'è altra spiegazione. Non ha detto niente perché era certa che il dosaggio fosse talmente basso da non causare alcun effetto sugli esseri umani. D'altra parte non dava risultati positivi sui conigli, dunque perché preoccuparsi? –

Come fa a sapere... –

John scosse la testa, interrompendo la domanda della dottoressa con un vago cenno della mano.

Quell'informazione non era collegata al caso, dunque la misi da parte senza prestarvi la dovuta attenzione. In seguito iniziai ad accusare i primi sintomi, ma li imputai esclusivamente all'inalazione delle tossine del progetto HOUND. Avrei dovuto intuire che i sintomi erano ricollegabili a quello a cui stava lavorando lei, ma il mio stesso stato mentale non mi forniva la lucidità necessaria. Dunque dovettero passare due giorni, durante i quali la sostanza ebbe modo di fare effetto sul mio corpo, indisturbata, prima che mi accorgessi di qualcosa. Il che avvenne, precisamente, la mattina del terzo giorno. –

John ricordava fin troppo bene quella mattina. La confusione sul “sogno”, immediatamente messo da parte, dimenticato dalla propria coscienza. E quell'assurda discussione con Sherlock. E poi il silenzio, per tutto il viaggio di ritorno.

Naturalmente non avevo il minimo sospetto che fosse avvenuto un concepimento. –

A quella parola John si strozzò con il boccone – ancora, sì, stava diventando un rito ormai – facendo voltare su di sé gli sguardi costernati dei due.

I primi sintomi? – chiese la dottoressa.

Dopo due settimane. Nausea costante, vomito, sonnolenza. –

Potevano essere effetti collaterali delle tossine del progetto HOUND. – gli fece notare la Stapleton.

Giusta osservazione, ma John non presentava gli stessi sintomi e comunque il mio fisico aveva avuto tutto il tempo per smaltire le tossine. –

Poteva essere un'influenza o un'intossicazione alimentare. – insisté lei – Perché ha pensato proprio ad una gravidanza? –

John intercettò lo sguardo di Sherlock. Quella discussione era fin troppo simile al dialogo che avevano avuto quella stessa mattina.

Tre settimane sono troppe per un'intossicazione alimentare. Mentre l'influenza, che io sappia, dovrebbe implicare anche febbre, dolori articolari, tosse e raffreddore. –

E dunque... –

Sherlock posò i gomiti sulla tavola e unì le mani a piramide: – Dunque, escludendo l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità. –

John alzò gli occhi al cielo. Quanto gli piaceva sentirsi parlare...

Ha fatto un test? –

Dodici. – intervenne a quel punto – Ne ha fatti dodici. Ed erano tutti positivi. Li ho visti. –

La dottoressa saettò lo sguardo dall'uno all'altro. Si schiarì poi la voce e abbassò il capo, concentrata su qualche riflessione.

Non si strugga, Jaqui. – Sherlock inarcò un sopracciglio – Non diremo una parola. –

Ma è implicito che debba aiutarvi. – concluse lei con un sospiro.

Lui sgranò gli occhi in un'espressione comica: – Vorrebbe forse lasciare un povero ragazzo-padre a sé stesso? –

John serrò la mascella, trattenendosi dal lanciargli addosso qualcosa.


Camminare nel freddo di quel primo pomeriggio era decisamente meglio, per combattere la nausea, che stare rinchiusi tra le pareti di un ristorante.

Non posso semplicemente farvi entrare e usare i mezzi del centro per fare le analisi. Se scoprono cos'è successo, io sono licenziata e lei diventa una cavia da laboratorio. –

Era talmente prevedibile che Sherlock vi aveva pensato ancora prima di partire per Baskerville. E tuttavia non aveva ancora elaborato una soluzione. Anche ignorando il fatto che tutta quella faccenda dovesse essere tenuta completamente sotto silenzio, non si poteva girare attorno al fatto che le competenze della Stapleton e i mezzi a disposizione del centro fossero indispensabili per gestire ogni cosa.

John tirò fuori il cellulare e iniziò a digitare: – Chiamo Mycroft. –

Cosa?! No! –

Quel rifiuto categorico suonò così infantile dopo le sue argute deduzioni di poco prima, che persino la Stapleton lo squadrò con sorpresa. Sherlock non era pronto per dire una cosa simile a suo fratello. Non sarebbe mai stato pronto. Non voleva leggere la sua espressione di compassione e quella sfumatura da “te l'avevo detto”, come se si fosse sempre aspettato che prima o poi il suo pestifero fratellino avrebbe fatto un casino tale da aver bisogno del suo autorevole intervento. Era qualcosa che il suo ego semplicemente non avrebbe sopportato.

Alla sua esclamazione, John s'era fermato, con il cellulare in mano e un'espressione tesa in volto.

Hai un'idea migliore? –

No, Sherlock non aveva un'idea migliore. Eppure quella gli sembrava di gran lunga la mossa peggiore che potessero fare.

Alzò, tuttavia, una mano, in un gesto di seccato consenso. E John, dopo avergli lanciato un'ultima occhiata, riprese a cercare il numero di Mycroft sulla rubrica del suo cellulare.


Entrare nel centro di ricerca più protetto del Regno Unito con un pass valido, al seguito di Mycroft Holmes, è tutto un altro paio di maniche. Forse meno divertente che intrufolarsi senza autorizzazione, ma comunque a John piaceva anche la tranquillità. Giusto ogni tanto, eh.

Spero solo che lei abbia l'autorità per riuscire a tenere tutto questo nel più assoluto riserbo. – stava borbottando tesa la dottoressa mentre camminavano per i corridoi del centro e raggiungevano il suo laboratorio, fatto preventivamente sgombrare ed isolare dal sistema di sorveglianza delle telecamere.

Oh, io non ho dubbi che lei, invece, abbia tutte le competente del caso. –

Era impossibile non restare agghiacciati dal sorriso con cui Mycroft rispose a quell'affermazione.

Dottoressa Jacqueline Laura Stapleton, “Jacqui” per gli amici. –

Mycrof aveva messo da parte l'ombrello e aveva tirato fuori dalla tasca della giacca il solito taccuino, nonappena arrivati al laboratorio.

Classe '70, laureata a pieni voti a Cambridge, specializzata in ingegneria genetica. – lesse attentamente, mentre la Stapleton, irrigidita, sbiancava gradualmente – Interventi a conferenze internazionali almeno una volta all'anno e saggi pubblicati regolarmente sulle maggiori riviste di campo medico. Oh, questo ha un titolo interessante: Nuove frontiere per la fecondazione e la gravidanza nel cariotipo maschile umano. –

Mycroft le rivolse un sorriso soddisfatto e richiuse il taccuino, andando a riporlo nella tasca.

Devi sempre metterti in mostra. – sospirò Sherlock.

Ah, ma da che pulpito! Le sopracciglia di John schizzarono verso l'attaccatura del capelli.

Le tradizioni di famiglia vanno rispettate. – ribatté Mycroft.

Sherlock lo ignorò, rivolgendo tutta la sua attenzione alla dottoressa. “Allora?” diceva il suo sguardo. Lei si umettò le labbra, a disagio di fronte a quello sfoggio di battute Holmes. John la capiva fin troppo bene.


Noia.

Dover sottostare pazientemente a tutte quelle analisi superflue era noioso. I commenti scontati della Stapleton erano noiosi. Le domande ovvie di John erano noiose. Le battute prevedibili di Mycroft erano noiose – e irritanti.

Ammazzare il tempo davanti al distributore di snack – ipocalorici, imbottiti di conservanti e coloranti, certamente più deleteri di qualsiasi sostanza sintetizzata tra quelle mura – in attesa che un computer fornisse un risultato di cui già conosceva perfettamente la risposta senza scomodare alcun circuito né sprecare energia elettrica, era noioso.

E il fatto che adesso se ne stessero tutti e tre in silenzio davanti a quel dannato distributore, era assolutamente insopportabile. Lo era l'educata – e falsissima – indifferenza con cui Mycroft si metteva da parte in quel momento che avrebbe certamente definito con superiore ironia “di delicata attesa”. Lo era dover ammettere, per lo meno con sé stesso, che in quella situazione gli era indispensabile affidarsi al suo aiuto. Lo era la finta tranquillità con cui John pretendeva di concentrarsi sul suo caffè, inevitabilmente infranta nel momento in cui la dottoressa uscì dal laboratorio. Sherlock aveva le spalle rivolte alla porta e non la vide, ma gli bastò notare come gli occhi di John si dilatarono nel guardare dietro di lui e come divenne rosso nel buttare giù il resto del caffè ustionandosi la lingua.

Mycroft mosse le labbra e inarcò un sopracciglio, nel palese tentativo di reprimere una risata. Sherlock seguì la dottoressa nel laboratorio, sfidando con lo sguardo suo fratello a dire qualsiasi cosa.


Positivo. –

C'era qualcosa di profondamente sbagliato in quella parola. In quel contesto. In mezzo a quelle persone.

Mi scusi? – tossì John, battendo convulsamente le palpebre.

Te l'avevo detto. – sospirò Sherlock.

Mycroft sfoderò un inopportuno sorriso: – Congratulazioni! –

Panico. Totale, sacrosanto, assordante panico.

John si umettò le labbra: – Un momento... –

Le analisi parlano chiaro. – fece la Stapleton, posando con drammaticità sul tavolo i fogli sputati fuori dal computer.

John li prese in mano, li sfogliò, lesse qua e là termini che la sua formazione di medico riusciva a fargli comprendere perfettamente. Ma che continuavano a non avere – a non voler avere – il minimo senso per lui.

Potrebbe... – si schiarì la voce – essere un falso positivo. –

Guardò alternativamente i fogli, la dottoressa, ancora i fogli, Sherlock, Mycroft, i fogli. Nessuno parlava. A parte i fogli, con il loro rumore di carta e le sigle che parevano urlargli in faccia il loro significato.

No? – pigolò in un ultimo, disperato appello.

Questo tester vale cinquantamila sterline, dottor Watson. – la Stapleton indicò il macchinario con aria seria – Il termine “falso positivo” non fa parte del suo vocabolario. –

Il silenzio parve posarsi su di loro con teatrale clamore.

Dottoressa, posso parlarle un momento in privato? –

John registrò appena la domanda di Mycrot. E comprese troppo tardi ciò che implicava.

Oh, Mycroft... seriamente? –

La voce di Sherlock appariva quanto mai sferzante in quel momento.

Mycroft non rispose. Scivolò fuori dal laboratorio assieme alla dottoressa, distruggendo qualsiasi speranza per John di uscire mentalmente sano da quella situazione.


Cosa... che cosa facciamo? –

Oh, era così prevedibile. Compativa il cervello ordinario di John che ancora, nonostante ogni prova lampante fosse davanti ai suoi occhi, si ostinava a rifiutare quella realtà. Perché era palese come dietro quel “cosa facciamo” si stagliasse a lettere cubitali un terrorizzato “cosa vuoi fare”. Se avesse potuto, John sarebbe scappato a gambe levate, lasciando a lui la gestione di quella patata bollente. E quale sollievo avrebbe avuto nell'accontentarlo! Ma per loro sfortuna, Sherlock aveva già capito che il suo aiuto sarebbe stato indispensabile.

– “Facciamo”, John? Noi non facciamo niente. Io aspetto. –

Questo lo vedo. – sbottò lui.

Intendo, – sospirò lui – aspetto che Mycroft la finisca con i suoi giochetti e lasci che la Stapleton faccia il suo lavoro. –

La fronte di John si accartocciò sotto l'inumana pressione che quei pensieri stavano esercitano sulla sua povera psiche. Sherlock si figurava i neuroni che lampeggiavano allarmati.

Sherlock, forse non ti rendi conto della gravità della situazione... –

Ah, be', detto da lui era davvero esilarante!

Disse quello che fino a cinque minuti fa non accettava nemmeno l'idea. – fece sarcastico.

Dov'è finito il discorso “ognuno ha i suoi limiti” eccetera? – ribatté seccato, camminando nervosamente per la stanza.

La sua tensione non riusciva a fare presa su Sherlock. Più John isterizzava, più lui per contrasto sprofondava in una paradossale tranquillità. Accavallò le gambe, accomodandosi meglio sulla sedia.

John, il mio limite in questo momento siete voi. Tu e Mycroft, sì. – precisò davanti allo sguardo di stupita confusione che gli rivolse – Avrei potuto tranquillamente gestire questa faccenda da solo, senza la vostra interferenza, ma naturalmente... –

E come pensavi di gestirla, scusa? –

Il tono era pericolosamente calmo, il che gli dava la misura di quanto in realtà John si stesse avvicinando all'orlo di un crollo psicologico con i controfiocchi.

Nell'unico modo in cui la si può gestire, John. – sentenziò seriamente.

E avrebbe dovuto prevederlo che avrebbe frainteso del tutto. Era sempre così melodrammatico, John. Ci si crogiolava nelle catastrofi.

Tu vuoi... – lo vide annaspare, e quasi gli fece pena – Sherlock, non vorrai... –

Oh, per l'amor del cielo, John, no! – interruppe il suo balbettio, esasperato da quell'eccesso di sentimentalismo – Risparmiami la tua apologia contro l'aborto. Sei un medico o cosa? –

John gli si avvicinò di scatto. Sherlock lo guardò dal basso, senza scomporsi.

Essere medico non m'impedisce di avere una coscienza! – gli scandì in faccia, congestionato per la rabbia e l'emozione – E credo di poter affermare un certo diritto di voce in capitolo, se me lo permetti. –

Aveva il respiro irregolare. Doveva chiarire subito quella faccenda, prima che gli venisse un collasso.

Rilassati. Non ho intenzione di porre fine a questo esperimento. –

Qualcosa nel volto improvvisamente rigido di pallore di John gli fece venire il dubbio di aver detto la cosa sbagliata. Non sapeva cosa, visto che nella sua frase Sherlock non trovava niente di sbagliato. Ma certamente ci doveva essere un motivo se il respiro di John adesso non era più irregolare. Il respiro di John non era più e basta.

Esperimento? –

Esperimento, John. – Sherlock roteò appena la testa e strinse gli occhi, studiando la sua espressione – Sì. –

Lui si ritrasse, muto, pietrificato.

Cosa ti aspettavi? – saltò su, scrutandolo accigliato – Sono il primo maschio umano in stato di gravidanza, è un'occasione unica e irripetibile! –

Si sentiva sciocco a spiegargli una cosa talmente ovvia, ma evidentemente ce n'era bisogno.

Oh, santo cielo. – esalò, deglutendo a vuoto.

Ti giuro che sei l'essere più... più... – scosse la testa, alzò le mani, roteò su sé stesso – Ma come fai a vederlo come un esperimento?! Sherlock, quello è un bambino! È mio... nostro... quello è nostro... –

Ah, ma certo! John Hamish Watson e la sua romantica visione di una vita nascente, certamente influenzata da una rigorosa educazione borghese, concretizzata razionalmente dagli studi in medicina e solidificata senza appello dagli “orrori della guerra”.

Oh, ti prego! – Sherlock fece una smorfia di compatimento – E poi, John? Cosa farai, mi chiederai di sposarti? –

Il suo volto, se possibile, s'indurì ulteriormente. Sherlock provò per un momento ad immedesimarsi in lui, nella sua claustrofobica mentalità, e a chiedersi quale repulsione dovesse provare il suo tenero animo nel sentirgli fare dell'ironia su una questione di tale importanza. Se lo figurava bene, Sherlock. Ma non si sforzò di provare la minima empatia in merito. Era molto più facile affrontare John e i suoi bigotti scrupoli degradandoli in quel modo, piuttosto che ammettere che almeno in parte avesse ragione.

Sei un uomo d'onore, dopotutto, e vorrai rimediare certamente all'“oltraggio”. Purtroppo mamma non avrà la gioia di vedermi in bianco, ma le spose col pancione sono sempre così dolci... e poi tra qualche mese potrà consolarsi con il nipotino. O nipotina? Dovremmo iniziare a pensare al nome, John. Uno che stia bene con i nostri cognomi, ovviamente. A proposito, non ho intenzione di rinunciare al mio. Potremmo adottare quello doppio... Holmes-Watson, Watson-Holmes... il secondo suona meglio, sì. Ottimo. – Sherlock interruppe quel monologo stillante gratuita crudeltà – Che c'è? Perché quella faccia? Sei tu che vuoi giocare alla famigliola felice, John. –

John era a mezzo metro da lui, eppure appariva lontanissimo. Sherlock scoprì, con improvviso e inaspettato dolore, che non gli piaceva.

Lo sai, Sherlock, hai ragione. – il suo sguardo avrebbe potuto farlo a pezzi – Le parole sono importanti. –

Così importanti che quella frase restò sospesa nell'aria asettica del laboratorio e nella mente turbata di Sherlock, virgole e punti compresi, anche dopo che John uscì a grandi passi da lì, portando lontano da lui quello sguardo insostenibile.

   
 
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