031
- Bane
"Devo
uscire di qui alla svelta".
Naruto
caricò un gruppo di soldati alla sua sinistra, uno scudo
osseo a
proteggergli l'avambraccio, e li schiacciò contro la parete.
I
proiettili gli fischiavano intorno, e la calca era tale che spesso
gli stessi Blackwatch finivano colpiti a morte.
Tutto,
pur di catturare Zeus. Pur di uccidere il mostro.
Ringhiò,
mentre quelle mani guantate cercavano di afferrarlo da tutte le
parti, di trattenerlo. Con le orecchie che ronzavano per il rumore
delle detonazioni e la pelle che fremeva e si rigenerava
continuamente attorno ai fori dei proiettili, Naruto mutò il
braccio
destro in lama e si gettò in avanti.
Quella
situazione gli ricordava sgradevolmente il suo primo risveglio,
con l'unica differenza che in quel momento non aveva la minima
intenzione di scappare.
Se
non altro, all'interno dell'edificio non potevano utilizzare i
lanciarazzi.
Tranciò
a metà un soldato piuttosto imponente, che gli si era parato
davanti
all'ultimo minuto, e si spinse contro ciò che restava del
suo
cadavere, approfittando del vuoto momentaneo che si era creato
intorno a lui. Scivolò sul pavimento inondato dal sangue.
Sbatté
contrò il linoleum con un gemito d'insofferenza, goffo a
causa della
stanchezza e dei muscoli provati dalla rigenerazione. Evitò
con una
mezza capriola di finire disteso sotto gli stivali con le punte di
ferro dei Blackwatch, ma l'aver recuperato una posizione eretta non
gli bastò per disfarsi del manipolo di coraggiosi che gli si
era
avvicinato stringendo un diffusore di Bloodtox.
«Guardate
che quello non serve a nulla». Ringhiò.
Si
proiettò in avanti, afferrò la scatola - da cui
usciva un fumo
rosato che sapeva di carne putrida - e la scagliò contro il
muro con
tanta forza da ridurla in frantumi. Attorno a lui, ovunque, si
riunivano e rumoreggiavano frotte di soldati, come grosse blatte nere
che sembravano volerlo inghiottire tra le loro schiere.
Che
schifo.
Era
davvero stufo.
La
mandritta divenne una frusta prima ancora che potesse capire cosa
voleva fare di preciso. Poi realizzò semplicemente che, se
non aveva
tempo uccidere tutti quei Blackwatch - non con il corridoio che
restringeva sensibilmente le sue possibilità di manovra -
poteva
sempre evitarli.
Menò
una frustata contrò il soffitto, tanto forte che il
contraccolpo lo
fece barcollare.
Quando
vide allargarsi una crepa e sentì il picchiettare dei primi
calcinacci sul pavimento, colpì una seconda volta.
Il
soffitto crollò.
Si
aprì una voragine sufficientemente grossa per far passare un
cacciatore, e Naruto non esitò a saltarci dentro -
approfittando
anche della confusione generale e dei numerosi Blackwatch rimasti
schiacciati sotto ai detriti. Quando si trovò con i piedi su
una
moquette color pistacchio, miracolosamente solo e finalmente distante
(anche se, a conti fatti, non si era allontanato che di tre, forse
quattro metri in linea d'aria) dalla ressa, tirò un sospiro
di
sollievo.
Non
aveva mai amato il silenzio, ma quella quiete momentanea gli parve
meravigliosa.
Accennò
qualche passo nel corridoio, giusto per darsi la sensazione di star
effettivamente facendo qualcosa. Doveva andarsene, ma, per dirla
tutta, non aveva una gran voglia di incappare nell'ennesimo manipolo
di soldati disorganizzati e pronti a punzecchiarlo
con i loro
fastidiosissimi fucili.
Inspirò,
gonfiando il petto. Ci doveva essere un ascensore,
da qualche
parte. Poteva entrare nel vano e scalare il cunicolo fino
all'uscita... il problema era trovarlo.
Non
aveva fatto nemmeno un passo, che il pavimento tremò
violentemente.
Fu
una scossa momentanea, eppure terribilmente forte: per qualche
istante il campo visivo di Naruto vacillò, divenne sfocato,
e il
Prototype sentì chiaramente il rimbombo cupo di
un'esplosione. Era
vicina, sotto di lui.
Forse
non più di cinque piani più in basso.
«Sasori...»
sussurrò, sbarrando gli occhi. Ecco, doveva sbrigarsi.
Corse,
cercando di recuperare il tempo sprecato, attraverso i numerosi
corridoi del piano; ci mise parecchio - il che, in quel momento,
equivaleva forse a tre minuti d'orologio - per trovare l'ascensore,
ma alla fine scovò la porta di metallo che tanto cercava.
Sembrava
sottile, fragile; la colpì con un pugno, affondando il
braccio
nell'acciaio quasi fino al gomito. Nel frattempo, le orecchie tese,
colse un vago trambusto farsi sempre più vicino, e non si
trattava
di esplosioni: erano passi umani, grida concitate e ordini abbaiati a
mezza voce.
Doveva
immaginare che i Blackwatch ci avrebbero messo poco.
Divelse
le porte dell'ascensore con gesti frenetici, scoordinati. Sotto di
lui si spalancò ben presto una voragine buia, poligonale,
con i cavi
della cabina che passavano al centro, tesi come corde d'arco.
Stava
per saltare, quando una voce lo bloccò.
«Zeus.
È da decenni che volevo incontrarti di
persona».
Si
voltò. Chiunque fosse non l’aveva sentito
arrivare, e questo
poteva significare una cosa soltanto.
Incredulo,
si trovò a fissare un ragazzo alto e magro, con i capelli
corvini
che gli incorniciavano il volto; i tratti avevano una delicatezza
tipicamente orientale, e gli occhi, di un assurdo color rosso cupo
–
come quello del sangue appena versato, pensò Naruto
– erano fermi
su di lui con un’intensità quasi fastidiosa.
Sorrideva, beffardo,
le mani affondate nelle tasche di un paio jeans neri.
«Sasuke?!»
No,
non era Sasuke. Benché gli somigliasse spaventosamente,
aveva i
lineamenti leggermente meno marcati e i capelli più lunghi
– a
voler essere più precisi, li teneva legati i una coda bassa;
due
rughe sottilissime, partendo dalla base del naso, gli scavavano
diagonalmente il viso. Sembrava la versione più vecchia
di
Sasuke.
E
fu in quel preciso istante che Naruto si ricordò di una
conversazione avvenuta molto, molto tempo prima, un
discorso
che aveva dimenticato e seppellito negli angoli più
reconditi della
propria memoria.
“...
l'ho guardato in volto con molta attenzione. Ha i capelli neri,
più
lunghi del fratello, e i lineamenti meno marcati. A parte questo, gli
occhi sono rossi”.
Deidara.
Si ricordò ogni parola che si erano detti quel giorno, ogni
informazione scambiata nel magazzino della base; poi, gli sovvenne
anche un brandello della conversazione avuta con Orochimaru, poche
ore prima. Come aveva fatto a dimenticarsi di quello che gli aveva
detto Deidara?!
“Io
gli ho urlato qualcosa del tipo "ehi, chi sei tu" e lui mi
ha risposto semplicemente "Itachi Uchiha"...”
Come
aveva potuto essere così stupido?
«...
Itachi. Tu sei... sei il fratello di Sasuke, non è
così?»
L'espressione
sul viso dell'altro si fece vagamente compiaciuta.
«Non
speravo che foste arrivati già a questo punto... i miei
complimenti».
«Che
ci fai qui? Sei qui anche tu per... per sconfiggere Madara?»
Itachi
inclinò la testa di lato, lentamente, e proruppe in una
risata
bassa, sarcastica; Naruto, osservandolo, capì che la sua
presenza in
quel luogo non significava proprio niente di buono.
La
sola presenza dell'Uchiha gli metteva i brividi, ed era una cosa che
non si poteva dire di molte altre creature.
«Oh,
Zeus... sei cambiato molto, non c'é che dire. Non ti
ricordavo
così... ingenuo».
«Io...»
Naruto spalancò le palpebre, preparandosi all'ennesima
doccia fredda
«... io non ti conosco».
«Ovviamente.
Ma non siamo qui per parlare di questo, giusto? Madara mi ha chiesto
di ucciderti».
«Cos...
tu... tu lavori per Madara? Ma sai che Sasuke è...»
«Dalla
vostra parte? Lo so molto bene, Zeus. Ora, ascoltami. Tu sai
perfettamente cosa successe ad Hope, non è
così?»
Naruto
rimuginò qualche secondo, prima di rispondere. Se escludeva
il
tassello della morte del figlio di Elizabeth Greene, aveva una
conoscenza completa dei fatti.
«Sì».
«Bene,
perché non ho tempo di spiegarti nulla. Ti basti sapere che
attualmente lavoro per Madara e che non posso in alcun modo rompere
il contratto con lui».
Il
Prototype guardò Itachi, confuso. Cosa stava cercando di
dirgli?
«Io...
non capisco...»
«Nemmeno
Sasuke capiva. È sempre stato
così indifeso, incapace di
combattere per sé... sai, non ha avuto il coraggio di
domandarmi
perché lo stessi facendo, ma so che se l'è
chiesto. In lui
dev'essere rimasta l'ombra di quell'illusione... la protezione
del fratello maggiore. Debole, stupido Sasuke».
Naruto
ascoltò quel breve monologo con gli occhi sgranati, cercando
febbrilmente di smontare il pensiero disgustoso che si andava
formando nella sua testa.
«Che...»
«Ha
provato a ribellarsi, sai? Lui non si ricordava di me. Nemmeno tu ti
ricordi, giusto? Oh, ma tu hai subito capito chi ero... Sasuke non
voleva crederci».
«Non
mi dirai che-» incapace di proseguire, Naruto strinse i
pugni. Con
il cervello paralizzato dall'orrore e dalla rabbia, sentì
qualcosa
di indefinibile gonfiarsi dentro di lui, riempirgli la gola e il
petto e lo stomaco, e tendersi e tendersi fino ad esplodere.
Perché se aveva capito, se davvero aveva compreso il senso
delle
parole di Itachi Uchiha, nulla avrebbe potuto salvare quel verme
dalla sua vendetta.
Nulla.
«Quando
quel tuo amico... quel Deidara ha scoperto quello che avevo fatto, ha
tentato di uccidermi. Sai qual'é stata la cosa
più ridicola? Ha
creduto di essermi superiore, e poi mi ha implorato
di
risparmiargli la vita. Decapitarlo è stato un vero peccato,
visto
quanto era bello. Non credi anche tu, Zeus?»
Ma
Naruto non riusciva più a sentirlo.
Il
campo visivo invaso da una foschia rossa, fissava quella figura nera
al centro del corridoio con la consapevolezza bruciante che avrebbe
tanto voluto divorarlo. Farlo a pezzi, strappargli
via la
carne dalle ossa a mani nude e spezzargli la schiena a calci,
cavargli gli occhi - come lui aveva fatto con Sasuke, Dio santo - e
lasciarlo dissanguare per terra. Non c'era nome per
il
sentimento che gli infiammava le viscere in quel momento.
Non
c'erano atrocità sufficienti a riscattare quello che Itachi
Uchiha
aveva fatto. Nemmeno se avesse potuto ucciderlo più di una
volta
Naruto si sarebbe sentito soddisfatto, di questo era certo.
Voleva
la sua sofferenza.
«Maledetto...»
la voce gli uscì soffocata, un ringhio «...
maledetto figlio di
puttana...»
Si
scagliò su Itachi ad una velocità che non
sospettava di poter
raggiungere.
Gli
sferrò un pugno sulla tempia. L'Uchiha cozzò
violentemente contro
una parete, che esplose verso l'interno in una pioggia di calcinacci;
steso sul pavimento di una camera buia, non ebbe tempo di rialzarsi
prima che Naruto gli fosse nuovamente addosso.
Il
Prototype non era in grado di pensare a niente.
Se
provava a razionalizzare, a frenare la furia distruttiva che in quel
momento sembrava aver sostituito il sangue nelle vene, l'unica cosa
su cui riusciva a concentrarsi era la testa di Deidara e la smorfia
di dolore su quel viso bluastro. Era il volto dalle orbite nere di
Sasuke.
Le
dita mutate in artigli, si accanì sul petto e sul viso di
Itachi con
una frenesia che non aveva mai provato in vita in sua.
Lacerò la
pelle, le viscere e le ossa, martoriò il viso fino a
renderlo niente
più che un ammasso di frattaglie sanguinolente,
gridò così tanto
da perdere la voce e alla fine, quando quello sotto di lui non
somigliò nemmeno lontanamente ad un corpo umano e tutti i
suoi abiti
furono intrisi di sangue, l'odio continuò ad infiammargli il
cuore.
Muorimuorimuorimuorimuori
-
e non riusciva a pensare a parole che non fossero quelle. Gli
rimbombavano nel cranio, lo assordavano, mentre contemplava le
proprie mani intrise di sangue con gli occhi sbarrati e il fiato
corto.
Poi,
un movimento insolito catturò la sua attenzione.
Distogliendo
lo sguardo dalle dita scarlatte per seguirlo, scoprì che
davanti a
lui c’era un corvo.
Era
una bestia considerevolmente grossa, con il piumaggio lucido e dei
minuscoli occhietti rossi pregni di una consapevolezza tutta umana;
benché non fosse mai stato un tipo particolarmente acuto, al
Prototype bastò guardarlo per capire cosa – o
meglio, chi –
aveva davanti.
«Itachi...?»
Tutto
si dissolse.
L’attimo
successivo, sbattendo le palpebre, Naruto si ritrovò sulla
soglia
del vano dell’ascensore. Disorientato, fissò prima
Itachi e poi il
corridoio: tutto era in ordine, il muro perfettamente integro; non
c’era sangue, sui suoi vestiti, e l’Uchiha pareva
illeso.
Impossibile.
«Tu,
come hai-» il Prototype si interruppe a metà della
frase perché
ricordò che Deidara gli aveva detto anche quello.
L’aveva avvisato
che quell’Itachi era in grado di manipolare la mente delle
persone
e provocare allucinazioni, e sul momento lui non aveva dato troppo
peso all’informazione; in quel momento si rese conto di
quanto un
potere del genere potesse essere pericoloso.
«Vedi,
Zeus...» Itachi fece un passo verso di lui, lo sguardo fisso
nel suo
«... le persone vivono la loro vita aggrappandosi a
ciò che
conoscono e comprendono, e chiamano questo
“realtà”. Ma
“conoscenza” e “comprensione”
sono termini vaghi. La realtà
potrebbe essere un illusione».
Naruto
non riusciva a capire. Gli sembrava un ragionamento fin troppo
contorto per lui.
«Ci
hai mai riflettuto? La tua realtà attuale è il
prodotto delle
esperienze passate. Se tutti i tuoi ricordi non fossero altro che
menzogne, cosa ne sarebbe della tua vita presente?»
«I
miei ricordi non sono menzogne. La cosa
più recente che
ricordo è quando mi sono svegliato in un laboratorio della
Gentek,
un anno fa, e sono scappato, quindi... su cosa potrebbero avermi
mentito?»
Itachi
corrugò le sopracciglia. Non se l’aspettava,
evidentemente.
«Questo
è molto interessante... peccato che il mio incarico mi offra
poco
tempo per parlare con te, Zeus. Se non combattiamo, Madara
penserà
che voglia tradirlo. E non credo che tu possa uscire vincitore da uno
scontro con me».
«Tsk...
se pensi che mi lascerò sconfiggere-»
«In
questo momento sei intrappolato in una mia illusione. So che credevi
di esserne uscito, poco fa, ma non è così. Sei
soltanto passato ad
un livello più vicino
alla realtà».
Naruto
ammutolì, preso alla sprovvista. Capiva anche lui che non
c’era
niente che potesse fare per contrastare un avversario simile, contro
il quale la sua forza bruta era pressoché inutile.
E
Sasori e gli altri lo stavano sicuramente aspettando.
«Che
stai aspettando, allora? Se devi uccidermi... perché non
l’hai già
fatto?»
«Nelle
mie illusioni,» riprese l’Uchiha, come se non
l’avesse sentito
«io posso parlarti senza che gli altri ci ascoltino. Voglio
dirti
una cosa molto importante, Zeus... promettimi che non la
dimenticherai».
«O-ok...»
«Il
mio potere...» sussurrò «... funziona
soltanto se ho un contatto
visivo diretto con l’avversario. Capisci che significa? Devo
guardarlo negli occhi per pote-»
Si
udì un nuovo boato, stavolta più vicino, e tutto
il piano parve
scuotersi come un ramo di salice nel bel mezzo di una tempesta. Il
campo visivo di Naruto si schiarì improvvisamente, facendosi
più
luminoso e definito, e il ragazzo non aveva ancora capito di essersi
liberato spontaneamente dell’illusione, che un ruggito
squarciò
l’aria. Frastornato, il Prototype riconobbe quel suono: era
molto
simile a quello dei cacciatori, anche se meno cavernoso, per certi
versi più simile ad un grido umano. Prima che potesse anche
solo
chiedersi a cosa appartenesse, la sezione di
soffitto compresa
tra lui ed Itachi vibrò violentemente e crollò
sotto i suoi occhi,
sollevando una nuvola di polvere e pietruzze che per qualche secondo
gli impedì di vedere bene.
Poi,
il Prototype deglutì e, molto lentamente,
fece un passo
indietro.
Non
sapeva se si trattasse di fortuna o sfortuna, ma sul cumulo di
calcinacci appena caduti stava un cacciatore semplicemente enorme,
con la testa piccola e tonda girata verso Itachi. Ringhiava.
Era
la sua occasione.
Senza
nemmeno pensare a quello che Itachi stava per dirgli, senza nemmeno
chiedersi il perché della comparsa improvvisa e fortuita di
quel
bizzarro aiutante, Naruto saltò nel vano
dell’ascensore. Dopotutto
doveva preoccuparsi di Sasori, Kisame, Hidan Kakuzu e Zetsu.
Le
parole di un nemico sconosciuto non potevano avere troppa importanza.
***
«Merda...
questa schifezza rossa fa davvero schifo».
«La
tua ignoranza non finirà mai di stupirmi, Hidan».
Kakuzu,
con il corpo di Rock Lee appoggiato su una spalla, scese velocemente
una rampa di scale. Si trovavano a poca distanza dall’uscita
principale, e ormai la missione poteva dirsi compiuta, ma i soldati
avevano avuto l’intuizione geniale di riattivare i diffusori
di
Bloodtox non appena Zeus aveva manifestato la propria presenza. Le
maschere antigas riuscivano ad evitare che quei vapori si rivelassero
letali per entrambi, ma i due infetti percepivano distintamente un
senso di stanchezza e oppressione farsi largo dentro di loro, a mano
a mano che avanzavano nella foschia rosata.
La
pelle del volto di Hidan era arrossata e piena di grinze, massacrata
dall’azione del veleno. Kakuzu aveva nel complesso un aspetto
migliore, ma anche lui cominciava ad incespicare quando scendeva i
gradini troppo in fretta, e la presa sul corpo dell’umano si
era
fatta meno salda; tuttavia, non si lamentavano: odiavano ammettere le
proprie debolezze.
«Di’
un po’, ragazzina...» Hidan si appoggiò
con la mandritta ad una
colonna, riprendendo fiato. Inspirare significava trattenere ogni
volta un conato di vomito, e diventava sempre più
difficoltoso.
«...
c’è una strada più breve per uscire da
qua?»
Tenten
negò con il capo, anche lei piegata sulla schiena
dell’infetto.
«No,
non c’è...» da qualche parte, in un
remoto angolo del suo
cervello, c’era del dispiacere per la situazione in cui i
suoi due
rapitori si trovavano. Si diede della stupida per aver formulato un
pensiero del genere.
Eppure,
se Zeus li aveva mandati a prenderla qualcosa di buono doveva pur
esserci. Il Prototype, dopotutto, le aveva salvato la vita.
«Senti...»
domandò, sperando che l’infetto non reagisse male
«... puoi dirmi
qual è il motivo preciso per cui ci state... ehm, portando
via? Io
non... non credo di aver capito bene, prima».
«Ah,
fanculo...» Hidan aveva la voce stanca, impastata come quella
di un
ubriaco «... i vostri amichetti - com’è
che si chiamano, Kakuzu?»
«Il
salvataggio di questi due umani è stato richiesto da Kiba
Inuzuka».
«Kiba?!
Kiba è ancora vivo? Ed è con voi? Io non ci
posso...»
«...
credere. Sì, lui e gli altri due amichetti che si portava
appresso
sono finiti nella rete di Zeus. Hanno tentato di penetrare nella base
e li abbiamo beccati».
Per
Tenten tutto fu immediatamente più chiaro. Evidentemente
Inuzuka era
stato catturato da Zeus e, messo a conoscenza dei suoi piani, aveva
chiesto che li portassero via dal Gentek Palace perché stava
per
succedere qualcosa di davvero terribile, e quell’intervento
non
andava che a loro vantaggio. La consapevolezza che il proprio
compagno stava bene le riempì il cuore di
felicità, al punto da
spingerla ad avanzare una proposta vantaggiosa nei confronti di
coloro che fino a qualche minuto prima aveva silenziosamente coperto
di maledizioni.
«Se
sei stanco di portarmi in spalla posso camminare».
«Come?»
Hidan la fissò con la coda dell’occhio, incredulo
«Pensi di
potermi fregare così facilmente, ragazzina?»
«No,
voglio solamente evitare che i Blackwatch ci sparino addosso non
appena saremo arrivati nell’androne. Potremmo fingere di star
portando via un commilitone ferito in seguito all’attacco di
Zeus... la tua divisa è anche strappata, sarebbe perfetto.
Io sono
un soldato di grado abbastanza alto per permetterci di uscire,
e...»
«Non
abbiamo né una barella né l’aria da
portantini, e il tuo amico
non porta nessunissima uniforme. E nemmeno tu, a dire il
vero».
«Mi
sorprende che assumano persone così sprovvedute
nell’esercito
degli Stati Uniti». Interloquì Kakuzu, dopo un
colpo di tosse
piuttosto roco.
«Io
sarò anche una sprovveduta, ma non mi pare che voi vi siate
organizzati meglio contro le armi del nemico. Dovreste conoscere il
Bloodtox, visto che ieri è stato diffuso in tutta la
città».
«Noi
possiamo anche conoscerlo, ma finora Zeus è
l’unico che è
riuscito a sviluppare un’immunità decente a questa
merda. Come
cazzo fate a sopportare questa puzza di carne marcia, voi umani? Ce
l’avete il naso?!»
Tenten
scosse il capo, afflitta. Ok, magari la sua strategia non era
propriamente grandiosa – dopotutto, avrebbe voluto vedere
chiunque
altro ad elaborare piani di battaglia a testa in giù sulla
schiena
di un mostro mutante – ma una volta che fossero arrivati
nell’atrio
i Blackwatch avrebbero potuto avvertire la minaccia e cominciare a
sparare.
E,
a differenza dei suoi simpaticissimi nuovi conoscenti,
lei e
Rock Lee non avevano il potere di rigenerarsi.
***
Aggrappata
alle spalle sottili di Sasori, la valigetta stretta in grembo con
l’ausilio maldestro della mancina, Hinata aveva una paura
tremenda.
Le
sembrava che il mondo scorresse attorno a lei ad una
velocità
semplicemente assurda, mentre l’infetto correva per i
corridoi dal
grattacielo e saliva rampe di scale con una celerità che non
avrebbe
mai supposto in un ragazzo dall’ossatura così
sottile,
apparentemente fragile. Eppure, riusciva a reggere il suo peso e
correre come se nulla fosse.
Accolse
con gioia il calore del sole, non appena sbucarono nel primo piano.
Si era trattenuta dal gridare quando avevano risalito la tromba
dell’ascensore – orribile, buia, anche se la
ragazza sapeva
perfettamente quanto gli occhi degli infetti vedessero bene al buio
–
ma nulla poté frenarla dal sospirare quando i raggi caldi e
luminosi
le accarezzarono la pelle.
Aveva
pensato, inconsciamente, che sarebbe morta lì, nei
sotterranei della
Gentek, e non avrebbe mai più rivisto il cielo azzurro che
invece
occhieggiava oltre i vetri delle finestre.
«Come
f-faremo ad uscire?»
«Prova
ad indovinare».
Sasori
era veloce, forte e silenzioso. I suoi passi non producevano alcun
rumore sui pavimenti di linoleum del palazzo, e il suo respiro
rimaneva impercettibile e calmo nonostante l’enorme sforzo a
cui
sottoponeva i muscoli.
Così,
quando entrarono nell’androne, i Blackwatch non li videro.
Fulmineo,
simile ad una saetta rossiccia, Sasori si spostò dietro le
colonne
della sala, attento a non destare l’attenzione di quei
soldati che,
sparuto gruppetto lasciato a sorvegliare l’entrata mentre il
grosso
delle forse si concentrava su Zeus, montavano la guardia al centro
dell’atrio.
I
suoi spostamenti erano notevolmente facilitati dalla nuvola di
Bloodtox rossiccio che, compatta, riempiva tutto l’ambiente.
Uscì,
così, senza esser visto.
Qualcuno
lo notò, sul piazzale. Udì le grida e qualche
sparo, ma era troppo
lesto perché dei marines impreparati potessero colpirlo; si
permise
di rallentare l’andatura e – infine –
concedersi una brevissima
pausa solo quando ebbe messo un paio di isolati tra se stesso e il
Gentek Palace.
Hinata,
a quel punto, lo guardò. Le sfuggì un mezzo grido.
«Ma,
la tua pelle... è completamente...»
«Lascia
fare, è il Bloodtox». Sasori la lasciò
poggiare i piedi a terra e
poi si accarezzò una guancia, coperta di vesciche
giallognole e
croste «Mi sto già rigenerando».
«C-capisco.
N-non dovremmo aspettare Zeus?»
L’infetto
annuì, lanciandole una breve occhiata indagatrice. Non si
fidava
affatto di lei.
«L’appuntamento
è a Central Park. È una zona infetta, ti conviene
prepararti».
«I-io
non ho p-paura».
«Ah,
sì?» L’espressione sul volto di Sasori
si fece beffarda
«Vedremo».
***
Kisame
era piuttosto soddisfatto della compagnia che si era trovato.
Matsuri
era dolce, piacevolmente spaventata e, soprattutto, aveva due tette
fantastiche; se avesse potuto fare una stima delle donne più
belle
che aveva conosciuto, soltanto la dottoressa pallida che per qualche
tempo aveva vissuto alla base poteva batterla.
Aveva
come la sensazione, però, che presto si sarebbe aggiunta
un’altra
concorrente in gara.
Non
aveva ancora idea di come avrebbe fatto a portare via due donne
insieme – soprattutto, non sapeva come Zeus avrebbe preso
quella
sua decisione del tutto autonoma – ma era assolutamente certo
che
non avrebbe mollato la ragazza con gli occhi da cerbiatta per nessuna
ragione al mondo.
Si
era rotto i coglioni di passare il tempo con gli indovinelli di
Zetsu.
I
laboratori in cui Ino Yamanaka stazionava si trovavano al piano -4,
relativamente in alto; evidentemente, quella donna non si occupava di
ricerche direttamente collegate al virus Idra, ma di progetti
d’ordine più comune. Che fosse stata lei a creare
quel gas
dall’orribile puzzo dolciastro che aveva invaso buona parte
dell’edificio?
«Ecco,
ci siamo». Lo informò Matsuri, accennando con la
testa alla porta
scorrevole d’acciaio che li separava dalla sezione
laboratori. Le
misure di sicurezza di quel posto erano veramente impressionanti,
pensò Kisame, peccato che fossero calibrate sugli standard
degli
esseri umani.
Gli
bastò un calcio per aprire la porta.
«La
stanza di Yamanaka-san è quella». Matsuri
indicò una porta tra le
tante che davano sul corridoio, e Kisame vi si diresse a passi
pesanti. Sperò che gli altri non avessero già
completato la propria
missione, o Zeus l'avrebbe spellato vivo.
Appoggiò
la grossa mano sulla maniglia e la tirò verso di
sé; quando si
sporse nella stanza, trovò ad accoglierlo un gruppetto di
persone in
camicie, apparentemente indaffarate intorno ad una serie di bancali
pieni di apparecchiature.
Riconobbe
Ino quasi immediatamente: era così bella che sarebbe stato
difficile
non notarla, con i capelli biondi trattenuti in una coda e i grandi
occhi azzurri puntati verso di lui.
Sorrise,
ed entrò.
"Non
puoi scappare per sempre".
_Angolo
del Fancazzismo_
*Compare
dal suo angolino buio, si avvicina al computer e sviene sulla
tastiera.*
Chi.
Ha. Parlato. Di. GRECO?
Ok,
non desidero in alcun modo tediarvi con i miei problemi personali,
ma... quante di voi hanno fatto il classico e ne sono uscite vive,
potete dirmi se imparare a memoria i verbi particolari dell'aoristo
secondo serve davvero a qualcosa, quando si trovano
sul
vocabolario in tutta tranquillità?
Non
riesco a trovare una risposta.
Fortuna
che c'è il fandom a risollevarmi il morale, ogni tanto.
DVnque,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto e non vi abbia spinto
eccessivamente al suicidio - come, invece, stanno facendo gli
aggiornamenti di Naruto con me.
Ridatemi
il vecchio Itachi, ridatemelo.
See
you soon,
Roby
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