Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Venerdì 3 Marzo - parte 1 *** Capitolo 2: *** Venerdì 3 Marzo - parte 2 *** Capitolo 3: *** Venerdì 3 Marzo - parte 3 *** Capitolo 4: *** Venerdì 3 Marzo - Midnight *** Capitolo 5: *** Passing Afternoon ***
Desclaimer: Sherlock, John, e
tutti gli altri personaggi della serie sono proprietà di Arthur Conan Doyle prima, e di Moffat e Gatiss dopo. Io non scrivo per scopro di lucro ma qualcuno
deve darmi una botta in testa, perché se continuo a creare cose di questo tipo
è un male per tutti.
Note:
Questa “cosa”, perché non ho il coraggio di chiamarla “fanfic”,
mi è stata ispirata da diversi telefilm – oltre all’insana passione per gli actionmovies di serie B.
Prima di tutto, le due
puntate a mio parere più belle di Dr.
House, le 4x15 e 16 (“La Testa di House” e “Il Cuore di Wilson”).
Poi, l’episodio 9 di Angel Beats
(“In YourMemory”).
Infine, le puntate 3x15,
16 e 17 di Grey’sAnatomy
(“Camminare sull’Acqua”, “Annegare sulla Terraferma” e “Una Specie di Miracolo”).
Il titolo è preso dalla
canzone “KeepBreathing” di
Ingrid Michaelson, che eleggo come ufficiale colonna
sonora della fic.
Saranno 4 capitoli e se l’angst non lo vedrete nei primi, negli altri due ve lo
troverete persino nei capelli. Vi ho avvertiti.
È meglio se dico, inoltre,
che userò personaggi miei ma non nei ruoli principali (lo dico perché
sono una di quelle persone che non li sopporta XD)
Ah, e infilerò un po’ di
simbolismo qui e là, dunque... lo so
che è una noia leggere le note a fondo pagina, ma questa volta potrebbero
servire, ok? È una questione di visione d’insieme (?).
A chi vorrà farsi del
male gratuitamente leggere, buona lettura ♥
Erano
le nove e trenta del mattino di un temperato venerdì 3 marzo.
Cosa
strana, per Londra. A quanto pareva un anticiclone piuttosto insperato era
riuscito ad allungare i suoi influssi fino alla Gran Bretagna facendo godere ai
londinesi, dopo un febbraio freddo e spesso spazzato da piogge e nevicate, la
prima settimana di timido sole.
Alcuni
dicevano che era precursore della primavera. John credeva che da lì alla
primavera ne passasse, di acqua sotto i ponti, ma evitò qualsiasi commento al
giornale che stava leggendo in favore di un rapido attraversamento della
strada.
Era
venerdì e, con la giacca aperta per godere a sua volta di quel sole marzolino,
John Watson si infilò velocemente giù per le scale della metropolitana di Lambeth.
A
dire il vero, nonostante il bel tempo quella giornata non era cominciata per
niente bene.
Il
suo adorabile coinquilino aveva deciso
che, finché Lestrade non gli avrebbe passato un caso
di qualche tipo, aveva l’assoluta necessità di giocare al piccolo chimico.
Anzi, al piccolo speziale.
All’alba
di quella mattina era rientrato al 221B con un mazzo di fiori. Petali grandi,
fra il fucsia ed il lilla, stelo lungo... erano belli.
Sì,
beh, erano belli ma erano papaveri. E non papaveri normali: papaveri da oppio.
Per
i primi cinque secondi si era chiesto dove diamine avesse trovato dei papaveri
in marzo e, poi, come diavolo avesse fatto a trovare proprio quei papaveri. Poi aveva lasciato
perdere ed era scattato in piedi, chiedendo spiegazioni, e quello, con la
faccia d’angelo e la voce di uno che crede fermamente di non stare facendo
niente di male, gli aveva risposto che aveva visto un film interessante su Jack
lo Squartatore e voleva sintetizzare il Laudano.(1)
Ora:
John era un soldato, un medico, ma soprattutto era coinquilino e amico di
Sherlock Holmes da quasi due anni, il che rende quasi banali le prime due
qualifiche citate.
Da
soldato aveva riconosciuto il papavero da oppio, da medico sapeva cos’era e a
cosa serviva il Laudano, da coinquilino ed amico gli impedì con tutta l’anima
di mettere nei guai lui e se stesso.
Sherlock,
bastano i pezzi di cadavere in frigorifero, aveva detto. Già quelli sono
illegali e Lestrade chiude un occhio, l’altro e pure
le orecchie. Non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno
ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga, aveva detto.
Il
moro si era voltato con espressione accigliata, osservandolo stranito. « Non faccio niente
di male » gli aveva
espresso con semplicità: « solo un
esperimento. Non è detto che lo usi » aveva aggiunto.
Scusami,
ma tendo a non credere ad un assuefatto di nicotina che non è eroinomane solo
perché ci è appena uscito, aveva risposto Watson. Da medico, Sherlock: dammi
quei fiori e trovati un altro passatempo.
E
questa era stata la fine della loro conversazione in toni normali. Dopo erano
passati gradualmente ad un sempre più elevato numero di decibel, tanto che mrs. Hudson era salita per vedere cosa stesse succedendo –
e per avvertire che stavano praticamente svegliando tutto il vicinato, dato che
erano le sette e un quarto.
John
aveva urlato di dargli quei fiori o se li sarebbe presi con la forza.
Sherlock
aveva sbottato che era un progetto ambizioso, da parte sua, ma che non ci
sarebbe mai riuscito per via della vecchia ferita alla spalla.
John
allora aveva risposto che aveva anche le gambe, e quelle erano sane.
Sherlock
aveva riso, dicendo che non ne aveva il coraggio, ma soprattutto il cuore.
John
gli aveva “gentilmente” ricordato che era stato in guerra, il cuore era in
grado di gestirlo.
Sherlock
aveva riso di nuovo.
John
aveva definitivamente perso la pazienza.
Certo,
si erano praticamente presi a pugni e lui si era guadagnato quattro dita della
mano di Holmes stampate sul polso in un livido bluastro, però almeno aveva
fatto il suo lavoro di “guardiano” liberandosi dei papaveri e si sentiva in
pace con se stesso.
E
adesso, praticamente dall’altra parte di Londra, anche dannatamente in colpa.
Se
ne era andato di casa senza dire una parola, scendendo le scale con passo
marziale e pesante, ignorando i commenti della padrona di casa e dirigendosi
dalla sua attuale ragazza, Kate, che per tutta risposta aveva deciso di
scegliere proprio quella mattina per piantarlo e dirgli di “tornare dal tuo
fidanzato, che sicuramente ha la tua attenzione molto più di me!” testuali
parole.
Chissà
perché era sempre colpa di Sherlock. Anche indirettamente. Anche a distanza. Wireless.
John
sospirò affranto sulla banchina della Bakerlooline, direzione Paddington.
Nonostante avesse dovuto essere arrabbiato con lui, per molti motivi che non
comprendevano solo il litigio, in realtà non faceva altro che crogiolarsi in
una colpa che sapeva di non meritarsi, ma non poteva farci niente.
Consapevole
che una volta salito sulla metropolitana non sarebbe stato più in grado di
usare il cellulare – in quei condotti non prendeva – lo estrasse dalla tasca
del cappotto e ne osservò lo schermo.
Per
un attimo si convinceva sempre che fosse Sherlock, a fare la prima mossa. Che
fosse l’altro ad ammettere i propri errori e a mandargli le sue scuse. Non
importava che telefonasse, tanto non lo faceva mai comunque; bastava un sms. Si
sarebbe accontentato.
Sarebbe
stato felice, John, per una volta. Per una volta non si sarebbe sentito lo
stronzo di turno, anche se aveva quasi sempre ragione.
Ma
sullo schermo c’era solo lo sfondo e lui, come al solito, si decise a scrivere
un sms all’amico per fargli delle scuse che, sempre come al solito, avrebbe
dovuto fare Sherlock a lui.
Era
diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.
“Mi dispiace per prima.” digitò: “Sono a Lambeth,
nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John” scrisse, inviandolo
subito prima che il rumore del treno in arrivo riempisse la galleria.
Ripose
il cellulare in tasca quando il convoglio si fermò e, aspettando l’apertura
delle porte, entrò nella pancia della metropolitana e si sedette sul primo
sedile disponibile. Fortunatamente a quell’ora i pendolari erano già tutti al lavoro,
dunque c’era relativamente poca gente.
Alzò
gli occhi sulla mappa delle fermate, seguendo con lo sguardo l’intera linea
fino a trovare Baker Street.
Sette
fermate e poi sarebbe finalmente tornato a casa.
Odiava
litigare con Sherlock.
• 221B Baker
Street, h. 9:30 am
Sherlock
Holmes se ne stava steso sul divano con una borsa del ghiaccio premuta sulla
spalla sinistra. Piccolo regalo d John. E si annoiava.
Lestrade sembrava essere in una nuova fase di
transizione psichica in cui molto probabilmente aveva preso la decisione di
provare a fare le cose per conto suo, dunque di cercare di smettere di chiedere
aiuto a Sherlock.
Ogni
tanto gli capitava. Si rendeva conto – inutilmente, pensava lo stesso Sherlock
– di non poter sempre telefonare a lui per risolvere i casi, ma allo stesso
tempo era anche consapevole che quei casi andavano oltre la sua capacità di
ragionamento.
Quindi
Lestrade ci provava, si bloccava, ci provava di nuovo
e, quando si rendeva conto di essersi bloccato ancora e sempre allo stesso
punto, si risolveva a chiamarlo.
Era
molto simile alle diete di suo fratello Mycroft. Ci
provava, a stare lontano dal cioccolato, ma poi ne aveva il bisogno e così lo
mangiava, consapevole di stare facendo uno sgarbo a se stesso ma perdendo
l’autocontrollo necessario a controllare i propri impulsi.
Fortunatamente
succedeva solo con il cioccolato. Considerando il lavoro che faceva, se perdeva
l’autocontrollo durante un meeting in Corea come minimo ci scappava la terza
guerra mondiale.
Rimaneva
comunque il fatto che finché Lestrade non si fosse
trovato in un cul de sac con il
caso in corso, la sua testardaggine gli avrebbe impedito di passarglielo.
Questo voleva dire niente da fare, ovvero noia.
In
più, ci si metteva anche John.
Si
sistemò meglio la borsa del ghiaccio sulla spalla, toccando cautamente la pelle
sotto alla vestaglia e sentendo un po’ di dolore sotto le dita.
Era
stato John a consigliargli la visione di qualche film per combattere almeno due
ore di tedio esistenziale, e seguendo questo suo spudorato consiglio – doveva
proprio essere arrivato all’ultima spiaggia – aveva noleggiato un dvd su Jack
lo Squartatore.
C’era
il Laudano, e per passarsi il tempo aveva pensato che fosse una cosa
interessante cercare di sintetizzarlo. Magari gli sarebbe stato utile, in un
prossimo futuro, non si poteva mai dire. Dopotutto avevano già cercato di
avvelenarlo una volta, e se era vero che l’organismo si abituava ai veleni se
vi era un’ingestione costante di piccole quantità assolutamente sicure per la
salute, allora il Laudano poteva davvero fare al caso suo.
Da
un contatto aveva avuto persino i papaveri da oppio, per essere sicuro di avere
dell’oppio autentico ed evitare di ritornare nel giro di spacciatori che aveva
lasciato tempo prima (non tanto, ma comunque passato).
Gli
sembrava di aver fatto tutto con cura. Con minuziosità. Tutto per evitare che
John potesse trovare appigli con cui fargli una delle sue solite filippiche su
ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, sugli esperimenti innocui e su
quelli che lui chiamava “potenzialmente pericolosi per la salute umana”, salvo
poi catalogarli buttali-via-e-basta quando lui gli
aveva fatto notare che l’uso dell’avverbio “potenzialmente” significava che non
lo erano del tutto o nell’immediato.
Ovviamente
aveva pensato troppo in grande.
John
non aveva cercato il pelo nell’uovo obiettandogli la purezza dei materiali di
base, ma si era semplicemente fermato sul guscio dello stesso uovo dicendogli “non
ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora,
qualsiasi cosa che assomigli ad una droga”.
Fissando
gli occhi sul soffitto, Sherlock sospirò.
Non
era sua intenzione litigare. Non lo era stato all’inizio e non lo era stato
nemmeno dopo, quando effettivamente John aveva perso la pazienza e aveva alzato
la voce. Lui voleva solo passarsi il tempo con un esperimento interessante.
Arricciò
le labbra, disturbato dal pensiero che John fosse arrabbiato con lui, ma non
gli diede peso.
Sapeva
esattamente come sarebbe andata. Ancora prima di tornare a casa, John avrebbe
ceduto ai suoi sensi di colpa e gli avrebbe chiesto scusa – ovviamente a
ragione. Probabilmente per sms.
Lui
non avrebbe dovuto fare altro che cercare dei nuovi papaveri da oppio e
proseguire con il suo esperimento, sopportando come unica cosa i sospiri
rassegnati di John – cosa che già faceva benissimo.
Sì.
Sarebbe stato come ogni volta.
Quasi
predisse, addirittura, il momento in cui il suo cellulare squillò un messaggio.
Ma Sherlock non si mosse per due ragioni: la prima, era che sapeva
perfettamente chi era, ovvero John che si scusava; la seconda, era il fatto che
il cellulare fosse sul tavolo di fianco ai loro notebook, il che voleva dire
alzarsi dal divano.
Avrebbe
aspettato il rientro di John per farsi passare il cellulare e leggere le scuse.
Sempre se fosse tornato in tempo breve – quasi sicuramente prima delle dieci e
mezzo, secondo i suoi calcoli, ma era sicuro solo per l’ottanta percento.
Seccato,
soffiò dal naso.
Odiava
litigare con John.
• The Tube;
Waterloo Station (underground), h. 9:34 am
Il
treno si fermò alla stazione di Waterloo, facendo scendere e salire i vari
passeggeri. Rimase fermo per qualche minuto poi, con il solito segnale che
avvertiva della chiusura della porte, riprese la corsa verso Enbankment, la stazione successiva.
John
si guardò attorno distrattamente, distogliendo lo sguardo dal giornale che
aveva riaperto per passarsi il tempo durante la corsa. Non erano molti i
passeggeri che attiravano la sua attenzione, se non una madre con sua figlia e
l’aria famigliare di un ragazzo con la divisa dell’esercito, la stessa che
aveva indossato anche lui per tutta una vita.
Scostando
subito l’attenzione dal ragazzo, e riportandola sul giornale, sorrise
amaramente.
Quando
era tornato dall’Afghanistan aveva avuto per molto tempo la convinzione di
essere ormai alla frutta. Era tormentato dagli incubi e dal proprio cervello,
dato che soffriva di una zoppia inesistente, ma sentiva ancora quella pulsione
sconsiderata che lo aveva portato ad arruolarsi subito dopo la laurea, la
stessa voce nella testa che gli presentava la vita militare come l’unica
alternativa, come l’unica via di fuga.
A
volte, nel cuore della notte, quando Sherlock non suonava il violino o non lo
teneva sveglio con i suoi ragionamenti... la sentiva ancora.
Sussurrava
nell’ombra. Gli mostrava, come una musa, scenari in cui si vedeva mollare di
nuovo tutto e andare a dimostrare ai responsabili di reclutamento che non era
un invalido, uno zoppo, un uomo inutile.
Si
vedeva con di nuovo addosso quella divisa, di nuovo con le mani imbrattate di
sangue che suturavano una ferita da arma da fuoco in mezzo alla polvere, di
nuovo a scostare con lo stivale sabbia e sassi durante il turno di guardia.
Sorrideva,
in quei momenti. Sorrideva perché, complici i suoi pensieri, credeva davvero
che una cosa del genere fosse ancora possibile.
Poi,
pensava a Sherlock. Rifletteva. Usava la mente, per una volta seguendo le
istruzioni del suo amico... e allora smetteva semplicemente di vedersi addosso
quella divisa e, con la mente, la riponeva dov’era in realtà sempre rimasta: in
una busta di plastica dentro l’armadio.
Sherlock
sarebbe morto di sicuro, senza di lui. Se lo sentiva.
Un
giorno avrebbe aperto il frigorifero, affamato e al limite della propria forza
fisica, sperando di trovare una spesa che in realtà nessuno aveva fatto, e
sarebbe morto di fame.
Oppure
avrebbe sintetizzato tutta una mensola di veleni e una mattina, annoiato dalla
mancanza di un caso, ne avrebbe provato uno e ci avrebbe lasciato la pelle.
Altrimenti
se lo vedeva di nuovo a prendere una pillola potenzialmente mortale solo per
provare la sua intelligenza. O catturato in un altro giochino con Moriarty e svariati chili di esplosivo. O cadavere da
qualche parte, per strada, ucciso da chissà cosa o chissà chi, morto per chissà
cosa e chissà quanto, spirato per chissà quale causa naturale o umana o aliena.
Tutti
scenari che, per quanto improbabili, una volta conosciuto Sherlock Holmes
acquistavano una loro sconcertante concretezza.
Scosse
il capo, ridendo di se stesso. No, non poteva andarsene. Alla fine finiva
sempre per dirselo.
Aveva
paura di pensare dove sarebbe finito Sherlock, senza di lui. E non lo diceva
per egocentrismo.
Mentre
la metropolitana prendeva velocità sotto di lui, staccò la mano destra dal
giornale per estrarre il cellulare dalla tasca. Non c’era nessun messaggio,
nessuna risposta e nemmeno campo; lo sapeva, non lo aveva sentito né suonare né
vibrare, tuttavia la speranza che Sherlock avesse risposto al suo sms, per
quanto minima, aveva comunque un suo posto speciale in un angolo della sua
mente e, anche se odiava ammetterlo, nel suo cuore.
Così
come lo aveva Sherlock.
Sospirò.
Accidenti John Watson, passi da un casino
all’altro pensò, parlando silenziosamente con se stesso.
Poi,
all’improvviso, tutto cambiò.
Avevano
lasciato da poco la stazione di Waterloo, giusto qualche minuto, forse due, e
il treno prese a vibrare violentemente sotto di loro. Tutti gli occupanti del
vagone si guardarono intorno, spaesati.
Se
fossero stati fermi e non in movimento costante, John avrebbe detto che si
trattasse di un terremoto a giudicare dalla violenza delle scosse che aveva il
vagone. Oscillava persino, scuotendo i passeggeri che cominciavano a
preoccuparsi, ad esclamare parole di sorpresa e, perché no, di paura.
Poi,
la frenata improvvisa. Come passare da 100 a 0 nell’arco di pochi secondi. Fu
preceduta da un forte scossone, poi da un sibilo acuto e fastidioso di acciaio
che stride contro altro acciaio, dopodiché l’accelerazione del vagone si fermò
di botto, sbalzando tutti i passeggeri in avanti con una forza inaudita.
Ma
non finì lì.
Subito
dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a
causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso,
nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri
che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al
convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio
nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la
mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era
inizialmente accomodato.
Si
sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli
occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
Un
rumore fortissimo coprì gli altri suoni sentiti in precedenza, il suo corpo
veniva sballottato avanti ed indietro senza direzione alcuna e lui perse
completamente il senso dell’orientamento quando la mano gli si staccò, per
forza di cose, dal suo appiglio in metallo.
Accompagnato
dall’odore di bruciato e dalla sensazione di stare per morire, pensando a tutto
e a niente e ad Harry e a sua madre e a Sherlock
in quegli ultimi istanti, in quei momenti in cui “Cristo, non sono
sopravvissuto alla guerra per morire così!”, lasciò andare la presa anche sulla
propria coscienza.
Il
buio lo inghiottì.
• TfL Headquarters, BCV, h. 9:40 am
Michael
Crew, trentanovenne di un metro e ottanta con tanti
capelli neri e qualcuno bianco, era comodamente seduto nel suo ufficio e stava
mangiando un cornetto alla crema con una mano mentre controllava la posta con
l’altra.
Pubblicità,
pubblicità, lettera di raccomandazione. Pubblicità, curriculum, curriculum,
avviso di garanzia (« oh, accidenti...
il caso Peters»), pubblicità, pubblicità, avviso di
pagamento, lettera della banca, curriculum, curriculum, morso al croissant e relativa
goduria gustativa, pubblicità e pubblicità. Diede un altro morso alla colazione
come degna chiusura, scrollandosi qualche briciola dalla cravatta blu a trama
incrociata.
Buttò
direttamente le lettere di pubblicità nel cestino senza nemmeno aprirle, mise
l’avviso di pagamento e l’avviso di garanzia di fianco al computer e impilò i
curriculum sopra agli altri dieci che erano arrivati negli ultimi sei giorni.
Avrebbe dovuto dire alla segretaria di aprirli, rispondere qualcosa tipo “siamo
spiacenti ma non è sufficientemente qualificato e/o non ci sono posti
disponibili per la mansione per cui ha fatto domanda” e rispondere a tutti di
cercarsi un altro lavoro. Si dimenticava sempre, maledizione.
Aveva
appena terminato il croissant e stava per appoggiare le labbra sulla sua prima
tazza di tè della giornata – English Breakfast con un goccio di latte, da vero
inglese! – quando il trillo violento del telefono lo distolse dalle sua intenzioni.
Sbuffando,
prese malamente la cornetta.
« Ufficio BCV, Crew» rispose seccato
con il proprio cognome.
Rimase
in ascolto per qualche istante, massaggiandosi con pollice ed indice della
sinistra l’attaccatura del naso. « Arriva al dunque, cosa diamine è
successo?! » sbottò poi, come
ogni capo ufficio che si rispetti fa quando gli impiegati interrompono la solita
routine mattutina.
Ad
un certo punto, sgranò gli occhi. « Cos... cos’hai detto che è...? » balbettò,
incapace di accettare ciò che gli era appena stato detto dall’altro capo della
linea.
Probabilmente
gli venne ripetuto, perché Michael Crew sbiancò.
Lasciò
penzolare la cornetta dalla scrivania, uscendo di corsa dall’ufficio e
cominciando a fare lo slalom fra i vari corridoi della struttura fino ad
arrivare all’ufficio interessato, quello del movimento ferroviario della Bakerlooline, aprendo la porta
con un botto e mettendosi direttamente di fronte alla persona che solo pochi
secondi prima stava parlando con lui al telefono.
« Ripetimelo... » soffiò, a dir
poco terrorizzato e a tanto così dal panico.
L’impiegato,
fissando alternativamente il capo e i due compagni d’ufficio se possibile
ancora più pallidi di lui, deglutì.
« È... È deragliato
un convoglio sulla Bakerloo, signore. Fra Waterloo ed
Enbankment... signore » sibilò. Sembrava sul punto di
svenire. O di vomitare.
Michael
Crew alzò lo sguardo, smettendo di respirare. Solo in
quel momento si rese conto che tutti i sacrosanti telefoni del piano, in tutti
i sacrosanti uffici, stavano squillando come impazziti e i dipendenti degli
uffici a fianco che lo avevano visto passare si erano affacciati alla porta, in
attesa di sapere cosa fare, o anche solo di una conferma.
Deglutì
a vuoto.
« Chiamate le forze
dell’ordine... » biascicò,
riuscendo tuttavia a farsi sentire a causa del silenzio di tomba caduto fra le
persone presenti: « ...avvertite i
capostazione di Waterloo ed Enbankment di negare
l’accesso ai pendolari, dite loro di svuotare le banchine e di collaborare con
la polizia... » poi, mentre
parlava, prese coraggio: nei suoi occhi un lampo furioso di rabbia mista a
panico, nel suo sangue un livello di adrenalina che avrebbe fatto risorgere un
morto: « voglio... anzi
no, pretendo sulla mia scrivania i
tabulati di movimento della Bakerloo. Spostamenti
civili, treni, carrelli a motore, spostamenti del personale, tutto! » esclamò, e ogni volta che parlava
qualcuno annuiva e si attaccava al telefono.
« Chiamate gli
addetti alla manutenzione della linea e chiedete loro di entrare nei tunnel e
sincerarsi delle loro condizioni strutturali. Dobbiamo sapere se ci sono
cedimenti, crepe, pezzi di calcinaccio staccati, scricchiolii, qualsiasi cosa!
Voglio sapere anche quanti ragni ci sono attaccati al muro, tutto chiaro?! ».
« Sì! » rispose una voce
femminile, prima che tutti si disperdessero e tornassero nei rispettivi uffici.
Mentre
usciva a passo spedito dall’ufficio del movimento per tornare nel proprio,
Michael Crew si ripeteva di non credere ai presagi.
Non
credeva nella stranezza di una giornata così mite ad inizio marzo, non credeva
nel gatto nero che gli aveva attraversato la strada quella mattina uscendo dal
vialetto di casa, non credeva nel sale che aveva rovesciato la sera prima a
cena e non credeva che fosse stata tutta colpa della scala sotto cui era
passato prima di entrare in sede.
Shithappens, dicevano.
...Ora
ci credeva.
• New Scotland
Yard, h. 9:45 am
Il
Detective InspectorLestrade digitò le ultime frasi del rapporto,
rileggendo il periodo e annuendo con soddisfazione. Controllò una seconda volta
la forma lessicale, la correttezza dei termini specifici e l’elenco delle varie
procedure effettuate. Controllò che tutti i documenti descritti fossero
effettivamente presenti nel fascicolo del caso e, una volta stampato, firmò il
rapporto e lo allegò al faldone.
Indagini
concluse, e questa volta aveva fatto tutto da solo. Il colpevole aveva
confessato, si era guadagnato il suo avvocato d’ufficio e tutta quella storia
sarebbe finita in tribunale, cioè fuori dal suo ufficio, dalla sua sezione e
dalla sua responsabilità.
Sorrise
soddisfatto, infatti, richiudendo il fascicolo. Lo mise sul mobile accanto alla
posta in uscita e, stiracchiandosi le spalle e le braccia, si conferì due
minuti di pausa prima di mettere le mani sulla posta in entrata.
Non
fece nemmeno in tempo ad alzarsi per andare a prendersi un caffè, che Sally
Donovan entrò nel suo ufficio come una furia, aprendo la porta senza bussare e
precipitandosi davanti alla sua scrivania.
Ora,
va bene che le ante erano di vetro, ma non gli sembrava che bussare fosse
passato di moda.
« Sergente, non
crede di dover... »
« Ispettore,
abbiamo un problema » lo interruppe
però la donna, palesemente agitata e con il respiro pesante.
Poche
volte Gregory Lestrade aveva visto quell’espressione
in faccia alla collega. L’ultima volta se la ricordava ancora. Era novembre e
più di quarantamila studenti avevano improvvisamente deciso che una
manifestazione pacifica non bastava, per far sentire la loro voce.(2)
Lestrade le prestò ascolto.
« È... deragliato
un treno della Tube. Sulla Bakerloo. Tra Waterloo ed Enbankment» disse lei, seria e professionale nonostante fosse
palese che la notizia la disturbasse.
Se
lo ricordavano tutti l’attentato terroristico alla metropolitana, da quelle
parti. E non era un bel ricordo.(3)
Il
cervello di Greg andò subito a cercare, nella memoria, la piantina di Londra e
localizzò il punto della linea dov’era avvenuto l’incidente. Interiormente,
rabbrividì.
« Sotto al
Tamigi... » mormorò, Donovan
annuì in silenzio.
« Chiama l’anti-terrorismo
e l’unità anti-crisi » disse poi,
alzandosi dalla sedia e recuperando il cappotto: « e dai ordine ai comandi di polizia
più vicini di chiudere le strade per le due stazioni, la linea ferroviaria
della Upperground in parallelo e di fare sgombrare
gli edifici pubblici delle vicinanze. Dì a Foster di contattare i paramedici e
di creare un collegamento costante via radio fra noi, gli ospedali e la TfL, soprattutto
la TfL» ordinò, incamminandosi nel contempo fuori
dalla stanza e lungo il corridoio già più confusionario del solito: « voglio un loro
responsabile ad Enbankment, vado lì anche io. Raggiungimi
appena puoi » le disse,
andandosene senza nemmeno aspettare il cenno d’assenso della donna, che ritornò
indietro cominciando ad urlare ordini a destra e a manca.
Uscendo
da New Scotland Yard ed infilandosi in una delle automobili dirette a sirene
spiegate verso il centro della città, Lestrade pregò
silenziosamente qualsiasi entità superiore in ascolto che fosse solo tutto fumo
e niente arrosto.
Aveva
una brutta sensazione. Sperava veramente di sbagliarsi.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment, h. 9:42 am
Era
steso a terra in mezzo alla sabbia, gli occhi puntati al cielo. Si era
dimenticato come respirare.
Si
stava dimenticando anche come vivere.
Watson! Watson!!
Lo hanno colpito,
chiamate un medico!
John, devi resistere,
ok? Ti portiamo via da questo inferno, ma devi resistere! John!
Chi cazzo è
stato?!
Siamo in guerra,
per l’amor di Dio! Secondo te chi è stato?!
Watson! Watson
resisti!
John, John
guardami. Guardami!
È di un
kalashnikov... dobbiamo muoverci o non ce la farà!
Sentiva
le voci distanti dei suoi commilitoni, come se fossero all’estremità opposta di
un lungo e vuoto tunnel e rimbombassero da lontano, da giù in fondo.
Fissava
il cielo, John, e con gli occhi che cominciavano a lacrimare per la luce forte,
sempre più forte e bianca, candida, sentì alcune mani togliergli la divisa,
toccargli il petto, le spalle, tenergli ferma la testa.
Dolore.
Luce. Dolore... luce.
Non
riusciva a respirare. Lui non respirava e quelle voci continuavano a chiamarlo.
“Lasciatemi”,
avrebbe voluto dire. Ma non riusciva nemmeno a parlare.
Lasciatemi
qui. Non si sta male, qui. In mezzo alla luce.
Poi,
le voci cambiarono.
Mamma! Mamma!
Cristo, ma cosa...
cosa cazzo è...
Oh Dio! Cristo,
Signore! Aiuto! Aiuto!!
Mamma, mamma,
mamma!
Urla,
gemiti, ansiti e lamenti. Lacrime. Pianti.
Era
steso a terra in mezzo a cocci di vetro, gli occhi puntati ad una lampada al
neon dalla luce fredda e instabile. Si era dimenticato come respirare.
Ma
quello non era l’Afghanistan.
Aprì
gli occhi completamente, ritrovandosi davanti la luce tremolane ed incerta di
un neon scoperto, a circa cinquanta centimetri di distanza dal suo viso. L’udito
era terribilmente ovattato, riusciva a sentire solo il proprio respiro nelle
orecchie, unito al battito del cuore, assordante. Era steso sul fianco destro
e, ne era sicuro, la sua guancia appoggiava sul pavimento scuro a scanalature
sottili della metropolitana di Londra.
Gli
tornò tutto in mente con una violenza allarmante.
Non
ci volle molto per farsi un’idea di cosa fosse successo.
Aprendo
del tutto gli occhi e mettendo bene a fuoco la sua situazione, mosse lentamente
la testa e si guardo intorno.
Non
sapeva come, ma era stato sbalzato praticamente in fondo al vagone, che sembrava
essere appena inclinato sulla destra dell’asse principale. Era disteso nel
punto in cui esso, probabilmente, era andato ad infilarsi sotto al vagone
precedente che ne aveva corrotto la forma, schiacciando il soffitto verso il
pavimento tanto che le ultime due luci al neon erano a meno di un matro dalla pavimentazione, da quanto erano rientrate.
E
John ci stava proprio nel mezzo.
Ebbe
subito l’istinto di togliersi da quel punto – un’irrazionale timore di rimanere
schiacciato – e, aiutandosi con le mani, strisciò all’indietro, togliendosi
dall’ “imbuto”.
Si
mise poi seduto, gradatamente. L’udito tornò quasi del tutto.
La
situazione attorno a lui era degna di uno dei film d’azione che guardava la
sera tardi, di sabato, quando rientrava a casa e magari Sherlock non c’era o
era in camera sua con la porta chiusa. Ne aveva visti molti basati su incidenti
ferroviari ma mai, mai avrebbe pensato di fare parte di uno di questi, un
giorno.
Eppure,
eccolo lì. Non poteva essere nient’altro.
Intorno
a lui, la maggior parte dei passeggeri era stesa a terra, incosciente. I vetri
dei finestrini erano quasi del tutto esplosi, solamente uno aveva resistito e presentava
solo un’intricatissima ragnatela di crepe. Per terra i cocci di vetro formavano
un campo di schegge taglienti e, fra di esse, macchie di sangue più o meno
abbondanti facevano da cornice a quello che era divenuto il suo incubo più
recente.
Seduto
a terra, ancora intontito dall’incidente e incapace di stabilire le proprie
condizioni fisiche e mentali, John Watson sentì la coscienza traballare.
Alla
sua destra, un soldato stava riaprendo gli occhi in quel momento.
Poco
avanti a lui, una bambina era inginocchiata sui frammenti di vetro temperato e
scuoteva la madre, pregandola di svegliarsi attraverso la pronuncia continua a
spaventata del suo nome.
Poco
più in là, infine, una ragazza era in preda al panico con un pezzo di metallo
infilato nella coscia, i jeans sporchi di sangue.
Loro,
erano le uniche persone che davano segni di vita.
No...
quello non era l’Afghanistan.
• 221B Baker
Street, h. 10:30 am
La
signora Hudson salì di fretta i diciassette gradini che separavano il pian
terreno dall’appartamento al primo piano, faticando per l’età ed ignorando l’anca
dolorante.
Arrivata
sul pianerottolo aprì la porta, riprendendo fiato e guardandosi intorno alla
ricerca dell’unico dei due coinquilini che sapeva essere presente.
E
che infatti trovò sul divano, gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento,
la borsa del ghiaccio che gli aveva dato almeno un’ora prima ormai sciolta.
Stava
pensando, probabilmente. Si sarebbe arrabbiato, ragionò la padrona di casa, ma non aveva scelta.
« Sherlock, caro? » chiese, in piedi
a poca distanza da lui.
Quello
non rispose.
Lei
tentò di nuovo. « Sherlock? » chiamò, più
agguerrita.
«Signroa Hudson, sto pensando. La pregherei di tacere » gli rispose
allora Sherlock, senza nemmeno aprire gli occhi.
Cosa
che mise la cara signora sul piede di guerra. « Penserà più tardi! Guardì qui! » si lamentò,
agguantando il telecomando della televisione e accendendola su di un canale a
caso.
Lo
speaker di un telegiornale stava parlando con tono nasale e conciso, leggendo
alcuni fogli che teneva in mano e che venivano costantemente sostituiti con
informazioni supplementari.
Bastò
la considerazione che erano le dieci e trenta del mattino, e che a quell’ora
non c’erano di certo telegiornali, a destare l’interesse dell’uomo sul divano.
Holmes
si mise seduto, lasciando che la borsa del ghiaccio cadesse sul tappeto. Fissò
gli occhi sul mezzobusto dai capelli trifolati chiuso in un colletto inamidato
e chiuso da una cravatta bordeaux.
« È un’edizione
straordinaria... » gli disse la
donna, il telecomando ancora in mano: « ...è così su tutti i canali. Credo che
sia successo qualcosa di grave » sentenziò.
« Alzi il volume,
signora Hudson » disse allora Sherlock,
ora completamente assorto da quella stranezza.
All’azione
della donna, la voce dello speaker si fece più chiara. «...entità del danno. È un punto rischioso
per le squadre di soccorso, perché il tunnel passa direttamente sotto al
Tamigi, in una galleria sotterranea sovrastata da almeno sei metri d’acqua e
fanghiglia. Un solo cedimento potrebbe riempire il tunnel d’acqua. Ancora non
sappiamo se si può o meno parlare di attentato terroristico, ma le squadre di
New Scotland Yard sono già al lavoro per...».
Sotto,
in una striscia in sovrimpressione che si spostava dal lato sinistro a quello
destro del teleschermo, una frase diceva: “incidente nella Tube, treno deraglia
sulla BakerlooLine”.
« Waterloo ed Enbankment» sussurrò Sherlock, assottigliando gli occhi.
Mrs.
Hudson si voltò ad osservarlo. « Cosa, caro? » chiese, un poco distratta dall’ancorman.
« Sta parlando di
tunnel subacqueo, e l’incidente è avvenuto sulla Bakerloo,
c’è scritto. Le uniche fermate collegate da un tunnel sotto al Tamigi sulla BakerlooLine sono Waterloo ed Enbankment» spiegò velocemente.
A
volte dimenticava che stava parlando con Sherlock Holmes, la persona che sapeva
a memoria persino i sensi unici e i divieti d’accesso di tutta Londra. Le linee
della metropolitana dovevano essere persino banali, da imparare a memoria, per
lui.
Stava
per dire qualcos’altro ma, come se fosse fatto apposta, il cellulare di
Sherlock prese a squillare. Non terminò il secondo squillo che Sherlock aveva
già accettato la chiamata e si era portato il telefonino all’orecchio.
« Sherlock Holmes » aveva risposto.
«Sono io » disse la voce famigliare di Lestrade dall’altra parte, semi-coperta da rumori di sirene
e di persone che gracchiavano ordini ed informazioni: «pensi di essere disponibile per le prossime
ore?» gli domandò, la
voce seria, di un tono che Sherlock non aveva mai realmente sentito.
« La metropolitana?
» domandò Holmes,
conciso.
Gli
sembrò quasi di vedere Lestrade annuire, dall’altra
parte della linea. «ci siamo trovati davanti ad una situazione
particolare. Mi servi... in fretta» gli disse, probabilmente mangiandosi una buona
parte d’orgoglio.
Cosa
che faceva comunque ogni volta.
« Arrivo » disse Sherlock,
chiudendo la telefonata e volando in camera a cambiarsi.
Preso
dalla foga, non lesse il messaggio che John gli aveva mandato, lasciando
semplicemente che l’avviso “un nuovo sms” rimanesse immobile sullo schermo del
telefonino quando se lo mise nella tasca del cappotto, uscendo di casa con la
solita fretta di chi ha, finalmente, qualcosa da fare per le mani.
*
ho scritto i luoghi di riferimento in inglese per gusto personale, ma li spiego
per dare una mano a chi mastica poco la lingua.
-
la metropolitana londinese si chiama "London Underground"
(underground = sottoterra, sottosuolo) ma loro la chiamano "The Tube"
(il Tubo). Dunque, con "The Tube" mi riferisco alla metropolitana.
-
La TfL (Transportfor London) è l'agenzia che si occupa dei servizi di
trasporto di Londra. Per la gestione della metro essa è divisa in 3 centri, quello
che controlla la BakerlooLine
è il BCV.
-
La dicitura "Waterloo > Enbankment" si
riferisce al tratto di galleria fra le due stazioni citate.
1.
Il film è "FromHell",
dove Johnny Depp interpreta un ispettore Abberline
dedito all'oppio. Il Laudano invece è una sostanza ricavata mescolando l'oppio
in una soluzione di acqua ed alcool con l'ausilio di alcune spezie. E' tossica
in grandi quantità (anzi, è propriamente un veleno) ma in quantità minori da un
effetto allucinogeno. Molti artisti ed intellettuali dell'800 usavano berne
qualche goccia mescolato all'assenzio.
Ah,
non sperateci. In Italia è illegale ;D
2.
Riferito ai disordini causati dagli studenti per protestare contro l'aumento
spropositato delle tasse universitarie, il 12 novembre 2010.
3.
Il 7 luglio 2005, una cellula terroristica di Al Quaida
fa esplodere tre vagoni di tre diversi treni della metropolitana (due sulla CircleLine e uno sulla PiccadillyLine) e un autobus a
due piani. 56 vittime in totale.
Note:
ok, c’è da dirlo: io non sono un medico. Non la studio nemmeno di striscio.
Tutto quello che farò fare a John, che in questo capitolo si da al primo
soccorso, deriva un po’ dalle mie conoscenze di carattere generale, da Dr. House – MedicalDivision e da Wikipedia.
Tuttavia potrei sbagliare tutto, perciò avverto prima che è pura licenza
poetica xD
Non
è detto che tutte le cose che gli farò fare siano giuste, dunque non prendetelo
per oro colato, ecco.
Mi
sono accorta di non aver specificato a che punto della serie è più o meno
inserita la fanfic. Beh... potrebbe essere inserita
ovunque, ma conoscendomi farò sicuramente dei riferimenti. Dunque direi che è a
metà fra la 2x02 e la 2x03 (in ogni caso, prima di Reichenbach
per forza di cose). Non comporta particolari spoiler per chi non le ha ancora
viste, comunque.
Beh...
il capitolo è lunghetto, ma spero mi perdonerete per questa volta. Magari vedrò
di trattenermi nei prossimi due, ma non avevo voglia di tagliarlo D:
Per
il resto, a voi il secondo capitolo. Buona lettura!
La
ragazza urlava furiosamente ogni volta che le mani di John strappavano un altro
piccolo pezzo di jeans nel tentativo di esporre la ferita. Il medico, dal canto
suo, anche cercando di essere il più delicato possibile sapeva con certezza che
avrebbe continuato a farle del male finché non avesse potuto vedere bene la
situazione.
« Mi dispiace, ma
non c’è molto che io possa fare in queste condizioni... » cercò di scusarsi
Watson, strappando a tradimento altre due centimetri di stoffa.
« Questo me lo ha
già detto! » sbottò ancora la
ragazza, la fronte imperlata di sudore sotto i corti capelli neri: « ma devo scaricare
lo stress, quindi se non vuole che mi aggrappi ai suoi capelli e tenti di
strapparglieli mi lasci gridare e basta! » replicò, stringendo gli occhi scuri in un
gemito sofferto quando John strappò un altro centimetro di tessuto zuppo di
sangue.
Il
dottor Watson si fermò ad osservare la situazione solo quando ritenne di aver
aperto a sufficienza la gamba dei pantaloni della giovane. Nella coscia era
conficcata una sottile spranga di ferro, che passava da una parte all’altra
dell’arto in una lacerazione tutto sommato pulita. Sanguinava, ma dalla minima
quantità fuoriuscitane constatò che il pezzo di metallo avesse per lo meno
scansato l’arteria femorale.
« Ok, adesso mi
serve un laccio emostatico... » borbottò tra sé e sé, gettando una rapida occhiata
alla ragazza, ansimante e pallida a causa del dolore.
Non
sapeva nemmeno lui come aveva fatto a riprendersi così velocemente
dall’incidente. Probabilmente la guerra lo aveva formato dal punto di vista sia
medico che forense, dato che si era subito messo in azione non appena aveva
notato che le persone ancora coscienti presentavano delle ferite.
E
come potevano non esserlo, dopotutto?
Aveva
dovuto assegnare delle priorità, dato che era l’unico medico presente, e ancora
una volta il suo cervello aveva fatto tutto da solo, richiamando alla mente i
manuali di medicina studiati a scuola e la vastissima esperienza di medicazione
sul campo che l’Afghanistan gli aveva inculcato per forza di cose.
Incamminandosi
verso un uomo steso immobile a terra – non aveva ancora contato quanti fossero,
effettivamente, le persone che non si muovevano o non mostravano segni
tangibili di vita... – appoggiò due dita della mano destra, sporche di sangue
della ragazza, sullasua carotide.
Non
pensava di trovare battito, ed in effetti non lo trovò.
« Dottore, anche la
madre di questa bambina ha bisogno d’aiuto! ».
La
richiesta veniva da un ragazzo dietro di lui, un giovane che sembrava non avere
nemmeno venticinque anni, che indossava una divisa militare. Non riusciva a
muovere un braccio ma si era comunque diretto verso la bambina che, piangendo e
strofinandosi gli occhi con le manine sporche, continuava a chiamare la madre
nonostante il soldato l’avesse abbracciata e stesse tentando di consolarla.
Inizialmente,
John li ignorò.
« Dottore, la
prego! »
« Senti bello, la
mocciosa non ha una cazzo di spranga piantata nella gamba, quindi vedi di
chiudere quella bocca! » sbottò senza
controllo la ragazza, sovrastando la risposta di certo più pacata che John era
intenzionato a fornire al soldato.
Quello,
ovviamente, non la prese bene. « È soltanto una bambina! » obiettò,
sconvolto.
« Sì, ma questa non
è soltanto una gamba! È la mia gamba! E c’è una spranga che la
trapassa! ».
« ADESSO BASTA! ».
L’urlo
di John sovrastò le voci delle due persone, il pianto della piccola e persino
ogni minima intenzione di ribattere. Aveva usato il tono tipico di chi comanda,
quello che molte volte aveva tirato fuori a Kabul con il suo plotone, e quelle
parole rimbombarono all’interno del vagone, facendo fischiare il metallo
ammaccato di cui era composto.
Watson,
armato di una pazienza straordinaria e di un senso della responsabilità fuori
misura, fissò i suoi occhi in quelli verdi del ragazzo, squadrandolo.
« Senti, lo so che
è una brutta situazione, ma lei ha ragione » disse, indicando la ragazza sanguinante
con un cenno del capo: « ha una brutta
ferita e potrebbe anche morire dissanguata. È mia intenzione aiutare chiunque
ne abbia bisogno ma ci sono delle priorità da rispettare, ok? » disse, con tono
di voce più basso, lievemente più calmo.
Il
soldato annuì mentre la donna si riservò di osservarlo con occhi a metà fra il
preoccupato e lo spaventato. « Dissanguata...? » mimò con le labbra, senza tuttavia dirlo
a voce alta.
John
chiuse gli occhi con un sospiro; l’adrenalina e l’emergenza della situazione
gli impedirono di perdersi nel lato morale del suo carattere, tenendo vigile il
medico militare che si era guadagnato i gradi di Capitano curando e combattendo
innumerevoli battaglie, impresa portata a termine grazie ad una notevole dose
di sangue freddo.
A
farsi venire la nausea ci avrebbe pensato dopo, in quel momento non c’era
tempo.
Appurato
che l’uomo steso di fronte a lui fosse effettivamente deceduto gli alzò la
giacca del completo elegante, sfilandogli la cintura dai passanti dei pantaloni
e tornando verso la ragazza.
La
guardò negli occhi. In tutti gli anni passati a ricucire fori di proiettile in
mezzo a sassi e sabbia aveva capito che era meglio parlare, con i pazienti
feriti, soprattutto se si devono fare cose sicuramente dolorose senza avere
dell’anestetico a disposizione.
E
a meno che qualcuno dei passeggeri non stesse trasportando con sé una fiala di
morfina con relative siringhe ipodermiche, in quel caso non ne avevano.
« Senti, emh... » si rese conto che non sapeva il suo nome.
« ...Joy » rispose quella,
fra un ansito e l’altro. Teneva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse,
come se stesse cercando di calmarsi facendo forza su se stessa, oppure di
riprendere a respirare normalmente.
« Joy... » cominciò Watson,
mostrandogli la cintura: « ...devo legarti
questa intorno alla coscia, sopra alla ferita, per cercare di rallentare
l’emorragia. Ma è molto vicina all’inguine e ti farò male... va bene? » la avvisò, gli
occhi del medico sicuro di sé e la voce ferma.
Quella
trattenne un gemito di dolore: « se va bene?! » sbottò poi, guardandolo con astio. Ma lo
sguardo negli occhi del dottore le disse che era una cosa seria e, deglutendo,
annuì. « Non credo di
avere altra scelta... » soffiò fra le
labbra.
John
si fece sfuggire un sorriso teso. « No, infatti... pronta? » domandò una volta
che ebbe sistemato la cintura ed infilato il lembo libero nella fibbia.
Quella,
attaccandosi con la mano ad un sedile a lei vicino, annuì.
L’urlo
che lanciò quando il dottore strinse il cappio fu lacerante. La voce arrivò ad
una nota talmente alta che il metallo fischiò di nuovo e la bambina, serrando
gli occhi, si chiuse le orecchie con le mani. Gridò finché non terminò il fiato
per farlo, la mano sinistra artigliata al sedile, la destra scattata a
stringere la spalla di John.
« Ok... » soffiò l’uomo fra
le labbra, osservando nuovamente la ferita: « ascolta, non posso rimuovere il pezzo di
ferro, se lo faccio potrei non essere in grado di fermare il sanguinamento... » cominciò.
Quasi
si era aspettato di sentirla esprimere tutto il suo disappunto, ma non
successe. Stava ancora riprendendosi dall’ultima scarica di dolore ricevuta e
il viso pallido parlava chiaramente al posto della voce, dicendo che era andata
a pochi passi dal collasso.
Tuttavia,
seppur confusa, annuì.
Così
John riprese a spiegare: « ti fascerò
stretta la ferita e poi allenterò la cintura, ma non posso toglierla. Dovremmo
aspettare i soccorsi... tu devi cercare di non muovere assolutamente la gamba,
d’accordo? Se urti il pezzo di metallo, oltre a provarti un dolore incredibile
potresti causare una nuova emorragia » le disse e lei, seppur osservandolo fra
le ciglia e sembrando davvero esausta, annuì di nuovo.
John
le fece un cenno con il capo, rivolgendosi poi al soldato. « Sei capace di
riconoscere un cadavere da una persona ancora in vita? » gli domandò.
Quello,
forse sorpreso per essere stato interpellato dopo essere stato messo a tacere,
annuì gravemente.
Il
volto di John, allora, si fece più stanco. « Allora potresti... per favore? » sussurrò, indicandogli
con il volto le persone stese a terra intorno a loro, immobili: « ...se sono morti,
togli loro gli indumenti di cotone. Camicie e magliette, per ricavarne delle
bende. Non prendere tessuti sintetici o lana... » disse, la voce sempre più flebile
man mano che la sua mente prendeva atto della situazione in cui si trovavano.
Senza
pensarci, agendo solo d’istinto, si era appena comportato esattamente come se
fosse di nuovo in guerra. Con quella calma e quel sangue freddo di quando
dormivano in una scomoda brandina sfondata e sopra di loro passavano, rombanti,
gli aerei di chissà quale nazione che andavano a bombardare chissà quale città;
e loro continuavano a dormire, perché finché non sentivano rumore di spari
allora era tutto tranquillo, potevano permettersi ancora un paio d’ore di sonno
leggero prima di ricominciare a camminare.
Si
era aspettato, da quando aveva cominciato a curare la ferita della ragazza, che
una voce in lontananza urlasse l’allarme di un attacco aereo nemico.
Spossato,
si portò il dorso della mano destra alla fronte, chiudendo gli occhi.
Era
ripiombato per un istante nel mondo che aveva perduto. E che, da quando
conosceva Sherlock Holmes, aveva finalmente accettato di lasciarsi alle spalle.
Era
proprio vero: un soldato non smette mai di essere un soldato, così come la
guerra non smette mai di farti sentire sempre in guerra.
« Dottore... » un sibilo arrivò
dal suo fianco, attirando la sua attenzione. Joy, ormai ritornata completamente
in sé,
indicò
con un cenno del capo la bambina rimasta nuovamente sola. « Vada a vedere
come sta la madre, io posso resistere... » disse a bassa voce, come se non volesse
farsi sentire dal soldato già intendo a controllare le altre persone nel
vagone.
Watson
annuì, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la bambina.
Aveva
i capelli biondi lunghi fino sotto le spalle e gli occhi marroni e caldi,
grandi come solo quelli dei bambini possono essere. Il viso gentile e
fanciullesco aveva la pelle chiara, che si sposava perfettamente con il
vestitino bordeaux con la gonna a frappe che indossava. Le calzamaglie bianche,
notò poi John, erano macchiate di sangue sulle ginocchia.
Addolcendo
il tono della voce – tornando il solito John, non più il Capitano Watson – si cinò sulle ginocchia finché non fu con il viso alla sua
stessa altezza.
« Ehi, ciao... » salutò, evitando
di appoggiarle le mani sulle braccia solo perché sporche di sangue. « Io mi chiamo
John. E tu come ti chiami? » chiese dunque, guardandola negli occhi, sforzandosi
di sorridere al meglio che poteva.
La
bambina, palesemente terrorizzata, ricambiò lo sguardo tremando appena. « A... Alice » disse poi: « però la mamma non
si sveglia, perché la mamma non si sveglia? » ricominciò però subito a lamentarsi,
piangendo e rigando con nuove lacrime le guance paffute.
Il
medico cadde nel panico per un istante. Poteva anche fronteggiare un uomo
armato senza perdere la concentrazione, ma non aveva fatto abbastanza ore di
laboratorio per affrontare un bambino con una crisi di pianto imminente. Anzi,
non aveva fatto clinica e basta, dato che si era arruolato appena dopo la
laurea e aveva intrapreso una strada che di certo non era quella del medico da
ambulatorio.
« No, ehi, non
piangere, ok? » disse subito,
cercando istintivamente di arginare la paura della bambina con le parole: « adesso guardo
cos’ha la mamma, va bene? Sono un dottore. Adesso guardo cos’ha la mamma ma tu
non piangere, va bene? » ripeté,
scostandosi dalla piccola solo quando quella, tirando su con il naso, fece di
sì con la testa.
Sospirando,
si avvicinò alla donna, stesa di pancia sotto ad una fila di sedili.
Era
immobile, nessuna reazione tangibile e non vedeva nemmeno la schiena sollevarsi
ed abbassarsi per la respirazione. Inoltre la gonna era completamente intrisa
di sangue, così come la giacca nera del completo da ufficio che indossava. Come
successo con l’uomo di poco prima, non si aspettò di trovare battito cardiaco
nell’accostarle le dita alla gola.
Non
vi fu.
Sospirando
pesantemente, chiuse gli occhi.
Come
poteva dire a quella bambina che la madre non si sarebbe più svegliata?
• TfL Headquarters, BCV, h. 10:15 am
Michael
Crew era al suo sesto caffè nel giro di mezz’ora. Si
era tolto giacca e cravatta, aveva avvolto le maniche della camicia finché non
gli erano arrivate al gomito e aveva anche sbottonato il primi due bottoni del
colletto. Se ne stava appoggiato alla sua scrivania davanti ad un tabellone con
lo schema del pezzo di tunnel interessato dall’incidente, all’orecchio un
auricolare wireless per parlare al telefono senza dover tenere occupate le
mani.
In
linea, dall’altra parte, il capo della squadra tecnica che si era prontamente
avventurata nel tunnel dalla parte di Enbankment.
«Non sembrano esserci danni strutturali
gravi, signore» stava dicendo,
ansimante, nel microfono di quello che doveva essere un cellulare vecchio
modello, a giudicare da come la sua voce giungeva metallica: «ma posso dirlo solo per il tunnel da questa
parte. Ad un certo punto... ecco... » esitò.
La
caffeina in circolo nel sistema sanguigno del responsabile del BCV fece il
resto. « “Ecco” cosa?!
Continui! » sbottò,
contrariato da qualsiasi persona gli facesse perdere tempo prezioso.
Al
telefono, il tecnico deglutì. «Ad un certo
punto il tunnel è completamente ostruito, signore» disse allora: «se ci sono stati danni di sorta
probabilmente sono dall’altra parte, e a meno che non entri qualcuno da
Waterloo noi non possiamo accedervi. Ma potrebbe essere difficile, perché...
signore, è tutto un pezzo di ferro, là sotto, e...» si interruppe di
nuovo, deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.
Crew inspirò ed espirò rumorosamente. « Senta, adesso lei
mi dice esattamente cosa... »
Ma
fu interrotto. Una collaboratrice entrò di fretta dalla porta, osservandolo
dritto negli occhi. « Signore,
l’ingegner Sutherland sulla tre » gli disse, concisa.
Michael
annuì. « Senta, me lo dirà
dopo, devo attaccare » liquidò in fretta
il tecnico, spingendo un pulsante sull’auricolare e cambiando linea.
« Ufficio BCV, Crew» rispose, cercando
con tutto se stesso di non suonare furioso nemmeno la metà di quanto in realtà era.
Cosa che non gli venne molto bene, ma almeno si sentiva giustificato dalla
situazione in corso.
«Signore, sono Sutherland» rispose l’uomo
dall’altra parte, il respiro corto e la voce affaticata.
Crew si passò la mano destra sul volto, ad un
passo dal panico. « Ti prego Alfred,
dimmi che non è una bomba » furono le prime parole che gli disse.
Conosceva
Alfred Sutherland da una vita, avevano fatto la stessa scuola superiore e
Michael sapeva che non c’era miglior uomo in tutta Londra per fare quel lavoro.
E, ancora, nessun altro in tutta Londra era in grado di dare le brutte notizie
così com’erano, senza addolcire la pillola.
Almeno,
nessuno di sua conoscenza.
«No, l’anti-terrorismo ha detto di no» disse Alfred al
telefono, Crew sospirò affrancato. Tuttavia non era finita:
«ma non ti nascondo che è un casino, Michael.
Io sono entrato da Enbankment e ti giuro che non ho
mai visto niente del genere. Il tunnel è completamente ostruito, ma non dai
detriti del rivestimento interno della galleria, che comunque non mancano: la
motrice ed il primo vagone si sono praticamente FUSI con un carrello di
manutenzione, bloccando completamente il passaggio» raccontò.
A
Crew gelò il sangue nelle vene.
« Un... carrello di
manutenzione, hai detto? » domandò allora,
balbettando appena, colto da una nuova ondata di panico interiore.
«Sì, è riconoscibilissimo. Cosa diamine ci
faceva lì un carrello di manutenzione all’ora di transito dei treni, Mich?» domandò Aflred, e quando si
metteva ad usare il suo soprannome sul lavoro significava che la faccenda era,
anche se non come previsto, comunque grave.
« Non lo so, ma lo
scoprirò » asserì, già in
procinto di chiudere la telefonata con tutta l’intenzione di andare a
controllare linea per linea gli interventi di manutenzione della Underground. « Ti devo lasciare
Al, fai attenzione » disse infatti, ma
l’altro lo bloccò prima che potesse riattaccare.
«Michael, aspetta » disse, Crew
rimase in ascolto: «il mio assistente è entrato dalla parte di
Waterloo insieme ad alcuni tecnici della linea... mi ha detto che ancora prima
di arrivare al treno hanno visto corpi di gente sbalzata fuori dai
finestrini...» spiegò.
Ci
fu un attimo di silenzio fra i due, tangibile e pesante come un macigno.
«...non ha potuto avvicinarsi per via
dell’aria piena di polvere, era irrespirabile. Ti conviene dire a qualcuno di
mettersi una maschera e di farsi venire le palle di andare a controllare quel
tunnel, perché non abbiamo il tempo di aspettare che si depositi da sola. Se
c’è anche solo una crepa troppo profonda non so dire quanto tempo ci rimane
prima che sia tutto sott’acqua. E qui non si sta parlando di due sole stazioni,
rischiamo di inondare buona parte della linea» gli disse, la
voce bassa e professionale, seria come solo sul lavoro sapeva essere.
In
quel momento, il primo pensiero di Crew andò a Dio.
Il secondo, al suo lavoro. Il terzo, al settimo caffè.
« Lo so, Al.
Grazie... » sibilò,
riattaccando.
Chiuse
gli occhi per qualche minuto. Aveva già spedito orde di tecnici per constatare
i danni, e a chiamarli ogni dieci minuti ci stavano già pensando i suoi
collaboratori. Quello su cui si doveva concentrare lui era la causa, ora che ne
sapeva qualcosa di più.
Come
una scheggia, uscì dall’ufficio e piombò nella sala operativa sulla destra,
dove tutti erano indaffarati a rispondere a telefoni che squillavano ad
oltranza e a calcolare stime su qualsiasi cosa.
« Dafne! » chiamò la sua
segretaria, quella fece capolino da un cubicolo.
« Chi è a capo
delle operazioni d’indagine, laggiù? » domandò, agitato.
La
donna sfogliò velocemente un blocco per appunti, trovando il nominativo giusto
in pochi, efficienti secondi: « l’Ispettore Lestrade di Scotland Yard, signore » gli disse.
Crew annuì. « Mettimi in contatto con lui » ordinò poi.
• The Tube; Enbankment Station, h. 11:30 am
Sherlock
Holmes arrivò a piedi fino alla stazione di Enbankment,
camminando a passo svelto per quasi due isolati.
La
polizia aveva efficientemente chiuso ai mezzi pubblici e privati tutte le
strade nel raggio di un chilometro, lasciando il via libera solo alle pattuglie
delle varie agenzie governative e alle ambulanze.
Ovviamente,
dato che il centro era praticamente isolato, il traffico in tutto il resto
della città risultava molto congestionato. Non si sarebbe stupito troppo se
John non fosse riuscito a rincasare, considerando la confusione regnante in
tutta la città.
Scansò
elegantemente le prime persone in divisa, dicendo il proprio nome ai poliziotti
che tentavano inutilmente di fermarlo e, quando non serviva, aggiungendo che
era stato contattato dall’Ispettore Lestrade. A sentire il nome del detective
di Scotland Yard, chissà per quale motivo, tutti si facevano indietro e lo
lasciavano passare.
Arrivò
da Greg in qualche falcata.
« Alla buon’ora! » lo “salutò”
quello, riattaccando subito il cellulare e rimettendolo nella tasca
dell’immancabile cappotto blu scuro. « Ti ho chiamato un’ora fa, dove diamine ti
eri cacciato? » domandò a
seguito, attendendo che Sherlock si fosse avvicinato del tutto a lui.
« Nel tunnel » rispose Greg, con
un cenno del capo all’entrata della stazione di Enbankment:
« siamo davanti ad
una situazione strana, ma questa volta non posso prendermi il mio tempo per
indagare. Chissà per quale scherzo dei piani alti sono diventato il responsabile
delle indagini... » sbuffò, roteando
gli occhi con fare incredulo: « tu sei veloce a capire il tutto, anche se mi secca
ammetterlo. Ho bisogno che mi illumini » terminò.
Sherlock,
anche se internamente si era sentito lusingato dai mezzi complimenti di
Lestrade, si limitò ad annuire. Insieme si incamminarono verso la stazione.
« Ehi, dov’è il
dottore? Di solito siete culo e camicia » commentò l’ispettore guardandosi intorno,
forse convinto di vedere Watson raggiungerli di corsa, oppure aspettandosi che
fosse insieme ai paramedici a curare i primi feriti estratti dalle macerie.
Sherlock,
tuttavia, si limitò ad arricciare il naso. « Non c’è. Abbiamo avuto un conflitto
d’interessi su faccende triviali e se n’è andato di casa questa mattina presto.
Non era ancora tornato, quando sono uscito ».
Cominciarono
a discendere le scale che portavano alle banchine.
« Avete litigato?
Strano... » commentò
lievemente Lestrade, ridacchiando sotto i baffi: « credevo che la pazienza del
dottore fosse infinita, ma a quanto pare sei riuscito nell’intento di farlo
arrivare al limite anche di quella » ironizzò, faticando quasi a mantenere il
passo veloce di Sherlock, ma riuscendoci tutto sommato con classe.
Non
riuscì proprio a stare zitto, colto in fallo da quell’irritazione che, lo
sapeva, se non si fosse trattato di John H-sta-per-Hamish
Watson avrebbe tranquillamente ignorato. Anzi, non avrebbe proprio provato.
« È lui che è
fissato nell’essere così... normale» disse Sherlock,
sottolineando l’ultima parola con un tono quasi schifato.
« Ci mancherebbe
solo che non lo fosse... » si lasciò
sfuggire Lestrade.
Sherlock,
però, voltò il capo per guardarlo da sopra la propria spalla; per un attimo,
una sola occhiata fugace. « John non è mentalmente instabile,ma non è nemmeno normale. Si convince di essere normale. È... » si bloccò, in
cerca probabilmente del termine giusto.
Termine
che venne suggerito da Lestrade, insieme ad un sorrisetto diverso da quello
canzonatorio di prima, maggiormente carico di una lunga serie di sottintesi: « speciale? » suggerì.
Sherlock
non rispose. Dentro di sé sapeva che quello era il termine più corretto, quello
che stava cercando, quello che descriveva John alla perfezione. Ma decidere che
per lui il dottore fosse “speciale” suonava troppo come un’ammissione di
sentimento, cosa che al solo pensiero gli faceva venire l’orticaria. Poteva già
sentirne il prurito sulla pelle.
Terminarono
la rampa di scale in silenzio, percorrendo un lungo corridoio piastrellato di
bianco fino alla banchina in questione. Alcune persone con dei gilet gialli a
strisce catarifrangenti stavano risalendo dai binari mentre altre, controllando
la funzionalità delle torce, si apprestavano ad entrare a loro volta nel tunnel.
Fra di loro, diversi vigili del fuoco, poliziotti ed un paio di paramedici.
Un
agente di polizia diede loro un paio di torce, due mascherine e due elmetti – cosa,
quest’ultima, che ovviamente Sherlock non indossò, e che evitò di fare anche
Lestrade per puro spirito di emulazione – poi entrambi si incamminarono lungo
il tunnel.
Già
le banchine della stazione erano ricoperte da uno strato di polvere marrone,
causata dall’incidente, ma i binari ne erano del tutto sommersi. Ce ne era così
tanta da formare una patina, sempre più spessa man mano che si avanzava verso
il punto dell’impatto.
Punto
che Sherlock e Lestrade raggiunsero poco dopo.
Alla
luce della torcia, tutto ciò che si poteva effettivamente vedere era un cumulo
di lamiere accartocciate. Alcune cose erano riconoscibili, come l’inizio del
marchio della London Underground, l’angolo del finestrino del conducente, il
giallo del carrello di manutenzione, una ruota deformata... ma per la maggior
parte era metallo, ferro ed acciaio senza forma alcuna, ripiegato e stropicciato
come se fosse passato in una pressa da rottamazione. Riempiva l’intero arco del
tunnel se non qualche centimetro nella volta più alta, che comunque sembrava
solo un buco nero a dal quale non si sentiva nessun rumore tranne per un
continuo gocciolio d’acqua.
« Mi riesce
difficile immaginare che possano esserci dei superstiti... » disse Lestrade,
osservando distrattamente un paio di tecnici al lavoro sulla volta del tunnel e
qualche poliziotto che tentava di arrampicarsi sui rottami per puntare una
torcia in quel piccolo varco non occupato dal metallo. « Non oso sperare
che, con un impatto di questo genere, dall’altro lato ci sia anche solo una
carrozza ancora della sua forma originaria » aggiunse, deglutendo.
Sherlock,
dal canto suo, rimase a guardare la motrice senza fiatare. I suoi occhi
seguivano ogni centimetro di metallo che con la torcia illuminava, traendo
informazioni, cercando subito di sistemare i primi pezzi del puzzle per
ricomporne l’immagine.
Lo
stemma della London Underground e un angolo del finestrino laterale pendente:
fiancata di destra. Residui di vetro temperato a terra: parabrezza anteriore sfondato,
urto frontale. La parte visibile del muso rientrata: la locomotiva ha urtato
qualcosa, qualcosa di grosso e ad alta velocità, dunque il capotreno non se lo
aspettava o non era stato avvertito, quindi nemmeno al controllo centrale delle
due stazioni lo sapevano, oppure lo sapevano ma non hanno avvertito, o non
hanno fatto in tempo ad avvertire il macchinista; ma è poco probabile per
qualcuno che deve tenere d’occhio la circolazione dei treni in ogni minuto del
proprio turno di lavoro.
Il
suo sguardo indagatore passò sul carrello di manutenzione.
Stranamente
diritto nonostante l’urto imponente: alta velocità, probabilmente la massima
consentita dal mezzo.
Abbassandosi
la mascherina annusò l’aria. Carburante. Polvere. Ruggine. Muffa. Umidità.
Terra. Odore di bruciato, probabilmente causato dai freni della motrice. No,
non era rilevante. Sherlock scartò l’indizio con uno scatto del capo.
Si
avvicinò ai rottami del carrello, puntando la torcia sul metallo ed osservandolo
bene.
Tracce
di sangue, in macchioline allungate verso la coda del carrello: il conducente
era morto nell’impatto e il carrello non aveva una cabina coperta, dunque era
anche rimorchiatore. Probabilmente il cadavere era incassato fra i resti del
mezzo di manutenzione e quelli della motrice. Lo avrebbero trovato solo
rimuovendoli.
Sempre
osservato da Lestrade, che taceva aspettando un responso – o qualsiasi cosa –
Holmes fece retro-front e si mise a ripercorrere i
binari con la torcia puntata sulle rotaie.
Con
il piede, scostò la polvere sopra depositata per tutto il tragitto che fece.
Nessun segno di frenata, ma non era rilevante: i binari erano talmente usati
che un semplice scrostamento della patina non avrebbe potuto significare
niente. Su quella linea passavano centinaia di convogli per centinaia di volte
al giorno, anche se ci fossero stati segni di sorta non era detto che
appartenessero per forza al carrello.
Poi,
qualcosa di strano. Una scheggiatura sul binario, grigia e lucida, che sporcava
i lati della rotaia ma non il centro della stessa e solo da una parte
dell’effettivo binario, poiché la rotaia che correva parallela era pulita. Quella
che aveva i due segni era la più esterna delle due.
Un
sorrisetto gli nacque all’angolo delle labbra, ma aveva ancora pochi dati.
« Cos’hai scoperto?
» chiese allora a
Lestrade, guardandosi intorno ad un più ampio raggio.
L’ispettore,
continuando ad osservare ogni sua minima mossa, prese fiato: « sono stato al
telefono con un certo Crew, responsabile dell’ufficio
centrale BCV della TfL. A quanto pare alcuni suoi
tecnici lo avevano avvertito della presenza del carrello di manutenzione sulla
scena, così si è fatto trovare le liste degli interventi previsti. Tra tutti i
lavori in programma sulla Bakerloo non ve ne erano
programmati per oggi e per questo tratto. Inoltre sono riusciti a risalire al
carrello. Il numero di telaio non è visibile, ma una volta diramato l’avviso
dell’incidente sono stati fatti rientrare tutti... ovviamente meno uno:
questo... » e nel dirlo
indicò con la mano il rottame alle loro spalle « ...e così si è venuto a sapere che
oggi non doveva essere usato, perché è un carrello molto vecchio e solo il
personale più anziano è in grado di manovrarlo al meglio; l’operaio che di
solito usa questo macchinario, praticamente quasi in esclusiva, oggi era di
riposo. È stato rintracciato ed interrogato, ma stamani era a casa con la
moglie e lei conferma l’alibi; al momento dello schianto stavano riordinando la
soffitta della loro abitazione » spiegò.
Improvvisamente,
Sherlock si fermò. La torcia era fissa su un bozzo scuro coperto di polvere,
più grande di qualsiasi sasso li circondasse e di una forma più strana di un
semplice detrito.
Holmes
allargò il già lieve sorriso soddisfatto che gli piegava le labbra.
« Cosa c’è ora? » domandò Lestrade
avvicinandosi a lui, osservando a sua volta ciò che la luce della torcia di
Sherlock stava illuminando.
« È per questo che
hai sempre bisogno di me, Lestrade » si sentì in dovere di puntualizzare
Holmes, tirando fuori dalla tasca il suo fazzoletto bianco di stoffa e
raccogliendo il campione: « ti sfuggono i particolari, vedi ma non osservi.
Essere voi dev’essere così dannatamente frustrante...
» borbottò poi,
riferendosi probabilmente alla “gente normale”, come soleva declassificare
tutti coloro che lo circondavano – probabilmente escluse poche persone.
Greg
roteò gli occhi, evitando di ribattere. Non si da mai ragione ad un pazzo. « Cos’è? » domandò allora,
riportando l’attenzione sul detrito.
Che,
effettivamente, un “detrito” non era propriamente.
Una
volta che la coltre di polvere fu scivolata via, Lestrade si accorse che Sherlock
aveva in mano un pezzo di acciaio. Era scuro, scheggiato e spigoloso, ma la sua
forma originaria era comunque intuibile: aveva la forma di una pinza, o di una
morsa di qualche genere, e nonostante tutto l’ispettore non aveva la minima
idea di cosa si trattasse, o di quale fantomatico ago nel pagliaio avesse
trovato l’altro per avere stampata in volto quell’espressione compiaciuta.
« Questo, Lestrade,
è l’arma del delitto » gli rivelò
Sherlock, osservando il pezzo di metallo da ogni angolazione, la luce della
torcia ad illuminarne ogni millimetro.
« Arma del delitto?
Ma cos...? » balbettò
Lestrade, interiorizzando solamente in parte le parole di Sherlock, forse per
un proprio rifiuto psicologico a far sì che fossero reali, che avessero un
valore.
C’era
differenza fra un incidente ed una provocata strage. E non era solamente un
cavillo legale.
« Già... » continuò però il consulting
detective: « non è stato un
incidente ».
• The Tube; Waterloo
> Enbankment, h. 12:00 am
In
un qualche modo, era riuscito a dirglielo.
Piano,
a bassa voce. Sussurrando. Quasi come se dovesse rivelarle un segreto.
Piccola
Alice, la mamma è in paradiso. Piccola Alice, la mamma non si sveglierà più.
Piccola Alice, devi essere forte.
John, devi essere
forte.
Quante
volte aveva sentito quella frase, in vita sua? (1)
Quando
suo padre se ne era andato (« John, devi essere forte, ok? La mamma ti vuole bene »).
Quando
sua sorella aveva cominciato a bere (« John, devi essere forte tu, perché io non
lo sono... »).
Quando
sua madre era morta (« Ha avuto un
infarto. John, devi essere forte »).
Altri
anni. Afghanistan.
Un
proiettile. Un ospedale. Londra, di nuovo.
Un
bastone, una ferita che faceva male, il tremore alla mano. Un’analista. “Sarà
difficile riadattarsi alla vita civile”.
John, devi essere
forte.
John
Watson era stato forte per tutta la vita. Lo era stato talmente tanto che
continuava ad esserlo senza nemmeno pensarci. Ma si era ripromesso che mai
avrebbe detto a qualcun altro di essere forte.
Beh...
ora sapeva quanto tempo passava a fare quello che si riprometteva di non fare.
« Piccola Alice,
devi essere forte » aveva detto alla
fine.
La
“piccola Alice” aveva pianto per quasi un’ora. Aveva pianto fino allo stremo
fra le braccia di John, avvinghiata alla sua camicia, fino ad addormentarsi,
sfinita. Watson allora si era tolto il giubbotto, lo aveva steso a terra e
l’aveva adagiata lì.
Nel
frattempo, una volta fasciata la gamba di Joy – sempre più pallida, non aveva
potuto fare a meno di notare il medico – lui e il soldato avevano spostato
tutti i cadaveri – cinque in totale – sul lato opposto del vagone.
Per
tenerli lontano da Alice ma, soprattutto, per dividere idealmente la vita dalla
morte, lì dentro.
Ed
ora, ritornati dov’erano prima, John era intento a dare un’occhiata alla spalla
immobile del ragazzo.
« Fa strano non
riuscire a muovere il braccio » disse quello, stringendo i denti quando John gli
tolse il giubbotto mimetico, lasciandogli la maglietta verde sotto di esso. Al
collo del soldato tintinnarono le medagliette con sopra nome e numero di
matricola.
John
le lesse per abitudine: « “Miller E.”? » domandò, forse
curioso o forse desideroso di incanalare i suoi pensieri in qualcosa che non lo
deprimesse. Tipo l’argomento “Sherlock”, che il suo cervello stava
accuratamente evitando di prendere in considerazione.
Lui non glielo
aveva mai detto, che doveva essere forte. Gli aveva semplicemente dimostrato
che lo era già... e che poteva esserlo di nuovo.
« Edward » rispose allora il
giovane, distraendolo, sorridendo orgoglioso: « può chiamarmi Ed, dottor...? ».
« Watson. Chiamami
John, data la situazione informale » gli rispose. « Sei del RoyalRegimentsofFusiliers? » domandò poi il
dottore, appoggiando delicatamente le dita di entrambe le mani sulla spalla del
giovane.(2)
Edward
sembrò lievemente sorpreso. « Come fa a saperlo? » domandò.
Alla
domanda, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. « Capitano John Watson, 5thNorthumberlandFusiliers.
In congedo. Ho riconosciuto lo stemma sulla casacca » spiegò, evitando
per un soffio che il giovane soldato si mettesse sull’attenti. Non sarebbe
stata una mossa intelligente, con la spalla in quelle condizioni.
« Incredibile...
incontrare un altro soldato in una situazione come questa. Quante volte può
capitare, nella vita di una persona? » disse il giovane con un sorriso strano
sulle labbra, osservando con la coda dell’occhio le mani del medico muoversi
attente ed esperte sulla sua spalla, saggiando la pelle e le ossa sottostanti: « però... se lei è
anche un medico, per caso è un medico militare? » domandò subito dopo, senza
lasciare il tempo a John di rispondere alla prima domanda posta.
« Lo ero » confermò il
dottor Watson: « prima di
congedarmi, comunque » ci tenne a
ripetere, nel caso all’altro fosse venuta la malsana idea di chiamarlo
“capitano”.
Andava
bene fingere di esserlo ancora quando Sherlock si metteva in testa di
infiltrarsi in una base super segreta per chissà quale indagine, un po’ meno appropriato
era farsi chiamare tale dalle nuove reclute.
Ormai
era un civile, in ogni caso.
Edward
sembrò capire il senso della precisazione e annuì docilmente. « Niente “capitano”
» confermò con la
voce.
« Grazie. Comunque
hai una spalla lussata » disse John,
constatando con le mani che la testa dell’omero era completamente fuori sede: « devo rimetterla a
posto ed immobilizzarti il braccio » gli disse, il tono professionale.(3)
Ormai
era entrato nella fase della calma, quella situazione di stallo in cui la mente
non aveva ancora interiorizzato del tutto l’accaduto e aveva deciso di andare
in pausa, rimandando tutto a dopo.
Facendo
sedere Edward con la schiena diritta, John si alzò in piedi, tenendo il braccio
dell’altro dal polso. Per la prima volta da quando si era ripreso sentì una
lieve fitta al fianco destro, ma la ignorò. Con la botta che avevano preso, era
sorpreso che non avesse cominciato a fargli male ogni singolo osso e muscolo
del corpo.
« Tutto bene? » chiese però
Edward, guardandolo dal basso.
Il
dottore annuì. Gli sollevò il braccio in alto, per poi rivolgersi nuovamente a
lui: « adesso ti lascerò
andare il braccio, tu non devi fare forza, lascialo cadere a peso morto » disse.
« Aspetti, farà
mal- AH! CRISTO! ».
A
tradimento, prima ancora che il giovane potesse mettersi bene in testa le
istruzioni ricevute, John aveva mollato il braccio che era ricaduto esattamente
come doveva. In un suono secco, la testa dell’omero era tornata al suo posto ed
il giovane soldato si era ammutolito, dolorante, dopo un urlo sentito.
« Lei, dottore... è
un gran... bastardo » ansimò il ragazzo,
mordendosi il labbro per trovare dentro di sé la dignità del soldato e non
mettersi a gridare come una donnicciola.
John
sapeva che era una manovra dolorosa, dunque era consapevole dell’autocontrollo
che l’altro si stava imponendo per non sbraitare. Sorrise appena, mentre gli fasciava
stretto il braccio al petto con ciò che rimaneva degli indumenti raccolti e
trasformati in bende di fortuna.
In
realtà, dentro di sé cominciava a scatenarsi l’irrequietudine. Non aveva la
minima idea di come uscire di lì – non ci aveva ancora fatto caso, date le
medicazioni urgenti da fare –, non sapeva esattamente com’era la situazione
della galleria e, tanto per gradire, non sapeva nemmeno se e come avrebbe fatto
a trasportare Joy fuori da quel vagone evitando che morisse dissanguata nel
tentativo.
Stringendo
bene il nodo della fasciatura, sospirò affranto. « Edward, cerchiamo un modo per
uscire da qui... » borbottò John con
tono smangiucchiato, come se fosse stato raschiato dal fondo di un cassetto
impolverato dopo tanto tempo che era rimasto lì, inutilizzato.
Dalla
sua posizione di immobilità, Joy li guardò fra le ciglia di un paio d’occhi socchiusi.
• The Tube; Waterloo Station, h. 12:30 am
Nicholas
Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cumlaude in
ingegneria navale.
Aveva
una fidanzata, un matrimonio molto prossimo, un appartamento in via d’acquisto
definitivo a Notting Hill e un figlio in arrivo.
Una
vita perfetta sotto molti punti di vista. Peccato che sia i suoi genitori che i
suoi suoceri non la pensassero così.
Nicholas
Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cumlaude in
ingegneria navale, ma non faceva il mestiere per cui aveva speso soldi ed anni
all’università.
Nicholas
“Nick” Ryder era un Vigile del Fuoco.
I
suoi genitori avevano creduto alla storia del “lavoro temporaneo per farsi le
ossa” solo nei primi due anni; i suoi suoceri, invece, non avevano creduto
nemmeno a quelli, intuendo fin da subito l’innegabile passione che lo aveva
travolto quando era entrato a fare parte del FireDepartment di Londra.
Il
bello era che non aveva assolutamente intenzione di cambiare lavoro. Mai avuta
nemmeno nelle due volte in cui aveva rischiato la vita in due diversi incendi,
oppure quel giovedì pomeriggio in cui era rimasto sommerso quasi due minuti
senza ossigeno per tirare fuori il cadavere di un poveretto dal Tamigi dopo che
ci si era fiondato con l’automobile.
Quel
mestiere era in grado di farlo alzare volentieri ad orari improponibili della
notte a causa di un’emergenza, e ci mancava poco che andasse a dormire con
l’uniforme addosso.
Dalla
sua parte, fortunatamente, aveva una moglie comprensiva e di larghe vedute.
Oltre che bella. Ed intelligente. Ed avvocato. Di carriera. Molto brava, tra
l’altro. Una delle migliori.
Una
moglie avvocato che voleva chiamare loro figlio Marcus. Marcus.
« Ti rendi conto di
come passerà l’età scolastica quel bambino, se lo chiamiamo Marcus Ryder? » si lamentò con un
suo collega, Dennis, camminando cautamente lungo il tunnel della metropolitana
appena dopo Waterloo, ricoperto di polvere densa. L’aria, illuminata dal fascio
luminoso delle loro torce, risultava ancora carica di particelle di polvere che
la rendevano simile a nebbia.
La
risposta dell’amico risultò gracchiante alla ricetrasmittente auricolare, e un
tantino bassa a causa del casco che erano costretti ad indossare, almeno finché
la polvere aleggiante nell’aria non si fosse decisa a posarsi.
« Non è un brutto
nome, sai? ».
« Non lo è se hai
ottant’anni e sei nato nei primi del novecento, Dennis » rispose piccato
Nick, continuando a guardarsi intorno all’interno del tunnel cupo: « oppure se sei
figlio di una famiglia di signorotti e passerai il resto della tua vita fra una
scuola privata e l’altra, dove i tuoi compagni avranno nomi ancora più pomposi
del tuo » una breve pausa,
poi riprese: « beh, mi dispiace
dirtelo, ma nostro figlio frequenterà la scuola pubblica, come tutti nella sua
famiglia. Quindi non si chiamerà Marcus» disse,
sottolineando quel nome con un tono sciorinato, quasi disgustato.
Dennis,
sospirando nel microfono, roteò gli occhi. « Cos’è, eri preso di mira dai bulli da
piccolo? » chiese, scherzoso
solo in minima parte, più che altro cercando di farlo ragionare.
Nick
non rispose.
« Allora? » incalzò Dennis.
« Portavo un paio
d’occhiali a fondo di bottiglia e avevo l’apparecchio odontoiatrico. Secondo
te? » domandò retorico,
facendo ridacchiare l’altro che, per tutta risposta, gli ricordò di essere
diventato un bel pezzo di figliolo, nonostante da piccolo potesse anche essere
un quattrocchi con il sorriso d’acciaio.
« Mi fai arrossire
se dici così » lo sfotté lui,
fermandosi però di botto non appena nella sua visuale rientrò il primo cadavere
della giornata. Le lamiere non erano nemmeno ancora in vista, il che
significava che quel corpo era uno di quelli sbalzati fuori dal convoglio.
Sempre
se di “corpo” si potesse parlare, considerato lo stato in cui versava.
Nick
arricciò appena il naso, schiarendosi poi la voce. « Dennis, torna
indietro e dì agli altri di scendere con i sacchi neri. Non è pericoloso, io
posso continuare per conto mio » disse al collega.
« Nick, lo sai che
la procedura... »
« Come se la
seguissimo sempre alla lettera! » esclamò, sospirando piano all’evidente
testardaggine del compare, che non accennava a tornare sui suoi passi.
« Senti Dennis,
questa volta non è per dimostrare a me stesso di potercela fare... » cominciò,
guardandolo negli occhi attraverso il vetro della maschera: « questa volta sono
a capo del plotone di ricerca. Sono sceso per constatare i danni e per poter
coordinare meglio la squadra, motivo per cui ti sto mandando a chiamarla. Non è
una violazione del regolamento, è un semplice risparmio di tempo. Vorrei
davvero poter trovare qualcuno che non sia conciato così » e, così dicendo,
indicò con la mano sinistra il cadavere poco distante.
Dennis,
osservandolo torvo, annuì. « Vado a chiamare gli altri, tu non metterti nei guai » lo redarguì prima
di girarsi e dirigersi verso la banchina della stazione, ormai scomparsa nel
buio. I neon del tunnel erano stati fatti fuori dall’impatto, ma erano stati
sostituiti dai tecnici scesi precedentemente, nel tentativo di capire cosa
fosse successo, con lampade alogene che creavano una luce ovattata ma poco
utile.
Sospirando,
andò avanti.
Nella
sua camminata verso il treno deragliato segnò la posizione di ogni cadavere – o
presunto tale, o pezzo dello stesso – che trovò, segnalandolo con un cartellino
di plastica giallo. I ragazzi della squadra avrebbero fatto il resto. Durante
la camminata, tra l’altro, la polvere sembrò posarsi e poté finalmente
togliersi la maschera.
L’odore
forte di terra e calcinaccio gli aggredì subito le narici, ma l’aria gli parve
respirabile.
Finalmente,
dopo quella che sembrò un’eternità, arrivò alla carcassa di ferro e metallo.
Gli ultimi vagoni erano completamente rovesciati, ma non sembravano troppo
malconci; erano i successivi ad essere racchiusi in un groviglio di metallo ed
alcuni persino posizionati gli uni sugli altri.
Sospirò
di nuovo, chiudendo gli occhi per in istante. « Dennis? » chiamò nella
ricetrasmittente.
«Sì?» gracchiò il collega dall’altro lato.
« Cerca volontari,
chiunque voglia venire. Qualche agente della Met(4)
o qualcuno che vuole sentirsi santo martire redentore per una giornata. Qui
sotto servono staffette veloci, persone in grado di trasportare barelle a mano
e... tenaglie. E seghe circolari » disse.
«Niente seghe elettriche?» chiese l’amico
dalla radio, Nick scosse la testa.
« Meglio essere
accurati, non siamo boscaioli del Nebraska » commentò semplicemente, ricevendo l’ok
pochi istanti dopo.
Deglutendo
a vuoto, e preparandosi al il peggior lavoro d’estrazione superstiti che aveva
l’onore di affrontare da quanto faceva il pompiere, si fece mentalmente il
segno della croce.
• The Tube; Enbankment Station, h. 13:00 pm
Ritornando
finalmente sulle banchine della stazione di Enbakment,
dopo un’ora intera passata a controllare ogni singolo centimetro della galleria
nel tragitto di ritorno, Sherlock e Lestrade si precipitarono a passo svelto
verso l’ufficio movimento, situato all’inizio della scalinata accanto alla
biglietteria.
Sopra
quelle scale la luce del sole fu abbagliante e per un attimo Greg dovette
chiudere gli occhi. Solo alla richiesta verbale di Sherlock di seguirlo –
Lestrade era sicuro che, per un attimo solamente, Sherlock stesse per chiamarlo
“John” – si sforzò di aprire gli occhi ed entrò per primo.
«Detective Inspector
Lestrade, omicidi, Scotland Yard » si presentò, mostrando il distintivo alle
tre persone all’interno, indaffarate come matte a controllare un tabellone a
muro con tutti i movimenti ferroviari della linea controllata dalla BCV.
Probabilmente
stavano dirottando i vari treni su altre linee, cercando di rimediare agli
ingorghi e ai ritardi che, indubbiamente, l’incidente aveva scatenato su tutta l’Underground.
Uno
dei tre, quello più anziano, si presentò: « Joseph Moore, responsabile d’ufficio.
Loro sono Bill e Marlene, i miei collaboratori. In cosa posso aiutarla,
ispettore? » domandò cordiale,
ben disposto.
Greg
stava per rispondere, ma Sherlock lo anticipò: « un computer » disse, con
sorrisetto lieve ad inclinargli l’angolo delle labbra; il ghigno della
vittoria, avrebbe detto Lestrade: « e il collegamento alla lista di tutti gli
impiegati della società che hanno lavorato su questa linea dal 1998 in poi.
Suppongo che vi possiate collegare con l’ufficio centrale da qui, vero? » domandò, come se
fosse in quel campo da tutta una vita e sapesse i segreti di tutti i sistemi
informatici usati alla Trasportfor
London.
Ma
ormai Lestrade non si stupiva più di nulla, quindi si limitò ad annuire con il
capo allo sguardo confuso di Joseph, lasciando a Sherlock carta bianca. Come al
solito.
Una
volta seduto al terminale, Holmes cominciò a navigare all’interno del sistema,
cercando rapidamente tutto ciò che gli serviva. Si fece dare il numero di
identificazione e la password da Joseph, che glieli consegnò senza troppe
reticenze, potendo così entrare anche nelle aree riservate al solo personale.
In poco tempo, l’intera lista degli impiegati era aperta davanti a lui che la
scorreva velocemente, con la rotella di scorrimento del mouse, gli occhi che
saettavano velocemente sul foglio elettronico.
« Posso finalmente
entrare a far parte del ragionamento, Sherlock? » chiese dunque Greg, appoggiandosi
con le mani allo schienale della poltrona su cui si era accomodato il
consulting detective.
Quello,
senza staccare gli occhi dalla lista di nomi, prese a parlargli. La maggior
parte delle persone non contemplava di riuscire a fare due cose in una volta
senza perdere la concentrazione, ma Sherlock Holmes doveva avere tanta di
quella materia grigia, che dedicarne una piccola parte all’esposizione di un
suo ragionamento non doveva invalidare poi molto quella rimanente, impegnata in
altro.
« Hai sentito
quando ti ho detto che non è stato un incidente, vero? » chiese Sherlock.
Lestrade
annuì. « Fin lì ci sono » disse
l’ispettore: « perché lo pensi? » domandò.
« Ma perché è
naturale, Jo- Lestrade » si corresse subito, facendo
scattare brevemente la testa come per auto correggersi; a Greg venne quasi da
ridere. Era palese che un’altra piccola parte del suo cervello, probabilmente
infinitesimale ma comunque esistente, stava ancora rimuginando sul litigio
avuto con John.
Era
affascinante vedere che Sherlock Holmes poteva avere dei sentimenti, da qualche
parte, in tutto quell’agglomerato di riccioli ed intelligenza.
« Lestrade, non ti
distrarre » venne ripreso dal
genio, e questa volta fu lui a scuotere la testa.
Negare
era inutile. « Sì, scusa. Continua
» disse.
« Ricorda i
rottami, fissali nella mente. Scontro netto. Il carrello per la manutenzione è
completamente incassato nella motrice, al centro dell’arcata della galleria
stessa se si guarda il tutto da una prospettiva spaziale d’insieme. Sappiamo
che il treno andava in direzione Paddington, dunque
doveva trovarsi sul binario di sinistra per noi che veniamo da Embankment, e dato che è palese che lo scontro è stato
frontale, vuol dire che il carrello correva sul binario opposto. Ma allora
perché si trova lì, in una posizione così centrale? » domandò,
probabilmente più retorico che altro.
Lestrade
cercò di figurarsi ciò che aveva visto, di ricordarselo pezzo per pezzo.
Le
parole “scontro netto” rimbombarono nella testa di Greg per qualche momento, e
quelle che gli uscirono dalla bocca furono logica deduzione del pensiero che ne
era nato: « è deragliato. Il
carrello, intendo. Prima del treno, il cui deragliamento forse è una diretta
conseguenza » disse.
Sherlock
mosse l’angolo della bocca. « Quasi » disse però, riprendendo subito parola: « in effetti è deragliato, ma non per disgrazia.E se avesse cercato di frenare, di rallentare
la corsa almeno un po’, non sarebbe in una posizione così centrale e
soprattutto così dritta. Il carrello era
praticamente diritto, quando lo abbiamo visto. No, quel carrello non ha
frenato. Ovviamente non possiamo cercare segni di frenata su binari così logori
dal continuo passaggio di svariati treni ogni giorno, ma c’è qualcos’altro che
i binari ci dicono... »lasciò cadere, passando la parola a Lestrade.
Era
così che John si sentiva, quando doveva ascoltare le deduzioni di Holmes?
Sempre interrogato, sempre costretto a tenere il filo di quelle parole tutte
appiccicate l’una all’altra, fornendo all’altro risposte a cui già era arrivato
solo per il gusto di farlo divertire? Era deprimente. Anzi, era seccante.
Ma
se da una parte era irritato da quel comportamento, dall’altra si sentiva
incredulo da quanto il coinvolgimento nel ragionamento di Sherlock lo facesse
sentire, a sua volta, intelligente sopra la media.
Come
se l’intelligenza astrusa di Sherlock Holmes potesse uscire per osmosi tramite
le sue parole e filtrare nell’interlocutore che lo ascoltava.
Tuttavia,
quella volta non riusciva a trovare la risposta alla domanda postagli. «Emh... » esitò; troppo, Sherlock riprese la parola come se
stessero giocando a palla avvelenata.
« Ci dicono il
contrario, Lestrade. Ci dicono che non ha
tentato di frenare » gli disse,
trovando al contempo un nome interessante ed aprendo sullo schermo la scheda
personale del soggetto in questione. Face un cenno negativo con il capo, poi la
richiuse.
Greg
ebbe un flash. « Il pezzo di ferro
che hai raccolto! » esclamò, colto a
una folgorazione improvvisa.
Holmes
annuì. « È un frammento di
un meccanismo a forma di pinza comunemente detto “deragliatore portatile”;
solitamente ne vengono applicati molti in sequenza. Sollevano la ruota di un
treno dal binario permettendogli di deragliare abbastanza dolcemente,
inclinandosi sul fianco opposto a dove è stato posizionato. Ora, ovviamente
quelli vengono usati per treni molto più pesanti di un carrello di
manutenzione, che per deragliare in quel modo potrebbe tranquillamente farsi bastare
un solo deragliatore. Però sono usati più che altro per la Upperground(5),
perché un deragliamento di quel tipo nella Underground causerebbe danni alle
gallerie. Dunque cosa ci faceva un deragliatore qui sotto? » chiese, e questa
volta Lestrade continuò senza il bisogno di ottenere la parola.
« Ce lo ha portato
il colpevole. Lo ha posizionato nel punto giusto e nel momento in cui sapeva
che non sarebbero passati treni per Lambeth, poi ha
preso il carrello di manutenzione e si è diretto nella stessa direzione mentre
passava il treno per Paddington, facendosi deragliare
appositamente per provocare l’incidente » un istante di silenzio, un pensiero in
mente: « ...mi stai
dicendo che si è suicidato? » domandò l’ispettore, traendo le logiche conclusioni.
« Temo che un
suicida non sia giuridicamente imputabile per provocata strage, giusto? » tentò di
ironizzare Sherlock, ghignando soddisfatto quando trovò quello che cercava. « Ma torniamo a
noi, Lestrade. Ora che sappiamo cos’è successo, chi andiamo a cercare? A chi
attribuiamo la colpa? » domandò allora,
girando questa volta il viso in direzione del poliziotto, guardandolo.
Fu
però Joseph, che sia Lestrade che Holmes avevano completamente rimosso dalla
stanza, a prendere parola: « incredibile... » disse, guardando Sherlock con la bocca
aperta: « ma lei... ha
lavorato nelle ferrovie, per sapere tutte queste cose? » domandò stupito,
continuando a fissarlo.
Sherlock
si dimostrò abbastanza seccato per l’interruzione e preferì non rispondere se
non con un’occhiata truce. Greg intervenne a salvare la situazione.
« Quel Crew ha detto... » cominciò « ...che il carrello utilizzato era
un modello vecchio, che pochi sapevano guidare al meglio. Probabilmente lo
facevano portare solo ai membri più anziani... » ipotizzò, guardando il signor
Joseph per trovare conferma delle sue teorie.
Quello
annuì. « Ai giovani non
viene nemmeno più insegnato come usare quei carrelli. Sono in lista per la
rottamazione non appena smetteranno di funzionare. Solamente i dipendenti
assunti prima del 1998 hanno il permetto di usarli » confermò.
Sherlock
sembrò soddisfatto, e Greg ne fu stranamente sollevato. In realtà avrebbe
dovuto sentirsi preso per i fondelli, e se ne rendeva perfettamente conto, ma
come ogni volta era più concentrato su cosa potesse imparare dalle esperienze
trascorse con Holmes che da quanto in ridicolo lo poneva ogni santa volta che
risolveva un caso in un modo così incredibile.
Il
consulting detective riprese parola: « dipendenti assunti prima del 1998, con un
passato nella manutenzione o una carriera passata esclusivamente in quella
posizione, che potessero essere presenti sulla scena del crimine senza destare
sospetti. Movente: perché provocare una strage? Le statistiche ci dicono che la
risposta è, la maggior parte delle volte, “vendetta”. Dunque, dipendenti che
avevano un motivo per avercela con la TfL. Si potrebbe
anche prendere in considerazione un conto in sospeso con qualcuno sul treno, ma
non lo avrebbero fatto deragliare tralasciando in toto la possibilità che potesse sopravvivere all’impatto, lo
avrebbero semplicemente ucciso altrove. Dunque no, doveva essere un dipendente
scontento. Magari... » e dicendo queste
parole, indicò lo schermo del computer: « ...qualcuno che ha passato vent’anni a
mantenere attiva la BakerlooLine
e che si vede licenziato in tronco a causa di un richiamo disciplinare per negligenza,
cosa che ovviamente non aveva commesso, considerando che non ha timbrato il
cartellino in ritardo neanche una volta in vent’anni. Magari una persona con la
moglie malata di Alzheimer e due figli a cui badare, dunque che vive in base al
proprio stipendio e al quale una macchia di quel genere nel resoconto
professionale avrebbe impedito di trovare qualsiasi altro impiego nel ramo » spiegò, lineare e
veloce come una saetta, attaccando le parole una all’altra.
Lestrade
osservò la foto di un uomo dalla faccia onesta sullo schermo del computer, con
gli occhi sinceri e tristi ed un paio di baffi ingrigiti dall’età. Paul Coleman
- così si chiamava - era quello che Lestrade avrebbe chiamato “un povero
diavolo”; e lui sapeva riconoscerli a vista, solo dallo sguardo. Quelle persone
con le quali la vita è profondamente ingiusta ma che non farebbero del male ad
una mosca.
Doveva
proprio avercela con il mondo, quel povero diavolo.
Sospirando,
prese nota del nome e dei famigliari: « manderò qualcuno a parlare con i figli » disse; poi,
rivolgendosi a Sherlock, lo guardò negli occhi. « Grazie... di nuovo » sospirò
l’ispettore, voltandosi ed incamminandosi verso l’esterno.
« Quando vuoi,
ispettore » gli rispose
Holmes, alzandosi a sua volta.
Ma
prima che potesse guadagnare a sua volta l’uscita – e togliersi tutta quella
polvere dal cappotto – Joseph lo fermò.
« Scusi, ma... come
fa a dire che è stato proprio Paul? I dipendenti assunti prima del 1998 sono
decine... » soffiò.
Nome
proprio, nessun “signor”, tono dispiaciuto. Lo conosceva. Probabilmente anche
bene.
Sherlock
sospirò. Lo riteneva una ripetizione dell’ovvio, ma volle per lo meno fornire
quell’ultimo particolare. « Sono decine in tutta la rete. Su di una linea
specifica sono di meno, dieci in tutto forse, in questo caso solamente otto.
Non sono molti quelli che rimangono a lavorare nell’Underground per tutta la
vita, la maggior parte sono giovani in attesa di altro impiego o persone che
sono state licenziate dopo la crisi, dunque negli ultimi cinque anni. Nel nostro
caso, degli otto rintracciati dal sistema due sono di turno sulla CentralLine, due sono
attualmente al piano superiore e sono già stati interrogati, due sono stati
promossi e hanno ottenuto un posto in ufficio e uno ha il giorno di riposo,
anch’egli scagionato. Uno solo è stato licenziato, uno solo aveva il movente e
la possibilità di passare inosservato. Paul Coleman » disse, non
attendendo risposte di sorta prima di incamminarsi a sua volta verso l’esterno.
Salì
le scale velocemente, notando non appena uscito all’aria aperta che Lestrade
stava già parlando con una pattuglia di agenti della Mef.
In lontananza, le sirene delle ambulanze giunte a Waterloo, dall’altra parte
del ponte, riempivano l’aria risuonando fra i grattacieli della City.
Solo
allora, quando la soddisfazione di un caso risolto gli riempì l’animo di
realizzazione personale – che sarebbe stata presto sostituita dalla noia,
probabilmente appena sarebbe tornato a Baker Street – si ricordò del messaggio
di John.
Sapeva
cosa c’era scritto, ma non era una scusa per non leggerlo.
Infilando
la mano nella tasca del cappotto, estrasse il cellulare e sbloccò lo schermo,
visualizzando il testo dell’sms.
C’è
un momento nella vita di ogni persona in cui il fiato semplicemente viene a
mancare.
Apnea,
questo è il termine tecnico. E non accade solo quando si è sottacqua; può
succedere in ogni momento, anche camminando per strada, oppure leggendo un
libro particolarmente triste o intrigante.
È
comunque segno di una potente reazione emotiva. Solitamente, sorpresa. Più
spesso, paura.
Teneva
in mano quel cellulare e gli sembrava, voleva,
che non fosse reale. Che quel messaggio non esistesse, che fosse tutto un
errore, una bugia, un modo per spaventarlo, per vendicarsi, per fargliela
pagare. Non seppe esattamente quale parte di sé, se il cervello o il cuore che
teoricamente non doveva avere, cominciò per prima a pregare. Irrazionalmente.
Quasi ipocritamente.
L’ora
non lasciava dubbi. Era una prova. “Ricevuto alle ore 09:31 del 03 Marzo”.
Lo
rilesse.
“Mi dispiace per prima. Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John.”
I
battiti del suo cuore aumentarono senza che potesse controllarli. Senza che ci
provasse, a farlo.
“...
Sono a Lambeth,
nessun taxi, prendo la metro...”
Trattenne
nuovamente il fiato.
“... prendo la metro... “
Il
cervello accettò quello che il cuore, infantile e ancora troppo immaturo,
rifiutò.
Là
sotto. Era là sotto.
John.
Il suo John. Non uno dei tanti John di Londra e del Regno Unito, no. Il suo John.
Aprì
la bocca per parlare, ma inizialmente gli uscì solo un rantolo soffocato.
Teneva le iridi azzurre piantate sullo schermo del telefonino, incredulo, fisse
sulle parole “prendo la metro” come se cercasse di farle scomparire o sostituirle
con un più innocuo “prendo l’autobus” oppure “vado a piedi”.
«Les... tr... » cercò di parlare
nuovamente, immerso forse nel primo, vero attacco di panico mai avuto in vita
sua.
La
sua voce era viscida come lava e dura come cemento. Non voleva uscire dalla
gola. Non voleva.
La
forzò.
« Lestrade... » sussurrò.
John... rantolò la sua
mente.
« Lestrade » disse.
John.
« Lestrade! » esclamò.
John!
« LESTRADE! » urlò.
JOHN!
L’ispettore,
sentendo il suo nome urlato in quel modo improbabile, si girò di scatto verso
la fonte di quella voce. Si stupì nel constatare che fosse stato Sherlock ad
urlare, ma ancora di più rimase interdetto dall’espressione che aveva addosso
il detective privato.
Pallido,
respirava in fretta. Sembrava agitato, forse... forse spaventato.
Inutile
dire che si agitò a sua volta, avvicinandosi cauto. « Cosa c’è? » gli chiese.
Mai
Gregory Lestrade aveva visto, negli anni in cui aveva avuto l’occasione di
frequentare Sherlock Holmes, gli occhi dell’altro completamente immersi in un
silenzioso terrore. Un’inquietudine posata, incarcerata solo in quelle iridi
chiare, ma non meno terrificante.
A
quel punto, Lestrade ebbe tutto il diritto di agitarsi a sua volta. « Sherlock, cosa ti
succede? » domandò,
appoggiandogli una mano sulla spalla, quasi come faceva con i parenti delle
vittime con cui immancabilmente doveva parlare per portare avanti le indagini.
Holmes,
senza parlare, gli passò il cellulare.
Lo
stesso, silenzioso panico si impresse, qualche attimo dopo, anche negli occhi
di Gregory Lestrade.
1.
Io non so niente del passato del caro Jawn, però mi
accodo a qualche altra fanfic che ho letto in giro in
cui il padre si è dato alla macchia quand'era piccolo, mentre la madre è morta
poco prima della sua laurea. Chiamatela licenza poetica.
2.
Il 5th NorthumberlandFusiliers - il reggimento di John - ormai non è
più da considerarsi individualmente; è stato infatti riunito, insieme agli
altri 3 reggimenti di fucilieri (RoyalWarwickshireFusiliers, LancashireFusiliers eRoyalFusiliers - City of London Regiment), sotto un unico battaglione, ovvero il RoyalRegimentofFusiliers.Questo è
avvenuto negli anni sessanta, tipo, e John non poteva proprio essere già un
militare all'epoca... ma nonostante tutto nel telefilm viene salutato come
ex-appartenente a quel battaglione ("A Scandal
in Belgravia", puntata 2x01, mentre sono a
Buckingham Palace).
Sinceramente
non ho spolpato tutta la storia della BritishArmy dunque, supponendo che Moffat
e Gatiss ne sappiano più di me, prendo per scontato
che nonostante siano tutti nello stesso battaglione la denominazione dei vecchi
reggimenti sia comunque ancora in uso.
3.
La testa dell'omero è la parte finale dell'omonimo osso, ovvero la parte
superiore del braccio. Ha la forma sferica, levigato, ed è quello che - insieme
a qualche legamento – forma la spalla e permette alle nostre braccia di
compiere archi di 180 gradi. Nel caso in cui la spalla si lussi, cosa che
capita spesso agli sportivi e/o in seguito a traumi, la testa dell'omero esce
fuori sede (chiamata cavità glenoidea) e la persona diviene del tutto incapace
di muovere il braccio.
4.
"Met" è come gli inglesi chiamano la
Polizia Metropolitana.
5.
Probabilmente l'ho già detto, ma mi dicono che ripetere non fa mai male. Viene
chiamata "Underground" la linea metropolitana di Londra, che passa
nel sottosuolo; di conseguenza, la "Upperground"
è l'insieme di tutte le linee londinesi ferroviarie di superficie.
Note:
ok... come dire. Teoricamente doveva essere un capitolo unico, ma mi sono
accorta che divento molto prolissa, così ho deciso di spezzarlo. Ormai sarete
stanchi di sentirlo, ma ci posso fare poco, purtroppo XD non voglio postare
papiri infiniti di venti pagine, preferisco fare le cose con la dovuta calma.
Solo, la fic verrà un po’ più lunga del previsto.
Capitolo un po’ di
passaggio, in realtà; si fa abbastanza significativo solo sul finale,
praticamente.
Appena l’avrò finita,
passerò al fluff selvaggio. Lo giuro.
« Ok,
riproviamoci... » disse John, la
camicia sudata ed il respiro pesante, tenendo sollevato un tubo di acciaio
tinto di marrone faticosamente sradicato dal pavimento del vagone.
Edward,
tenendolo fermo alla sua estremità con l’unico braccio che poteva ancora
muovere, annuì deciso. Anche John annuì in risposta, tendendo i muscoli, pronto
a far impattare l’estremità libera del tubo per l’ennesima volta contro il
vetro dell’unico finestrino non ostruito.
« Uno, due... tre! » contò ad alta
voce il medico, caricando l’ennesimo colpo sincronizzato. Alice si tappò le
orecchie con le mani, come le era stato detto, mentre Joy osservava la scena in
silenzio, trattenendosi dal commentare.
Finalmente,
dopo svariati tentativi falliti, il vetro si incrinò in una ragnatela di crepe.
A quel punto bastò un calcio bene assestato da parte di John a mandarlo in
frantumi.
Immediatamente,
il vagone di riempì con una ventata d’aria calda odorante di polvere. Joy ed
Alice si portarono istintivamente le mani al naso mentre Edward, palesemente
dolorante nonostante avesse il braccio completamente immobile e legato al
petto, si limitò a storcerlo.
John,
al contrario, non si fece impressionare. In tutta la sua vita, complice il
mestiere e il tempo passato al fronte, aveva sentito odori molto peggiori.
Senza
aspettare prese il suo maglione, quello che si era tolto subito dopo aver
ripreso conoscenza, e se lo arrotolò sulla mano destra. Con essa colpì poi i
frammenti di vetro ancora attaccati alla guarnizione di plastica del finestrino,
creando così l’opportunità di passarci attraverso senza ferirsi.
Si
tolse il maglione dalla mano poi, inginocchiatosi su una fila di sedili,
appoggiò le mani sul davanzale e si sporse.
Osservò.
Poi imprecò mentalmente e sbuffò.
Purtroppo
non aveva avuto fortuna. Non vedeva bene cosa ci fosse sopra di lui, ma il muro
della galleria era a meno di un metro dalla fiancata del loro vagone. Avevano
infranto il vetro dalla parte sbagliata oppure, in ogni caso, il loro fianco
libero non era in realtà così libero, dato che era a ridosso della parete del
tunnel.
« Cosa vede? » chiese allora Ed,
avvicinandosi di qualche passo. Nessuno osava parlare, in quel momento: erano
tutti in attesa di una qualche frase da parte di John, meglio ancora se portava
buone notizie, o comunque un frammento di speranza in più.
John
non rispose subito, alzando gli occhi verso l’alto.
« Non vedo
niente... » sussurrò,
voltandosi a guardare Edward: « mi serve una pila, qualcosa per fare luce » disse.
Il
giovane soldato sembrò pensarci sopra per un attimo, ma la risposta venne dalla
ragazza poco distante, ancora appoggiata con la schiena alla parete e le gamba
immobile. « Le mie chiavi di
casa » disse: « appese al
passante dei jeans. C’è una mini-torcia a led attaccata ».
Edward
annuì, avvicinandosi a lei ed inginocchiandosi al suo fianco. Facendo la
massima attenzione a non toccare nient’altro se non le chiavi, le staccò
delicatamente dal passante dei jeans, ringraziando Joy e passando il mazzo al
medico.
« Ehi, non le
perda! » disse poi la
ragazza, esibendosi in un sorrisetto sornione: « altrimenti mi toccherà farmi
aprire la porta dal fabbro » ironizzò.
Ottimista
da parte sua, pensare che avrebbe rivisto casa sua. Presupponeva che fossero
riusciti ad uscire di lì.
John,
già seduto sul finestrino, inclinò verso l’alto l’angolo della bocca. « Farò del mio
meglio per farti risparmiare questa spesa inutile » scherzò a sua
volta. Anche Ed, nonostante fosse teso come una corda di violino, si lasciò
sfuggire un sorriso.
Meglio.
La tensione stava pian piano scendendo. Non sarebbe stata una cosa malvagia se
si fossero calmati un po’ tutti, là dentro.
Sfortunatamente,
quelle mini-lampadine non erano fornite di un pulsante normale, ma di uno a
pressione: in altre parole, se si voleva tenere accesa la luce bisognava
tenerlo premuto.
Watson
puntò la torcia in alto, cercando di valutare quanto stretto era il passaggio.
Andare ai fianchi era improponibile: da una parte il vagone si era
completamente accartocciato contro la parete mentre dall’altra si vedevano solo
macerie. L’unica via, era verso l’alto.
La
notizia buona, era che vedeva il soffitto della galleria – o comunque la sua
curva – quella cattiva, era che sembrava esserci qualcos’altro sopra di loro...
e la cosa non lo lasciò fiducioso.
Sospirando,
si mise la torcia in bocca in modo che il labbro superiore tenesse sempre
premuto il pulsante di accensione del led e, assicurandosi bene con le mani in
appoggio al metallo, si alzò in piedi e cominciò a strisciare
nell’intercapedine fra il muro ed il vagone.
Gli
bastò mettersi totalmente in piedi sul finestrino rotto, però, per capire la
situazione.
Sopra
di loro, posizionato con le ruote per aria e per metà completamente schiacciato,
c’era un altro vagone. Non riusciva a capire se dentro di esso ci fossero
sopravvissuti, dato che, contrariamente al loro, era del tutto buio, ma quando
illuminò con la luce uno dei finestrini lo trovò completamente tinto di sangue.
Decise
di lasciar perdere la ricerca di superstiti. Sempre tenendosi bene, però, si
diede un’occhiata intorno.
Si
rese presto conto che tentare la scalata anche del secondo vagone era inutile,
oltre che impraticabile; un vagone sopra l’altro, per quanto danneggiati e
distorti dall’impatto, bastavano per riempire tutta la galleria fino alla
sommità. Alice forse ci sarebbe anche riuscita, ma non aveva la minima idea di
cosa ci fosse là sopra e di certo non voleva prendersi la responsabilità di
lasciare quella bambina da sola. Lui sarebbe riuscito a salire, probabilmente,
ma Joy? Non poteva rimanere senza un medico, ed Edward non sarebbe riuscito ad
arrampicarsi su quel muro con una spalla lussata.
No.
La cosa migliore da fare era non muoversi proprio. Aspettare i soccorsi. Almeno
un altro po’.
Sperare nei soccorsi,
almeno un altro po’.
Appoggiandosi
con la schiena al muro dietro di lui, un po’ più vicino lì sopra rispetto al
livello del finestrino, espirò tutta l’aria che aveva nei polmoni, rassegnato.
Sentì
dolore. Improvviso, pungente. Al fianco destro, come poco prima, ma questa
volta più forte, più sordo.
E
durò un po’ più a lungo; un minuto interminabile in cui non fu in grado di
respirare se non a piccoli tocchi, prendendo fra le labbra sottilissimi
rigagnoli d’aria.
Poi,
tutto tornò normale. Improvvisamente, così com’era cominciato.
Anche
se, quella cosa, normale non lo era
per niente.
Assicurandosi
di essere bene appoggiato con la schiena al muro, in modo da non rischiare di
cadere, si sollevò camicia e maglietta scoprendo il ventre. Si puntò addosso la
torcia e, con suo enorme fastidio, notò qualcosa che non avrebbe dovuto proprio
essere lì.
Un
livido. Una macchia violacea molto estesa, che partiva dall’ombelico e spariva
sotto la cintura dei pantaloni.
Slacciò
anche quelli, tenendo la torcia nuovamente con la bocca. Una volta che si fu
districato con fibbia e bottone, scostò il lembo di stoffa e guardò meglio; il
livido gli prendeva una parte del ventre, quella destra, fino all’anca.
Chiuse
gli occhi per un secondo, deglutendo. Poi, piano, vi appoggiò sopra le dita
della mano destra, premendo delicatamente.
Sentiva
un dolore lieve, fin quasi normale considerando che era stato ripetutamente
frullato dentro un vagone di ferro ed acciaio. Ma non era quello che lo
preoccupava.
Avrebbe
preferito sentire un dolore immenso, ma almeno gli avrebbe detto che quella
chiazza violacea sul suo addome era frutto di un trauma, dunque era solo un
maledettissimo e comunissimo livido da impatto.
Invece
no. Perché il livido c’era ma la pelle, i muscoli e le ossa del bacino non gli
facevano male. Non più del dovuto, almeno.
Il
che voleva dire che quel sangue, quello che andava a formare l’ematoma, veniva
da un’altra parte.
« Merda... » borbottò a bassa
voce, resistendo alla tentazione di sbattere un pugno contro il vagone che
aveva di fronte.
Era
troppo bello esserne uscito quasi del tutto illeso. Troppo bello per essere vero.
Aveva calcolato possibili ossa incrinate di cui non sentiva ancora il dolore, o
stiramenti muscolari, o persino forti traumi da impatto... ma quella era l’ultima cosa che si
aspettava.
Non
la peggiore che poteva capitargli, ma di sicuro non era paragonabile ad una
salutare passeggiata.
« Dottor Watson! » chiamò Edward da
sotto di lui: « cosa vede? C’è
una via d’uscita? » domandò.
John,
richiudendosi i pantaloni ed insaccando in essi la maglietta (ma non la camicia),
scese piano verso il finestrino, rientrando di nuovo nel vagone occupato dagli
altri tre superstiti.
Guardò
le loro espressioni angosciate, le loro ferite. Guardò la gamba di Joy, la
fasciatura di Edward, gli occhi di Alice.
Soprattutto
gli occhi di Alice, spaventati e persi, tuttavia fissi sui suoi, in attesa.
Capì
che non poteva deludere le loro aspettative.
« Siamo bloccati...
» disse infine dopo
qualche istante di silenzio: « o meglio, sopra di noi c’è un altro vagone,
rovesciato. Ho provato a puntare la torcia dentro ma... non credo che ci siano
sopravvissuti. Non ho sentito nessuno muoversi. E comunque dubito che
riusciremo ad arrampicarci » disse, cercando di mantenere la sua voce il più ferma
e composta possibile.
Edward,
Joy ed Alice lo guardarono amareggiati.
« Possiamo sempre
provare, però... » constatò Edward,
sorpassandolo in due grandi falcate per andare a vedere personalmente il buio
della galleria sopra di loro: « magari non è poi così alto, e con un po’ di aiuto... »
« No, non possiamo » lo interruppe
però John, girandosi a guardarlo negli occhi mentre pronunciava quelle parole: « tu non
riusciresti ad arrampicarti con quella spalla, Alice è troppo piccola e Joy non
può nemmeno alzarsi in piedi. Per quanto riguarda me, io rimarrei qui con lei,
non posso lasciarla indietro nelle sue condizioni » spiegò
velocemente, riassumendo in poche parole qual’era effettivamente il punto della
situazione.
Joy
non disse nulla, ma un lampo di terrore le era passato negli occhi stanchi al
pensiero di rimanere da sola in quel posto.
Calò
il silenzio. Solamente il rumore dei loro respiri fu udibile, per un po’ di
tempo, prima che Edward prese nuovamente parola: « suppongo non ci resti altro da
fare se non aspettare... » disse, lasciando
cadere il discorso nell’ovvietà.
John
annuì.
• The Tube;
Waterloo Station, h. 13:15 pm
Auto
della polizia, interni in tessuto grigio scuro. Tappetini consunti: era
attempata. Ventola che fischia dalla parte del passeggero: ha viaggiato in
mezzo alla polvere, forse in una zona di campagna, forse in periferia. Volante,
sicure, cinture di sicurezza, tasti della radio, pulsanti per l’abbassamento
automatico dei finestrini, tutto ciò che mano umana potesse toccare, tutto
sporco d’unto: i poliziotti – due – che la guidavano abitudinariamente
pranzavano seduti in macchina, probabilmente con fish
& chips, molto spesso con kebab e pepsi (ve ne
erano macchie sull’angolo in basso a destra del tappetino dell’autista). Il
sedile del passeggero aveva segni bianchi sul poggia schiena e piccole grinze
sul rivestimento ai lati del sedile: era più grasso del collega al volante e
sudava molto. Ritenzione idrica. Perdita massiccia di sali minerali.
Probabilmente gli avrebbe consigliato almeno degli esami del sangue. O di farsi
vedere da un medico.
John.
Scosse
il capo con forza.
Ancora.
Ancora. Cos’altro c’era da notare?
Lestrade.
Lestrade indossava la stessa cravatta blu a righe bianche sottili da quattro
giorni. Il colletto della camicia spiegazzato. L’impermeabile sporco di
polvere, probabilmente calcinaccio, sulla spalla destra. Le scarpe sporche
sulla punta evidenziavano che piegava i piedi sotto la sedia quando stava
seduto, le poche pieghe sulla parte superiore delle stesse suggeriva però che
fossero abbastanza nuove. Sicuramente di cattivo gusto. Capelli tagliati da
poco, sistemati bene, di certo non un lavoro da moglie, più un lavoro da
barbiere. A colazione aveva mangiato un panino e bevuto un cappuccino di Starbucks, a giudicare dalla briciola di pane incastrata
nell’asola del polsino e l’odore di caffè scadente che si era portato addosso
per tutto il giorno. Risultato finale: scapolo. Definitivamente, a quanto
sembrava. Finalmente, avrebbero detto molti.
Anche John.
Serrando
la bocca, questa volta chiuse gli occhi di scatto.
Sciocchezze,
tutte sciocchezze. Cose che sapeva già. Cose che aveva già visto, già intuito ore prima. Ripetizione dell’ovvio.
Caos.
Nella
sua mente, se non pensava subito a qualcos’altro. Se non deduceva, se non
osservava, se non estrapolava quelle piccole sottigliezze a volte fondamentali,
altre semplicemente ridondanti ed inutili, altre ancora completamente
ininfluenti.
Il
fatto che Lestrade fosse finalmente scapolo non avrebbe riportato John in
superficie. Sapere che il posto che stava occupando in quel momento, seduto in
macchina, Lestrade al volante, era quello di un ciccione assuefatto di finger food non li avrebbe fatti arrivare più velocemente
dall’altra parte del ponte.
Ma
era ordine. Era ordine autoimposto nel
caos dentro di sé.
I
suoi pensieri erano fuori controllo. Volavano ad immagini impossibili,
congetture pessimiste, possibilità remote che non voleva prendere nemmeno in
considerazione.
Come
il pensiero che John fosse già morto. La visione di un paio di paramedici senza
volto che trasportano su dalle scale di Waterloo il suo cadavere su di una
barella sotto un lenzuolo bianco, o dentro ad un sacco nero di plastica.
Il
dolore che portava, il vuoto che lasciava.
No,
basta. Basta.
Voleva
poter smettere di pensare, ma negava questo desiderio perché, a sua volta, quella
volontà negava il suo essere.
Ma
il suo essereurlava, grugniva e si
contorceva. Graffiava la superficie del suo cuore ancora incartato, avvolto nel
cellophane, in quel rivestimento che gli impediva di sbattere troppo forte
contro gli eventi, che gli impediva di rompersi.
Ma
gli aveva anche impedito molte altre cose che da quando c’era John stava
cominciando a vivere pian piano, prendendole fra le mani con la delicatezza che
dedicava solamente alle prove importanti di un caso che si sarebbero presto dissolte
nell’aria.
Maneggiava
quei sentimenti con la stessa cura ma con una diversa, seppur identica, paura.
Ma
poteva farlo solo perché c’era John. E non aveva mai pensato, mai prima di lui,
mai prima di quel momento, che John potesse essere la parte fondamentale, la
chiave di volta di quella struttura architettonica strana e arzigogolata,
fragile ma anche forte che era diventato il loro rapporto.
Adesso
che non era con lui, adesso che avrebbe dovuto calcolare velocemente metodi e
modi, statistiche e probabilità, percentuali e coordinate e derivate e
possibilità di riuscita di chissà quale piano per rivoltare come un calzino
l’intero tunnel e portarlo di nuovo alla luce del sole – di nuovo al suo fianco
– non riusciva a far altro se non sperare, se non andare in confusione, se non
scatenare nei meandri della sua mente quel panico immotivato che portava allo
scompiglio della sua bussola emotiva di solito sempre fissa sul nord.
Il nord: la notte,
l’assenza, il buio, la quiete, il freddo.
Peccato
che fosse John, ora, il suo nord magnetico. Lo era diventato talmente in fretta
ed in modo così naturale, che Holmes faticava sul serio a ricordarsi come fosse
la sua vita anche solo due anni prima, quando di John ancora non c’era traccia;
quando quell’essere di nome John Watson probabilmente giaceva in un letto di un
ospedale militare ignaro che avrebbe ben presto intrecciato il suo destino a
quello di Sherlock Holmes.
Ed
era altrettanto incapace di immaginarsi dove sarebbe stato lui, in quel momento, se qualche scherzo del tempo gli avesse
impedito di conoscere John.
In
quale appartamento, in quale via. In quale vita avrebbe fatto irruzione, senza
John? E John, nel mondo di quale persona sarebbe entrato in punta di piedi,
sedendosi silenziosamente su di una poltrona in un angolo, rimanendo lì finché
essa non avesse cominciato ad essere baciata dai raggi del sole? E solo allora,
solo in quel momento il proprietario di quel mondo avrebbe alzato gli occhi dallo
scorrere della sua vita e si sarebbe accorto che sì, John Watson era qualcosa
di calmo e sereno, qualcosa di bello, qualcosa di fondamentale che fin troppo
spesso si da per scontato.
A
lui era successo nel giro di mezz’ora. Ed ora quella poltrona, nella stanza del
suo palazzo mentale che era tutta, interamente dedicata a John – e che era così simile al salotto del 221B – era
vuota e la luce del sole che Sherlock aveva dipinto per lui con uno schiocco di
dita illuminava solamente l’invisibile necessità che qualcosa, qualcuno occupasse quel posto di velluto
bordeaux.
Quel
qualcuno era John Watson e John Watson era intrappolato nel metallo a svariati
metri sotto il Tamigi.
Al
buio, nella solitudine, nel dolore... nel sangue, forse.
Al
solo pensiero, gli veniva la nausea.
« Ok, siamo
arrivati ».
La
frase di Lestrade fu come il segnale di via. La sua coscienza si staccò subito
da quello strano limbo fatto di immagini improponibili e da logiche funzionali,
poltrone vuote e fasci dorati di luce sul nulla.
La
sua mente, che fino a quel momento si era divertita a giocare a “c’è o non c’è”
con il suo cuore neonato, tornò a concentrarsi su ciò che c’era di veramente
concreto, di davvero fattibile.
Fu
fuori dalla macchina nel giro di tre secondi, e tallonava un insolitamente
svelto Lestrade nel giro di quattro.
Guardandosi
attorno, il sentore della tragedia diventava sempre più tangibile attimo dopo
attimo.
Tutte
le strade che circondavano il complesso della stazione di Waterloo erano state
chiuse al traffico e persino i mezzi di servizio, gli unici autorizzati ad
avvicinarsi, dovevano entrare nella zona a passo d’uomo a causa del numero di
persone al lavoro.
Sherlock
lanciò occhiate a tutti coloro che incontrava, ancora incapace, nonostante la
volontà di farlo, di controllare appieno la sua mente fuggita dal suo ferreo
autocontrollo.
Informazioni
e dati, ovunque, gli pervenivano nel cervello senza che esso fosse in grado di
operare un distinguo, scartando subito quelle essenziali da quelle inutili,
quelle importanti da quelle tralasciabili, indegne di essere anche solo
memorizzate.
Vi
erano poliziotti della Met, vigili del fuoco,
paramedici, tecnici della TfL, ingegneri civili ed
edili, periti. Parenti, poco lontano, dietro una linea bianca e rossa di
plastica sottile, infrangibile anche solamente tirando ma idealmente talmente
robusta da trattenere quell’orda di persone preoccupate per i loro cari.
Li
osservò per un istante.
Un
uomo sulla quarantina pallido e preoccupato, capelli biondi pettinati
all’indietro, cappotto nero sopra un vestito molto elegante, cravatta bordeaux,
ventiquattrore costosa di pelle lavorata. Avvocato. Veniva direttamente dal
lavoro, o dal tribunale, ma più verosimilmente dallo studio in cui lavorava con
altri due colleghi. Fumatore, a giudicare dalla macchina di cenere sul colletto
del vestito, urtata con qualcosa ma non con l’intenzione di toglierla, dunque
ancora non notata.
Una
coppia di anziani vestiti con vecchi abiti del decennio scorso, lui con un paio
di pantaloni beige a coste e un maglioncino infeltrito grigio, lei con una gonna
verde muschio ed una giacchetta rossa con grandi bottoni dorati. Senza
cappotto: probabilmente abitavano nelle vicinanze ed erano usciti non appena
avevano sentito le sirene. Non avevano l’aria di essere solamente dei curiosi,
a giudicare dall’espressione ansiosa di entrambi; lei piangeva, lui la
stringeva a sé per le spalle con un braccio.
Una
ragazza, giovane, forse ventenne. Jeans schiariti, maglioncino con scollo a
barca, maglietta nera sotto, cardigan color perla sopra. Capelli lunghi e rossi
raccolti in una coda, scarpe consunte, macchiate di fango: veniva dalla
campagna, o comunque dalla periferia della città. Arrivata in treno,
probabilmente si dirigeva proprio in una delle stazioni vicine, dato il fiatone
procuratole sicuramente dalla corsa per arrivare a quella fermata a piedi.
Niente valigia, ma borsa grande e spaziosa a tracolla, cellulare all’orecchio.
Senza segnale, probabilmente, dato che non stava parlando ma solamente
guardando l’entrata della stazione con sguardo terrorizzato e preoccupato
insieme.
Per un solo
istante, uno solo, Sherlock si chiese se non lo avesse anche lui, quello
sguardo.
Scostò
gli occhi dalla folla di amici/parenti/curiosi e posò gli occhi sulle persone
all’opera per garantire i soccorsi. Vigili del fuoco che srotolavano prolunghe
per manichette antincendio, che portavano a mano estintori presi dai palazzi a
fianco o portati dal personale degli stessi, che berciavano ordini a destra e a
sinistra organizzando squadre di pochi uomini per volta, che riemergevano dalla
metropolitana sporchi di polvere bianca, olio per motori, macchie di sangue.
Portavano su brutte e belle notizie, accompagnavano i superstiti in grado di
fare qualche passo senza crollare, lasciandoli poi nelle mani di paramedici dai
sorrisi falsi e dalle mosse frettolose che decidevano con una sola occhiata se
poteva salire su un’ambulanza o doveva aspettare, perché quell’ambulanza
serviva a qualcuno più grave di lui.
Vide
John, in uno di quei paramedici.
John
era il superstite che un pompiere stava accompagnando su dalle scale. John era
la persona seduta nel retro di un’ambulanza con mezza faccia ricoperta di
sangue e l’altra metà di lacrime e polvere. John era l’infermiere che
controllava con la torcia la reazione pupillare di una ragazza. John era il
tecnico che correva verso un tavolo improvvisato con alcune assi di compensato,
trasportando mappe arrotolate sotto il braccio. John era il vigile del fuoco
che si puliva con il fazzoletto la faccia dallo sporco.
John era il
cadavere sulla barella, coperto da un lenzuolo bianco e con un cartellino
legato all’alluce del piede nudo.
Chiuse
di nuovo gli occhi, stringendoli forte, rallentando l’afflusso di informazioni.
Non
aveva più controllo di ciò che vedeva e sentiva.
Non
era come quando si annoiava, a casa, dove assorbiva ogni cosa avesse intorno
poiché poteva dargli spunto per esperimenti interessanti; tutto ciò che aveva
intorno, in quel caso, stava senza sosta penetrando con forza nelle sue meningi
e pretendeva di rimanerci incastrata, generando confusione, intoppo, caos.
Panico.
Perché
l’unica cosa a cui avrebbe voluto pensare era John, ma se anche solo sfiorava
quel pensiero il cuore gli si contraeva in uno spasmo doloroso.
Non
capiva cosa stava provando, non capiva l’origine di quel dolore e non capire
qualcosa gli impediva di continuare a ragionare coerentemente, quindi tutta
quella maledetta situazione lo stava gettando in una condizione di completa e
totale confusione.
Era
come avere un continuo ronzio nelle orecchie.
« Sherlock? ».
Di
nuovo, fu la voce di Lestrade a distrarlo. Aprendo gli occhi se lo ritrovò di
fronte e si accorse solo in quel momento che stava trattenendo il respiro. Lo
rilasciò, ricominciando a prendere aria. Si mise nella condizione di ascoltare
ciò che l’ispettore aveva da dire.
Greg,
osservandolo bene, capì subito che c’era qualcosa che non andava. E Sherlock
capì che l’altro aveva capito.
Sherlock
deglutì, indeciso su cosa rispondergli. Annuì con il capo, perché probabilmente
la voce avrebbe tradito un’altra risposta.
Quella
contraria.
Lestrade
sospirò, guardando per un secondo la folla dietro le transenne. « Senti... so che è
una frase fatta, ma andrà tutto bene, ok? Quindi... »
« No, invece » lo interruppe
Holmes, rapido e veloce, appuntito come un chiodo: « non ci sono
abbastanza probabilità che una persona coinvolta in un disastro ferroviario di
queste dimensioni sia sopravvissuta all’urto. Sono pochissime, infinitesimali.
Oppure potrebbe essere sopravvissuto ma avere riportato ferite gravi. Potrebbe
anche non essere mai trovato. Potrebbe essere già stato portato via da una di
quelle ambulanze ed infilato in un sacco nero. Potrei trovarlo su un tavolo
dell’obitorio del Bart’s... » una pausa, gli
occhi che si fissano su di un particolare lontano, probabilmente senza vederlo
davvero: « ...potrei
trovarlo fa i cadaveri del Bart’s... » ripeté
meccanicamente, prendendo coscienza di quella possibilità dalla propria voce.
Vide
John steso su di un tavolo di metallo, e lui in piedi di fianco con mani chiuse
in guanti di lattice bianchi, pronto a staccare chissà quale parte o
sperimentare chissà quale trauma post-mortem.
Un
fiotto di nausea gli fece serrare i denti. Lestrade lo chiamò di nuovo all’ordine.
« Sherlock, no » gli disse,
sicuro: « John Watson non
morirà oggi. Il dottore tornerà a casa, tornerà alla sua vita, alla sua
poltrona, al tuo fianco... » una piccola pausa, gli occhi di Greg fissi in quelli
del detective: « se John Watson è
in grado di essere tuo amico,
alloraun incidente come questo per lui
è una bazzecola. Lo tireremo fuori da lì, Sherlock, ma tu devi crederci ».
Sherlock
osservò Lestrade, per la prima volta da quando lo conosceva, come se le sue
parole divenissero d’argento puro non appena pronunciate.
Oh,
come invidiava quell’ottimismo illogico delle persone normali; anche John lo
aveva, sempre. Usciva da lui per osmosi ed entrava in Sherlock come se fosse un
suo vaso comunicante.
Il
moro aggrottò un poco le sopracciglia, stirando lievemente le labbra in un
sorriso... triste? Probabilmente Lestrade lo avrebbe definito così, se avesse
avuto il coraggio di ammettere la realtà delle cose.
Se
avesse avuto il fegato di risparmiare a se stesso una menzogna, e a Sherlock
una speranza inutile.
Ma
come ogni altra persona lui si era voluto rendere cieco al dolore, al buio,
all’antitesi della speranza, perché è vero che essa è l’ultima a morire – e per
fortuna.
Dopotutto,
alla fin fine, è la speranza che fa muovere in avanti le persone. E se Sherlock
era così impossibilitato a sperare a causa della sua mente logica e squadrata,
allora Lestrade si sentiva in dovere di farlo anche per lui, facendo sì di imporgli
un passo avanti all’altro, comunque, in ogni caso.
« Un concetto molto
alla J. M. Barrie, Lestrade... » soffiò Sherlock,
l’espressione meno tesa ma comunque ancora confusa: « credi davvero
nelle fate? » domandò.(1)
Lestrade,
continuando a guardarlo, sospirò. « Smetti di fingere di non aver già trovato
il tuo cuore, Sherlock » disse
semplicemente, facendogli segno di seguirlo e dirigendosi verso l’entrata della
stazione metropolitana.
Se
lo avesse già trovato o meno, Sherlock non sapeva dirlo con certezza.
Ciò
che sapeva per certo, era che si sentiva come se fosse ad un passo dal perderlo.
• Westminster, Diogenes Club, h. 13:30 pm(2)
Mycroft Holmes, eleganza e rigidezza avvolte in
un completo gessato grigio con cravatta di seta rosa antico, era in piedi
davanti alla finestra con le mani unite dietro la schiena.
Nei
suoi occhi, il Tamigi. Riflesse sulle sue acque, le luci blu delle ambulanze e
delle camionette del FireDepartment.
Il
Diogenes Club era già sufficientemente lontano dal
luogo dell’incidente, ed un intero fiume separava la Stranger’sRoom dalle stazioni di Enbankment
e Waterloo, ma Mycroft poteva tranquillamente
immaginarsi il suono acuto delle sirene dei mezzi di soccorso spezzare la
quiete nella sua mente.
Una
volta appurato che non era stato un atto terroristico di sorta, la priorità del
caso non aveva più richiesto il suo intervento. Tuttavia era rimasto in piedi
lì, in quella stanza in cui lo scambio verbale con chicchessia non era vietato,
attendendo notizie.
Aveva
una sensazione strana. Come un formicolio sulla punta delle dita che non lo
lasciava in pace, tormentandolo.
Bussarono
alla porta.
« Avanti » disse lui, la
voce modulata e profonda.
« Signore, il caso
è risolto » lo informò uno
dei suoi agenti, impeccabile nel suo completo nero con occhiali da sole ed
auricolare: « suo fratello si è
occupato di trovare la causa, sembra non sia nulla d’importante » disse.
Mycroft, che aveva ascoltato il breve resoconto
dando le spalle alla porta, annuì con il capo. « Immaginavo » commentò
solamente, per poi aggiungere: « c’è dell’altro? ».
« In realtà... » cominciò quello,
indeciso se riportare o meno quell’informazione per metà incompleta: « il signor Holmes
è rimasto sul luogo dell’accaduto, accompagnato dall’ispettore Lestrade. Non
sappiamo cosa sia successo con precisione, stiamo ancora indagando » riferì.
Mycroft strinse le labbra in un breve moto
d’insoddisfazione, ma date le spalle non lo diede a vedere. « Tenetemi
informato » congedò il suo
uomo, che venne accompagnato nuovamente all’uscita dall’inserviente del Club.
Si
era appena permesso di far scivolare quel pensiero nella sua mente quando il
cellulare sulla scrivania vibrò sommessamente. Un messaggio, constatò Mycroft che in pochi, svogliati, strascicati passi afferrò
il cellulare.
Osservando
il nome del mittente, un sopracciglio gli si sollevò leggermente.
« Devi essere
proprio in un vicolo cieco per rivolgerti a me, Greg... » sussurrò, aprendo
l’sms.
• The Tube;
Waterloo Station, h. 13:40 pm
« Quello che mi sta
chiedendo è semplicemente impossibile » decretò con stizza il comandante dei
vigili del fuoco, agitato e sudato dentro la sua divisa color cachi a strisce
catarifrangenti gialle.
« Non è
impossibile, comandante, solo sconsigliato » ribatté Lestrade, deciso più che mai a
vincere quella battaglia verbale.
« Sì, e se è
sconsigliato c’è un motivo! » rimbalzò la palla il comandante, muovendo i folti
baffi grigi e assottigliando gli occhietti tondi e scuri: « mandare un civile
là sotto, senza il minimo addestramento pratico, è una follia. Ho già a che
fare con un disastro, Ispettore, non voglio avere altri morti sulla coscienza » decretò, suonando
definitivo.
Ma
Lestrade era cocciuto. « Potrà non aver
ricevuto l’addestramento necessario, ma ha collaborato molte volte con la mia
squadra durante la risoluzione di casi importanti » e Dio solo sapeva
quant’orgoglio si stava ingoiando per dire quelle parole, tuttavia continuò: « vi sarebbe utile
là sotto, e se affiancato a qualcuno della sua squadra sono sicuro che non
causerà fastidi o problemi di nessun tipo » disse, convinto – o suonando tale.
Il
pompiere roteò gli occhi. « I vostri casi? Scusi la scortesia Ispettore, ma voi
tirate fuori gente da palazzi in fiamme, per risolvere i “vostri casi”? » domandò, mimando
le virgolette con le dita.
Greg
cominciava ad irritarsi, ma per mantenere le trattative aperte si sforzò di non
darlo a vedere. « Lei non vuole
sapere da quali buchi tiriamo fuori gente, comandante... » rispose
semplicemente, limitandosi a fissare il suo sguardo in quello piccolo del
comandante.
C’era
un motivo preciso per cui Lestrade, appena una decina di minuti prima, aveva
deciso di chiedere il permesso al comandante delle operazioni di soccorso – il
sopracitato, baffuto, ometto – di far scendere Sherlock nel tunnel per farlo
partecipare alle operazioni.
Semplicemente,
conosceva Sherlock Holmes.
Holmes
era un individuo spocchioso, arrogante, che sottolineava ogni tuo errore e vi
trovava vantaggi, svantaggi e soluzioni tutto allo stesso tempo. Aveva anche la
brutta abitudine di non togliersi mai dalla faccia quel suo sguardo vigile e
deciso, e non perdeva mai occasione di dire la sua opinione, a meno che fosse
consapevole che la stessa, ovviamente sempre e comunque veritiera e ragionata,
non sarebbe comunque stata ascoltata.
In
definitiva, Lestrade conosceva Sherlock Holmes da un quantitativo sufficiente
di anni per poter dire con una certa percentuale di sicurezza che l’individuo
dietro di lui, silenzioso e dallo sguardo allo stesso tempo confuso ed
irrequieto, non era il solito Sherlock.
E
per un qualche motivo che gli suggeriva solamente l’istinto – una stretta allo
stomaco, un nodo duro da inghiottire in gola – aveva la sensazione che, se lo
avesse lasciato lì fuori ad aspettare,
la situazione sarebbe solo potuta peggiorare.
Sherlock
invece, in piedi dietro a Greg, si limitava a rimanere in silenzio. Ancora
immerso in quello strano stato catatonico mentalmente iperattivo, paradosso
stesso del buon senso, osservava i due senza fare una piega.
Lo
Sherlock normale non sarebbe rimasto ad aspettare permessi di sorta, si sarebbe
buttato e basta. Era proprio questo che intendeva Lestrade.
I
due si stavano ancora fissando in cagnesco – uno di loro avrebbe presto
cominciato a ringhiare sommessamente – quando un pompiere si avvicinò all’omino
baffuto e tarchiato così tanto legato al proprio regolamento.
« Comandante, un
messaggio per lei » disse,
porgendogli un figlio bianco con sopra scarabocchiato qualcosa in una
calligrafia lunga e spigolosa.
Quello
lo fulminò con lo sguardo porcino. « Può aspettare! » berciò, facendo
sobbalzare l’altro pompiere.
« N-No,
signore...è urgente » rispose quello
con tutto il coraggio che riuscì a racimolare. Lestrade pensò, a ragione, che
quegli uomini preferissero affrontare fiamme e grandi altezze piuttosto che
discutere con il loro comandante.
Quello,
riservandosi di squadrare di nuovo Greg e Sherlock, prese il pezzo di carta e
lesse il messaggio.
Non
una, ma bensì tutte e due le sopracciglia si sollevarono nella lettura di
quelle poche righe, tornando poi velocemente a corrugarsi quando lo sguardo si
posò nuovamente sull’ispettore.
« Lei ha amicizie
influenti, Ispettore Lestrade... » osservò, forse un po’ colpito nel punto
debole.
“Più
che altro, è Sherlock che ha parenti influenti” si trovò a pensare Lestrade.
Non lo disse ad alta voce.
« Questo è un
ordine che non posso ignorare » asserì l’uomo, trapassandolo con gli occhi: « ...però non andrà
in quella galleria vestito in quel modo! » esclamò poi, facendo passare lo sguardo
sul solito completo scuro che Holmes indossava, cappotto e sciarpa annessi. Il
comandante continuò: « gli daremo una
nostra divisa. Chiedete al ragazzo che mi ha portato il messaggio, gliene darà
una » mentre parlava,
il suo tono si faceva sempre più rassegnato.
Poi
parlò direttamente a Sherlock: « la affiderò al capo della squadra di soccorso che è
già là sotto. Si chiama Nicholas Ryder, gli dirò che
sta arrivando. Segua le sue indicazioni e gli stia accanto, se non lo farà la
manderò a prendere dai miei ragazzi e lei non metterà più piede all’interno non
solo del tunnel, ma di tutta l’area dei soccorsi, e le assicuro che in quel
momento non me ne fregherà proprio niente delle alte sfere del Governo. Tutto
chiaro, signor Holmes? » domandò.
Sherlock,
che in realtà aveva ascoltato il discorso solo marginalmente, annuì. Si diresse
senza parlare verso il ragazzo visto prima, attaccato alla radio di una delle
camionette, riferendo ciò che il comandante aveva appena pronunciato.
Da
lontano, Lestrade sospirò, appena più sollevato.
« Posso almeno
sapere il perché di questo privilegio? » intervenne il comandante del FireDepartment, osservando a sua
volta lo strano ragazzo con gli occhi azzurri che riceveva una divisa dei
vigili del fuoco e si dirigeva nel retro del furgone per cambiarsi.
Greg
sospirò. « Una persona a cui
tiene è là sotto. Questa persona è... beh... che vuole che le dica? Sarebbe un
discorso troppo lungo spiegarle chi è
John Watson, comandante, e le giuro che se il signor Holmes non fosse completamente
nel pallone a causa di tutto ciò che sta succedendo, a quest’ora avrebbe come
minimo già tentato di prenderlo a calci in bocca » disse Lestrade.
L’altro,
sbuffando, scosse il capo con rassegnazione. « Incredibile... autorizzare una
cosa così pericolosa per una persona sola... » borbottò, staccando poi la
ricetrasmittente dal fianco e portandosela alla bocca: « Superficie a
tunnel; Nick, mi ricevi? » cominciò.
Lestrade
si trattenne dallo spiegare oltre.
Non
era come separare un paio di amici, di migliori amici, di amanti o una moglie
da un marito. Nell’immaginario di tutti, Sherlock Holmes e John Watson ormai
non erano più entità separate; loro erano Holmes e Watson, Sherlock e
John. Era come dire “Butch e Cassidy”
o “Bonnie e Clyde”.
Inseparabili,
era così che li vedevano tutti. E quindi, per definizione, non dovevano essere
separati.
Quando
Sherlock fu pronto, una volta indossata la tuta e sostituito le sue scarpe con
un paio di scarponi, prese il casco che gli veniva dato e ripercorse la strada
dalla camionetta all’entrata della stazione. Lestrade lo aspettava là, le mani
in tasca.
Non
sentiva veramente il bisogno di dirgli qualcosa. E, anche se forse era
socialmente preferibile, in effetti non lo fece. Si limitò a guardarlo.
« Io sono qui
fuori, se ti servisse qualcosa... » cominciò l’altro, ma Sherlock lo
interruppe.
« La prossima volta
che ti senti in diritto di interpellare mio fratello, almeno avvertimi » disse, ovviamente
consapevole a chi si riferiva il comandante con “amici influenti”.
Lestrade
aveva solo un “amico” – fra
virgolette – influente: Mycroft.
Greg
sorrise appena. « Non sei tu ad
avere un debito con il Governo, ora » ironizzò, tornando però subito serio: « Sherlock... John
è anche mio amico. Portalo fuori » gli disse, la voce profonda.
Holmes
annuì, incamminandosi verso la rampa di scale che scendeva in profondità.
Prima
che cominciasse a scendere, però, il cellulare nella sua tasca vibrò. Prendendolo,
sbloccò lo schermo e lesse il messaggio.
-Trovalo.MH
Non
era un incoraggiamento, no. Si vedeva.
Quello
era Mycroft che esprimeva un desiderio.
Il
pensiero che suo fratello potesse trovare in John non solo una risorsa, ma
anche qualcosa che si avvicinasse alla definizione di “amico”, avrebbe anche
potuto irritarlo un poco, o per lo meno suonargli ironico.
Ma
in quel momento, quell’unica parola divenne per Sherlock un imperativo
categorico.
Trovalo.
E
nella sua mente tornò la pace.
• The Tube; Waterloo
> Enbankment (Rescue Team), h. 14:15 pm(3)
Nicholas
Ryder stava camminando nel tunnel semi illuminato, a
ritroso rispetto alla carcassa di metallo del convoglio.
Stringeva
in mano la torcia, portava con sé una piccozza con cui aveva appena frantumato
il vetro di uno dei vagoni di coda e la sua pelle trasudava incazzatura da
tutti i pori.
Ebbene
sì, Nick era profondamente inviperito.
Appena
mezz’ora prima aveva ricevuto ordine dal suo comandante di fare da balia – e al
solo pensiero gli esplodeva il fegato – ad un povero civile imbecille con
conoscenze altolocate, del tutto intenzionato a passare il resto della giornata
bazzicando fra i vagoni del treno incidentato e fra la gente che faceva il
proprio lavoro con fatica e dedizione.
A
nulla erano valse le sue rimostranze: il comandante aveva le mani legate, e
così lui.
Quando
si fu allontanato di quasi trecento metri dal treno, poté finalmente vedere
l’ombra di una persona che camminava in sua direzione, torcia in mano. Una
figura slanciata, magra, che sembrava sparire in quella divisa da pompiere
leggermente fuori taglia ma che, allo stesso tempo, dava l’idea di un individuo
agile ed atletico.
Dovette
ricredersi. Non appena aveva ricevuto la chiamata dalla superficie, si era
subito figurato quello Sherlock Holmes come uno snob con la puzza sotto il
naso, imbranato e senza la minima idea di dove mettersi per riuscire a stare in
piedi; si aspettava quasi di vederselo arrivare in un gessato nero con
mocassini di pelle lucida al seguito.
« Signor Holmes? » chiamò dunque,
avvicinandosi con passo svelto all’uomo. Solo quando gli fu abbastanza vicino
poté notare il colore di quegli occhi e, chiedendosi se facevano lo stesso
effetto a tutti, ne rimase affascinato per un istante.
Quando
si vide l’altro annuire, Nick annuì a sua volta. « Nicholas Ryder» si presentò
velocemente, squadrandolo da capo a piedi: « ...che fine ha fatto il suo casco? » chiese dunque,
cercando di non suonare acido come in realtà pensava esattamente di essere
sembrato.
Sherlock,
alla domanda, non nascose una smorfia seccata. « Mi sembra totalmente inutile
portarne uno. Se ci crolla addosso la galleria, Tamigi compreso, non vedo cosa
potrei farmene di un casco. Ed inoltre mi è troppo grande, mi impedisce di
guardarmi totalmente intorno, e se non mi guardo del tutto attorno non riesco a
pensare con completezza. Motivo per cui, ora come ora il mio casco lo sta
indossando la prima luce di segnalazione dopo la stazione di Waterloo » spiegò
velocemente.
Ryder rimase un tantino sbilanciato da quella
spiegazione, riprendendosi solamente dopo che il suo cervello ebbe avuto
qualche istante per scollare tutte le parole e carpirne il senso.
Fece
schioccare le labbra. « Come vuole... » si limitò a dire:
« ...ma voglio
sapere perché è qui » aggiunse,
fissandolo negli occhi.
Nick
faceva quel lavoro da poco rispetto a molti altri suoi compagni, ma se si era
meritato la guida di una squadra di soccorso magari voleva dire che se l’era
guadagnata; con un pizzico di talento, forse, ma anche sudando sodo ed
impegnandosi.
Ciò
voleva dire che, anche se tendeva ad un trattamento egualitario nei confronti
di tutti, in situazioni d’emergenza lui era
quello che decideva. Compito non facile, certo, soprattutto perché loro erano sempre in situazioni d’emergenza, ma
nell’ingrato peso che gli era toccato portare sulle spalle era comunque il
capo, e tale era la sua posizione; in
primis con i suoi compagni, e in secundis con i civili in vena di sentirsi Robin Hood
per un giorno.
Se
proprio doveva accollarsi questo Sherlock Holmes – nome che comunque non gli
risultava nuovo, chissà perché... – almeno voleva sapere il motivo per cui
avrebbe dovuto farlo.
O
meglio: si sarebbe preso la briga di decidere, in base a ciò che l’altro gli
avrebbe detto, se poteva o meno rischiare una fetta della propria incolumità
per cercare di fare di Sherlock Holmes un pompiere onorario, spiegandogli come
ci si muoveva sulla scena di un disastro con un corso accelerato in pillole.
Holmes,
dal canto suo, lo fissò a lungo. Sembrava non avere la minima intenzione di
rivelargli un bel niente, ma probabilmente capiva da sé che camminare
controvento, in quella situazione e con la fretta incombente di trovare John,
non era il caso. Avrebbe fatto il bastian contrario
un’altra volta.
“Sherlock, farai
il bastian contrario un’altra volta. Aiutami con la
spesa, ora!”
Deglutì,
ignorando sia il ricordo che il battito perso dal suo cuore silenzioso. « Sto cercando una
persona. È sul quel treno, da qualche parte, e io devo trovarlo » si limitò a
dirgli, sintetico e pragmatico.
Nicholas
non era assolutamente convinto. Ma la convinzione che non sentiva in sé,
purtroppo, poteva vederla negli occhi chiari di quello sconosciuto d’alte
conoscenze.
Chissà
perché quello sguardo gli sembrava così... devoto. Perso, ma allo stesso tempo
deciso. Speranzoso, forse, in fondo a quelle iridi, ma anche desideroso di
dimostrare a se stesso di sbagliare.
Lo
sguardo di una persona che sapeva dell’impossibilità di ciò che cercava, ma
aveva puntato il tutto per tutto sul cavallo perdente in ogni caso. Nick non
sapeva dire se per speranza o per disperazione.
Non
gli importò. Aveva visto quell’espressione addosso a molte altre persone,
persone che ci avevano anche lasciato le penne, salvando però le vite di altri.
Sospirando,
si fece bastare la spiegazione stringata appena ricevuta.
Chi
era lui per tarpare le ali a quell’uomo? Chi era lui per impedirgli di
provarci?
Si
impose il pensiero che quelle di Sherlock Holmes potevano essere un paio di
mani in più, dunque lo prese come tale: un aiuto di qualche tipo. Nient’altro.
« Andiamo, signor
Holmes... » sospirò, facendogli
segno con il capo di seguirlo: « spero per lei che abbia uno stomaco forte ».
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach), h. 15:00 pm
Appurato
che non c’era via d’uscita fattibile, John si era seduto con la schiena alla
porta chiusa del vagone.
La
piccola Alice gli si era accoccolata addosso, seduta sulle sua gambe con le manine
strette alla sua camicia, e con la testa appoggiata al suo petto aveva
continuato per tutto il tempo a respirare quieta, osservando un punto in
lontananza senza mai scostare lo sguardo. Ogni tanto piangeva, stringendo gli
occhi in una smorfia addolorata e singhiozzando appena, ma quando succedeva lui
era sempre lì, pronto ad accarezzarle la schiena e a posarle un bacio gentile
fra i capelli.
Di
fronte a lui, appoggiato alla porta speculare, Edward era seduto in silenzio,
una gamba piegata e l’altra stesa in avanti. Aveva chiuso gli occhi per dieci,
forse venti minuti in quel silenzio carico d’aspettativa ma anche pregno
d’attesa, ma non dormiva, John poteva dirlo. Semplicemente – probabilmente – pensava.
Joy,
accomodata a poca distanza da Edward, ancora ancorata al sostegno di ferro di
fianco alla porta, sembrava passare da momenti di veglia a momenti di
confusione. Era pallida, aveva notato Watson con un moto d’impotenza, e la
benda che le aveva girato più volte attorno alla gamba si era ormai
imporporata, macchiandosi di sangue. Tuttavia non sembrava aumentato,
nell’ultima mezzora, segno che l’emorragia si era fermata. L’unico sollievo che
si era potuto permettere.
Chiudendo
poi gli occhi solo per un attimo, l’ex soldato si era infine concentrato su se
stesso.
Non
aveva ancora fatto parola agli altri occupanti della carrozza del livido
comparso sul suo addome, e non aveva nemmeno osato sollevare di nuovo la
camicia per constatare le proprie condizioni. Poteva però quasi sentire – e non
sapeva se si trattava di soggezione o realtà dei fatti... probabilmente la
prima, sperava non la seconda – i suoi intestini stringersi in una morsa lenta
ma strangolatrice, come se si fossero trovati fra le spire di un boa constrictor.
Poteva
immaginare cos’avesse, e non sarebbe stato insolito. Lesioni come quella
avvenivano molto spesso, in incidenti di quel tipo, e se veramente era ciò che
pensava che fosse, era anche abbastanza usuale che non si fosse accorto subito
del dolore, o che esso non si fosse manifestato nell’immediatezza.
Tuttavia,
se veramente era nella situazione che pensava, probabilmente sarebbe andata
sempre peggio. Aveva bisogno di un ospedale e non solo lui, anche Joy. La
piccola Alice fortunatamente non aveva nulla se non le ginocchia sbucciate,
cosa che aveva provveduto a medicare con qualche cerotto di fortuna che Joy
aveva nel portafoglio.
Non
poteva dirlo agli altri, no. Non quando contavano su di lui per i loro problemi
medici. Avrebbe resistito.
Aveva
ancora tempo... forse. Almeno un po’, ne aveva.
Solo...
avrebbe voluto rivedere Sherlock... prima di...
« Dottore? ».
La
voce della bambina, ancora sistemata sul suo petto, lo distrasse dai suoi
pensieri e John riaprì gli occhi, guardandola.
« Sì, Alice? » le chiese
sorridendo, mantenendo un tono basso di voce.
Come
se quel silenzio, spezzandosi troppo in fretta, avesse potuto provocare loro
altre ferite.
La
piccola lo guardò con occhi lucidi, mordendosi il labbro inferiore per non
scoppiare a piangere di nuovo. Poi, tirando su con il naso, gli domandò: « adesso è come uno
di quei film che papà guarda sempre alla televisione? Quelli dove sono tutti al
buio ma poi escono fuori e sono felici tutti? ».
Il
tono di quella bambina, quello sguardo spaventato ma anche pieno di speranza,
avevano il potere di intenerire John in un modo che non credeva possibile.
Anche lui da piccolo aveva creduto sempre nella magia, nel lieto fine, che
tutto si sarebbe risolto con nei film d’azione alla televisione, dove un eroe
senza paura andava a salvare le persone intrappolate sugli aerei, nelle
gallerie, sulle montagne.
Forse,
era lì che trovava il coraggio di non farsi catturare dai problemi. Forse,
inoltre, aveva continuato a farlo in quella prospettiva anche dopo l’infanzia,
credendo che ogni cosa si potesse risolvere con la giusta dose di audacia.
Tenendo
il sorriso stanco ma gentile dipinto sulle proprie labbra, le rispose: « stai tranquilla
Alice, non moriremo » suonando
convinto.
Edward,
riaprendo gli occhi, alzò lo sguardo su di lui. « Come fa ad esserne sicuro,
dottore? » domandò.
John,
stringendo di più a sé la bambina per consolarla, sbuffò un sorriso ironico. « Perché sono stato
per anni in situazioni potenzialmente mortali, e ne sono sempre uscito » gli rispose,
senza aggiungere altro.
Ciò
che doveva essere dedotto da quel silenzio, fu colto dallo stesso Edward. « Lei... è stato in
guerra? » domandò, una luce
particolare negli occhi che John riconobbe subito come ammirazione.
Avrebbe
tanto voluto spegnerla, quella luce. Però annuì.
« Dove? » chiese allora il
giovane fuciliere.
« Afghanistan... » pronunciò John,
quasi convinto di quale sarebbe stata la domanda successiva che si sarebbe
sentito rivolgere.
Non
pensava di essere pronto a rispolverare il periodo passato in Afghanistan. Lo
aveva fatto solo una volta, con la sua terapeuta, prima di incontrare Sherlock
e non averne nemmeno più bisogno, di una terapeuta.
Sherlock,
già... Sherlock non gli aveva mai chiesto niente dell’Afghanistan. Chissà,
magari aveva capito tutto da una qualche macchia strana sulla sua valigia già
dal primo giorno; non si sarebbe affatto sorpreso, se gli avesse detto che
effettivamente era così. Ormai non si sorprendeva più di niente.
Edward
lo guardò con aria estasiata, vedendo nella sua persona una specie di eroe
nazionale.
Altri,
prima di lui, avevano avuto quello sguardo. Praticamente tutti quelli che avevano
visto le croci al valore sulla sua divisa – prima che la togliesse del tutto –
e tutti coloro che sentivano nelle parole “veterano di guerra” una sorta di
lode al patriottismo inglese.
Nulla
in contrario. Era partito volontario anche
per la propria patria. Ma per lui, essere in congedo non aveva mai significato
l’essere libero, o l’essere finalmente a casa.
Piuttosto,
l’opposto. Si era sentito inutile. Per questo aveva sempre evitato di
raccontare la guerra.
Ma
quel soldato, quel ragazzo, aveva
quella strana luce negli occhi. La stessa che aveva avuto lui quando aveva
firmato il permesso per imbarcarsi e andare a combattere nel deserto roccioso
dell’Afghanistan.
Per
questo, aspettandosi quella domanda, decise che gli avrebbe risposto.
Solo
questa volta.
« Ha partecipato a
molte missioni? » gli domandò il
soldato.
John
chiuse gli occhi, annuendo. « All’inizio... » cominciò, sentendosi improvvisamente la
bocca impastata: « ...all’inizio fui
mandato a Kabul. Era già stata conquistata quando decisi di imbarcarmi e
avevano bisogno di medici per l’ospedale militare di zona. Mi limitavo a curare
i nostri soldati feriti durante l’Enduring Freedom(4)
e, successivamente, anche i civili afghani che avevano bisogno di cure
mediche... » una piccola
pausa. Parlare di quel periodo era diventato più... facile.
« Poi il nostro
contingente, insieme a quello americano e alle nazioni unite, conquistò Herat e fui mandato all’ospedale da campo allestito in
quella zona. La situazione era più dura, i feriti più gravi. Fui promosso a Tenente
e mi mandarono a Kandahar. Ci limitavamo agli
ospedali da campo... » raccontò,
trovando la pronuncia di quelle parole meno difficoltosa di quanto si era
immaginato.
Aveva
tutta l’attenzione di Edward e, si accorse, anche quella di Joy e di Alice.
« Fu lì che feci
richiesta di essere inserito in una squadra d’azione. Ogni medico militare
viene addestrato per portare soccorso sul campo, quindi sapevo combattere, ed
essendo un fuciliere anche sparare. Mi accontentarono e fui mandato in prima
linea durante l’invasione delle provincie di confine con il Pakistan, dove i
talebani si erano ritirati. Eseguii parecchie missioni in prima linea, come
medico di squadriglia, poi mi promossero a Capitano e guidai un plotone mio per
altre sei missioni. Nell’ultima... » deglutì, respirando piano: « ...mi spararono.
Il mio plotone fu decimato, ne morirono più della metà. Mi risvegliai in un
ospedale giorni dopo e mi dissero che eravamo caduti in un’imboscata. Dopo
avermi consegnato una medaglia al valore mi dissero anche che sarei stato
congedato con effetto immediato, data la gravità della ferita... ».
La
luce negli occhi di Edward, quella che aveva spinto John a raccontare la sua
storia, si era pian piano spenta durante il racconto. Ovviamente John non aveva
modo di vedersi mentre parlava, ma a giudicare dalla reazione del giovane
soldato doveva avere un’espressione affranta... o miserabile. Già.
Stranamente,
la voce che intervenne successivamente non fu quella di Ed. « La perseguita
ancora? La guerra, intendo » domandò Joy, ansimando un poco; lo sforzo che aveva
fatto per dire anche solo quelle semplici parole era evidente.
Watson
annuì. « Lo ha fatto per
tutta la convalescenza, e anche dopo il ritorno a Londra. Ma non... nel modo
che pensate voi » disse, pentendosi
di quello che stava per aggiungere, tuttavia dicendolo comunque: « io volevo tornare
là. A Londra non avevo niente. Là mi sentivo utile a qualcosa... ma la ferita,
e una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, mi impedirono del tutto
di indossare di nuovo la divisa » rivelò.
Passarono
alcuni istanti di silenzio, dove nessuno fiatò. Poi fu Edward ad interromperlo:
« ne soffre ancora?
» domandò,
sussurrando l’ultima parola come se stesse premendo tasti delicati dell’anima
di Watson.
John,
però, era calmo. Stranamente calmo, nonostante l’argomento. Che lo avesse
superato, infine? Mah, non ci contava veramente. Forse era solo l’emergenza, la
situazione, a far sì che il suo racconto non pesasse come un macigno sullo
stomaco, impedendogli di parlare.
« No, non ne soffro
più. Ho... incontrato una persona » aggiunse poi, senza che gli venisse
chiesto, volando con la mente al resto della trama, quella che aveva riempito
l’ultimo anno e mezzo di ricordi che non avrebbe potuto farsi nemmeno in tutta
una vita.
« È un ragazzo
strano, particolare e decisamente irritante. È un genio, un vero genio, e come tutti i geni pensa
che tutti quelli che lo circondino siano solo dei poveri comuni mortali, la
maggior parte delle volte idioti, molto spesso totalmente incapaci. Dal lato
umano fa schifo, così come dal lato sentimentale, e come coinquilino non è
meglio: suona il violino ad orari improponibili, tratta la cucina come se fosse
il suo personale laboratorio chimico, mette strane cose nel frigorifero – John
decise di non nominare i pezzi di cadavere che saltuariamente trovava di fianco
agli avanzi – e spara contro il muro quando si annoia. E non compra mai il
latte, mai. Oh, a dire il vero non compra mai niente, visto che sembra
geneticamente incapace di andare a fare la spesa. A volte mi chiedo come
accidenti abbia fatto a sopravvivere senza di me, prima... me lo chiedo davvero
» si lamentò. Poi,
addolcendo lo sguardo, aggiunse a bassa voce: « ma lui c’era, nel momento in cui
stavo per arrendermi. È piombato nella mia vita con la scusa di dividere metà
dell’affitto e da allora non ha fatto altro che distruggere tutti i muri che mi
impedivano di vedere cosa mi era rimasto della vita. Mi ha dato un lavoro, sebbene
sia stato io ad associarmi al suo, in modo quasi naturale. Non ci siamo detti
nulla ma è stato così da allora, sono una sorta di assistente... lui dice “conduttore
di luce”, ma ha vocaboli tutti suoi per definizioni tutte sue, dunque suppongo
stia per “collega”. Certo, è un po’ pericoloso... solitamente inseguiamo gente
poco raccomandabile e mi prendono in ostaggio ogni due per tre... però è
divertente, giuro » finì di
chiacchierare, rendendosi conto di essersi dilungato un po’ troppo.
Joy,
dall’altra parte della carrozza, si lasciò sfuggire una risatina. « Dottore, lei è
cotto! » esclamò,
sorridendogli con espressione complice.
John,
sospirando, negò con il capo. « Non sono gay » ripeté come un mantra quella frase che
aveva detto a tutti quelli che insinuavano qualcosa fra lui e Sherlock,
praticamente da quando si conoscevano. L’aveva pronunciata così tante volte che
ormai gli usciva dalle labbra per abitudine.
Però,
sempre ultimamente, erano sempre di più le volte in cui il suo cuore si
stringeva, quando qualcuno gli faceva notare di essere innamorato di – o anche
solo attratto da – Sherlock Holmes.
Lui
lo ignorava. Lo fece anche quella volta, a malapena.
Ma
non poté però ignorare la risposta di Joy, stentata dalla mancanza di fiato, ma
comunque convinta: « beh, nemmeno io
mi ci sento... non del tutto, almeno. Però voglio comunque dire alla mia vicina
di casa che ho perso la testa per lei perché, sul serio, mi rendo conto di aver
aspettato troppo tempo... questo incidente mi sta facendo riflettere » disse.
Gli
altri occupanti della carrozza la osservarono con tanto d’occhi.
« Questa poi... » borbottò Edward: « ...avrei giurato
che fossi etero fino nel midollo » le rivelò.
Lei
sorrise ironicamente. « Sentiamo,
grand’uomo in divisa: tu perché vuoi tornare a casa vivo? » gli chiese.
Edward
sembrò pensarci un poco, puntando gli occhi al soffitto del vagone. « Ieri ho ritirato
i moduli per la richiesta di partire per l’Iraq » rivelò, continuando a guardare in
alto: « ...ma dopo il
racconto del dottor Watson, non ne sono più molto convinto. Mi sento
patriottico, sul serio, ma... io ho una casa, i miei genitori, una ragazza
fantastica... e non voglio lasciarli. Ora come ora, voglio tornare a casa e
mangiare il tacchino di mia madre, che è il più buono di tutta l’Inghilterra, e
parlare con mio padre della mia esperienza nell’esercito. Non ci vediamo da
quando mi sono arruolato, ormai sono quasi due anni... » una piccola
pausa, un sospiro: « e voglio anche
fare l’amore con la mai ragazza, chiaramente. Voglio portarla a mangiare fuori,
poi al cinema » disse,
ridacchiando divertito. « Sì... sì, è per
questo che voglio uscire vivo da qui ».
« Io voglio vedere
il mio papà! » esclamò allora
Alice, che aveva ascoltato tutto il discorso capendo quello che poteva: « è abbastanza? » domandò in
direzione di Joy ed Edward.
« Certamente! » le disse il
soldato, sorridendo. Anche la bambina sorrise di rimando.
« E lei, dottore? » chiese infine
Joy, appoggiando la testa alla parete dietro di sé: « perché vuole
uscire vivo da qui? » domandò.
Il
medico socchiuse gli occhi, sorridendo malinconicamente. Si lasciò andare,
forse per la prima volta da anni.
« Voglio rivedere Harriet, mia sorella. Non ci vediamo da un po’. Voglio
dirle che deve darsi una svegliata, perché la vita fa schifo ma non migliora
nel riflesso di un bicchiere di whisky... » sussurrò, chiudendo gli occhi: « e voglio...
rivedere Sherlock. Non è necessario parlargli, voglio solo... » deglutì « ...rivederlo.
Solo quello » disse.
“Voglio
rivedere Sherlock” era l’unica e la prima frase che gli era venuta in mente non
appena Joy aveva posto la domanda. Sherlock era sempre la prima persona a cui
pensava.
Nei
momenti in cui si svegliava e l’altro era in giro per Londra senza di lui, nei
momenti in cui parlava ma l’altro era troppo occupato per starlo a sentire, nei
momenti in cui passava le notti a leggere da solo in salotto.
C’era
sempre Sherlock.
E
forse era davvero troppo tardi, per accorgersi di quanto gli mancava in quegli
attimi. Per accorgersi che avrebbe dovuto fare qualcosa prima. Qualsiasi cosa.
Magari dirgli grazie. Magari semplicemente sorridergli un po’ di più, nella
speranza di lasciare qualcosa dentro di lui, una piccola macchiolina che forse
sarebbe sparita, ma che per qualche minuto sarebbe comunque rimasta dentro di
lui, con lui.
Ora
non aveva più molto tempo, e più guardava le persone che erano finite in quella
disgrazia con lui, più si rendeva conto, in un pensiero forse un po’ stupido ed
infantile, che quegli individui potevano rappresentare una piccola parte di se
stesso.
Alice,
la bambina coraggiosa ma bisognosa d’attenzioni.
John, il bambino
lasciato dal padre che non piangeva, ma che alcune volte si infilava nel letto
della sorella alla ricerca di un po’ di pace dal mostro nero sotto il letto.
Joy,
la ragazza innamorata di un’altra ragazza dal carattere duro e un po’ egoista.
Il ritratto
sputato di Harry, no? Senza alcool, forse, ma con la stessa, identica forza di
volontà e mancanza di tatto. La stessa sincerità che rendeva tutto più facile,
persino accettare i propri limiti e riconoscere i propri pregi.
Infine
Edward, il soldato che voleva partire per la guerra, entusiasta come chi si
immagina l’azione e la gloria e chiude gli occhi su tutto il resto, sul sangue
fra le dita delle mani, sul rinculo del calcio del fucile sulla spalla.
Così simile a ciò
che lui era durante l’addestramento, così ingenuo come era stato lui all’epoca.
Così irrimediabilmente fantasma di un giovane John Watson che non sarebbe più
tornato, perché morto in guerra insieme a tutti gli amici che aveva perso.
1.
omaggio velato a Peter Pan, di cui James MattewBarrie è il sommo creatore. In particolare, il pezzo delle
fate deriva da un discorso di Peter a Wendy, in cui
le spiega che le fate rimangono in vita finché i bambini credono in loro e
cadono morte ogni volta che un bambino pronuncia la frase "io non credo
nelle fate".
In
questo caso, ho paragonato le fate alle speranze, motivo per cui il "credi
davvero nelle fate?" voleva essere una frase amara, pronunciata proprio da
Sherlock.
Spero
di aver reso l'idea.
2.
il Diogenes Club è un posto inventato da sir Doyle, di cui Mycroft è
co-fondatore e in cui passa la maggior parte del suo tempo. A Londra non
esiste, quindi non sapevo dove ubicarlo, ma ho immaginato fosse a Westminster
(a due passi dal Parlamento XD). Come al solito prendetela come licenza
poetica.
Come
viene citato nella serie ("The ReichenbachFall", episodio 2x03) all'interno del Club è vietato
parlare. L'unico luogo in cui si può conversare a voce è la Stranger'sRoom (Stanza dello Straniero).
3.
Siccome sia la squadra di soccorso (Nick-Sherlock)
che gli inrappolati (John & Co.) si trovano tutti
nello stesso posto, d'ora in poi per distinguere i diversi punti di vista
aggiungerò tra parentesi le parole "Rescue Team" (Squadra di
Soccorso) in riferimento alla squadra di soccorso, e "Train's
Coach" (Carrozza del Treno) in riferimento a John e compagnia.
4.
L'Operazione Enduring Freedom è, in sintesi, una conquista
serrata di tutte le provincie afghane una per una, iniziata con la presa di
Kabul nel 2001 ed estesa man mano anche alle altre regioni. E' attiva tutt'ora
e procede di pari passo con l'operazione ISAF della NATO. Comunque Wikipedia è in grado di inculturarvi
più di me.
Ripeto
inoltre che non si sa un tubo del periodo militare di John... è tutto partorito
dalla mia fantasia. Ho cercato di rimanere il più fedele possibile a ciò che ho
assorbito dai film di guerra con cui mi drogo, e spero di essere stata per lo
meno convincente ;D
Note: Queste
sono 20 pagine di puro parto fan-letterario. Siete avvertiti. A quanto pare la
mania di essere incredibilmente prolissa non mi ha abbandonato nonostante i
buoni propositi.
Beh, penultimo capitolo,
conclusivo dell’incidente ferroviario. E... e non ho resistito, ho dovuto
metterci una puntina di Mystrade. Piccola piccola. Alla fine. Quasi
invisibile.
Come al solito, tutto
quello che dico riguardante la medicina ed il primo soccorso mi deriva da fonti
puramente ludiche, dunque non è assolutamente oro colato. Non prendetelo come
tale e, per chi ne sa di più, se ci sono errori perdonatemi ^^’’’
Come al solito, eventuali
altre note sono a fondo pagina.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 16:00 pm
Donna,
trent’anni circa, completo di Armani e scarpe di Gucci, tacchi a spillo,
valigetta ventiquattrore in pelle lavorata; tutto urlava “impiegata d’ufficio”,
vestita con abiti troppo firmati e costosi per essere una semplice segretaria,
dunque doveva essere una consociata di una ditta importante. Non avvocato. Non
sarebbe stata in metropolitana – e comunque molti se lo erano chiesto, come mai
una persona che poteva permettersi Gucci e Valentino mettesse piede sulla BakerlooLine.
Nessuna
ferita riscontrata esternamente, nessun ematoma, nessuna lacerazione. La testa
voltata con un angolo innaturale verso l’alto, un bozzo era ben visibile sulla
gola. Morta sul colpo. Anche se avesse ricevuto traumi da impatto, probabilmente
l’organismo non era rimasto in vita per un tempo sufficiente a consentire la
formazione di qualche livido di sorta.
Accanto:
persona anziana, tra i sessantae i
settant’anni, ben rasato, capelli tagliati da poco, vestiti del decennio
scorso, scarpe sporche di fango. Pensionato proveniente dalla campagna in
viaggio a Londra, probabilmente per andare a trovare i figli dato che non sembrava
portare altro con sé se non il portafoglio ed il fazzoletto, entrambi ritrovati
nelle tasche dei pantaloni.
Polso
rotto, trauma cranico, caviglia slogata e ferita da taglio alla spalla destra.
La causa della morte, molto probabilmente, era stata il trauma cranico, a
giudicare dall’ematoma presente su tutto il volto.
Di
nuovo: ragazzo, diciassette anni a giudicare dal libretto scolastico,
appartenente alla subcultura Punk. Non avevano ancora ritrovato la testa, ma a
giudicare dai calzini spaiati e di due colori diversi e dalla punta delle dita
della mano destra era dedito al consumo smodato di marijuana.
Poi,
per un momento, qualcosa gli aveva impedito di respirare.
Da
sotto un cappotto, un ciuffo di capelli biondo cenere. Corti. Un po’ ispidi. Un
accenno di carnagione pallida e sporca di sangue.
Associazione
mentale: John + sangue + pallore cadaverico = morte.
Blocco
momentaneo delle facoltà, il corpo che si muove da solo e sposta il giubbotto
incriminato con un movimento sin troppo agitato della mano.
L’uomo
non è John ma è sicuramente morto a causa di una ferita alla tempia causata dal
forte impatto contro il vetro del finestrino, che infatti risulta rotto e
sporco di sangue in un punto unico.
Ma
non era John. Non era John.
Sherlock
sospirò silenziosamente, lasciando che la sua mente scivolasse di nuovo in
quella situazione di stallo psicologico che gli permetteva di usare le proprie
facoltà intuitive e deduttive ad un livello più o meno normale di operatività.
Lo fece lentamente, socchiudendo gli occhi mentre veniva circondato da paramedici
che controllavano inutilmente lo stato dei cadaveri a terra, prendendosi il
tempo di zittire di nuovo il suo cuore fin troppo rumoroso.
Un cuore che non
aveva mai usato ma che ora urlava continuamente, riempiendogli le orecchie con
i suoi battiti martellanti, nell’unico momento in cui avrebbe preferito non
sentirli, non distrarsi nel tentativo di zittirli.
« Non c’è nemmeno
qui? » sentì una voce
pronunciare dal suo fianco, che riconobbe come quella di Nicholas Ryder.
Scosse
il capo in senso negativo.
Quella
frase aveva due interpretazioni possibili, purtroppo, e dipendevano dal punto
di vista di chi se la sentiva porre: una positiva per cui no, non avevano
ancora trovato il cadavere di John in
mezzo a tutti quelli che avevano dovuto controllare ed estrarre dalle macerie
nel giro di due ore appena – solamente otto persone su cinque vagoni erano
sopravvissute all’impatto, e di vittime ve ne erano almeno il doppio – e
l’altra negativa, intesa nel senso che non avevano ancora trovato John vivo nonostante avessero penetrato già cinque vagoni.
E
purtroppo, nonostante Sherlock cercasse con tutto de stesso di tenersi
distaccato da qualsiasi influenza emotiva di qualsivoglia specie, purtroppo
analizzava quelle parole ogni volta nel significato peggiore.
Ryder sospirò. « Lo troveremo » pronunciò poi,
forse per fargli forza.
Holmes
non poté far altro se non sorridere amaramente.
Ancora
quell’ottimismo smodato. Lo stesso di Lestrade, lo stesso di John. Anche Ryder era una di quelle persone che non si perdono mai d’animo,
e probabilmente era per questo che si era meritato il compito di guidare la
squadra di ricerca.
Ma
rimaneva comunque un ottimista e, in certe situazioni, dell’ottimismo non te ne
fai nulla.
In
momenti come quello, per esempio, in cui Holmes non poteva fare a meno di
chiedersi – anche se a bassa voce, sussurrando mentalmente a se stesso e con se
stesso, come se le parole che il cuore pronunciava non volessero disturbare
troppo la sua razionalità; come se il loro scopo fosse semplicemente quello di rimanere
lì, ferme immobili, a fare presenza e non permettergli di cancellarle o di
ignorarle – se era una cosa normale non avere ancora trovato l’amico, e quanto in
là poteva effettivamente andare la sua speranza di ritrovarlo.
Non
voleva arrivare al punto di pensare qualcosa come “vivo o morto non ha
importanza”. Voleva riportarlo a casa, alle cose che gli appartenevano, alla
quotidianità imprevedibile che avevano assimilato come qualcosa di loro,
qualcosa che li legava alla realtà tangibile.
Quel
qualcosa che teneva lontani gli incubi di John, e lontano Sherlock dalla dose
di cocaina che avrebbe sempre trovato modo di reperire in ogni momento.
Distaccò
infine gli occhi dai capelli dell’uomo morto ai suoi piedi, girando il capo ed
incamminandosi verso l’uscita della carrozza. Ryder
lo seguì.
« Holmes! » lo chiamò,
afferrandolo per un braccio e fermandolo non appena mise piede fuori dalla
porta che avevano forzato per entrare.
Sherlock
si fermò, osservandolo in silenzio. Non aveva parlato praticamente da quando
avevano cominciato le ricerche insieme, se non per dare qualche consiglio di
carattere tecnico. Aveva persino cominciato a descrivere le cause della morte e
ad elencare tutto ciò che poteva evincere dai cadaveri – e poteva trarne
veramente molto, avevano notato tutti – ma ad un certo punto aveva smesso di
fare anche quello.
« Senta... non è
una domanda che io abbia veramente voglia di porle, ma mi sembra importante
fargliela... » disse Nicholas,
guardando ovunque tranne che direttamente nei suoi occhi: « ecco... lei è
sicuro che questo John sia qui sotto? » domandò.
Se
Nicholas Ryder avesse conosciuto Sherlock Holmes così
come lo conosceva l’ispettore Lestrade, o lo stesso dottor Watson che tanto si
prodigavano a cercare, probabilmente non gli sarebbe mai venuto in mente di
formulare quella domanda, ne tantomeno di darle voce. Ma Nick Ryder non aveva mai avuto a che fare con l’unico consulting
detective del mondo, in effetti.
Sherlock
lo trapassò da parte a parte con uno sguardo che dire minaccioso non esprimeva
appieno il concetto.
Solamente
una volta in vita sua aveva avuto la terrificante esperienza del dubbio,
rimanendone del tutto provato.(1) E quella volta non riguardava John
– John era al suo fianco, aveva cercato di parlargli, di farlo tornare alla ragione
anche se con scarsi risultati – e anche solo la prospettiva del pensiero che
qualcuno, anche se non lui direttamente, potesse avere il dubbio che stesse
sbagliando, lasciava nella mente del detective la traccia fastidiosa di un
intoppo insormontabile in quello che era il suo imperativo categorico di
trovare Watson ad ogni costo.
Sherlock
Holmes non avrebbe dubitato, perché dubbi non ve ne erano. John era lì sotto. Doveva essere lì sotto.
Vivo.
Intrappolato. Aveva bisogno di lui. Doveva andare. Non poteva perdere tempo con
persone che non credevano alle sue parole o cercavano anche solo di prendere in
considerazione la possibilità che l’amico non si trovasse da qualche parte in
mezzo al metallo di quel disastro.
« È qui » tagliò corto
Sherlock, deciso, lapidario.
Se
Ryder si sentì a disagio, sotto l’improvvisa
profondità di quegli occhi, non lo diede a vedere. Si limitò a schiarirsi la
voce, togliendosi per un secondo il casco e tirandosi indietro i capelli con le
mani, ormai sporchi di polvere come i loro abiti ed il viso. Poi, incontrando
di nuovo i suoi occhi, annuì.
« La avverto solo
di una cosa però, signor Holmes » cominciò poi Nicholas: « io ho l’obbligo
di portare in salvo tutte le persone ancora in vita presenti qui sotto, e per
poterlo fare devo applicare una scala di priorità che varia da individuo ad
individuo a seconda delle loro condizioni di salute. Se per caso troviamo il
suo amico, e ci dovessero essere persone in condizioni peggiori di lui, io devo
aiutare prima i più gravi. Tutto chiaro? » domandò seriamente, osservandolo.
Sherlock
lo guardò a sua volta, lo sguardo non meno deciso di quello del caposquadra: « lei non si
preoccupi, in quel caso ci penserò io a John » disse.
Nicholas
non aggiunse niente. O probabilmente stava per farlo, ma Dennis comparve alle
sue spalle reclamando la sua attenzione: « Nick, abbiamo finito di estrarre i corpi
dal vagone, possiamo passare al successivo » disse.
Ryder annuì, puntando lo sguardo oltre
Sherlock.
I
due vagoni successivi erano il nodo più difficile del disastro e, tecnicamente
parlando, l’ultimo su cui potevano effettivamente intervenire. Oltre a quelli,
solo un cumulo informe di metallo piegato e ripiegato un pezzo sopra l’altro; le
carrozze erano penetrate con forza l’une dentro l’altra, tanto che la
probabilità di trovare sopravvissuti era talmente ridotta da non permettere
l’intervento delle squadre di ricerca, ma solo quelle dei tecnici che avrebbero
segato e rimosso i pannelli uno ad uno, svitando bulloni e cerniere.
Rimanevano
due vagoni.
Due
vagoni per decidere chi era vivo e chi era morto.
Due
vagoni, uno sopra l’altro, schiacciati e malmessi, addossati alla parete tanto
che in quello sottostante era impossibile che penetrasse la luce del tunnel.
Due
vagoni per sapere se John era ancora vivo o no. Due vagoni pieni del loro
tempo, dei loro ricordi, delle loro parole e di tutto ciò che avevano
affrontato insieme da quando si erano conosciuti.
Due
vagoni di speranza, e poi il nulla della solitudine.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach), h. 16:30 pm
Un
forte rumore metallico gli fece aprire gli occhi, chiusi da qualche minuto in
un’inutile ricerca di un po’ di riposo.
Inizialmente,
gli sembrò di aver sentito male. Una sorta di allucinazione uditiva, causata
dalla voglia smodata di uscire da quel posto, oppure semplicemente dalla
suggestione.
Poi,
un altro colpo. Rimbombò nella carrozza facendo vibrare l’aria.
John
ed Edward, anche lui fermo in ascolto, si guardarono per un lungo, fondamentale
istante. Trattennero il respiro, in attesa, poi ne sentirono un altro.
Non
era naturale, così come non era casuale. Era ripetuto, fottutamente ripetuto,
maledettamente ripetuto ed era rumore di attrezzatura umana, usata da mano
umana, umana.
Qualcuno
era venuto a salvarli.
John
sorrise, stirando le labbra in un fiotto di contentezza; Edward, replicando il
medesimo sorriso, scoppiò in una risata. « Sì, cazzo! Sì! » esclamò, ed un
attimo dopo era già in piedi, il volto rivolto verso il soffitto del treno.
« Ehi, EHI! Siamo
qui! Siamo qui, ci sentite! » urlò con tutta la voce che aveva in corpo, posandosi
la mano sana a coppa sulle labbra, cercando di amplificare la propria voce.
Watson,
che fece gentilmente ad Alice segno di scendere dalle sue ginocchia, si unì al
coro: « Ehi, qui, qui! Ci
sono dei feriti, abbiamo bisogno di aiuto medico! » urlò a sua volta,
avvicinandosi alla porta su cui era appoggiato e battendo i pugni nel tentativo
di provocare ancora più rumore.
Alice,
incuriosita ed allo stesso tempo spaventata da tutto quel frastuono, si attaccò
al polsino della camicia di John e tirò, chiedendo attenzione. « Cos’è successo? » gli chiese quando
l’uomo la guardò, interrompendo le urla.
Il
medico sorrise gentile, mettendole una mano sulla testa e carezzandole i
capelli. « Quasi sicuramente
fuori ci sono delle persone che sono venute ad aiutarci. Dobbiamo fare sapere
loro che ci siamo, così ci tireranno fuori e potremo tornare tutti a casa... » le spiegò,
cercando di non usare parole che la bambina avrebbe faticato a capire.
Alice,
osservandolo con quegli occhi grandi e luminosi, sorrise felice. « Posso tornare dal
mio papà! » esclamò contenta,
trovando l’approvazione di John, che annuì.
Avrebbe
potuto rivedere Sherlock. Era questione di minuti, forse di un’ora, e poi
finalmente li avrebbero tirati fuori da quell’inferno e lui avrebbe potuto
prendere il cellulare e chiamarlo. Avrebbe continuato a farlo squillare finché,
probabilmente seccato perché interrotto nel mezzo di un esperimento o di un
ragionamento, l’altro non avrebbe risposto.
E
allora gli avrebbe chiesto scusa, a prescindere da chi avrebbe dovuto davvero
scusarsi dei due. Gli avrebbe detto che stava tornando a casa e che voleva
passare il resto della giornata con lui. Anche sul divano, a guardare uno di
quei talk-show da televisione spazzatura tanto amati dalla cara mrs. Hudson, oppure una qualche serie investigativa
americana su cui Sherlock avrebbe irrimediabilmente detto la sua, facendolo
ridere come un matto per tutta la durata dell’episodio. Avrebbero ordinato
cinese, quella sera, come al solito, e voleva farsi raccontare tutto, tutto quello che l’altro aveva pensato
in quella giornata, i suoi casi migliori e quello più spaventoso, dov’era
andato a scuola e cosa aveva fatto prima di incontrare lui, quella mattina al Bart’s di più di un anno prima.
Ma
non era importante fare esattamente quelle cose. In quel momento, si sentiva
anche in grado di stare seduto tutta sera sulla propria poltrona, in silenzio,
con una tazza di tè in mano, ad osservare Sherlock suonare il violino,
osservare chissà cosa seduto al tavolo della cucina o intento ad usare il suo
notebook dopo aver di nuovo scoperto la password. Lo avrebbe guardato con un
lieve sorriso sulle labbra e non avrebbe fatto nient’altro.
Sarebbe
rimasto così, immobile in un istante infinito cercando semplicemente di
assimilare la presenza dell’altro e a memorizzarla sotto la pelle, in modo da
poterla portare sempre con sé e non poterla più dimenticare.
Neanche
nella morte.
Alice
però tirò nuovamente la manica della camicia di John, richiamando la sua
attenzione una seconda volta.
John
non gliela negò. « Cosa c’è? » domandò,
osservandola con ancora un residuo di sorriso sulle labbra.
« Joy deve essere
molto stanca, perché non si sveglia... » disse la bambina, indicando con il dito
la ragazza dall’altra parte del vagone.
Non
gli ci volle molto, al dottore, per capire che qualcosa non andava. Il viso
della ragazza era pallido e sudato, i capelli erano attaccati alla fronte e al
collo e la mano che aveva appoggiato al corrimano di metallo aveva preso la
stretta, rimanendo abbandonata sul grembo. La gamba ferita era ancora piegata e
ferma, ma solo perché poggiava contro il metallo.
A
John sembrò che il cuore gli fosse stato strappato. Si dimenticò in un istante
sia della felicità che della fiacchezza che si sentiva addosso da un po’.
« Joy! » esclamò il
medico, spostando la piccola Alice con tutta la grazia di cui potesse disporre
– effettivamente non molta – avvicinandosi in fretta alla ragazza a terra ed
inginocchiandosi al suo fianco. Posò subito le mani sulla guance dell’altra,
sentendola fradicia di sudore e fin troppo calda. Doveva avere per lo meno
trentanove gradi: la pelle era bollente.
Allo
scatto del medico verso la giovane anche il soldato aveva smesso di urlare,
portando subito lo sguardo poco avanti a sé; notando poi che Joy non rispondeva
a nessun richiamo di John, a sua volta si era avvicinato ai due: « cosa succede? » aveva chiesto,
improvvisamente in ansia.
Watson,
ignorando la domanda, le appoggiò due dita sulla carotide, poi le prese il
polso e si concentrò per sentirne le pulsazioni: c’erano, ed erano forti e
veloci unite ad un respiro debole ma annaspante.
« Ha il battito
molto accelerato... c’è qualcosa che non va » esclamò con un filo di voce,
distaccandola lentamente dalla parete a cui era appoggiata per cercare di
distenderla; Edward, tenendola per il busto con l’unico braccio di cui
disponeva, diede una mano al dottore.
Quando
la ragazza fu distesa, John le controllò di nuovo il polso carotideo,
aggrottando le sopracciglia con fare a metà fra il disperato e l’indeciso.
Si
spostò sulla gamba e cominciò a disfare la fasciatura. « Ed, tieni due
dita premute sulla sua carotide e dimmi se il cuore smette di battere » disse pragmatico,
senza nemmeno guardarlo, impegnato com’era a liberare la ferita dalla benda
senza provocare altri danni.
Il
giovane soldato annuì, appoggiando due dita sulla gola della ragazza e
sorridendo nel frattempo ad Alice, in piedi poco distante con gli occhi lucidi
di paura prima repressa ed ora riaffiorata.
Joy,
nel frattempo, non si svegliava. Nonostante fosse scontato che John le stesse
facendo male nel disfare la fasciatura, lei non aveva nessuna reazione, né si
muoveva. Uno stato completamente incosciente aveva avvolto la sua mente, tanto
che nemmeno il dolore era sufficiente a farle riaprire gli occhi.
Watson,
d’altro canto, poteva immaginare cosa stesse succedendo. E sperava di
sbagliarsi.
Era
stato uno stupido a non accorgersene prima, a non capire che quelle smorfie
iniziali erano dovute ad un dolore di un tipo diverso da quello provocato dalla
ferita in sé e per sé. Era stato un idiota a non capire che lei stava male, che
stava per perdere i sensi con la possibilità di non risvegliarsi mai più... e
lui cos’aveva fatto? Aveva chiuso gli occhi, richiamando a sé un sonno leggero
che non poteva concedersi. Lui era il medico, lui era stato eletto
silenziosamente a colonna portante proprio grazie alla sua laurea in medicina e
alla sua capacità di prendere il controllo del piccolo gruppetto, non poteva perdere il controllo!
Non
avrebbe dovuto dormire, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, non avrebbe
dovuto cedere alla stanchezza! Nemmeno un istante, nemmeno un secondo! Era
stato un idiota!
E
per la sua idiozia, Joy rischiava di morire. Solo per la sua idiozia.
Strinse
i denti talmente forte, nel riportare nuovamente alla luce la ferita di Joy,
che cominciarono a fargli male le gengive. Avrebbe quasi ringhiato,
probabilmente, se non avesse dovuto ritrovare un minimo di controllo per fare
effettivamente il suo lavoro: controllare la ferita.
Il
sangue si era fermato ed aveva cominciato già a coagulare, formando piccole
croste scure di sangue raffermo su di una superficie rosso vivo, lo stesso colore
del sangue fresco che macchiava la pelle tutt’intorno. I margini della ferita
invece, sia da una parte che dall’altra a contatto con la sbarra di ferro che
trapassava il muscolo della coscia, risultavano frastagliate e rosse, con
vescicole di colore giallo, alcune delle quali rotte. John estrasse il proprio
fazzoletto dalla tasca e, pulendo la pelle intorno dal sangue che l’aveva
sporcata, poté notare che era butterata da piccole macchioline rosse in
prossimità della ferita.
Aveva
già visto molte volte quelle macchie, in Afghanistan. Sapeva cos’erano. Sapeva
che nella maggior parte dei casi colpiva la pelle, ma che se penetrava
all’interno dell’organismo il danno poteva essere anche peggiore. Molto
peggiore.
Sei uno stupido,
John Watson. Questa ragazza morirà e sarà tutta colpa tua.
Sospirò,
trattenendo un gemito di rassegnazione, posandosi il dorso della mano sugli
occhi e facendo molta attenzione a non toccarsi direttamente il viso con la
mano sporca di sangue.
Non
c’era molto da fare. No... non c’era più niente
da fare.
« Cos’ha? » domandò Edward,
agitandosi nel vedere il medico immobile. « Cosa c’è, dottor Watson?! » esclamò, senza
spostare la mano dal collo di Joy ma prestando palesemente tutta la sua
attenzione al dottore.
Lui,
deglutendo, cercò dentro di sé la forza di pronunciare le parole del proprio
fallimento. « Stafilococco... » disse in un
soffio, continuando con lo sguardo basso: « ha un’infezione... probabilmente è già
nel sangue. Setticemia. Mi serve della penicillina, o degli antibiotici a largo
spettro... o meglio, mi servirebbe un dannato ospedale! » disse, gridando
l’ultima frase in un moto di rabbia, facendo sobbalzare sia Edward che Alice,
la quale prese a piangere silenziosamente.(2)
Il
soldato deglutì, prendendo fiato due volte prima di riuscire ad articolare la
domanda che voleva fare: « come... cos... cosa
facciamo ora? » gli chiese, in
attesa di qualche sua parola.
John
non si sentiva più in grado di guidare nessuno, in quel momento. Era
dolorosamente consapevole che l’aggravarsi delle condizioni della ragazza
poteva essere colpa sua, che si era distratto, ma sapeva anche che avrebbe
preso quell’infezione comunque, e senza medicinali non avrebbe potuto far
niente per lei né prima né dopo.
Ma
era comunque la magra consolazione del macabro colpo di “fortuna” che non
faceva per niente sparire il senso di colpa, anzi, ne aumentava la morsa
opprimente.
Edward
probabilmente notò lo sguardo perso di John, perché lasciò il collo di Joy per
mettere la mano sulla spalla del medico, cominciando a scuoterlo per portarlo
alla realtà: « Capitano, non mi
vada in confusione adesso! Ho bisogno di lei, io non sono un medico e non so
cosa fare! » disse, in quello
che doveva essere un gesto per destarlo ma che finì per essere una sorta di
contenitore per il suo panico.
John,
tuttavia, annuì. Sorvolò persino sul fatto che lo avesse chiamato con i suoi
gradi... ma erano veramente poche le cose che poteva dire, in quel momento, e
non ve ne era nessuna che potesse effettivamente fare.
« Non... non
possiamo fare niente, Edward... » mormorò, lasciando che l’altro lo
guardasse a bocca aperta, ricambiando lo sguardo: « non abbiamo
medicinali, e non abbiamo nemmeno la possibilità di trovarne. Ormai è
completamente incosciente... se è davvero setticemia, presto i suoi organi
interni cominceranno a cedere uno ad uno e quando toccherà al cuore... » lasciò cadere.
Ad
Edward non servì il seguito della frase per capire cosa stesse per dire e cosa
significasse quell’improvviso silenzio.
« Maledizione... » sussurrò a sua
volta, abbassando il volto e serrando gli occhi.
Alice,
in piedi immobile a qualche passo da loro, li guardava con occhi sgranati pieni
di lacrime. I forti rumori in lontananza continuavano a sentirsi, ma lei
sembrava l’unica a dargli ancora peso. Spostando il capo lentamente, osservò
l’involucro di abiti che copriva quella che doveva essere sua madre.
Tirò
su con il naso e, lasciandosi finalmente andare, scoppiò di nuovo in un pianto
convulso.
Fu
accolta dall’abbraccio impacciato di Edward, che la strinse forte a sé.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 17:00 pm
La
dinamica effettiva con cui un vagone simile, di quel peso e con quella massa,
potesse essersi effettivamente posizionato sopra
un altro vagone del tutto uguale, per lui rimaneva un mistero.
Era
ingegnere navale, e ne aveva viste tante durante il tirocinio formativo
dell’ultimo anno di università... ma mai, mai
gli era capitata, anche solo in simulazione, una situazione del genere.
La
trovava una cosa semplicemente impossibile. Eppure, dato che aveva l’accaduto
proprio davanti agli occhi nella sua forma reale e tangibile, avrebbe dovuto
smettere di ritenerlo tale e cominciare a pensare a come districarsi da quella
situazione complicata.
Perché,
tanto per cambiare, aveva dei problemi.
Tanto
per cominciare, avevano impiegato mezz’ora per capire come entrare all’interno
del vagone soprastante. Non si vedeva nessuna luce né si sentiva nessun rumore
all’interno, ma il suo lavoro era vedere con gli occhi, non supporre con
l’istinto.
I
finestrini erano tutti schiacciati e quelli ancora, in parte, interi erano completamente
impraticabili. Avevano dovuto prima martellare la fiancata, cercando di rendere
il metallo un po’ più cedevole, poi aprirsi un varco abbastanza largo con la
sega circolare, che non aveva fatto altro che riempire l’aria di altra polvere,
facendo rimbombare ed echeggiare il rumore acuto dei dentelli lungo la
galleria.
Alla
fine, dopo tutti gli sforzi, erano riusciti ad entrare. Tutti cadaveri.
Un’altra mezz’ora per tirarli fuori tutti e trasportarli all’esterno in barelle
all’interno di sacchi neri di plastica.
Probabilmente,
se avesse avuto tempo di fermarsi un attimo, gli avrebbero fatto anche pena.
Vero era che faceva il vigile del fuoco, quindi era piuttosto naturale che si
trovasse in situazioni simili... ma rimaneva comunque un essere umano con una
famiglia, e quando succedevano cose come l’incidente ferroviario di quel
giorno, si diceva sempre che era qualcosa di talmente casuale che era stupido
pensare che non potesse succedere anche ai suoi cari – sua moglie, lui stesso,
suo figlio in arrivo...
Ci
pensava, e facendolo provava irrimediabilmente un fastidio seccante.
Lo
fece anche quella volta, ma scacciò il pensiero con una scrollata di capo e
tornò ad occuparsi del proprio lavoro.
Si
avvicinò a Dennis a passo svelto, che stava raccogliendo e spostando altrove la
sega circolare usata poco prima. « Dennis? » chiamò, poggiandogli una mano
sulla spalla.
Quello,
alzando gli occhi incredibilmente stanchi su di lui, rimase in attesa della
domanda.
Li
stava sfibrando, quegli uomini. Stava pretendendo il massimo e loro gli stavano
dando il massimo, ma erano stanchi, e si vedeva. Avevano bisogno di respirare
aria pulita.
« Prendi i ragazzi
e torna su. Ho già detto al capo di mandare giù una squadra di riserva, è in
arrivo » gli disse.
« Non se ne parla nemmeno,
ragazzino! » esclamò l’altro,
riprendendo per stizza il primissimo soprannome che puntualmente gli avevano
affibbiato, una volta entrato nel corpo dei vigili del fuoco: « non ho la minima
intenzione di lasciarti qui sotto da solo. E no, non voglio sentire “ma”,
“però” o pietosissimi “è per la tua salute”! » lo anticipò, tarpandogli le ali
fin dall’inizio della risposta che aveva pensato di dargli.
Cosa
che fece comunque, in ogni caso. « Sai benissimo che è vero » si limitò a
dirgli, sospirando piano.
Quello,
cocciuto, non cambiò idea. « Manderò su i ragazzi, Nick, ma non esiste che io mi
sposti da qui. Ho giurato a me stesso che ti avrei tenuto d’occhio ed è quello
che farò » disse, e suonò
definitivo.
Nicholas
avrebbe potuto fare appello al regolamento, al giuramento che avevano fatto
quando avevano vestito la divisa, alla regola d’oro “prima gli altri poi te
stesso”; avrebbe potuto persino votarsi a chissà quali santi, ma sapeva
benissimo che Dennis non avrebbe mosso il suo culo da quella galleria nemmeno
sotto minaccia.
Non
finché lui rimaneva lì sotto. E nemmeno lui intendeva muovere il culo da quella
galleria, dopotutto.
Era
una sottospecie abbastanza tragicomica di impasse.
Sospirando
rassegnato, gli annuì complice. « Ma manda su gli altri... » si limitò a
dirgli, ricevendo in risposta un secco cenno d’assenso.
Osservandolo
dirigersi verso il resto della squadra – che comunque non prese benissimo la
decisione, a giudicare dai lamenti che sentì – passò all’altro ostacolo sulla
sua corsa che sapeva già non sarebbe riuscito a superare: Sherlock Holmes. Lo
cercò con lo sguardo.
Se
ne stava seduto sul fondo della galleria, sopra ad uno dei massi più grossi
crollati insieme a parte della stessa, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia
e le mani unite portate al mento. Si sarebbe quasi potuto dire che stesse
pregando, se non fosse stato per gli occhi spalancati sul nulla, fissi in un solo
punto come non fosse nemmeno lì con loro ma stesse navigando altri mari verso
altri orizzonti.
Si
avvicinò. I capelli ricci e scuri erano madidi di sudore, sceso lungo gli
zigomi in gocce salate che avevano lasciato scie scure sul lieve strato di
polvere depositatosi lentamente sul suo viso pallido e filiforme; esse
sparivano nel colletto della casacca gialla, arrivando fino al collo. Ma questo
era l’unico aspetto che tradiva l’impegno impiegato da Holmes nella ricerca del
proprio amico, perché nulla del suo sguardo o della sua posizione mostrava
stanchezza o sforzo fisico. Era ancora lucido come quando era sceso in quel tunnel,
cosa che gli faceva onore considerando che il resto della squadra era quasi al
limite della propria resistenza – motivo per cui erano stati mandati tutti di
sopra.
Nicholas
si sedette al fianco del detective, in attesa che gli uomini inviatigli dalla
superficie arrivassero. Sherlock non mosse un muscolo al suo arrivo, né diede
l’impressione di essersene effettivamente accorto.
Il
tunnel era improvvisamente più silenzioso e l’unico rumore che riempiva quel
silenzio erano i passi pesanti di Dennis sulla ghiaia grossa fra i binari. Nick
decise di prendere parola, abbastanza convinto che altrimenti Holmes non
l’avrebbe fatto.
« Sa, dovrei dirle
di tornare in superficie, in realtà » cominciò: « e spiegarle i pericoli che si
corrono nel respirare polvere per quattro ore, ma... so già che non mi
ascolterebbe, o mi ignorerebbe direttamente, dunque penso che risparmierò il
fiato » disse,
togliendosi il casco e passandosi la mano fra i capelli.
L’altro,
senza abbandonare la sua posizione, assottigliò gli occhi. Fu l’unico segno
tangibile che mostrò e che dimostrava che lo avesse effettivamente ascoltato,
dunque Nick non se la prese troppo quando la sua osservazione cadde nel
silenzio.
Come
se niente fosse, senza nemmeno chiedersi se lo stesse disturbando o meno, continuò
a parlare. Chissà per quale motivo, nella sua mente Sherlock Holmes era nel bel
mezzo di un processo di autodistruzione silenziosa e aveva conseguentemente
pensato che parlargli, in quel momento in cui erano impossibilitati a fare
altro, fosse una soluzione elegante per mantenerlo con i piedi per terra.
« Sa, ci ho pensato
da quando ho sentito il suo nome... » riprese, posando gli occhi sulla volta
scura della galleria: « non mi suonava
nuovo, e alla fine mi sono ricordato. “The Science ofDeduction”, dico bene? » domandò.
Con
la coda dell’occhio vide Holmes girare il viso in sua direzione. Finalmente era
riuscito ad attirare la sua attenzione.
« Lo legge? » domandò poi lo
stesso Sherlock, un pizzico ben celato di curiosità nella voce.
Nick
si sentì interiormente soddisfatto per quella piccola vincita. « Non io, mia
moglie. È un avvocato, e in qualche occasione mi ha detto che ha trovato il suo
sito molto utile per alcuni casi che stava seguendo insieme a dei clienti
particolarmente difficili da gestire. Ho letto anche io qualcosa, ma devo
ammettere che mi interesso di più al blog del suo collega... » raccontò.
Nel
farlo, notò un fremito negli occhi così incredibilmente chiari dell’altro. Ebbe
improvvisamente la conferma di quello che sospettava da un paio d’ore a quella
parte e se ne rattristò.
Aveva
sperato nel fatto che di “John” fosse pieno il mondo. Aveva sperato che la
persona sepolta lì sotto non fosse l’autore di quel blog che tanto apprezzava
leggere la sera, di ritorno dal lavoro, in cui si raccontavano meglio che in un
telefilm a puntate le avventure e le indagini dell’unico consulting detective
del mondo e del dottore suo compare.
« Il dottor John H.
Watson » pronunciò quel
nome con rispetto e reverenza: « ...è lui che stiamo cercando, signor Holmes? » chiese poi, limitandosi
ad osservarlo di sottecchi.
Sherlock
tenne gli occhi puntati verso terra, socchiusi in un pensiero che doveva essere
particolarmente insistente. Annuì piano alla sua domanda, sospirando debolmente.
Nicholas
chiuse gli occhi a sua volta. « Speravo che non si trattasse di lui. Lo speravo
davvero. Ma più la guardavo e più mi rendevo conto che, probabilmente, non
avrebbe potuto essere nessun altro » riaprì gli occhi: « dopotutto,
immagino che voi siate... » lasciò cadere, quasi in imbarazzo a porre quella
domanda implicita.
Sherlock
sospirò più veementemente, dando l’impressione di qualcuno che faceva leva
sulla sua più piccola stilla di autocontrollo per rimanere semplicemente fermo
in quel punto senza niente per le mani.
« Non lo siamo » si limitò a
rispondergli.
Nick
alzò le sopracciglia: « davvero? ».
« È un
fraintendimento comune » gli rispose il
detective.
« Beh... non me ne
meraviglio » commentò
distrattamente il pompiere, sfregandosi le mani sul tessuto dei pantaloni per
poi portare le dita a strofinarsi gli occhi. Non lo avrebbe mai ammesso, ma
cominciava a sua volta a sentire la stanchezza delle ore passate in quel
tunnel.
Fu
Sherlock a riportarlo sui binari della conversazione – anche se per la maggior
parte solitaria – che era stato capace di imbastire: « perché no? » chiese
semplicemente.
Ryder girò appena il volto in sua direzione,
osservandolo di sottecchi ma abbastanza palesemente da incrociare il suo
sguardo debilitante, totalmente rivolto verso di lui. Sentiva dentro di sé che
quella domanda non era rivolta alle ovvietà, come il fatto che loro vivessero
insieme e comparissero sempre e comunque uno accanto all’altro dappertutto;
aveva più l’idea che ricercasse qualcosa di più profondo, o che lo stesse
mutamente sfidando a dire qualcosa di più di quello che si poteva semplicemente
immaginare con l’aiuto della logica e della fantasia.
D’altro
canto, poteva anche stare perdendo la testa. Sarebbe stato altrettanto
plausibile.
« Mi baso su quello
che leggo » gli disse dunque:
« vede... Il dr.
Watson parla di lei nel suo blog come io parlerei di mia moglie, scrivendo ciò
che ha di buono e facendo passare per sottigliezze irrilevanti ciò che di buono
non ha. Non so come spiegarglielo... ma ha un modo di dipingerla che fa sorridere
e, fra le righe, si capisce che tiene a lei. E’ il modo di descrivere agli
altri le persone a cui teniamo, lo si fa sempre con un sorriso sulle labbra » spiegò,
sorridendo.
Sherlock,
ascoltando quelle frasi con l’attenzione che metteva in tutto ciò che faceva,
chiuse nuovamente gli occhi. Un secondo, non di più, ma fu sufficiente per
abbassare un po’ delle difese che aveva eretto intorno a se stesso.
L’angoscia
dell’attesa è sempre quella più terribile di tutte, sia mentalmente che
fisicamente. Era un meccanismo di autodistruzione sconsiderata, che sfibrava la
mente e tramite essa intaccava anche il corpo.
Una
o l’altra. Se solo avesse saputo le sue condizioni... John poteva essere vivo o
morto, cinquanta e cinquanta, ma anche solo il fatto di saperlo lo avrebbe
fatto spostare da quel limbo pesante come piombo che stava facendo riaffiorare
lati di lui nascosti per anni in un qualche angolo del subconscio e lì
dimenticati, lasciati con la promessa che non li sarebbe mai andati a
riprendere, che non ne aveva bisogno.
Sentimenti...
era impreparato ad affrontare un’onda anomala di tale portata. John avrebbe saputo cosa fare, non lui,
lui no.
« Lui ha... » cominciò dunque
il detective, per una volta iniziando un discorso di propria iniziativa: « ...ha la brutta
abitudine di pensare sempre prima con il cuore. E possiede anche la strana
capacità di riuscire a salvarti da te stesso » disse solamente, lasciando intuire
solo una parte di ciò che era John Watson, cioè molto più che cuore e
gentilezza.
Nick
si chiese da cosa il dottor Watson era solito salvarlo, cosa c’era nella
persona di nome Sherlock Holmes da rappresentare un pericolo per se stesso –
oltre al fatto di cacciarsi in situazioni pericolose senza il minimo
ripensamento, ovviamente.
Doveva
esserci molto di più dietro quell’essere umano di nome John Watson che Holmes
non era intenzionato a rivelare, per lo meno non a voce. Ma lo vedeva dallo
sguardo, dagli occhi preoccupati perennemente in movimento, dalle labbra
stirate appiattite l’una contro l’altra, dalla fronte aggrottata e dalle
sopracciglia strette. Non bisognava essere un genio della deduzione per capire
che il detective, astro d’intelligenza e dal carattere molto particolare,
vedeva molto più nel dottor Watson di quello che esprimeva, e probabilmente
anche più di quello che era pronto ad ammettere a se stesso e davanti agli
altri.
Nicholas,
ascoltando per l’ennesima volta il silenzio venutosi a creare fra loro, si
convinse infine che questo medico doveva essere non solo una persona
importante, per Sherlock Holmes, ma che addirittura rasentasse il limite della
necessità, per quell’uomo.
Pregò,
mentre Dennis lo richiamava all’ordine indicando in lontananza la nuova
squadriglia in arrivo, che accadesse un miracolo. Pregò Dio di avverare il
desiderio di Holmes.
Pregò
Dio di trovare il dottor John Watson vivo e vegeto.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach), h. 18:00 pm
« Ha... ha smesso
di battere ».
John
alzò gli occhi sul soldato solo per un istante: tanto gli servì per assicurarsi
che stesse dicendo la verità.
Il
terrore che lesse in quelle iridi era del tutto sincero. Non era possibile
fingerlo, non così bene, e in ogni caso aveva ormai imparato che Edward era un
ragazzo sincero e schietto.
Aveva
fatto come gli era stato detto, tenendo appoggiate le dita della mano sul collo
di Joy per almeno un’ora mentre John cercava in tutti i modi di pulire la
ferita, utilizzando stracci puliti e saliva.
Aveva
ingannato gli altri ingannando se stesso. Sapeva benissimo che non avrebbe
potuto fare niente in ogni caso, se non forse aspettare quei soccorsi che più
volte avevano smesso di dare segno della loro presenza, salvo riprendere a
martellare e a lavorare poco dopo.
Motivo
per cui non si sorprese poi molto, quando la voce di Edward scandì quelle parole.
Senza
preoccuparsi delle mani sporche si allungò subito ad appoggiarle un dito prima
sul polso, poi sulla carotide.
Niente.
Edward aveva ragione, alla fine il cuore aveva ceduto.
Stava morendo.
Rimase
per qualche istante a guardarla, cercando di trovare una risposta che in realtà
aveva già. Poteva provare con un massaggio cardiaco, certo, ma anche se fosse
riuscito a riattivarle il cuore, nessuno poteva dire quanto altro tempo avrebbe
potuto reggere. Per quello che ne sapeva, ormai esso era danneggiato e anche se
avesse ripreso a battere, molto probabilmente Joy avrebbe continuato ad andare
in arresto cardiaco fino al completo sfinimento del cuore stesso.
Esatto.
Sarebbe stato il suo stesso cuore, prima o poi, ad arrendersi. Era inevitabile.
Con quello che aveva non poteva più fare niente e non era nemmeno sicuro che,
nel beneaugurato caso che i soccorsi fossero infine giunti anche dentro quel
piccolo bozzo pieno d’inferno, anche portandola in ospedale si sarebbe potuta
salvare.
La
guardò in volto. Pallida e ancora bagnata di sudore, la sua pelle bruciava a
causa della febbre alta. Temperatura che sarebbe scesa, nel giro di poche ore,
trasformando quel bel viso in un cadavere.
Per
un istante, al posto di Joy vide sua sorella Harriett.
Vide
sua sorella giacere sul pavimento, immobile, esanime. Sua sorella che sperava
sempre in un ritorno di Clara, anche se era stata proprio lei a lasciarla, così
simile alla ragazza che desiderava tornare a casa senza dover chiamare un
fabbro per farsi aprire la porta, per poi prepararsi e andare a cena con la sua
vicina di casa per dirle che l’amava.
Così
simili, così diverse. Così uniche.
No.
No.
Fossero
stati anche solo pochi minuti, doveva fare qualcosa.
« Col cavolo che ti
mollo...! » esclamò,
spostando la mano di Edward con un cenno della propria e sistemandosi di fianco
a lei ben fermo sulle ginocchia, le mani appoggiate sul suo petto all’altezza
dello sterno, braccia ben tese.
Cominciò
a spingere ripetutamente, mettendo in atto un massaggio cardiaco. Edward,
serrando la bocca in un moto di rinnovato spirito, annuì deciso. « Facciamo un ritmo
di cinque a uno, dottore! » esclamò, facendo allontanare la piccola Alice e
tirando indietro con due dita la testa di Joy, preparandosi a farle la
respirazione bocca a bocca.(3)
John
assentì, terminando la prima serie di trenta compressioni, a cui Edward rispose
con due insufflazioni.
Poi,
cominciò il ritmo serrato della rianimazione a due. John li contò ad alta voce.
« Uno, due, tre,
quattro, cinque ».
Edward
soffiò nella bocca di Joy, facendole gonfiare i polmoni d’aria.
Ed
seguì la sua volontà come una luce nel buio, insufflando nuovamente.
Ma
ci fu nuovamente silenzio.
Passarono
così cinque minuti, continuando con un ritmo serrato di cinque ad uno finché la
fronte di John non fu imperlata di sudore ed i gomiti cominciarono a non
reggere più lo sforzo, piegandosi di tanto in tanto, facendogli saltare una
compressione. Non potevano cambiare posto, dato che il soldato aveva una spalla
fuori uso, così tutta la fatica di far ripartire il cuore alla ragazza stesa a
terra toccava a John.
Fatica
che, oramai, tralasciata l’inutilità dell’operazione, le sue braccia non
potevano più reggere; una scarica di dolore ai muscoli delle stesse lo pregò
tacitamente di smettere quella tortura, ma lui non si fermò, anzi continuò
ancora.
Continuò
finché non riuscì nemmeno a contare ad alta voce a causa del fiatone che si
mangiava le parole per trasformarle in aria per i polmoni sotto sforzo.
Continuò
per altri quattro minuti.
Allo
scoccare del nono minuto – non era possibile rianimarla dopo nove minuti: il
cervello poteva sopportare una deprivazione d’ossigeno di massimo quattro
minuti, e lui lo sapeva – fu Edward a
lasciare andare il naso di Joy, tenuto chiuso dalle dita del soldato in modo da
effettuare la respirazione bocca a bocca nel modo corretto, osservando John con
occhi stanchi e rassegnati dal corso degli eventi così come gli appariva
davanti agli occhi.
Joy,
la ragazza che non voleva altro che vivere il suo amore, non c’era più. Era
morta in silenzio, addormentandosi sopportando il dolore feroce alla gamba
martoriata, nell’angolo di una carrozza dall’alternante luce al neon insieme a
persone che nemmeno conosceva sul serio, ma che nel giro di qualche ora erano
riusciti a volerle così bene da provare ad ogni costo a salvarle la vita,
persino quand’anche la speranza era scomparsa.
Watson
guardò ansimante gli occhi di Edward, fermando le compressioni. Strinse i denti
in una parolaccia a stento trattenuta e, chiudendo la mano destra a pugno, la
batté ferocemente sul petto della ragazza distesa davanti a lui, immobile ed
esanime, persino esangue.
« Dannazione! » sbottò, in un
attacco di rabbia che anche Edward avrebbe volentieri condiviso se avesse
potuto anche solo pensare di muovere il braccio senza sentire i cori demoniaci
dell’inferno con tutto il loro dolore.
« Dottore,
abbiamo... fatto quello che potevamo... » sussurrò il giovane soldato a denti
stretti, arricciando il naso in una smorfia d’ira repressa a malapena. Dall’altra
parte della carrozza, Alice si mise a piangere silenziosamente, gli occhietti
gonfi e rossi.
« No... » borbottò John, il
dorso della mano destra a coprire gli occhi stanchi e lucidi: « no, che non
abbiamo fatto abbastanza. Non ho
fatto abbastanza. Non me ne sono accorto... lei è morta e io non me ne sono
accorto... » soffiò, facendo
respiri profondi per impedirsi un crollo emotivo che non avrebbe giovato
proprio a nessuno di loro.
« No dottore, lei
ha fatto tutto il possibile con quello che aveva! » si scaldò Edward,
alzando la voce nel rispondergli: « lei è un medico eccezionale, ed una
persona ancora migliore! Non mi vada nel pallone ora, dottore, non è ancora
finita! » esclamò.
John
si chiese dove la trovasse, tutta quella forza. Probabilmente faceva parte dell’attrezzatura
del soldato
Forse
una volta l’aveva avuta anche lui, quando indossava la divisa e gli sembrava di
fare finalmente qualcosa di utile nella vita, qualcosa che gli sarebbe valso il
diritto di vivere camminando a testa alta per strada.
Non
poteva sapere che le cose che ti rendono davvero orgoglioso sono sempre dove
meno te le aspetti; in un disordinato appartamento di Westminster, per esempio,
o negli occhi incredibilmente azzurri di un coinquilino/migliore amico/chissà
cosa quando sorride soddisfatto di una tua intuizione.
Stava
per rispondergli, quando successe.
Stava
per dire a quel giovane pieno di spirito militaresco che andava tutto bene, che
doveva solo elaborare la perdita, come aveva fatto moltissime altre volte al
fronte, doveva aveva visto i suoi amici morire sotto le proprie mani perché
cercava di curarli anche quando non poteva fare proprio niente, per salvarli.
Prese
giusto il fiato per pronunciare la prima parola... ma non ci riuscì.
Un
dolore sordo esplose come un tuono nel suo stomaco, facendogli contrarre i
muscoli del ventre sotto l’insana forza di quella fitta di puro male fisico. Un
lampo bianco gli attraversò la vista mentre si chinava istintivamente su se
stesso, le mani strette sulla pancia, un respiro mozzato a metà fra la gola e i
polmoni. Solo un gemito gli uscì dalle labbra mentre poggiava la fronte al
pavimento di fianco al cadavere della ragazza, il suo corpo che cercava in ogni
modo di ricacciare indietro quel dolore sconsiderato chiudendosi a riccio in
una posizione che la maggior parte della gente normale non avrebbe mai nemmeno
preso di propria iniziativa.
L’udito
ovattato, a John sembrava di essere stato nuovamente colpito da un proiettile,
ma questa volta all’addome. Prese un breve respiro fra i denti serrati,
pentendosi subito quando il gonfiarsi dei propri polmoni gli provocò un’altra
fitta, facendolo gemere.
Non
capiva più niente, il cervello era completamente immobile, incapace di
concentrarsi su altre cose se non il dolore. Sentì solo per caso la mano di
Edward sulla propria spalla, e prima di rendersene conto era già disteso a
terra, ancora chiuso su se stesso nella galoppante disperazione al pensiero,
sempre più fondato, che fosse troppo tardi anche per lui.
« Dottor Watson!
Cosa le succede?! » la voce del
soldato era acuta e tremolante, e anche solo da quella era palese che fosse nel
più completo panico.
John
tentò di parlare, ma il tentativo si rivelò inutile dato che non aveva
sufficiente respiro. Prese coraggio e, pian piano, distese le gambe e si mise
supino, per permettere ai propri polmoni di espandersi e quindi ricominciare a
respirare.
Aveva
fatto la stessa, medesima cosa anche in Afghanistan, quando quel maledetto
proiettile di kalashnikov aveva messo fine alla sua carriera e lo aveva fatto
passare da un ospedale all’altro per quasi un anno.
« Dottor Watson! » esclamò
nuovamente Edward, aspettando una risposta, un cenno, anche solo un segno per
sapere se stava bene.
John
deglutì, prendendo piccole sorsate d’aria prima di riuscire a tirare fuori la
voce: un timbro sussurrato, incrinato, basso.
« La... camicia »disse, non riuscendo nemmeno a portare la
propria mano all’indumento che Edward era già al suo fianco; con dita ruvide e
veloci sollevò camicia e maglietta, scoprendogli pancia e stomaco.
Ciò
che vide fu un ematoma diffuso, che andava dall’ombelico al fianco e fino a
sotto la cintura dei pantaloni. Il soldato sbiancò, tornando a guardarlo in
volto con un’espressione terrorizzata.
« E questo cos...
Cosa diamine... ? » borbottò.
« Un’emorragia
interna... » sussurrò John,
afferrandogli il braccio e stringendoglielo forte: « devi... devi... » cercò di dire, ma
un movimento sbagliato gli fece strizzare gli occhi per il dolore.
Dolore
che, nel frattempo, sembrava allargarsi a macchia d’olio e spostarsi anche
verso la parte bassa della schiena.
« Dottore no, no!
Io non so cosa fare! » sbraitò Edward,
cominciando a guardarsi intorno come impazzito, alla ricerca di chissà cosa che
però era impossibile che trovasse, nel posto dove si trovavano.
John
si sforzò di non urlare, limitandosi a stringergli nuovamente il braccio: « devi sentirmi i
battiti... Edward, devi sentirmi i battiti! » alzò la voce, sovrastando per miracolo
quella dell’altro, che riportò lo sguardo su di lui, ancora visibilmente
agitato.
Watson,
continuando a guardarlo negli occhi per non sembrare insicuro – e dunque non
far sentire di riflesso l’altro più insicuro di quanto in realtà già non fosse
– riprese a spiegare: « devi tenere
d’occhio le mie condizioni, e... e dirmele, ok? » disse, assicurandosi che lo stesse
ascoltando.
Il
soldato annuì, posandogli un paio di dita tremanti sulla giugulare. « Batte in
fretta... » riuscì a dirgli,
dovendo ricominciare però a contarli almeno tre volte prima di avere una stima
numerica: « direi almeno 100
battiti al minuto » gli disse,
sembrando un minimo più calmo.
John
gli sorrise, annuendogli appena ed abbandonando la testa sul pavimento duro.
La
frequenza era alta rispetto alla norma, se non considerava l’agitazione e la
fatica fatta nel cercare di rianimare Joy. Tuttavia ormai era disteso e i
battiti non si erano placati, motivo per cui era portato a credere che quell’aumento
di frequenza fosse dovuto all’emorragia.
« Ascoltami bene » cominciò dunque a
dire, senza spostare il capo ma guardandolo dritto in volto: « sto perdendo
sangue da un po’... e-e probabilmente questi sono i sintomi di un’anemia » gli chiarì.
Il sangue perso
abbassa la pressione sanguigna; il cuore, per ovviare all’abbassamento del
volume del sangue presente nelle vene, aumenta i battiti. La perdita di sangue
provoca giramenti di testa, nausea, fiacchezza, sudori freddi e pallore.
« Probabilmente
peggiorerà... potrei arrivare ad un punto in cui perderò coscienza. Non devi
farti prendere dal panico. Se... » ebbe un attimo di smarrimento nel dover
pronunciare quelle parole, ma si riprese subito: doveva essere sicuro che
Edward fosse in grado di rimanere con la testa piantata nella realtà. « ...Se per caso
non dovessi farcela... devi avere cura di Alice finché non vi tireranno fuori di
qui. Hai capito? ».
« Dottore, non dica
nemmeno per scherzo una cosa di questo gen-»
« Hai capito?! » lo interruppe il
medico, pretendendo una risposta.
Si
guardarono negli occhi per un momento che parve infinito, ma che in realtà
comprendeva solamente qualche istante. Edward annuì mentre John, avuta
finalmente la risposta che aspettava, socchiuse gli occhi e lasciò andare un
lungo sospiro.
Perdonami,
Sherlock –
riuscì solo a pensare.
Forse ti toccherà
trovare qualcun altro, con cui dividere l’affitto.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:00 pm
« Non funzionerà ».
La
voce profonda di Sherlock spaccò violentemente il silenzio carico d’aspettative
dell’uomo in piedi al suo fianco, che aveva appena terminato di posizionare,
insieme ai suoi sottoposti, quattro mezze travi d’acciaio accanto ai due vagoni
sovrapposti, come a formare una sorta di percorso discendente per far sì che il
vagone superiore potesse lentamente scivolare lungo di esse ed adagiarsi a
terra.
Nick
sussultò. Non gli era servito molto tempo in sua compagnia per rendersi conto
che ogni cosa Sherlock Holmes dicesse era fondata su assunzioni logiche
ineccepibili e, di conseguenza, era anche corretta.
Tuttavia
negò con il capo. « Non abbiamo tempo
per fare nient’altro » disse, suonando
sicuro di sé.
L’idea
era sembrata buona – o meglio, era parsa l’unica praticabile nel poco tempo che
avevano – dunque era stata messa subito in atto.
Ma
a Sherlock, ora come all’inizio, sembrava solamente un maldestro tentativo di
scaricare da un camion una botte da cinquanta chili di vino usando un paio di
tavole di compensato.
« Il vagone è
troppo pesante » osservò: « le travi si
piegheranno non appena il peso si sarà concentrato nel punto di appoggio alle
travi stesse. Si piegheranno e cederanno, e la carrozza trascinerà con sé anche
i detriti che ne hanno schiacciato la parte rivolta verso la motrice.
Probabilmente questo crollo non farà altro che gravare ulteriormente sulle
condizioni già precarie della volta, ma ammetto di sparare nel buio dicendo che
potrebbero esserci altri crolli. Lei è un ingegnere, queste cose dovrebbe
saperle » terminò,
rivolgendosi a Nick senza però guardarlo direttamente, tenendo invece gli occhi
socchiusi e fissi sull’ultimo manipolo di pompieri che assicurava meglio le
travi alla terra sotto i loro piedi.
Nicholas,
istintivamente, alzò gli occhi alla volta scura sopra di loro.
Da
ingegnere, anche se navale, sapeva dentro di sé che Holmes aveva ragione. Che
poteva effettivamente succedere di tutto e il pensiero che sopra di loro – a
quasi dieci metri, in realtà, ma comunque sopra di loro rimaneva – ci fossero
le acque del Tamigi non lo calmava affatto, anzi.
Sospirò
pesantemente, grattandosi la nuca con la mano destra. « Con tutti i
maledetti posti che questa galleria attraversa, proprio qui doveva
deragliare... accidenti » borbottò a bassa
voce. Solo Sherlock riuscì a sentirlo, ma non commentò nessuna delle sue
parole.
Il
detective, d’altro canto, non staccò mai gli occhi dalle operazioni in atto.
Era
sicurissimo che quel vagone sarebbe rotolato giù veloce come un barile lungo
una discesa, così come era altamente convinto che almeno parte della galleria
avrebbe ceduto a quello spostamento improvviso; quello che tentava di capire in
realtà, però, era se la carrozza sottostante, ovvero l’ultima su cui potevano
intervenire – quella in cui doveva per
forza esserci John – avrebbe retto all’urto o si sarebbe irrimediabilmente
accartocciata su se stessa, come una foglia che va a fuoco.
Cercando
di non prendere in considerazione quali sarebbero state le conseguenze di
quella mossa del tutto sconsiderata – ma non illogica – sugli eventuali
occupanti del vagone, si rivolse nuovamente al pompiere, impegnato a mordersi
il labbro inferiore in un attacco d’ansia tenuto prontamente a bada.
« Non c’è altra
scelta? » domandò il
detective, attendendo una replica.
Risposta
che arrivò dopo qualche istante di meditazione da parte dell’altro. « No » rispose: « potremmo
spostarlo con una gru, che qui sotto non entrerebbe. Potremmo anche cercare di
creare un passaggio che passi dalla parte sottostante della carrozza superiore
fino al soffitto di quella inferiore, ma sono entrambi talmente spessi che
impiegheremmo troppo tempo, oltre che rischiare di ferire eventuali superstiti
nel tentativo. Ho preso in considerazione anche di tagliare un pezzo dalla
paratia visibile della carrozza sottostante, ma temo che se lo facessimo non
reggerebbe più il peso del vagone soprastante e crollerebbe tutto. Abbiamo
controllato ai due lati e dall’altra parte se ci sono passaggi percorribili ma
niente, non ne abbiamo visti. Sappiamo solo che filtra della luce, quindi c’è
della corrente elettrica. Tutto qui » terminò il riassunto, osservando poi
Sherlock: « se ha idee
migliori, sono tutto orecchie » aggiunse poi, sorridendo amaramente.
« Ne ho sette, ma
tutte impraticabili qui sotto » rispose subito Holmes, dovendo ammettere con se
stesso che il piano elaborato da Ryder era l’unico
fattibile.
Era
come un esperimento. Avevano preparato tutto l’occorrente, ora mancava solamente
la messa in atto. Tutto ciò che dovevano fare era agire e, successivamente,
fare l’analisi di ciò che era successo.
Deglutì,
annuendo brevemente a se stesso.
“Fiducia”,
non era questo che aveva detto Lestrade? Abbi
fiducia.
Nicholas
lo vide annuire, e per riflesso fece anche lui lo stesso. Si rivolse poi ai
suoi uomini, quindici fra pompieri e paramedici, posizionati in cinque gruppi
da tre con ognuno in mano una corda, pronti a tirare.
« Cominciate! » gridò Nick; lui e
Sherlock, contemporaneamente, andarono a posizionarsi dietro Dennis alla quinta
fila.
Al
segnale di via, tutti i gruppi presero a strattonare le grosse corde, tenendo
il ritmo delle tirate con la voce. Ad ogni strattone secco che riceveva, il
metallo del vagone scricchiolava sempre più forte e, con un rumore acuto,
cominciò pian piano a spostarsi.
« Si muove!
Continuiamo! » gridò Dennis.
Sherlock,
nonostante avesse i guanti, non si sentiva più le mani. La pelle dei palmi
aveva bruciato dopo i primi tre strattoni a causa della frizione della cute
contro la stoffa ruvida dell’interno del guanto e, pian piano, aveva
semplicemente smesso di sentirsela attaccata alle dita. I muscoli delle sue
braccia cominciarono a dolergli, così come i quadricipiti delle gambe, che
sparavano acido lattico nelle fibre muscolari a ritmo esponenziale.
Ma
continuò lo stesso. Solo il pensiero che là sotto, là dentro, ci fosse John, lo
spingeva senza rimpianti a smembrare se stesso nel tentativo di salvarlo, o
anche solo vederlo.
Voleva solo
vederlo. Voleva solo sapere.
Sapere se sarebbe
tornato alla sua vecchia vita piena di nuove abitudini o se sarebbe stato
condannato ad annegare ogni giorno sulla terraferma.
Continuarono
a strattonare per un numero indefinito minuti, nei quali il vagone si mosse di
parecchi centimetri. Quando finalmente sembrò in bilico su se stesso e sul
punto di cadere, la voce di Nick si alzò in un gutturale: « tirate! ORA! ».
Sherlock,
così come tutti gli altri uomini, puntò i piedi a terra e tirò con tutta la
forza che aveva a disposizione, stringendo i denti e artigliando le mani alla
corda, usando persino le unghie.
In
un cigolio metallico, il vagone rotolò sulle travi. E, come aveva predetto
Sherlock, esse si piegarono irrimediabilmente sotto il suo peso, lasciandolo
cadere ad una velocità superiore alle aspettative.
Il
movimento improvviso della carrozza, inoltre, sempre come Sherlock aveva
predetto, causò uno spostamento dei detriti in equilibrio precario sopra di
essa. Crollò della terra, fango e alcuni pezzi di pietra; con un rumore sordo
una lunga crepa si formò sul soffitto, facendo sì che altri pezzi di pietra si
staccassero dalla volta a precipitassero,
esattamente
sopra i soccorritori e le due carrozze.
Sherlock
fece a malapena in tempo a vedere alcuni pezzi cadere a poca distanza da lui
che subito un “a terra!” gridato disperatamente gli trapassò le orecchie. Si
buttò al suolo, venendo subito coperto da braccia non sapeva appartenenti a chi
e poté chiaramente sentire le sue ginocchia, gli stinchi ed i gomiti urtare
contro la ghiaia grossa del manto della galleria.
Un
lieve dolore alla testa e poi più nulla se non una nube di polvere grigia.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach) –meanwhile
Aveva
sentito i primi cigolii del metallo sopra la sua testa come eco lontane, perso
in una sorta di dormiveglia che tale non era, ma che vi assomigliava
grandemente.
Steso
sul fianco sinistro, Alice gli teneva una mano con le sue, poggiate sul piccolo
grembo come farebbe una donna fatta e finita. Probabilmente, in quel breve
lasso di tempo, la piccola aveva perso un pezzo della sua infanzia ed era
diventata grande tutto d’un colpo, troppo in fretta, non meritandoselo affatto.
Aveva
freddo, John. Brividi di gelo gli correvano sulla pelle della schiena facendolo
tremare. Si sentiva le viscere strette in una morsa fastidiosa, prendeva brevi
respiri con il naso alzando ed abbassando il torace e si sentiva le palpebre
sempre più pensati, nonostante cercasse con tutto se stesso di rimanere se non
vigile, almeno sveglio.
« Cosa sta
succedendo...? » riuscì a
borbottare, fissando gli occhi socchiusi e carichi di un sonno innaturale sul
soffitto.
Edward,
seduto accanto a lui da quando aveva avuto il malore, alzò lo sguardo a sua
volta. « Non so... ma
stanno facendo qualcosa » dichiarò,
alzandosi in piedi ed avvicinandosi al finestrino sfondato in precedenza per
poter dare un’occhiata.
Seguendolo
con lo sguardo, John si imbatté nel cadavere di Joy, ancora steso lì dove
avevano tentato di rianimarla. Edward si era limitato a coprirne il volto ed il
busto con la sua giacca, senza spostarla.
Il
senso di colpa dilagò nel petto del medico, ma fu un’altra la cosa che,
malauguratamente, catturò la sua attenzione. Non si era minimamente accorto di
quando l’aveva fatto.
Ciò
voleva dire che aveva cominciato a perdersi dei pezzi. Vuoti di coscienza in
cui probabilmente perdeva conoscenza, o semplicemente si addormentava.
Sospirò,
chiudendo gli occhi per un secondo, infastidito dalla luce al neon sempre più
tremolante. Alice, osservandolo, gli strinse di più la mano nelle proprie. Il
dottore cercò di ricambiare la stretta quanto poteva.
« Non avere paura,
piccola Alice... » gli disse poi,
sussurrando data la vicinanza e la confusione in testa che aumentava minuto
dopo minuto: « andrà tutto bene
e tornerai dal tuo papà... » le disse.
Lei,
con quell’aria sperduta e spaventata su tutto il viso, annuì in un gesto quasi
invisibile.
« Dottore... tu ce
l’hai un papà? » chiese poi la
piccola, mentre i rumori sopra di loro sembravano aumentare pian piano
d’intensità. Edward, con la torcia di Joy, si era intanto arrampicato su per il
piccolo passaggio del finestrino.
Il
medico le fece un sorriso stanco, negando con il capo. « No, non ce l’ho
più... però qualcuno sì, ce l’ho » aggiunse, sempre sorridendole, nel
tentativo di tenerla il più tranquilla possibile.
Alice
sembrò pensarci su per un attimo. « È la persona che dicevi prima? » domandò.
John
annuì di nuovo. « Il tuo papà è una
persona importante per te, Alice? Gli vuoi bene? » le chiese; lei annuì.
In
quel momento, pensò che non poteva essere poi così sbagliato, essere sincero
con se stesso. Molto probabilmente sarebbe morto, se i soccorsi non fossero
arrivati in tempo, e in ogni caso si sentiva già abbastanza debole da pensare
di non potercela comunque fare.
Sherlock
era la prima persona che istintivamente associava al termine “importante”. Era
il suo coinquilino, il suo migliore amico, e forse anche più di questo, non lo
sapeva nemmeno lui. Era semplicemente consapevole del fatto che, quando la sua
terapista gli aveva chiesto dove si vedesse a dieci anni nel futuro, lui aveva risposto
immediatamente “al 221B di Baker Street”. Aveva l’improbabile immagine mentale
che sarebbe stata quella la sua vita, da quel momento in poi: rimanere al
fianco di Sherlock. Sempre.
Ascoltarlo
durante le sue deduzioni, aiutarlo – per quanto possibile – durante la
risoluzione dei casi, scrivere le sue avventure su quel blog rimasto una
semplice pagina bianca per tante notti insonni piene di mine e deserto, per poi
essere riempito con narrazioni mozzafiato di indagini risolte (e non, anche
seSherlock non piaceva che lui
scrivesse anche di quelle).
Era
stato riempito di vita. La vita che era stato Sherlock a dargli. L’aveva
condensata dall’aria come rugiada fra le dita e poi l’aveva posata
delicatamente sulle sue, lasciando che John ne facesse ciò che voleva.
E
gli sarebbero mancate tante, troppe cose. Come la torta di mele di mrs. Hudson, o i momenti folli in cui Sherlock decideva di
vivere solo di tè perché “la digestione spreca preziose energie utili al mio
cervello”. Il commesso del ristorante cinese che ormai sapeva esattamente
cos’avrebbero ordinato, Angelo e le sue candele, i sabato sera sul divano a
guardare un film a noleggio, le sue dita affusolate e bianche appoggiate
sull’archetto e le note di Bach, o Mozart, o Pachelbel,
o Paganini, o Čajkovskij a riempire la notte
silenziosa.
Non
era per disperazione che stava con Sherlock Holmes, no... e non era la pazienza
ciò che lo rendeva adatto a vivere con lui. La realtà era un’altra ed era
sempre stata molto semplice; John era attratto dal mondo di Sherlock, e lo era
stato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo.
Non
credeva di amarlo e non si immaginava in quel senso, con lui. Ma non si immaginava
nemmeno senza di lui.
Non
più, ormai.
Indispensabile
come l’aria, come l’acqua, come il sole.
Insieme
a lui e mai più da solo.
Watson
sorrideva senza nemmeno rendersene conto, fissando un punto indefinito delle
mani di Alice.
« Anche io voglio
bene alla mia persona speciale, Alice. Tanto bene. E sono preoccupato, perché
abbiamo litigato e io non riuscirò a chiedergli scusa... » disse, riducendo
la voce ad un soffio sul finire della frase.
Sì,
un mondo senza Sherlock Holmes era impensabile. Ma lui era solo John Watson.
E
aveva la sensazione che ce ne fossero tanti altri, come lui. Tante altre
persone normali che avrebbero potuto prendere il suo posto accanto a Sherlock, nel cuore di Sherlock.
John
Watson era una pedina sacrificabile, dopotutto.
Non sarebbe cambiato
niente.
« Perché no? »
La
domanda di Alice lo riscosse da quei pensieri pessimistici, permettendogli di
non addormentarsi seguendo la rotta di quegli stessi ragionamenti alla deriva.
Si riscosse, sospirando affranto.
« Perché ho...
paura » riuscì a dirle.
Perché morirò, pensò in realtà.
« Anche io ho
sempre paura quando papà mi sgrida perché lo faccio arrabbiare, però poi mi
porta a prendere un gelato e io gli dico che gli voglio bene, così facciamo
pace » disse la piccola,
aggiungendo poi felice: « quando torni a
casa, digli anche tu che gli vuoi bene, così fate pace ».
John
ridacchiò appena, annuendo.
Quanta
verità giace nella bocca dei bambini, che non hanno paura di dire le cose come
stanno, o lo spettro del dubbio ad oscurare i loro occhi.
Stava
probabilmente per aggiungere qualcosa, ma il ritorno di Edward spostò altrove
l’attenzione di entrambi.
« Stanno spostando
il vagone superiore » disse, sedendosi
di nuovo di fianco a John; nel frattempo, i rumori sopra di loro si erano fatti
più forti ed erano palesemente suoni di metallo che slitta su altro metallo.
Suoni fastidiosi, in realtà, ma che almeno davano a loro la speranza che qualcuno
ci fosse, là fuori.
Ma
John era un medico, ed essere medici significa essere anche realisti, quando
serve.
Aveva
freddo, sonno e si sentiva anche terribilmente confuso. Nonostante il dolore
alla pancia e all’addome non riusciva più a rimanere sveglio; i suoi occhi
troppo pesanti imploravano di scivolare in un sonno che, lo sapeva, non lo
avrebbe più lasciato andare.
Alzando
lentamente una mano – quella libera dalla presa gentile ed impacciata di Alice
– prese l’avambraccio di Edward, che posò gli occhi su di lui.
Non
si nega l’ultimo desiderio, no? Non funzionava così?
« Baker Street,
221B » gli disse.
« Cos... dottore,
cosa sta... ? » borbottò quello,
facendo finta di non aver capito.
« 221B di Baker
Street » ripeté allora
John: « cerca Sherlock
Holmes, devi digli che... »
« No, dottore! »
« Ascoltami! »
L’urlo
che John lanciò, trovando chissà dove la forza per farlo, fece zittire
automaticamente il soldato, che non ebbe cuore di rimanere sordo a quelle
parole di cui aveva giù intuito il significato.
Annuì,
rimanendo in silenzio, le orecchie aperte.
John
poté continuare. « Devi dirgli
che... »che gli voglio bene, che non voglio
lasciarlo solo, che lo terrò d’occhio ogni giorno, che sarò con lui in ogni
momento, che gli sussurrerò il mio nome all’orecchio quando starà per
dimenticarsene, che lo guarderò diventare un uomo sempre migliore, che deve
ricordarsi di mangiare, che il frigorifero non è fatto per tenerci teste
mozzate, che mi dispiace per avere litigato, che i momenti passati con lui sono
stati i più spettacolari della mia vita, che è il mio migliore amico, che mi
ero aspettato che finisse in un modo migliore, che...« ...che può tenere
le mie dita nel frigorifero, se vuole » disse, ridendo di sé stesso.
Edward
sembrò non capire, ma annuì comunque, in silenzio.
Poi,
uno scoppio. Ci fu un rumore più secco, come di qualcosa che si piegava e si
rompeva, e un rombo assordante lo seguì, accompagnato da un nugolo di polvere
densa e grigia che penetrò da ogni fenditura, riempiendo il vagone.
John
fece in tempo a sentire la piccola Alice rifugiarsi fra le sue braccia, ed
Edward piegarsi su di lui nel tentativo di proteggerlo, prima di perdere
definitivamente i sensi.
Cadde
in un sonno da cui non era sicuro si sarebbe risvegliato.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:30 pm
Quando
finalmente il fastidioso rumore terminò, e tutto ciò che rimase fu silenzio e
respiri ansanti di persone in attesa di un qualsiasi altro suono o del completo
silenzio, finalmente si permise di prendere un respiro profondo.
Polvere.
Era nell’aria e la sentiva penetrare pian piano anche nei polmoni, ad ogni
respiro che prendeva. Sotto le mani sentiva i sassi e sopra di lui, con il
petto appoggiato alla sua schiena nel tentativo del tutto istintivo di
fornirgli protezione, Nicholas stava riprendendo conoscenza in quel momento.
Cercando
di essere meno rude possibile, Sherlock se lo scrollò dalle spalle, sedendosi a
terra.
Non
sentiva particolare dolore da nessuna parte, ma il non potere vedere le proprie
condizioni non lo aiutava affatto a fare il punto della situazione. La galleria
era buia, illuminata solamente da un lieve lucore proveniente dalle luci che
non erano state danneggiate dal nuovo crollo appena avvenuto, e tutto intorno a
lui distingueva solo di semplici ombre nere dalle forme vagamente
riconoscibili.
La
sua mente volò subito ai vagoni, e a John per collegamento.
Poteva
essersi ferito? La carrozza sottostante aveva ceduto al peso?
Nonostante
non vedesse bene, poteva dire dallo spazio sgombro di grandi masse intorno a sé
che la carrozza soprastante non era caduta del tutto, dunque il loro piano non
era andato completamente in porto. Aveva riportato danni? Era crollata sotto il
peso di nuovi detriti staccatisi dalla volta? John era morto?
Prima era vivo?
Sentendo
la confusione tornare padrona di lui, strinse gli occhi e cercò di concentrarsi
su altro. Nella quasi totale oscurità non era esattamente in grado di
utilizzare la vista per dedurre quanto grave potesse essere la situazione, ma
almeno gli rimaneva l’udito.
Sentì
Nicholas, in ginocchio davanti a lui, sussurrare una serie di “dannazione”
intervallati da alcuni colpi di tosse. Immaginò fosse stato ferito – nel tentativo di proteggerti, Sherlock, come
un vero eroe, di quelli che non esistono – ma non ebbe effettivamente il
tempo per domandarglielo.
« STATE TUTTI BENE?
» urlò infatti
quello, facendo risuonare la sua voce lungo tutto il tunnel in una nota
echeggiante: « aggiornatemi
sulla situazione per gruppi e non muovetevi da dove siete! » aggiunse.
Probabilmente
i suoi uomini aspettavano solo questo, fermi nel buio, perché subito i fasci di
alcune torce elettriche rischiararono l’ambiente
« Gruppo uno, tutto
ok! » si sentì da una ventina
di metri di distanza.
« Gruppo due, Sykes ha una gamba rotta, serve un medico! ».
Nick
puntò la torcia su Dennis, seduto a poca distanza, poi la spostò su Sherlock,
osservandolo attentamente.
« Gruppo tre, tutto
ok! Lewis chiede di poter raggiungere il gruppo due per visitare Sykes! ».
Vide
qualcosa che non gli piacque, probabilmente, perché si avvicinò meglio e,
togliendosi un guanto, gli spostò i capelli ricci e ormai incrostati di polvere
e sudore dalla fronte. Sherlock glielo lasciò fare, prendendo ampi respiri
d’aria per liberarsi dalla sensazione di avere letteralmente mangiato della
polvere. Nick gli toccò un punto specifico della testa e, quando lo fece,
Sherlock si ritrasse di colpo, sentendo una scarica di bruciore.
Quando
gli mise le dita davanti al volto, illuminandole con la torcia, sia Sherlock che
Nick poterono vedere che erano sporche di sangue.
Era
ferito.
« Ecco a cosa serve
il casco » gli disse il
pompiere, la voce a metà fra un’ironia amara e il rimprovero.
« Gruppo quattro, Hallam ha la caviglia bloccata da un pezzo di pietra e non
ha ancora ripreso conoscenza! ».
Si
guardarono per un attimo negli occhi, entrambi consapevoli di cosa sarebbe
successo da quel momento in poi. Sherlock scosse la testa, ma Nick questa volta
sembrò irremovibile nella sua decisione.
« Gruppo cinque, Holmes
è ferito! » disse in risposta
agli altri, per poi aggiungere: « Lewis, pensa prima ad Hallam.
C’è qualche paramedico libero che può andare da Sykes
e venire qui? » domandò, sempre a
voce alta per farsi sentire.
«Walker, vado al gruppo due! »
«Gray, sto arrivando da lei! » risposero due degli uomini,
mettendosi subito in marcia.
Sembrava
un’operazione militare e per qualche istante Sherlock si immaginò Ryder con una divisa da soldato a comandare un plotone
d’assalto in un qualche film d’azione che da piccolo gli capitava di vedere.
Sarebbe stato capace, probabilmente, considerate le abilità di comando che
aveva dimostrato per tutto il tempo in cui Holmes era stato “ospite” della
squadra di soccorso, e non faticò per nulla ad immaginarselo ad abbaiare ordini
alle reclute.
John
non guardava mai film a sfondo militaresco o riguardanti la guerra. Diceva che
non li sopportava ma la realtà, forse, era che provava nostalgia per quella
vita che era stato costretto a lasciare.
Al
solo pensiero che John, avendone la possibilità, avrebbe potuto decidere di
lasciare l’appartamento – anche se sapeva che era congedato, ma nulla gli
impediva di trovarsi una donna con cui andare a vivere... – si sentiva sempre
pervaso da una sorda irritazione.
Ma
ora, il solo dubbio che John potesse essere morto era abbastanza per
trasformare quell’irritazione in panico.
Fu
distratto nuovamente dalle parole di Ryder.
« Dennis, chiama la
superficie e aggiorna il comandante, e fai scendere di nuovo la prima squadra.
Poi raduna i ragazzi e questa volta li accompagnerai di sopra anche tu » disse, il tono
fermo di chi ha già preso una decisione e non cambierà idea. « Porterai anche
Holmes con te » disse poi.
Fermo
come lo erano i suoi occhi.
Dennis
non ribatté nulla, questa volta, limitandosi a prendere la ricetrasmittente e
gracchiare qualche parola a chi era all’ascolto. Si alzò con passo svelto, poi,
dirigendosi verso gli altri uomini nel tunnel.
Sherlock,
senza nemmeno aspettare che l’altro fosse lontano, proruppe in uno stizzito « non se ne parla
nemmeno », lapidario e
ugualmente definitivo.
« Oh, invece ne
parliamo, signor Holmes » cominciò però Ryder, fissandolo dritto negli occhi come se dovesse
saltargli alla gola da un momento all’altro.
E
molti, vedendo quello sguardo, probabilmente avrebbero giurato che gli frullasse
in testa di farlo davvero.
« Il patto valeva
finché era d’aiuto per le ricerche. Ora è ferito e ha bisogno di cure, quindi
lei si metterà sulle proprie gambe e andrà in superficie, dove i paramedici
potranno prendersi cura di lei e portarla in ospedale » disse, glaciale.
Sherlock
assottigliò gli occhi, scattando rabbioso e strappandogli la torcia di mano.
Tentò di alzarsi ma la mano di Nicholas si strinse sul colletto della casacca,
tirandolo giù di nuovo.
Nel
frattempo, il paramedico era arrivato e li guardava con tanto d’occhi.
« Dove crede di
andare?! » sbottò il vigile
del fuoco, tenendolo per la divisa ed arrivandogli con il viso ad una spanna
dal naso.
« A salvare il mio
migliore amico! » gridò a sua volta
Holmes, oramai completamente immerso in un caldo fiotto di rabbia che sapeva
anche da valvola di sfogo per l’ansia.
Sapere se era
ancora vivo, sapere se sperare valeva la pena, sapere che sarebbe tornato tutto
come prima.
Sapere e basta.
« Lei non va
proprio da nessuna parte se non alla stazione di Waterloo, poi all’aria aperta!
Salvarle il culo è il mio compito, signor Holmes, e su questo non discuto! Lei
è ferito! Qui sotto mi sarebbe solo d’intralcio ed io non ho tempo per lei, adesso!
Ho messo in pericolo delle vite e devo rimediare allo sbaglio, per la puttana! » ringhiò Nick,
stringendo e scuotendo Holmes per il colletto come se , anche per lui, quelle
urla fossero la valvola di sfogo per lo stress accumulato in tutte quelle ore
di ricerche senza fine.
Sherlock
non rispose, limitandosi a guardarlo, così Nicholas continuò con un ultima,
imponente imprecazione: « alzi il culo e si
levi dai piedi, Cristo Santo! » gridò.
La
galleria cadde nel silenzio. I toni della loro conversazione erano passati in
fretta ad urla da litigio.
Holmes
era riuscito ad esasperare Nicholas che, dal canto suo, era a sua volta
riuscito ad irritare Sherlock. Si guardarono entrambi negli occhi per alcuni,
interminabili istanti poi fu Ryder quello ad
abbassare lo sguardo, sospirando come per calmarsi.
« Ho capito che per
lei è importante... » cominciò poi, la
voce umana, bassa: « ...l’ho capito.
Non sarebbe qui, altrimenti. Nessuno verrebbe qui se non stesse cercando la
cosa più importante al mondo. Farei la stessa cosa per le persone a me care, e
mi è già capitato di farlo, dunque riesco benissimo a capirla. Ma lei è ferito,
signor Holmes... non posso tenerla qui un secondo di più. Non voglio rischiare
la sua incolumità, un secondo di più » gli spiegò.
Sherlock
lo guardò negli occhi e capì che era sincero. Aveva lo stesso sguardo di John
quando gli chiedeva come stava, se aveva mangiato o dormito abbastanza, se era
finalmente riuscito a resistere all’impulso di andare a comprare sigarette di
contrabbando, dato che aveva pagato tutti i tabaccai nel giro di dieci
chilometri perché non gli vendessero nemmeno un pacchetto.
John...
non poteva lasciarlo. Non poteva abbandonarlo.
Non
poteva girargli per spalle e risalire alla luce del sole, sotto il cielo mentre
John era intrappolato sottoterra, con un paramedico a curare le sue ferite
mentre John poteva anche essere ferito e non avere nessuno al suo fianco.
Chiuse
gli occhi.
John
era entrato nella sua vita senza fare rumore, con tante domande che non
avrebbero ricevuto risposta ma a cui, in fondo, non era fondamentale
rispondere.
Era
arrivato in silenzio senza portare nulla con sé, nulla di concreto, ma con
caldi sorrisi sulle labbra, e con le mani piene di luce.
La
cosa più importante... sì, forse lo era, forse non lo era. In effetti, Sherlock
faticava ormai a capire cosa fosse John, cosa fosse lui stesso, cosa fossero
entrambi e, soprattutto, cosa fossero insieme.
Però
doveva vederlo. Voleva...
Voleva
solo...
« Voglio solo
rivederlo » soffiò a voce
bassissima, smettendo di fare resistenza. « Solo rivederlo... nient’altro. Mi
basterebbe » aggiunse il
detective.
Ryder lo osservò attentamente, mordendosi il
labbro inferiore con i denti prima di decidersi a parlare.
A
dar voce alla promessa che tanti di loro erano portati a pronunciare ai parenti
delle vittime intrappolate nel fuoco, ma che raramente riuscivano a mantenere.
« Lo troverò » disse.
Sherlock
restituì lo sguardo.
« Troverò John,
signor Holmes. Non uscirò da qui finché non l’avrò trovato, dovessi cercare
tutta la notte ».
Sherlock
non era un tipo di persona che credeva nei miracoli, nelle promesse, nelle
speranze e nei sentimenti. Non credeva in niente che non fosse tangibile e
scientificamente provabile. Non credeva in ciò che conteneva le parole “per
sempre” ed “eternità” perché si sa, niente è eterno, niente dura per sempre, e
madre natura era stata la prima ad insegnargli quest’amara lezione.
Eppure,
senza accorgersene, per tutto il giorno non aveva fatto altro che rincorrere la
scia di una speranza; non aveva fatto altro che credere in un miracolo, guidato
dai sentimenti... e adesso avrebbe accettato di fidarsi di una promessa.
Annuì
in direzione di Ryder, senza aggiungere altro.
Non
una parola, non un consiglio, non una lamentela.
Aveva
l’impressione di abbandonare John in piedi sull’orlo di un dirupo, oppure nel
centro di una tempesta. Era come gettare la spugna. Si sentiva un traditore ma
in tutto quel disagio che all’improvviso gli era esploso in un punto indefinito
fra lo stomaco ed il petto, prendeva posto la consapevolezza che non c’era più
nulla che potesse fare, in quel luogo.
E,
piccola piccola, in un angolo, vi faceva nido anche
la sensazione che in realtà non desiderasse affatto vedere il cadavere di John
abbandonato sul fondo di una carrozza della metropolitana, coperto di sangue e
con gli arti disarticolati, gli occhi aperti e fra le labbra una frase ancora
non pronunciata.
“Mi hai
abbandonato”.
No...
non sarebbe riuscito a farlo.
Per un istante, si
vide nuovamente davanti al tavolo in metallo dell’obitorio del Bart’s, John steso davanti a lui ed un bisturi tagliente
fra le mani coperte da guanti di lattice.
Aiutato
dal paramedico, Sherlock si alzò da terra. In poco tempo tutto il gruppo di
soccorritori fu pronto a ritornare in superficie e lui, sempre sorretto da
qualcuno a causa di una ferita alla testa che sembrava non voler far altro se
non sanguinare copiosamente, si allontanò a passo lento insieme a tutti quelli
che avrebbero rivisto il mondo esterno nel giro di una ventina di minuti.
Nicholas
Ryder, osservandolo allontanarsi, si diede
dell’imbecille.
E
si chiese cos’avrebbe detto all’unico consultive detective del mondo nel
malaugurato caso che John Watson fosse morto. O peggio.
Nel
malaugurato caso in cui di lui non ci fosse la minima traccia.
• Waterloo
Station, h. 20:00 pm
Gregory
Lestrade era seduto sul sedile del passeggero di una volante della polizia, con
una tazza di tè fra le mani e sul cruscotto un panino mezzo sbocconcellato rimastogli
sullo stomaco già dopo il primo morso.
Il
fatto di essere in manica di camicia non lo aiutava a ripararsi dal freddo
improvvisamente sceso con il calare del sole; tuttavia, la forza di alzarsi e
coprirsi l’aveva lasciata chissà dove, nelle ultime ore, e non sembrava avere
la minima intenzione di ritrovarla.
Era
preoccupato. Una volta terminate le indagini, e rimandato la stesura del
rapporto a tempi migliori, era rimasto lì a dare una mano per tutto il tempo.
Portava
su cadaveri, per lo più. Dentro sacchi neri di plastica.
Era
abituato, dopotutto, a vedere persone morte. Ne ricostruiva persino la vita, di
solito, essendo capo della squadra omicidi e responsabile di qualsivoglia scena
del crimine che ricadeva nella sua area di competenza. La morte lo aveva sempre
salutato con gesto amichevole quando si incrociavano per strada, e lui le aveva
sempre risposto con rispetto senza nemmeno preoccuparsi di temerla.
Ma
quel giorno... beh, era diverso.
C’era
in ballo la vita di John Watson. Una situazione che non si era mai trovato ad
affrontare, quella di guardare il cadavere di una persona conosciuta, di un
proprio amico.
Non
aveva la minima idea di come ci si potesse sentire, anche se non si immaginava
nulla di piacevole.
Aveva
ancora negli occhi l’espressione di Sherlock quando era venuto a conoscenza del
fatto che John fosse coinvolto, la sua voce che chiamava il suo nome, ed era
convinto di potersela sognare di notte riuscendo persino a trasformarla in un
incubo. Era indubbio che l’avvenimento avesse coinvolto il consultive detective
ad un livello molto profondo, forse talmente tanto che nemmeno Sherlock stesso
sapeva definirne la profondità.
Sherlock
Holmes, da quel momento in poi, aveva subito una trasfigurazione: era diventato
un essere umano.
Se
la situazione non fosse stata quella,
probabilmente Lestrade si sarebbe messo a ridere.
Stava
giusto pensando di alzarsi ed andare ad impegnare nuovamente le mani – di nuovo
trasportando cadaveri su per le scale, dato che sembrava l’unico modo in cui
potesse essere utile a qualcosa – quando vide avvicinarsi il comandante dei
vigili del fuoco. In quelle ore avevano avuto rapporti molto più umani ed erano
riusciti anche ad andare d’accordo.
« La squadra di
soccorso ha avuto dei problemi, là sotto » gli disse subito e senza mezzi termini,
quando ancora non era arrivato davanti a lui: « c’è stato un crollo. Il suo amico
sta tornando in superficie ».
Greg
lo guardò in silenzio per un istante, le sopracciglia sollevate in
un’espressione sorpresa. « Feriti? » domandò poi.
« Un paio » rispose quello,
passandosi una mano sugli occhi con un sospiro stanco. « Ho rimandato giù
la prima squadra, ma stanno per finire. L’ultimo vagone, ispettore Lestrade...
per quelli successivi non possiamo più fare niente » aggiunse, la voce
grave di chi sente avvicinarsi l’agognato momento del ritorno a casa.
Greg
annuì. Il fatto che non avesse visto il cadavere di John poteva essere una
buona notizia, no?
No,
probabilmente. Voleva semplicemente dire che non lo avevano ancora trovato. Ed
ora che l’uomo gli aveva riferito dell’imminente fine delle operazioni per
impossibilità di proseguire oltre – impossibilità fisica, materiale, tangibile
come lo era la tazza di cartone ancora fra le sue mani – la sensazione che
sarebbe stato meglio trasportare in superficie il suo cadavere, piuttosto che
toglierlo successivamente dai rottami pezzo per pezzo, gli sembrava una
soluzione più sopportabile.
Lestrade
ringraziò, osservandolo allontanarsi prima di alzarsi dal sedile ed avvicinarsi
all’entrata della stazione, rimanendo in attesa di vedere comparire gli uomini
di ritorno dal tunnel. Quando finalmente il gruppo comparve, e vide Sherlock
pieno di polvere e con una linea di sangue rosso a macchiargli la pelle nivea
del volto, gli si strinse lo stomaco.
Non
solo perché era ferito, ma anche perché era da solo.
Gli
si avvicinò in tre falcate, appoggiandogli le mani sulle spalle senza sapere
cosa dire. A sua volta, nemmeno Holmes proferì parola.
« Vieni, fatti dare
un’occhiata da un medico... » riuscì poi a borbottare Lestrade, esausto e
letteralmente divorato dall’ansia, prendendolo per un braccio e portandolo
verso una delle ambulanze posteggiate a poca distanza.
Il
detective si fece guidare senza opporre nessuna resistenza.
Greg
si rendeva dolorosamente conto che anche Sherlock, nonostante non lo desse a
vedere come avrebbe fatto una persona normale, era arrivato ad un punto di
sopportazione molto distante dai suoi soliti standard. Anzi, dopo sei anni di
conoscenza era anche convinto del fatto che, se quella fosse stata una
situazioneche avesse potuto affrontare
oggettivamente, si sarebbe già messo all’opera per trovarvi soluzione – e,
implicitamente, risparmiare a tutti loro una tortura psicologica gratuita.
Ma
John era disperso in un incidente ferroviario il cui colpevole era deceduto
suicida. Sherlock non aveva nessuno con cui prendersela, niente su cui sfogare
frustrazione ed attesa e così, viaggiando al limitare del suo carattere tutto
strano e particolare, si limitava a rimanere in silenzio.
Non
credeva che lo avrebbe mai pensato, ma lo preferiva quando era il solito,
logorroico sapientone rompiscatole.
Vedendoli
arrivare, uno dei paramedici assegnati all’ambulanza – e che sembrava
approfittare di un momento di pausa per rifocillarsi con un veloce tramezzino –
posò il minuto pasto e si preparò a riceverli.
Sherlock
si sedette sul retro del veicolo mentre l’infermiere, rovesciando il contenuto
di una bottiglietta d’acqua su di un asciugamano, cominciò a pulirgli viso e fronte
dallo sporco per poter lavorare meglio sulla ferita alla testa. Sherlock
assunse un’espressione scocciata ma l’occhiataccia che gli scoccò Lestrade – un
muto “non ci provare nemmeno e fagli fare il suo
lavoro” – gli impedì di rifiutare l’aiuto.
« È strano vederti
in camicia, Lestrade » disse allora
Holmes.
Greg
fece spallucce. « Ho dato una mano » si limitò a dire
come spiegazione.
Calò
di nuovo il silenzio.
C’erano
cose di cui avrebbero dovuto parlare ma che non avevano il fegato nemmeno di
pensare, così come tutte le cose di cui avevano il coraggio di parlare
sembravano altamente fuori luogo, in quel posto.
Il
risultato era solo il continuare soffuso del silenzio.
« Signore, lei
dovrebbe andare in ospedale, questa ferita ha bisogno di qualche punto » intervenne poi il
medico, disinfettando la ferita di Sherlock con l’aiuto di un pezzo di cotone
idrofilo.
« Ci andrò dopo » rispose subito
Sherlock.
« Ma signore... ! »
« Ho detto che ci
andrò dopo! » ribatté di nuovo
il detective con voce seccata: « ci metta un dannato cerotto e non rompa » aggiunse poi,
suonando lapidario. Lestrade, questa volta, non intervenne in nessun modo.
Quello
sospirò, limitandosi ad annuire ed a bendargli la testa. Sherlock non si era
risparmiato da dire che gli sembrava una cosa inutile, ma la benda teneva ferma
la garza sulla ferita, evitandole di riprendere a sanguinare, ed il paramedico
non scese a compromessi di nessun tipo.
Non
parlarono di John. Nemmeno una parola.
Lestrade
aveva intuito tutto dal comportamento di Sherlock, ed Holmes semplicemente
riteneva di non essere in grado di affrontare il discorso con nessuno,
tantomeno con Greg.
Quindi
rimasero lì, seduti nel retro di un’ambulanza a fissare la stazione di
Waterloo, senza poter far altro se non aspettare.
Ancora.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 23:30 pm
Nicholas
Ryder aveva una laurea in ingegneria navale ma era
innamorato della divisa da vigile del fuoco, ottenuta dopo mesi di
addestramento e che indossava con l’onore di un vero uomo.
Eppure,
ogni tanto, gli veniva in mente il pensiero che se si fosse effettivamente
messo a fare l’ingegnere navale, probabilmente sarebbe stato meglio. Uno di
quei momenti, caso strano, era, per esempio, quando passava nove ore sottoterra
in un tunnel a moderato rischio frane.
Molti
dei suoi uomini gli avevano consigliato di uscire a prendere una boccata
d’aria, magari anche solo un’ora per disintossicarsi da tutta quella polvere e
quella sensazione claustrofobica, ma lui aveva rifiutato ogni volta, portando
al limite sia le sue capacità fisiche che quelle mentali.
Era
esausto e non lo nascondeva. Ma era un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si
faticava a trovarli in tempi come quelli, e non nascondeva nemmeno quello.
Dopo
più di due ore utilizzate per rimuovere i detriti della frana, finalmente
avevano un punto chiaro della situazione: il vagone che avevano tentato di
spostare non era crollato del tutto, ma aveva liberato una parte sufficiente
per poter penetrare all’interno attraverso un buco praticato con la sega
circolare. Erano anche riusciti a capire che all’interno, miracolosamente, vi
erano tre persone vive, tra le quali due coscienti e una svenuta e ferita.
Ed
ora Nick, in piedi ad osservare la sega terminare di disegnare un riquadro
abbastanza grande per lasciarli entrare, sperava ardentemente di non
trasformarsi in un bugiardo, e che all’interno di quel vagone una delle tre
persone ancora in vita rispondesse al nome di John Watson.
Terminando
il proprio compito, la sega bucò il soffitto. Una volta entrato, un giovane
soldato ed una bambina lo accolsero con sorrisi stanchi ma pieni di gioia,
indicandogli subito un terzo uomo a terra privo di sensi ma ancora in vita.
Mentre
i suoi colleghi portavano in salvo il ferito e la bambina, Ryder
si avvicinò al soldato, chiedendogli i loro nomi.
Quando
il giovane pronunciò il nome del dottor John Watson, indicandoglielo nell’uomo
che era ormai assicurato ad una barella e con una mascherina d’ossigeno sul
volto, Nicholas non poté fare a meno di far nascere un sorriso soddisfatto e
felice sul proprio volto.
Ma
il giovane soldato, presentatosi come Edward Miller, non si limitò a quello.
Senza smettere di parlare, cominciò a raccontargli le loro ore dentro quella
carrozza, con dovizia di particolari e un’ammirazione latente per l’uomo
incosciente che stavano trasportando urgentemente fuori da quel posto.
Nick
Ryder ascoltò quel soldato a bocca aperta, stupito, dimenticandosi
persino di sostituire quel patchwork di camicie e magliette sporche e
maleodoranti con una benda medica fatta come Dio comandava.
Ascoltava
la storia di un ex medico militare che aveva fatto di tutto per salvare tre
persone (e che tutt'ora stava rischiando la vita), e di riflesso collegò quel
racconto al detective che aveva avuto al fianco per tutto il giorno, suo
inaspettato compagno nello stomaco della terra.
Non
appena fosse tutto finito... non appena i superstiti fossero stati smistati tutti
negli ospedali, i cadaveri rimossi, le macerie trasportate altrove e le tende
smontate, sarebbe tornato da sua moglie.
Le
avrebbe detto "ti amo", l'avrebbe abbracciata forte, avrebbe
appoggiato l'orecchio sulla sua pancia ancora piatta immaginandosi il cuore
pulsante della creatura che vi cresceva all'interno.
Poi,
guardando la sua donna negli occhi, avrebbe speso le ore successive a
raccontarle una storia.
E
a spiegarle perché loro figlio si sarebbe chiamato John Sherlock Ryder.
• London; 00:00 ~ March the 4th
Il
Big Ben, imponentemente stagliato sulle acque placide del Tamigi, rintoccò
cautamente la mezzanotte di un nuovo giorno di marzo, facendo sentire la sua
voce tonante nel cielo stellato che sovrastava Londra.
Al
piano terra del 221B di Baker Street, mrs. Hudson
stava seduta inquieta sulla sua poltrona, non sapendo se doveva o meno
aspettare notizie da entrambi i suoi coinquilini, ancora fuori casa da quella
mattina.
In
camicia da notte e vestaglia di lana rosa, osservava con sguardo preoccupato il
televisore, sintonizzato su un’edizione speciale del telegiornale. Era tutto il
giorno che uomini a mezzobusto interrompevano le soap opera che guardava
abitualmente con aggiornamenti sull’incidente alla metropolitana, e tutte le
volte che vedeva inquadrata la stazione di Waterloo una strana sensazione le
prendeva al petto, facendola sospirare.
Aveva
la sua età, ma ricordava perfettamente cosa voleva dire avere un presentimento
nelle ossa.
Aveva
sperato di sbagliarsi. Ma quando squillò il telefono, seppe che il suo istinto,
come al solito, aveva previsto tutto.
Era
successo qualcosa.
Si
sa, il telefono suona sempre nei momenti meno opportuni.
Nel
suo caso specifico, mentre era sotto la doccia.
Afferrando
un asciugamano e sporgendosi oltre l’anta in plastica opaca, Harriett Watson agguantò il cellulare imprecando a denti
stretti contro le persone che chiamavano ad orari assurdi ed in situazioni
sconvenienti. Irritazione che aumentò quando non riconobbe il numero sul
display.
Mise
fine alla suoneria con uno sbuffo, piazzandosi il telefono all’orecchio senza
considerazione per i propri capelli bagnati. « Chi è? » sbottò seccata,
rimanendo poi attentamente in ascolto.
La
sua espressione variò dalla rabbia all’incredulità, poi dall’incredulità alla
preoccupazione, infinte dalla preoccupazione alla risolutezza.
« Arrivo subito » disse, chiudendo
la telefonata e l’acqua della doccia contemporaneamente, asciugandosi alla bene
e meglio ed uscendo di corsa dal bagno.
Dalla
poltrona davanti al caminetto del Diogenes Club, Mycroft Holmes osservò di sottecchi l’orologio a pendola
poco distante emettere i cupi rintocchi del cambio di giorno. Rintocchi che
furono subito sostituiti dall’eco di veloci passi sul pavimento di marmo della StrangersRoom.
Una
delle sue guardie si avvicinò, chinandosi verso di lui e sussurrandogli
qualcosa all’orecchio. Mycroft annuì, congedando
l’uomo in completo scuro con un cenno della mano.
Con
dita lente ma abili estrasse dalla tasca interna della giacca grigia il
cellulare, componendo velocemente un numero che sapeva a memoria ed avviando la
chiamata.
Quando
Sherlock Holmes alzò lo sguardo incrociando quello stanco ed esausto di
Nicholas Ryder, l’intero mondo sembrò rallentare e
fermarsi.
Non
servirono cenni, urla o parole. Non servirono spiegazioni, né movimenti
inconsulti: Sherlock non si mosse dal retro dell’ambulanza su cui era ancora
seduto, mentre Nicholas non fece nemmeno un passo oltre la scalinata della
stazione di Waterloo.
Si
guardarono, punto. Sherlock con tante domande, Nick con una sola risposta.
Da
lontano, in mezzo al via vai di gente che scalpitava accanto alla squadra di
soccorso appena risalita dalle viscere della Terra, Holmes vide Nick annuire
con il capo... e sorridergli.
Un
solo cenno, un solo sì.
Un solo
significato.
Come
se fosse dotato di nuova forza, il consulting detective scattò subito in piedi,
seminando un Lestrade sorridente ed intento a ringraziare mentalmente un Dio in
cui stentava a credere, per un lieto fine in cui aveva codardamente smesso di
sperare.
Vide
da lontano Sherlock chinarsi su di una barella appena fatta arrivare,
accarezzare con una delicatezza di cui non lo credeva capace i capelli di un
John incosciente; lo vide osservarlo con occhi pieni di preoccupazione e
felicità mescolate insieme, guardarlo come se fosse una cosa preziosa che
sembrava perduta e poi improvvisamente ritrovata.
Non
aveva occhi che per John. Non aveva voce che per John. Non aveva cuore che per
John.
Il
sorriso gli si addolcì quando Sherlock posò la fronte su quella del dottore,
socchiudendo gli occhi. Muoveva le labbra, sembrava sussurrargli qualcosa... ma
Greg era troppo lontano, e non si sarebbe nemmeno avvicinato per rispetto di
quella scena rincuorante e allo stesso tempo intima, privata, un pezzo di vita
solamente loro che condividevano con i presenti solo per puro caso.
Si
sentì quasi in imbarazzo, guardandoli. E, seguendo quel sentimento, distolse
semplicemente lo sguardo.
Giusto
in tempo, dato che il telefono nella tasca dei suoi pantaloni prese a suonare.
Non
si sorprese di leggerne il nome sul display. Era ovvio che sapesse già tutto.
« Signor Holmes » rispose Gregory,
la voce notevolmente più rilassata, il tono meno gravato se non dalla
stanchezza che quella giornata gli aveva provocato.
Dall’altra
parte, una voce morbida pronunciò un elegante: «Ispettore Lestrade» come saluto in risposta.
Un
attimo di silenzio, poi la farsa con cui solevano salutarsi ogni volta che si
sentivano scivolò piano dalle loro labbra, finendo nel nulla.
« L’hanno trovato, Mycroft».
«Lo so, Greg. Sherlock?».
Lestarde lo guardò di nuovo da lontano mentre,
senza staccare gli occhi da John, annuiva ai paramedici seguendo la barella
sull’ambulanza che li avrebbe portati entrambi all’ospedale.
« È con John,
stanno salendo su un’ambulanza » riferì, palesemente sollevato.
Dall’altra
parte, però, Mycroft non lo sembrava altrettanto.
Greg
mangiò la foglia. « Cosa c’è? » domandò, il tono
di voce del poliziotto pronto a ricevere brutte notizie.
Un
sospiro, prima che l’altro si decidesse a prendere parola.
«Non è... è grave, Greg. Ho dato disposizioni
precise perché venisse portato al Royal London
Hospital(4) e ho mandato
alcuni dei miei uomini a svegliare i più bravi chirurghi del Regno. Tuttavia
non so se...» lasciò cadere, ma
a Greg non serviva veramente che continuasse la frase.
Aveva
già capito. Dal momento in cui aveva visto il lievissimo sorriso sulle labbra
di Sherlock sparire, aveva già capito.
Aveva
capito che non era ancora finita.
Si
limitò a sospirare, chiudendo gli occhi sulle luci blu dell’ambulanza che
partiva a sirene spiegate. « A noi cosa resta da fare, Mycroft?
Cosa? » domandò.
Dall’altra
parte, poté quasi immaginare le labbra sottili del maggiore degli Holmes
inclinarsi in un sorriso amaro.
«Respirare» disse: «tutto ciò che possiamo fare, è continuare a
respirare».
1.
Riferito a "The HoundofBaskerville", puntata 2x02.
2.
Informazioni prese da Wikipedia (e da qualche film
;D). Lo Stafilococco Aureo è un batterio abbastanza comune, fonte di infezioni
- solitamente cutanee - che causano irritazioni fatte di macchioline rosse. Se
il batterio penetra in una ferita, però, può causare altri tipi d'infezione,
sicuramente più gravi, fra cui la Setticemia (o Sepsi) che cita John.
La
Setticemia è un'infezione batterica del sangue. Se non curata in tempo può
causare quella che è la Sindrome da Disfunzione Multiorgano
(o MODS: Multiple OrganDysfunctionSyndrome).
Dopo di che c'è la morte.
3.
Il massaggio cardiaco segue delle proporzioni fra compressioni e insufflazioni
(per dirla come mangiamo: fra soffi e quante volte premiamo il torace). Le
vecchie manovre prevedevano una proporzione di 15:2 (15 compressioni, 2
insufflazioni), ma secondo il BSL Laico ("Basic Life Support", approvato dal Cosiglio Europeo come manovra standard di primo soccorso)
le proporzioni cambiano a seconda del numero di persone che mette in atto la
manovra: per una persona sola si usa un ritmo di 30:2, per due persone si passa
ad un più veloce 5:1.
Aggiungo,
per essere precisa fino in fondo, che fare un massaggio cardiaco è tutt'altro
che una passeggiata. Tant'è che il soccorritore può anche smettere di rianimare
una persona - senza incorrere nel reato di omissione di soccorso - in caso di
sfinimento.
4.
Inizialmente avevo scritto che Mycroft aveva fatto
mandare John al Barts, ma poi ho scoperto qualcosa di
interessante.
Il
Barts (alias “St. Bartholomew’s
Hospital”) fu al centro di un’ingiunzione di chiusura nel 1993, perché il
Governo britannico riteneva che gli ospedali in centro a Londra fossero troppi.
Fu aperta una campagna per evitarne la chiusura (il Barts
è l’ospedale più vecchio di Londra, fondato nel 1702, e fu il primo ospedale
pediatrico d’Inghilterra; mica brustoline!) che andò
a buon fine, ma nel 1995 gli venne tolto il Pronto soccorso (Accident and EmergencyDepartment) che venne trasferito nel vicino Royal London Hospital (il Royal
London ed il Barts fanno parte della stessa
associazione sanitaria, tipo, chiamata “Barts and the
London NHS Trust”). Comunque il Barts rimane un
ospedale di primo livello, più che altro votato alla ricerca e alla cura del
cancro e dei disturbi cardiaci.
Note:
ormai sono sempre quelle, ma già che ci siamo...
Quest’ultimo capitolo è
ambientato per la maggior parte in ospedale. Come ormai sarete stanchi di
leggere – perché l’ho ripetuto quasi in ogni capitolo finora XD – tutte le cose
mediche che vengono dette qui non sono farina del mio sacco. Vengono da Dr.
House e da Wikipedia.
Tanto per dire: potrei
anche scrivere una marea di boiate. Voi ricordate che è sempre licenza poetica ;D
Ringraziamenti:
perché
nell’ultimo capitolo ci vogliono.
Quando cominciai a
guardare Sherlock – si sta parlando
del dicembre 2011 – mi ero ripromessa di non scriverci sopra.
Eh. Si vede com’è finita.
Che dire? Inizialmente “Allwe can do (iskeepbreathing)”
doveva essere una shortfic di 3 capitoli. Alla fine
ne sono usciti 5 per un mio difetto congenito dell’essere prolissa, ma ammetto
che non mi è dispiaciuto affatto allungarla, potendo così approfondire qualche
altro aspetto dei personaggi.
E, a discapito del fatto
che ci sono degli originalcharacter,
e che la trama si snoda quasi tutta su di un cliché da Action
movie di serie B, sono anche felice che sia piaciuta.
Davvero. Mi sono arrivate
recensioni che mi hanno fatto sorridere come un’ebete davanti al pc per ore intere. Tutte parole che sento di non meritare
ma che, e sarebbe bugiardo da parte mia negarlo, mi hanno fatto davvero molto
piacere.
Perciò ringrazio tutti
coloro che hanno letto, innanzi tutto, poi coloro che hanno recensito; ma anche
chi ha semplicemente letto e messo nei preferiti, o nelle seguite, o nelle
ricordate... o chi l’ha segnalata per le storie scelte del sito, con mia enorme
gioia e sorpresa. Grazie.
Sono felice che abbiate
apprezzato la fanfic e, dal profondo del cuore e come
ogni ficwriter, spero di avervi lasciato qualcosa,
fosse anche solo un bel ricordo.
Con queste mie parole,
infine, apro l’ultimo capitolo.
Lestrade,
appoggiato con la schiena al muro di quel piccolo spazio d’attesa, teneva le
braccia incrociate ed il mento attaccato al petto. Indossava il suo impermeabile
blu scuro stropicciato e aveva gli occhi fissi sulla punta della proprie
scarpe. Non pensava a niente.
Mycroft Holmes, elegantemente seduto su uno dei
seggiolini in plastica poco distanti da Greg, gambe accavallate ed inseparabile
ombrello al fianco, teneva gli occhi socchiusi fissi su di un punto morto del
pavimento. L’unico movimento che si dava pena di compiere era quello di
passarsi fra le dita delle mani l’orologio da taschino, fermamente agganciato
al gilet grigio con una catenina d’oro tirata a lucido. Non pensava a niente
nemmeno lui.
Harriett Watson, capelli di una tonalità chiara di
castano ed occhi di una particolare sfumatura oltremare, se ne stava seduta
dalla parte opposta a Mycroft, scomoda in quei sedili
di plastica così maledettamente tipici delle sale d’attesa.
Indossava
una tuta grigia messa di fretta ed una giacca a vento maschile. Teneva un
ginocchio piegato al petto e l’altra gamba abbandonata oltre il seggiolino,
distesa con il tallone a terra. Anche lei non pensava affatto.
Molly
Hooper, arrivata correndo dal Barts
non appena aveva ricevuto la notizia, era in tenuta da lavoro, dunque indossava
il camice. Turno di notte, probabilmente. Teneva le mani di mrs.
Hudson, seduta al suo fianco fra Mycroft ed Harriett. Non sapeva a cosa pensare, dunque nemmeno lei se
ne dava pena.
La
signora Hudson indossava uno dei suoi abiti più belli, si era accotonata i
capelli ed aveva messo persino i gioielli. Probabilmente, nella sua mentalità
un po’ antica, l’eleganza era una sorta di rispetto, motivo per cui aveva perso
qualche minuto in più a scegliere come vestirsi, per potersi presentare al
meglio. Anche lei aveva la mente sgombra da ogni pensiero.
Sherlock
li trovò così quando salì le scale del reparto, di ritorno dal pronto soccorso.
Si presentò nel corridoio deserto a passo strascicato, le braccia abbandonate
lungo i fianchi, un cerotto bianco che spuntava dai riccioli scuri umidi ed
odoranti di shampoo.
Per
poterlo curare gli infermieri del pronto soccorso gli avevano imposto prima una
doccia. Lui l’aveva fatta nel minor tempo possibile, in silenzio, osservando
per qualche istante l’acqua divenire scura a causa della quantità di sporcizia
che aveva attaccata alla pelle, per poi sparire negli scarichi.
Gli
avevano dato un accappatoio, lo avevano fatto sedere su di un lettino e gli
avevano applicato cinque punti sul taglio, corredati con una dose generosa di
antidolorifici che non migliorarono affatto lo stato catatonico in cui versava.
Mycroft aveva poi provveduto a fargli avere dei vestiti
di ricambio.
I
soliti. Pantaloni neri, camicia bianca. C’erano anche calzini scuri e scarpe, così
come la giacca del completo, ma Sherlock non li aveva indossati.
Era
scalzo, infatti, sul pavimento freddo dell’ospedale semi-vuoto e silenzioso.
Silenzioso
come lo era il piccolo manipolo di persone nell’altrettanto piccola saletta
appositamente adibita per l’attesa di amici e parenti, dalle mura di un
rivoltante color crema. I loro volti, cinerei e ansiosi, si voltarono quasi in
sincrono quando comparve.
Sherlock
non fece niente. Non salutò, non parlò, non respirò.
Aveva
desiderato di addormentarsi. Di passare dormendo, per una volta seriamente, il
tempo che lo separava dalla fine dell’operazione di John.
Così
da non dover aspettare. Di nuovo.
Aveva
già aspettato abbastanza, quel giorno. Tutto
quel giorno. E l’attesa era stata ripagata.
Ma
ora?
Ora
arrivava una seconda punizione, voluta chissà da chi e chissà perché; doveva
attendere di nuovo, un’attesa claustrofobica, circondata da muri di pietra ed
odore di disinfettante.
Non
appena fece un passo in avanti, dopo minuti interi passati in piedi appena
oltre la porta dell’ascensore, mrs. Hudson scattò in
piedi e gli si avvicinò a passo svelto, circondandogli prima il viso con le
mani e poi tirandolo direttamente a sé, costringendolo a piegarsi per riuscire
ad abbracciarlo.
Sussurrò
al suo orecchio qualcosa che Sherlock non capì pienamente, ma che suonava molto
come una serie di “andrà tutto bene” e “si salverà” e “tornerà sicuramente a
casa” e “non preoccuparti”.
Holmes
chiuse gli occhi, prendendo delicatamente le braccia di mrs.
Hudson per sciogliere l’abbraccio in cui l’aveva stretto. Strinse per un attimo
le mani raggrinzite della donna fra le sue, guardandola negli occhi per una
frazione di secondo – trovandoli lucidi e bagnati di calde lacrime a stento
trattenute – per poi lasciarla e sorpassarla a passo lento, andandosi a
posizionare esattamente al centro della stanza, davanti a tutti quanti, gli
occhi sulla porta dalla quale era appena entrato.
Diede
le spalle ai presenti e, con un movimento stanco, si sedette a terra, i piedi
incrociati e le ginocchia strette al petto.
Nessuno
glielo impedì, o sottolineò quanto fosse inelegante.
Non
sapeva come doveva sentirsi, né come effettivamente si sentiva. La mente continuava
a dirgli che non avrebbe dovuto distruggersi in quel modo, che gli serviva
riposo (o un antidolorifico più potente, magari morfina? Come da vecchie
abitudini?(2)), che John Watson era solo un coinquilino. Ok, magari
un amico, ma aveva comunque fatto il suo tempo. Continuava a spiegarli, con
argomenti scientifici e logici, che sarebbe stato male a causa della perdita
forse per le prime due settimane, perché lui era veloce ad elaborare il lutto,
e dunque non gliene sarebbero servite di più. Gli diceva che John Watson non
era tutta questa specialità, non era rilevante, era... sacrificabile. Sostituibile.
Di
contro, ogni battito lento di cuore che sentiva esplodergli nelle orecchie –
quel cuore neonato, ancora incapace di provare una sensazione definendo anche
quale fosse – portava con sé parole del tutto diverse: calde e rassicuranti a
volte, paurose e tese altre.
Gli
sussurrava che era importante, restare lì. Che doveva farlo perché lo doveva a
John. Che sarebbe dovuto rimanere fino alla fine, sveglio, presente, per
poterne vedere il risultato, qualunque fosse.
Per
potergli dare il bentornato se avesse riaperto gli occhi, o per potergli dire
addio se non li avesse riaperti mai più.
Mormorava
quietamente l’importanza del dottor Watson direttamente nel suo orecchio,
facendogli presente come si sentisse ogni volta che riceveva un complimento
sincero da quella voce umana, o quando il medico si lamentava a vuoto dei suoi
esperimenti sparsi nel frigorifero ed in giro per la cucina.
Gli
faceva ricordare ogni fremito che le corde del proprio cuore avevano percepito
in tutto il tempo passato assieme; quando John faceva qualcosa di gentile per
lui, si preoccupava per lui, sorrideva per lui.
Le
occhiate e gli sguardi con cui capivano esattamente cosa l’altro volesse dire
senza aver bisogno di parlare. Quegli attimi in cui Watson capiva, solo da una
sua piccola e lieve occhiata, il bisogno che aveva di un tè – uno dei suoi tè, buoni in un modo che solo John
sapeva fare, con quantità perfette di zucchero e limone – e qualche
complimento, o di un pubblico che ascoltasse un suo ragionamento
particolarmente brillante.
I
momenti in cui John si addormentava sulla poltrona dopo essere rimasto sveglio
per 72 ore di fila, seguendolo su e giù per Londra durante la risoluzione di un
caso. Gli stessi momenti in cui Sherlock, mosso dai fili di qualche
marionettista dal cuore tenero, si alzava dal divano in silenzio e lo copriva
con la coperta, rimanendo poi seduto di fianco alla sua poltrona con l’unico
scopo di ascoltarne il respiro regolare.
Le
notti in cui, nonostante l’altro dormisse, Sherlock si metteva a suonare il
violino. E John scendeva in punta di piedi le scale e si fermava dietro la
porta chiusa del salotto, la schiena appoggiata al legno, e lo ascoltava
suonare.
E
allora Sherlock cambiava melodia, suonando qualcosa di dolce che sapeva piacere
a John, facendo scivolare l’archetto sulle corde a creare note come il miele e
facevano entrambi finta: Sherlock faceva finta di non essersi accorto di John,
e John fingeva che Sherlock non si fosse accorto della sua presenza.
Tutte
quelle circostanze in cui Sherlock si era sentito bene, meglio. Occasioni in
cui aveva sorriso con affetto a qualcuno che non fosse se stesso, o a qualcosa
che non fosse una sua deduzione o il teschio sul caminetto.
Sherlock
Holmes cominciava a capire, e capire faceva male. Il suo cuore finalmente a
pieno regime soffriva per l’emozione e la paura di ciò che provava mentre il
suo cervello, testardo fino alla fine, continuava ad attivare meccanismi di
difesa razionalizzanti, non facendo altro che confonderlo ancora di più.
Era
nauseante.
E
quella maledetta attesa non migliorava affatto la situazione.
Aprì
gli occhi di scatto, sussultando.
Un
sentimento di paura, forse di angoscia. La sensazione di cadere che è capace di
svegliare una persona in piena notte e dal suo sonno più profondo.
In
realtà, un po’ si sentiva esattamente così. Una persona svegliata nel cuore
della notte.
Ma
si guardò intorno, John, ed il posto in cui si ritrovò non aveva niente a che
fare con la realtà.
Pareti
bianche, pavimenti bianchi, tappeti bianchi, mobili bianchi, libri dai
frontespizi bianchi come le relative pagine. Si ritrovò seduto su di una
poltrona bianca, indossando vestiti bianchi – un paio di pantaloni larghi di
cotone leggero, molto simili a quelli di un pigiama, e una maglietta bianca a
maniche corte, semplicissima – e circondato in ogni dove da cose bianche. Anche
la luce, che filtrava da una finestra con le tende bianche e dava su di uno
spazio bianco uniforme, era bianca.
Si
guardò meglio intorno. Le uniche note di colore erano un teschio sulla mensola
sopra il camino, osso invecchiato, grigio sporco. Uno smile giallo sulla parete
all’estrema destra. Un violino dalle venature marroni appoggiato sul divano.
Era
famigliare, quel posto. Abitudinario. Gli dava una sensazione di calore,
d’affetto, di protezione, di...
« Casa ».
Si
irrigidì nel sentire una voce che non gli apparteneva e, ora completamente in
allerta, girò velocemente il capo verso la sua fonte, fin troppo vicina per
pensare che non fosse nella stanza già da prima.
Come
aveva fatto a non notarla?
Di
fronte a lui, su di una poltrona posizionata esattamente di dirimpetto a quella
su cui era seduto, una ragazza era intenta a leggere un libro dalla copertina
bianca e dalle pagine vuote. Non vi era scritto nulla eppure lei leggeva,
attenta, concentrata.
Indossava
un tailleur bianco a pantalone, elegante, con una camicia altrettanto bianca.
La pelle era lievemente olivastra, i capelli corti e neri, scalza. Lo erano
entrambi, in realtà. Era seduta a gambe incrociate.
La
conosceva. Sapeva chi era.
« Joy? » domandò infatti.
Quella,
alzando gli occhi su di lui, sorrise appena. « Più o meno » rispose,
chiudendo piano il libro ed appoggiandosi allo schienale della poltrona.
Chissà
perché, John sentiva che era strana l’immagine di lei su quella poltrona.
Sbagliata.
Ma non ricordava
perché.
Aggrottò
le sopracciglia nell’osservarla, senza scostare i propri occhi dai suoi. « Sei morta » affermò poi.
Quella
annuì.
« Io sono morto? » domandò allora,
facendo un’associazione di idee.
Lei
fece spallucce, negando con il capo. « Non lo so » disse poi.
Sorpresa.
Smarrimento. « Non lo sai? » domandò John: « cioè, se tu sei
qui... e io sono qui... » ipotizzò, ma lei
lo interruppe.
« E queste due
condizioni danno per forza come risultato la tua dipartita? » domandò lei con
un sorrisetto ad inclinarle le labbra: « non potremmo semplicemente essere qui
perché sì? Perché è così che deve essere? » continuò, senza mai smettere di
guardarlo.
John
inarcò un sopracciglio. Una voce nella coscienza gli sussurrò una frase.
Le coincidenze non
esistono, John.
La
ripeté ad alta voce: « le coincidenze
non esistono » disse.
Quella
roteò gli occhi, ma sorrideva ancora. « Come sei puntiglioso... » lasciò cadere,
per poi ritornare a guardarlo: « rispondi a questa domanda, allora: dov’è “qui”? ».
Al
dottor Watson scappò una risatina, una di quelle supponenti che poche volte gli
avevano inclinato le labbra. « Beh, qui siamo... » cominciò, ma si fermò a poche parole
dall’inizio della frase, bloccato.
Distogliendo
lo sguardi da lei, osservò di nuovo ciò che lo circondava: tutto quell’insieme
di oggetti bianchi contro pareti bianche su mobili bianchi nella luce bianca.
Riconosceva
il posto, eppure non riusciva a dire dove
fosse. Si sentiva a casa, eppure non riusciva a spiegarsi perché.
Sentiva
che mancava qualcosa, qualcosa di importante, ma non sapeva spiegarsi cosa. No, qualcuno. Qualcuno. Ma non
sapeva ricordare chi.
Non ricordava
niente.
« Dove... dove...? » boccheggiò,
ancorandosi con le mani ai braccioli della poltrona nel tentativo di non cedere
al panico che stava lentamente montando nel suo petto.
Joy,
sempre appollaiata sull’altra poltrona, intervenne appena in tempo: « rilassati, John.
Non è grave. Sei qui apposta » gli disse, facendogli segno con la mano destra di
calmarsi un poco.
Watson,
finalmente consapevole delle parole, riportò gli occhi su di lei. La guardò in
silenzio per qualche istante, attimi in cui lei si lasciò osservare.
« Cosa intendevi
prima con “più o meno”? E cosa vuol dire che sono qui apposta? » domandò l’uomo,
calmando a fatica i battiti accelerati del proprio cuore smarrito.
Il
sorrisetto sulle labbra di lei si allargò. « “Più o meno” vuol dire che sono Joy, ma
al contempo non lo sono. In realtà, John, non lo sono affatto. Io sono solo una
proiezione del tuo subconscio che il tuo cervello ha deciso di associare alla
figura di una povera ragazza morta proprio sotto al tuo naso. Suppongo che si
sia ispirato all’ultimo trauma subito per ricreare quest’immagine, niente di
così originale... » spiegò, ma John
la interruppe all’improvviso.
« Frena, frena,
rallenta! » esclamò,
portandosi istintivamente la mano sinistra sugli occhi, massaggiandoseli: « mi stai dicendo
che tu sei me? » chiese.
Lei
annuì. « Ai minimi
termini, sì » rispose.
« E quindi sto
parlando con me stesso? » aggiunse l’uomo.
L’altra
annuì di nuovo.
« Ah. Mh... bene. Ok » balbettò John, cercando con tutto se
stesso di non dare a vedere la sorpresa e la stranezza che tutto quello gli
provocava. Non ce la fece poi molto: « Cristo, non può essere reale... » sussurrò.
« Oh, avanti John! Cosa ti sembra reale, qui? » esclamò la
ragazza, aprendo le braccia in modo da indicare l’ambiente attorno a loro: « cerchiamo di
concentrarci, ti va? Devi dirmi dove sei, John. Fa parte della scelta » disse.
Watson,
ancora con la mano posata sugli occhi, trattenne il fiato. « “Scelta”? Quale
scelta? » domandò,
distogliendo le mano dai propri occhi e tornando a guardarla. « Anzi, non hai
ancora risposto ad una delle mie domande: cosa vuol dire che sono qui apposta? » chiese, sempre
più stranito e perplesso.
Joy
– o la presunta tale – prese un grosso sospiro e si massaggiò le tempie con le
dita. Trovò una sorta di concentrazione, di equilibrio emotivo tutto suo, poi
finalmente prese parola.
« Non è la prima
volta che ci vediamo noi due, sai? ».
John
sembrò sorpreso dell’affermazione, lei annuì di nuovo.
« Qualche anno fa
ti hanno sparato, ricordi? Spalla sinistra. Non ti hanno colpito il cuore ma
hanno rischiato di farti fuori comunque » una piccola pausa: « ...in
quell’occasione sei stato molto vicino alla morte, e ti è stata data la stessa
scelta che ti viene offerta ora. Ci siamo incontrati lì, io e te. Certo,
all’epoca non avevo questa faccia » disse, indicandosi con entrambe le mani: « però il concetto
di base è quello » terminò.
Il
medico rimase in silenzio, catalogando e mettendo in ordine le informazioni
appena ricevute. Aveva deciso di fidarsi, ad un certo punto del racconto, perché
la situazione gli sembrava troppo assurda ed irreale per non credere alle sue
parole. Ovviamente non si ricordava del fantomatico incontro, però...
« Non puoi » disse lei
all’improvviso.
« Come, scusa? » domandò John,
ridestandosi dai propri pensieri.
« Non puoi
ricordartene » precisò lei: « sarebbe come
ricordare un sogno, o meglio, una visione. Questo luogo non si ricorda mai, è
destinato a rimanere un punto disperso nel tempo infinito di uno spazio
inesistente » spiegò.
Non
si stupì più di tanto che potesse leggergli nel pensiero, se veramente era il
suo subconscio. Anzi, era una sorta di prova del nove, in fondo.
« Quindi mi stai
dicendo... » cominciò lui,
convinto di essere arrivato ad una sorta di soluzione: « ...che questo
posto è una specie di corridoio di passaggio per la gente che rischia di morire
ma non è ancora morta. Dico bene? » domandò, cercando conferma.
Quella,
lasciandosi scivolare di lato fino a stendersi di traverso sulla poltrona,
annuì con uno sbadiglio. « Il termine più
corretto è “limbo”. Hai ragione, nella realtà sei a tanto così... » e mostrò una
distanza irrisoria con l’indice ed il pollice della mano destra « ...dalla morte.
Sei qui perché devi scegliere cosa fare e sei uno dei pochi fortunati che
possono permetterselo. Io gioirei se
fossi in te, se mi passi la battuta » disse quella, ridacchiando piano.(3)
John
ignorò lo squallore dell’ironia, preferendo concentrarsi sui particolari
importanti. « E cosa devo
scegliere? » domandò.
« Se restare o
andare » rispose
semplicemente l’altra, ed il significato era ovvio.
Così
semplice? « Resto » pronunciò.
« Perché? » chiese allora
l’altra.
« Come “perché”? » esclamò allora
John, stranito. « Se chiedi ad una
persona di vivere o morire è logico che risponderà “vivere”, no? » disse, quasi
stizzito da quella domanda a suo parere scontata.
« Ah sì? » cominciò però
Joy, guardandosi le dita dei piedi nudi mentre le muoveva: « eppure hai
pensato tante volte di voler morire, John. Tante. Anche l’ultima volta che ci
siamo visti. Ci ho messo molto tempo per convincerti, quella volta » disse.
John
prese fiato per risponderle, ma non lo fece. Le sue parole erano vere, e lo
sapeva lui così come lo sapeva lei.
No.
Effettivamente non era una domanda scontata.
« Ma il fatto che
tu sia intenzionato a tornare alla vita mi rincuora, almeno siamo un passo avanti
» aggiunse poi,
rimettendosi seduta a gambe incrociate con un movimento fluido ed agile. « Allora John, dove
siamo? » domandò di nuovo,
guardandolo in attesa di una risposta.
Risposta
che non arrivò. Non subito, almeno.
« Non me lo ricordo
» ammise Watson.
« Però lo sai » sostenne lei.
« Come fai a dirlo?
» domandò ancora
John.
« Perché so che lo
sai » rispose ancora
Joy.
John
cominciava a spazientirsi. « E tu lo sai, dove siamo? » domandò allora,
cambiando strategia.
Joy
negò con il capo.
« Ma come? Tu non
sei me? » sbottò il medico,
al limite della pazienza.
« Giusto. Ma vedi,
io sono una parte diversa di te. Sono quella parte senza regole e senza
costrizioni. Sono quella parte che esce fuori nel sonno, dove le catene delle
inibizioni sociali mi vengono tolte e io posso giocare con i tuoi sogni
facendoti vedere la verità su molte cose che ti ostini a negare. Che ti ostini
a non fare. Sono quella parte di te che esce fuori quando hai troppo alcool in
corpo, o quando sei su di giri, o quando anche la stronzata più assurda ti
sembra una buona idea. Dunque sì, è vero, sono te. Ma sei tu quello con il
cervello, non io: io sono solo istinto » puntualizzò, ammaliante e suadente.
A
vederla dall’esterno, avrebbe dubitato che quella ragazza così disinibita potesse
realmente essere una parte di lui, seppur minima.
« Ho studiato Freud
» la apostrofò: « devo dedurne che
ho il piacere di parlare con il mio Es? ».(4)
Quella
gli fece un piccolo applauso, un sorriso di plastica sulle labbra. « Bravo! » esultò: « è un piacere,
davvero. Di solito non godo di tutta questa libertà, con quell’accidenti di Io
militarizzato che ti ritrovi! » aggiunse poi, sproloquiando apposta per farlo
arrabbiare ancora di più.
Gesù, nemmeno
Sherlock riusciva a farlo irritare così!
Trattenne
il fiato, serrando improvvisamente le labbra. Joy, di fronte a lui, si calmò ed
esibì un sorrisetto sornione.
Sherlock?
Perché aveva pensato a quel nome? Chi era Sherlock?
Al
solo pensarci, una sensazione strana gli esplodeva nel petto. Un sentimento di
ammirazione misto ad agitazione, paura, ma anche calore, e tanto, tanto
affetto. Importanza. Qualcuno di importante.
Ma
non riusciva ad associare un volto a quel nome, una storia a quel nome, ricordi
a quel nome.
Niente,
a quel nome. Solo un nome.
“Sherlock”.
« Devi dirmi dove
sei, John » intervenne Joy,
ripetendogli per l’ennesima volta quella richiesta. La voce calma, seria,
composta.
« Perché? » soffiò lui,
confuso, scombussolato.
« Perché non te lo
ricordi. Ed è importante per te farlo ».
« ...perché? » sussurrò di
nuovo, questa volta più piano, più indeciso.
« Perché hai
smarrito la strada di casa.E se non ti
aiuto a trovarla non riuscirai più a tornare indietro ».
Erano
passate quattro ore e mezza.
Infinite.
Viscose. Appiccicose.
Avevano
sentito sulla pelle ogni minuto, ogni secondo, ogni ticchettio d’orologio. Si
erano voltati ad ogni passo, sussultato ad ogni sospiro, guardato i rispettivi
orologi all’incirca ogni quarto d’ora convinti che fossero passati almeno
quaranta minuti – ogni volta.
Mai
il tempo era stato così lento, mai l’attesa così angosciante.
Relativismo.
Tutto cambia a seconda dei punti di vista. Per questo motivo il tempo sembra
lento o veloce, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Oggettivamente,
il tempo era sempre lo stesso. Scorreva sempre alla stessa velocità.
Soggettivamente,
ognuno di loro aveva la sensazione di essere seduto in quella sala d’attesa da
un giorno intero, quando invece era lì solamente da quattro ore e trentatre
minuti.
L’orologio
segnava le cinque meno nove e fuori nemmeno albeggiava. Era ancora notte. C’era
ancora buio e silenzio, all’esterno, lo stesso che aleggiava pesante in quella
stanza illuminata di luce artificiale, abbastanza fioca da far venire sonno a
chi era stanco ma altrettanto violenta da non permettere a nessuno di
addormentarsi veramente.
Lestrade,
seduto sul sedile accanto a Mycroft, faceva
ciondolare il capo ogni volta che un attacco di sonno se ne approfittava e lo
trovava con gli occhi chiusi.
A
sua volta, Mycroft teneva gli occhi puntati sulla
schiena del fratello, scostandoli solo di tanto in tanto per fare attenzione
che Greg non perdesse l’equilibrio sulla sedia o si facesse male al collo.
Molly,
ancora accanto a mrs. Hudson, si era appisolata sulla
testa della donna, che a sua volta aveva appoggiato la fronte alla spalla della
giovane senza tuttavia dormire. Languiva in una sorta di dormiveglia agitato,
ansiogeno, respirando a tratti veloce, a tratti profondamente.
Harry
Watson, invece, seduta ci era stata solo per la prima ora. Si era poi
avvicinata alla finestra e aveva guardato il buio dall’altra parte del vetro
per le rimanenti tre ore e mezza. In silenzio, immobile, persa.
Sherlock,
d’altro canto, non si era mai mosso da dove si era seduto. Non aveva cambiato
posizione, modo di stare seduto, non si era alzato per sgranchirsi le ossa... niente. Non aveva parlato, ancora, il
che era molto peggio.
Chissà
perché, il silenzio profondo in cui Sherlock si era rinchiuso si ripercuoteva
sugli altri presenti come un’onda d’urto. In realtà come un buco nero, perché
aveva trascinato tutti con sé in una situazione pesante come piombo in cui
sembrava addirittura un crimine pronunciare anche solo una parola.
Ne
erano tutti consapevoli e, forse per paura di spezzare chissà quale prezioso
equilibrio, nessuno fiatava.
Nell’assoluto
silenzio che veniva così a crearsi, si sentiva tutto. E Sherlock era sempre il
primo a percepire qualsivoglia suono, soprattutto dall’interno dell’ospedale,
ancora più precisamente all’interno del reparto in cui si trovavano.
Passi
in lontananza, Sherlock alzava il capo dalle braccia appoggiate sulle ginocchia
piegate al petto.
Fruscii,
i muscoli della schiena di Sherlock si tendevano, in attesa di scattare.
Respiri...
sì, probabilmente Sherlock sentiva anche quelli.
Sembrava
che tutto, lì dentro, facesse ormai parte di Sherlock. Parte integrante.
Sherlock
era nelle pareti, nei pavimenti, nei sistemi antincendio. Sherlock era
nell’acqua, nell’aria e anche nelle intenzioni.
Talmente
assuefatto, deformato, stravolto da quella situazione che sembrava ormai
catatonico, completamente isolato in una bolla di protezione assoluta, immerso
talmente tanto nella realtà che essa aveva cominciato a fondersi con i brandelli
della sua pelle.
Attendeva.
Aspettava i passi diretti in loro direzione che gli avrebbero finalmente detto
cos’avrebbe dovuto fare della propris vita.
E
questo, lo sapevano tutti. Tutti sapevano che per Sherlock Holmes non era la
stessa cosa aspettare in quel posto, paziente, muto. Per lui era diverso perché
là dentro c’era John, e John era colui che poteva essere la sua fortuna o la
sua rovina.
Ora
John rischiava la vita, e Sherlock era perso. Si era ritrovato a gestire un
cuore con cui non era abituato a trattare e gli effetti erano, purtroppo,
palesi.
Non
sarebbe riuscito a proteggersi ancora per molto. Ad un certo punto la paura
avrebbe spinto i sentimenti a prendere il sopravvento, complice la chimica
dell’organismo umano, e probabilmente l’unico consulting detective del mondo
sarebbe crollato.
E
in quel momento, doveva esserci John a rimettere insieme i pezzi. Doveva.
« Dove sei John? »
« Non lo so. »
« Dove sei, John? »
« Non lo so. »
« John, dove sei?! » « NON LO SO! »
L’urlo
del medico risuonò ovattato fra le pareti bianche, che assorbirono la
frustrazione di quelle parole come se fossero fatte di spugna.
Joy
roteò gli occhi, guardandolo con astio malcelato. « Smetti di dire
che non lo sai e mettiti in testa che lo sai! » esclamò, battendo con rabbia le
mani sui braccioli della poltrona.
John
la fissò iracondo. « Smettila tu di
assillarmi con questa storia e dì qualcosa che abbia del senso, una volta ogni
tanto! » sbottò.
Lui
restituì lo sguardo con un grado addirittura maggiore di risentimento. « Io non ostruisco
proprio niente, se non lo so, non lo so» disse,
sottolineando con la voce le ultime parole, duro.
« Oh, Cristo! » imprecò la
ragazza, piantandosi esasperata i palmi delle mani sugli occhi. « Quante volte
dovremo ricominciare questo discorso? Quante volte, prima che tu ti convinca che
ti stai dando la zappa sui piedi da solo senza nemmeno accorgertene? » domandò
retoricamente, le mani ancora a coprire gli occhi.
Watson
sospirò pesantemente, massaggiandosi l’attaccatura del naso fra le sopracciglia.
Era
una cosa completamente inutile. Inutile.
Aveva
guardato quel maledetto posto per minuti interi, ore probabilmente, senza
riuscire a capire altro se non che si trovava in un salotto. Poltrone, divano,
un caminetto... sì, su quello non vi erano dubbi.
Ma
non aveva comunque la più pallida idea di dove fosse. Sapeva solo che si
sentiva bene, in pace, a casa, ma queste sensazioni non lo aiutavano, se mai lo
confondevano ancora di più.
Gli
facevano venire il dubbio che, se le aveva, magari lui doveva per forza sapere che tipo di posto fosse, quel salotto.
Altrimenti non si sarebbero spiegate. Il che lo portava, a sua volta, ad una
sola conclusione:
Se ne era
dimenticato.
Passarono
in silenzio alcuni attimi che sembrarono non finire più. Poi, prendendo un
lungo respiro, fu la ragazza ad interrompere la stasi.
« Si può sapere
perché vuoi morire? »
La
domanda sorprese non poco il medico, che si tolse la mano da davanti agli occhi
e la guardò.
« Io non voglio
morire » le rispose, come
se la cosa fosse ovvia.
« Non mi pare » ribatté però
subito quella.
John
sentì una nuova ondata di rabbia montargli in petto, ma resistette per il bene
dei suoi nervi.
Dio, non credeva
che il suo subconscio fosse un tale dito in culo.
« E perché? Perché
non mi ricordo dove sono? » domandò retorico.
Si
aspettava una reazione piccata, magari una frase intricata e cosparsa di
ossimori, ma non avvenne. La ragazza si limitò semplicemente a guardarlo,
fisso, le labbra chiuse e lo sguardo concentrato.
« Cosa c’è... ? » chiese allora
Watson, facendosi avanti per primo.
« Sto cercando di
capire » disse quella.
Si
fissarono negli occhi per altri lunghi istanti, John con la testardaggine di
chi non vuole abbassare lo sguardo per primo e Joy con una sorta di interesse
scientifico misto a rassegnazione.
« Non c’è scelta » disse infatti
poco dopo, puntellando le mani sui braccioli e sedendosi sullo schienale della
poltrona, i piedi nudi ben fissi sul sedile della stessa: « devo metterti
davanti alla realtà dei fatti. Avrei preferito non forzarti, ma tu sei talmente
cocciuto che non mi dai altre possibilità! » si lamentò.
Ecco.
Ora era totalmente ed incommensurabilmente irritato dal suo io interiore, che a
quanto pareva provava una sorta di perverso piacere nel torturarlo mentalmente.
« Ora sono io che
voglio sapere una cosa » la interruppe
però John, impedendole di pronunciare la frase per la quale aveva appena aperto
bocca: « per quale
accidenti di motivo ti sta così tanto a cuore che io viva, mh?
» domandò, serio.
Il
sopracciglio di Joy si alzò come dotato di vita propria. « Ma dico, mi stai
prendendo in giro? » domandò retorica,
senza nemmeno dargli il tempo di rispondere (o di pensare di farlo): « John Hamish Watson, cosa del concetto “io sono te” non ti
penetra in testa? Ok, forse come io irrazionale sono molto diverso dall’io
razionale, ma fatto sta che “abitiamo” nello stesso corpo. Se crepi tu crepo
anche io » disse,
indicandosi con gli indici di entrambe le mani: « e, senza offesa, ma ci sono un
paio di cose che desidero fare – o meglio, farti fare – prima di morire » concluse.
Il
medico, stringendo le labbra per non dare voce ed epiteti poco adatti ad un
inglese bene educato, non fece altro se non scuotere il capo negativamente.
Prese
fiato per esprimere tutto il suo disappunto, ma una dolorosissima scossa al
torace gli bloccò la voce in gola, lasciando che si esprimesse solo tramite un
gemito sorpreso di dolore.
Istantaneamente,
si portò la mano al petto, trattenendo il fiato. Sembrava come se gli fosse
passato un fiotto di energia elettrica attraverso la gabbia toracica,
localizzato, da parte a parte.
Poi
un’altra, e un’altra ancora. Quattro, cinque volte.
Si
fermarono.
Joy,
dalla sua posizione sopraelevata, lo guardò con espressione preoccupata ma
consapevole, senza fiatare.
John
attese qualche istante senza respirare – aspettando forse che il dolore si
ripetesse ancora una volta – ma poi decise di prendere finalmente fiato.
« Cos’era? » domandò allora,
la mano destra a stringere la maglietta bianca all’altezza dello sterno. « Si può sentire
dolore qui? » chiese subito
dopo, guardandosi intorno per sottolineare che si riferiva al luogo in cui si
trovavano.
Joy
negò con il capo.
« Quello, John, era
un rintocco d’orologio » disse: « il tuo tempo sta
scadendo ».
Il
fruscio dei suoi capelli ricci e scuri sul colletto umido della camici riempì
il silenzio come uno squillo di tromba.
Sherlock
Holmes aveva alzato lo sguardo sulla porta d’ingresso e, solamente dopo che
quel movimento aveva
attirato
l’attenzione dei presenti, anche tutti gli altri poterono sentire un rumore di
passi in avvicinamento.
Scattò
in piedi, seguito a ruota da tutti i presenti. Sei paia di sguardi si fissarono
in una stessa direzione.
L’orologio
di Lestrade scoccava le cinque del mattino ed il cielo all’esterno cominciava
ad avere una sfumatura più chiara, preparandosi per accogliere prima l’aurora,
poi l’alba.
Dopo
qualche istante che sembrò infinito, un medico fece il suo ingresso nella sala
d’attesa.
Niente
camice, notò Sherlock: veniva dalla sala operatoria. Indossava uno dei coordinati
ospedalieri verde, maniche corte, calzini bianchi e ciabatte di plastica. A
giudicare dalle suole pulite delle calzature si era appena cambiato e, dati i
segni degli elastici del camice sui polsi e i lievi residui di talco sotto le
unghie – lasciati dai guanti di lattice – si poteva capire che non era un
infermiere, ma un medico.
Carnagione
olivastra, capelli rossicci, occhi marroni, naso un po’ rotondo, sguardo fermo,
abituato. La mente vola ad una pagina di una rivista sfogliata una volta in cui
compare il volto di quest’uomo come contorno ad un articolo sulla chirurgia cardio-vascolare.
Medico famoso.
L’ha
chiamato Mycroft.
Il
cervello di Sherlock aveva già capito tutto persino prima che l’uomo si
presentasse, o aprisse del tutto bocca. Fu infatti lo stesso Holmes ad
impedirgli di farlo, tagliando subito i convenevoli e passando a ciò che più
gli premeva: « come sta John? » domandò,
velocemente, urgentemente.
Quello,
osservandolo, richiuse la bocca. « Lei è un parente? » chiese.
Sherlock
sbuffò. Procedure standard di condivisione delle informazioni solo con coniugi
o parenti, salvo altra indicazione.
Lanciò
un’occhiata al fratello maggiore che, per tutta risposta, negò leggermente con
il capo. Contatto oculare per dirgli che no, non poteva farci niente, quello
era segreto professionale dei medici. Lui era il Governo, ma anche se aveva
l’autorità di farsi dire praticamente tutto non aveva ragioni o motivazioni
abbastanza importanti per farlo in quel momento.
Il
fratello minore dovette arrendersi e ammutolì, senza tuttavia distogliere lo
sguardo. Al che il medico posò gli occhi sulle altre persone presenti,
domandando: « la signorina Harriett Watson? ».
Harry,
che non si era spostata da accanto alla finestra, gli fece un cenno con il
capo. Non si avvicinò al medico, non abbandonò la sua posa ermetica con le
braccia incrociate al petto e, in definitiva, fece persino fatica a staccare
gli occhi dal panorama esterno alla finestra. Non gli diede tempo a sua volta
di presentarsi, esibendosi in un: « lo dica pure ad alta voce, le persone qui
presenti sono tutte fidate » dando il permesso al dottore di parlare alla presenza
di tutti.
Quello
annuì, sospirando pesantemente.
« Il dottor Watson
aveva un’emorragia interna del cavo peritoneale, probabilmente dovuta al trauma
» cominciò: « gli abbiamo
praticato un taglio, abbiamo drenato il sangue e siamo riusciti ad individuare
e richiudere la ferita che l’ha scatenata » disse.
La
signora Hudson, le mani strette l’una nell’altra in una morsa, sospirò
sollevata. Così fece Molly, che si lasciò andare in un lieve sorriso.
« Ma? » intervenne però
Sherlock, che guardava il chirurgo con occhi attenti e famelici – non si sapeva
se di informazioni o di sangue, considerando l’intensità di quello sguardo.
Il
medico sbuffò, portandosi una mano sul collo dolorante, massaggiandoselo. « Ma... l’emorragia
ha avuto due conseguenze: la prima è una lieve insufficienza renale, che ha
bloccato il lavoro dei reni per qualche ora. La seconda, è una tachicardia
continua causata dall’abbassamento della pressione arteriosa » disse.
« In poche parole, il cuore del dottor
Watson ha battuto troppo in fretta per troppo a lungo. E dato che i suoi reni avevano
smesso di funzionare, il sangue che non ha perso si è riempito di tossine » spiegò poi.
La
signora Hudson trattenne rumorosamente in fiato, così come Greg e Mycroft lo fecero silenziosamente. Harry sembrava non
respirare già da molti minuti mentre Sherlock, esattamente di fronte al
chirurgo, sgranò un poco gli occhi.
Il
suo cervello volò alle possibili cure, ai rimedi, alle analisi e alle
conseguenze mediche di ogni singola parola.
A
ciò che sarebbe potuto andare bene, male, a come si sarebbe trasformata la vita
di John – la loro vita – se una di
quelle anomalie avesse avuto conseguenze permanenti sull’altro, invalidanti
magari.
Il
suo respiro aumentò, ma la voce del medico che riprendeva il discorso nascose
agli altri quel piccolo particolare.
« Avremmo dovuto
mettere il dottor Watson in dialisi, per ripulirgli il sangue, ma non potevamo
prima di aver fermato l’emorragia. Una volta fatto i reni hanno ripreso la loro
funzione e non sembra che siano stati danneggiati. Così è anche per il cuore: le
analisi mostrano che, nonostante la tachicardia, il cuore non ha subito
danni... tuttavia, durante l’intervento ha avuto un arresto cardiaco » rivelò.
E
fu il cuore di Sherlock, questa volta, a perdersi un battito per strada. Lo
avvertì dolorosamente, lo avvertì sentendosi anche mancare il respiro, lo
avvertì vergognandosi di se stesso e di quella debolezza che stava mostrando di
possedere.
Lo
sapeva già da prima. Lo aveva scoperto poco prima che Moriarty
glielo dicesse con quel sorrisetto mellifluo sulle labbra.
Un
cuore lo aveva. E faceva male.
Avrebbe tanto
voluto strapparselo dal petto seduta stante.
Il
medico continuò: « lo abbiamo
rianimato con il defibrillatore, ci sono voluti quasi due minuti. Non ci sono
stati problemi, ma ha rischiato il tracollo cardiaco altre due volte nonostante
abbia ricevuto trasfusioni di sangue, e per non rischiare lo abbiamo messo in
coma farmacologico e abbiamo applicato, per la durata dell’intervento, un
bypass. Gli è già stato tolto ed il cuore batte con una frequenza normale, ma
per evitare eventuali stress abbiamo deciso di mantenerlo in coma farmacologico
anche per tutta la durata della dialisi » prese una pausa, finalmente al termine
della sua “relazione”, guardando i presenti uno ad uno: « adesso è in
terapia intensiva. Potete andare a vederlo » terminò del tutto.(5)
Sherlock
non aspettò nemmeno un istante. Il suo corpo si muoveva da solo in direzione
del reparto di terapia intensiva, ovviamente consapevole di dove fosse, dato
che si era studiato la pianta dell’ospedale mentre un tirocinante gli applicava
i punti in testa.
Entrò
a passo svelto nel reparto deserto, cercando con occhio vigile il nome di John
sulle targhette accanto alle varie porte. Superò a passo deciso la parte con le
stanze in comune, poiché essendo raccomandato da Mycroft
Holmes quasi sicuramente gli avevano dato una stanza tutta sua.
Lo
trovò, infatti, in una delle camere singole in fondo al corridoio. Il nome
“Watson, John H.” era stato scritto con un pennarello a punta fine che aveva
sbavato in ultimo. Probabilmente lo avevano fatto di fretta, quasi sicuramente
lo aveva fatto una donna, e poteva scommettere che fosse stata l’infermiera che
lo aveva guardato allarmata quando si era precipitato lì a piedi nudi.
Davanti
a quella porta, però, ebbe improvvisamente paura.
Dall’altra
parte, steso in un letto dalle lenzuola bianche, incosciente e collegato come
minimo a due macchinari – che potevano essere anche di più – c’era John. Il suo John. Lo stesso John che di solito
era sempre accanto a lui, in ogni momento, sveglio e vigile e sorridente e
ammirante e vivo.
Resistette
all’impulso di fare dietro front e mettersi a correre
per uscire dall’ospedale.
Lo
sapeva, Sherlock, che non era morto. Che non sarebbe morto. Ma non poteva fare
a meno di figurarselo disteso su quel letto come se fosse stato disteso sul
tavolo di un obitorio. Deformazione professionale, forse. Probabilmente.
A
due centimetri dalla maniglia della porta, ritirò le dita e chiuse la mano a
pugno, incapace di aprirla. Si morse il labbro dalla frustrazione per quella
sua mancanza terrificante, per quel buco delle sue infallibili facoltà
intellettive che prendeva il nome di “cuore”.
« Maledizione... » sussurrò a se
stesso, facendo qualche passo indietro ed appoggiandosi con la schiena alla
parete di dirimpetto alla dannata porta chiusa e rimasta tale.
Gli
altri lo raggiunsero, ed entrarono uno ad uno. Sherlock li guardò in faccia,
uno ad uno, ma non seguì all’interno nessuno di loro.
Rimase
fuori, nel corridoio, a fissare la maniglia di una porta che all’improvviso
aveva una fottuta paura d’aprire.
In
una stanza completamente bianca, le uniche cose che stonavano – le uniche
macchie di colore – erano principalmente tre. John le aveva osservate e fissate
per almeno un’ora senza nemmeno aprire bocca per poi sospirare rassegnato.
C’erano
uno smile giallo sulla parete, un violino ed un teschio.
Sapeva
alcune cose di quegli oggetti, alcuni aneddoti. Uno nascondeva qualcosa, uno
era incompleto e l’altro non aveva senso.
In
realtà, sapeva veramente molto poco. Mettendosi le mani nei corti capelli
biondo cenere, lasciò andare un pesante sospiro affranto.
« Potresti mettere
al corrente anche me dei tuoi ragionamenti? » domandò la ragazza – altro sé, alter ego,
Es – dalla poltrona sulla quale si era accomodata – e
che a John dava sempre più fastidio, che fosse seduta proprio lì, ma anche
quella era una delle cose che non sapeva spiegarsi.
Senza
alzare lo sguardo, si massaggiò la fronte con la mano sinistra. « Sto pensando che
siamo fottuti, dato che non riesco a cavare un ragno dal buco » le disse.
Quella,
seduta con le gambe ancorate allo schienale e la testa a penzoloni verso il
basso, fece una faccia a metà fra il dubbio ed un assenso. « Possibile. Forse
anche un po’ probabile » disse: « spero non diventi
sicuro, però. Sarebbe davvero pietoso » aggiunse.
John,
tornando ad accomodarsi meglio sulla propria poltrona, la guardò stranito. Allo
sguardo di richiesta che la ragazza gli inviò da quella sua posizione
sottosopra, si decise a parlare.
« Lo smile giallo
sulla parete... » cominciò Watson.
« Ti ascolto » lo incoraggiò
Joy.
« So che è
disegnato con un tipo particolare di vernice, usata dalla mafia cinese per
contrabbando di merci importate illegalmente e poi rivendute all’asta a cifre
astronomiche. E dovrebbe essere crivellato di colpi di proiettile, lo so, anche
se non so il perché. So che il teschio sul caminetto... » ed indicò il
cranio in bella mostra: « ...nasconde un
pacchetto di sigarette. E quel violino... » John fece una pausa, indicando con la
mano aperta lo strumento in questione: « ...non ho la minima idea di cosa ci
faccia qui e a cosa mi serva, dato che non so suonarlo. So solo che mi piace
sentirlo suonare, ma non essendo io un amante di musica classica mi sfugge
seriamente il perché » concluse, ancora
più seccato di quando aveva cominciato.
Joy,
che stava sottosopra senza risentirne minimamente, lo guardò ridacchiando. « Fuochino » lo sfotté.
Il
dottore cominciava seriamente a provare l’istinto, alquanto criminale, di
sgozzare il suo subconscio.
Intuendo
il suo pensiero, la ragazza si rialzò con agilità e si rimise seduta composta,
le gambe accavallate e lo sguardo improvvisamente serio.
Aveva
gli stessi occhi dei suoi ufficiali comandanti in Afghanistan ogni volta che gli
comunicavano una missione, che la maggior parte delle volte dava l’idea di
essere più un martirio che altro. Oppure lo stesso sguardo che aveva avuto
Harry quando gli aveva comunicato, attraverso una video-chat, che aveva
intenzione di lasciare Clara nonostante si fossero appena sposate.
Come
conseguenza di quegli occhi fissi sui suoi, John si fece serio a sua volta.
Poi,
le parole che uscirono dalla bocca di Joy ebbero il potere di far esplodere
qualcosa dentro di sé.
« Chi è Sherlock
Holmes? » domandò lei,
fissandolo.
John
boccheggiò, improvvisamente incapace di spiaccicare parola. L’eco di quel nome
aveva fatto sì che il proprio cuore si contraesse dolorosamente e battesse più
rumorosamente; ne sentiva il battito nelle orecchie e nella gola, un tamburo veloce
ed assordante.
« Io... Io non... » balbettò, ma fu
interrotto.
« Sì che lo sai » disse lei,
piccata. « Non sei stato tu
a sparare a quel muro. Hai nascosto tu le sigarette sotto quel teschio ma non
per te, tu non fumi. Non sei tu che suoni il violino, non sei capace, ma hai
ragione nel dire che ti piace ascoltarlo. Anzi, ti piace vederlo suonare il che è una cosa essenzialmente diversa » aggiunse,
sporgendosi verso l’altro con fare quasi serpentino, viscido. « John... chi è
Sherlock Holmes? » gli ripeté la
domanda.
La
testa di John Watson era un completo disastro. Sembrava che gli fosse esplosa
una bomba a qualche centimetro dall’orecchio o che lo avessero preso a pugni
dopo essersi scolato una bottiglia di Jack Daniels.
Si
portò le mani alle orecchie, improvvisamente preda di un fortissimo fischio
continuo che sembrava volergli bucare il timpano e risalire fino al cervello al
momento sotto sforzo. Trattenne il fiato nell’inconscio tentativo di far
sparire tutti quei fastidi, ma inutilmente, anzi; sembravano peggiorare,
trasformarsi. Da fischio... in voci, immagini, eco lontane di ricordi
cancellati per chissà quale motivo.
« Cosa mi sta
succedendo?! » sbottò allora
Watson, tenendosi forte la testa e piegandosi su se stesso.
« È la transizione » gli disse Joy.
« Vuoi dire che sto
morendo?! NO! » urlò il dottore,
ancora piegato in due da quella confusione che aveva in testa.
La
ragazza negò con la testa. « Tutto l’opposto. Te lo avevo detto che sarebbe stato
meglio se avessi fatto da solo, se ti fossi impegnato a ricordarti le tue
ragioni di vita con calma, ma tu non mi hai dato scelta. Come sempre sono
costretta a forzarti i ricordi nella mente. Sei un idiota, John Watson! » esclamò quella,
tuttavia il suo tono si mantenne pacato.
John
gemette alla comparsa di un dolore sordo alla tempia destra, e subito serrò gli
occhi con forza, imprecando a mezza voce.
Nella
sua testa, immagini di un treno della metropolitana. Urla, lacrime. Poi una
strada, il Tamigi, un ufficio di New Scotland Yard, la sua insegna rotante
davanti all’entrata. Simboli gialli su un muro di fianco a dei binari, una
pistola puntata alla testa, una brughiera infinita, gli occhi rossi di un
mastino ringhiante, una voce che diceva di non avere amici (plurale), ma uno
solo (singolare). E ancora un frustino da fantino, una donna completamente
nuda, una cassaforte, Buckingham Palace, un ombrello nero, una jeep, lucine di
Natale, un I-phone dalla cover rosa, un paio di
scarpe, bombe, una piscina, una voce: “è un Westwood”.
E momenti, tanti, passati in un appartamento così simile a quello solo con più
colori. Notti passate sul divano, davanti al pc, a
mettere bende su di una pelle diafana ferita, a curare ferite su se stesso; il
salotto pieno di fogli sparsi a terra, la cucina ricolma di alambicchi, 38 ore
di veglia ininterrotta, una partita indicibile a Cluedo,
bollette da pagare e una testa nel frigorifero.
« Continua così,
John. Stai andando bene. Fra poco finirà tutto » disse Joy.
Una
figura slanciata, dita affusolate, pelle candida. Vestito elegante nero,
camicia viola o bianca o azzurrina a righe, tutte buone, tutte costose. Un
cappotto lungo, una sciarpa blu. Capelli scuri in morbidi riccioli, zigomi
ridicolmente alti, occhi azzurro ghiaccio dalle incredibili sfumature verdi
sotto la luce forte del sole.
Una
voce profonda.
“Io sono Sherlock
Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”
Il
dolore cessò così com’era venuto, riportando alla normalità sia il battito del
cuore che la respirazione.
John
alzò il viso dalle proprie mani con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse in
un moto d’incredulità. Si guardò attorno, posando gli occhi su di ogni
superficie candida che lo circondava, riuscendo ad immaginarsela del proprio
colore originario. Riuscendo a ricordarsela.
Come
aveva potuto dimenticarsi di lui? Come aveva potuto dimenticarsi della persona
che lo aveva letteralmente travolto con la sua presenza, restituendogli la vita
che era convinto di aver perso? Come aveva potuto dimenticarsi le avventure, i
casi da risolvere, la piscina, James Moriarty, le
deduzioni e tutti i momenti che avevano passato insieme, giorno dopo giorno,
anche solo parlando del più e del meno o facendo colazione insieme alla signora
Hudson?
Ancora
smarrito, perso in una calma irreale dopo una tempesta, puntò gli occhi su
quelli scuri di Joy, ancora protesa verso di lui ma immobile sulla poltrona.
La poltrona di
Sherlock.
Era per questo che gli dava fastidio, vederla seduta lì.
« È normale, qui...
» disse lei: « ...dimenticarsi
dei motivi per cui vogliamo restare in vita, che ci spingono a sopravvivere. È
normale quando si arriva in questo limbo. Vieni messo alla prova. Avresti
dovuto ricordartene da solo, ma io non potevo lasciare che tu ti arrendessi e
morissi, perché sapevo che per te sarebbe stato difficile richiamare quei
ricordi, nonostante la loro intensità. Perché tu hai scoperto, e questo lo
sappiamo benissimo entrambi, che ciò che provi per Sherlock Holmes va oltre
un’amicizia normale. Non sai cos’è, non sai definirlo, oppure lo sai ma non lo
vuoi ammettere, hai paura di pronunciare quel verbo associato alla figura del
caro sociopatico ad alta funzionalità. Il vostro rapporto si sta trasformando
e, purtroppo, te ne sei reso conto quando la tua vita è arrivata per la seconda
volta al punto di non ritorno: te ne sei accorto sul vagone di quella
metropolitana » gli disse,
pacata.
John,
chiudendo gli occhi, assorbì quelle parole come se fossero acqua nel deserto.
Sospirò
poi, ritrovando la calma.
« Allora, John... » riprese Joy,
alzandosi dalla poltrona e posizionandosi di fronte a lui: « ...dove sei? » gli chiese.
Questa
volta, Watson non ebbe dubbi: « 221B di Baker Street. Casa mia. Casa nostra, mia e di
Sherlock ».
Lei
annuì. « E chi è Sherlock
Holmes? » domandò di nuovo.
« La ragione per
cui devo tornare » rispose lui,
alzando lo sguardo.
Lei,
ancora ammantata in quel suo completo bianco elegante, gli sorrise. « Andiamo » aggiunse,
allungando la mano verso di lui.
Erano
passati alcuni minuti, forse dieci, quando la porta della camera di John si
aprì, facendone uscire Harry Watson.
Sembrava
provata, anche se sugli occhi aveva la maschera della donna forte ed
impassibile. Sherlock poteva notarlo da un piccolo accenno di sudore freddo e
dal pallore innaturale della pelle del viso rispetto a quella del collo.
Non
lo guardò. Nemmeno un’occhiata. Semplicemente fece due passi per spostarsi e,
appoggiandosi con la schiena al muro, si lasciò scivolare lentamente a terra.
Il
silenzio calò nel corridoio e fra i due. Erano quasi l’una di fronte all’altro,
Sherlock ancora in piedi nella sua indecisione, Harry abbandonata sul pavimento
con una mano a massaggiarsi la fronte e gli occhi chiusi.
Fu
la donna a rompere il silenzio.
« Perché non entri?
» domandò,
continuando a non guardarlo.
Sherlock
le riservò uno sguardo lungo dieci secondi. Poi, sospirando, decise che parlare
in modo sincero con la sorella maggiore dell’uomo oltre la porta poteva avere
una sua logica. Contorta, ma poteva averla.
Dopotutto,
c’era tanto di Harry che gli ricordava John. Forse non il colore dei capelli o
degli occhi, ma il naso aveva la stessa forma, e il taglio delle labbra era
molto simile.
E
sotto sotto, molto in fondo, nascosta dai vari strati
di durezza con cui Harriett aveva deciso di
proteggersi per sopravvivere al resto del mondo, c’era anche la stessa,
incredibile forza di volontà.
I
fratelli Watson erano, nonostante le imperfezioni e gli errori di entrambi,
parte di uno stesso disegno genetico che li portava ad ubbidire prima al cuore,
poi alla logica. E Sherlock aveva provato sulla pelle l’esperienza di stare
accanto ad un uomo simile.
La
verità era qualcosa che doveva loro.
« Penso di non
volerlo vedere » rivelò, breve e
conciso.
Harry
non si arrabbiò e non ne rimase per nulla colpita, o comunque turbata in
qualche modo. Continuava semplicemente a massaggiarsi la testa, ora con
entrambe le mani, tenendo gli occhi chiusi e sospirando ogni tanto.
« Perché? » soffiò infine,
quando ormai sembrava che non avesse più intenzione di aprire bocca.
Holmes,
che si aspettava la domanda ma non era comunque abbastanza preparato a
riceverla, socchiuse gli occhi.
« Non credo di
saperlo... » si ritrovò a
dire, a sussurrare, in direzione della donna.
Aveva
sempre creduto che affidandosi alla logica e alla ragione sarebbe riuscito a
superare qualsiasi difficoltà. La vita era come un libro di algebra: man mano
che vai avanti i problemi da risolvere diventano più difficili, ma se si hanno
le basi logiche e conoscitive adeguate tutte le difficoltà finiscono per
diventare semplici rompicapi da risolvere.
Sono
solo numeri.
Lui
aveva sempre amato l’algebra. Lo metteva alla prova come nessun’altra materia
riusciva a fare. Enigmi sempre più difficili, nodi sempre più intrigati, giochi
di logica e di abilità che erano in grado di assorbirlo completamente. Non
erano i numeri che sfidavano lui, ma lui che sfidava i numeri.
Ogni
cosa della sua vita era sempre stata sotto controllo, intuibile, intelligibile.
Dopotutto,
se sai perfettamente quali possono essere le possibili conseguenze di una tua
azione, quando esse si manifestano non possono di certo coglierti alla sprovvista.
Erano sempre stati
solo numeri.
Il
dispiacere di sua madre quando lasciò l’università? Prevedibile. Una costante
aritmetica che si era ripetuta lungo il corso di tutta la sua vita, si stava
ripetendo in quel momento e si sarebbe ripetuta anche dopo. Come il valore del pì greco: quello era, quello sarebbe rimasto.
La
droga? Un calcolo fin troppo banale. Una volta letta su di un manuale la soglia
massima raggiungibile per non incorrere nei fastidiosi contraccolpi
dell’assunzione di sostanze psicotrope – abbastanza da sparargli il cervello al
massimo dei giri senza distruggerlo o stare troppo male – controllarne
l’assunzione fu un gioco da ragazzi.
I
casi da risolvere? Indovinelli che avevano sempre una causa ed una conseguenza,
esperimenti scientifici capaci di evitare al suo cervello la metastasi. C’è
sempre una vittima, a volte anche un colpevole, a volte la vittima ed il
colpevole sono la stessa persona. Ci sono indizi, ci sono cose da vedere, ci
sono intrecci logici da dedurre.
Pura
matematica. Solo numeri.
Poi,
John.
John
era stato un giochino di matematica solo per i primi cinque minuti. Solo il
tempo necessario per capire chi fosse, da dove venisse, cos’avesse fatto.
Cinque minuti che, di fronte ad un anno e mezzo di completa allegoria dell’impossibile,
impallidivano miseramente.
John
non si era rivelato un enigma irrisolvibile. Ogni volta che Sherlock arrivava
ad una soluzione – o comunque pensava di averlo fatto – John faceva qualcosa
per cui quella cifra si rivelava errata o incompleta.
John
era un mistero che Holmes non aveva mai risolto e, con il tempo, semplicemente
si era dimenticato di risolvere, convenendo faticosamente con se stesso che
Watson era interessante proprio perché senza soluzione, e forse non ne
prevedeva nemmeno una.
Per
questo motivo tutto ciò che lo riguardava non faceva parte di una costante, non
era prevedibile. Forse era per questo che Sherlock non riusciva ad accettare
tutte le variabili in gioco, preferendo chiudere la mente.
Perché
sapeva che John avrebbe potuto sopravvivere, e allora la sua vita sarebbe
lentamente ritornata alla normalità, ma poteva anche morire... ed in quel caso
il suo sguardo si perdeva in un universo infinito di possibili scelte che però
perdevano di colore, di calore, di lucentezza.
Un
universo probabile e non impossibile davanti al quale, però, Sherlock Holmes
preferiva chiudere gli occhi.
Lo
fece anche in quel momento, davanti alla porta chiusa di quella camera
d’ospedale: chiuse gli occhi.
La
voce di Harriett ruppe di nuovo un silenzio che non sapeva
per quanto poteva essersi prolungato.
« Io credo che tu
dovresti entrare » gli disse a
bruciapelo.
Sherlock
riaprì gli occhi di scatto. « No » si impuntò.
« Perché? » domandò ancora
lei.
« Perché non tu? » rispose allora il
detective, attaccandola.
La
donna, osservandolo di sottecchi, sorrise amaramente. « Sai, io e John
abbiamo stipulato una sorta di patto di non aggressione. A dire il vero non so
nemmeno quando, perché non è stato detto a parole... ma il succo è uno sterile
“vivi e lascia vivere” » gli disse,
piegando entrambe le ginocchia ed appoggiandosi sopra le braccia.
« Noi ci facciamo
favori non facendoci dei favori. Io
bevo e lui non dice niente, e io non lo biasimo, anzi. Lui se ne va in
Afghanistan ed io non dico niente, e so che lui non mi ha biasimato, anzi. Io
mi sposo e divorzio subito dopo e lui trattiene dentro di sé la delusione e non
dice niente e Dio, Dio, solo Dio sa
quanto l’ho ringraziato per averlo fatto, quando praticamente tutti gli altri non sono stati in grado
di fare la stessa cosa. E poi... » una piccola pausa, finalmente gli occhi
della donna che si posano su Sherlock: « ...poi lui va ad abitare con un pazzo che
non fa altro che fargli rischiare la vita ma io non dico niente, e so che me ne
è grato, che io non dica niente. Fra di noi funziona così » spiega, gli occhi
che vanno al soffitto a malapena illuminato dalla fioca luce dell’aurora ancora
lontana.
Un
sospiro. « Sono sua sorella
maggiore, è logico che io mi preoccupi per lui più di quanto lui si preoccupi
per me. È scritto nel nostro DNA... ».
Il
cervello di Holmes creò per un istante l’immagine fastidiosa di Mycroft, salvo poi archiviarla subito dopo.
« Però essere in
quella stanza non cambierà niente, non per me. Perché non è me che vuole al suo
fianco, e non sono nemmeno tutte quelle persone là dentro. Lui vuole l’unico
che è riuscito a farlo sorridere di nuovo in un periodo della sua vita in cui
niente sembrava andare per il verso giusto. È per questo che devi alzare il
culo ed attraversare quella porta, Sherlock Holmes » gli disse,
tornando a fissarlo con decisione.
Al
detective, tutto sommato, non serviva altro che una spinta. Qualcuno che gli
dicesse che stava facendo la cosa sbagliata, aspettando lì fuori. Qualcuno che
ammettesse ad alta voce che lui era parte della vita di John così come John era
ormai parte imprescindibile della sua.
Osservò
Harriett ancora per qualche prezioso istante poi,
guardandosi mani, si diede – per la prima volta in completa autonomia –
dell’idiota.
Anche
John trovava sempre il modo di dirgli che era un idiota. E ci riusciva solo
John. Era prerogativa sua, riuscire a dare dell’idiota ad uno come Sherlock
Holmes.
Annuì
in silenzio, staccandosi dalla parete e coprendo in due passi la distanza che
lo separava dalla porta. Appoggiò la mano destra sulla maniglia e, facendo
forza, finalmente entrò nella stanza.
Le
pareti erano di due colori, e questa fu la prima cosa che notò. La metà
superiore ed il soffitto erano bianchi, la metà inferiore di un verde pastello
che doveva forse sembrare rilassante, ma che gli dava solo la classica
sensazione d’ospedale. Era una camera ampia, pulita, con una finestra coronata
di tendine bianche.
Al
centro della stanza c’era il letto su cui giaceva John, circondato di persone
silenziose o che singhiozzavano compostamente.
Mycroft e Lestrade erano in disparte, un po’
distanti dal letto. Quando entrò suo fratello gli fece un cenno con il capo,
mentre Greg distolse semplicemente lo sguardo, tornando a fissare il letto con
espressione vuota.
Al
capezzale di John, mrs. Hudson si asciugava gli occhi
con il fazzolettino bianco ricamato e, alle sua spalle, Molly lasciava che
calde e mute lacrime le cadessero dagli occhi, rigandole le guance. Tratteneva
il respiro a tratti, osservò Sherlock, che non aveva ancora trovato il coraggio
necessario a posare lo sguardo sul suo migliore amico.
Lo
fece in quel momento.
Si
fermò ai piedi del letto, immobile, le mani abbandonate lungo i fianchi ed in
viso un’espressione sospesa, a metà fra la voglia repressa di urlare e quella
di chiudere gli occhi e fingere che fosse tutto un brutto sogno.
John
era disteso supino sul letto; le lenzuola bianche gli arrivavano al torace e
gli coprivano il petto lasciando però fuori le spalle nude, sulla sinistra
delle quali era chiaramente visibile la cicatrice lasciata dal proiettile che
lo aveva colpito di Afghanistan.
Distese
lungo i fianchi stavano le sue braccia, nude anch’esse: al braccio destro erano
collegate le due estremità del macchinario per la dialisi – il suo sangue che
correva all’interno dei tubi trasparenti al momento tinti di rosso – mentre nel
braccio sinistro penetrava l’ago di una flebo di barbiturici, ovvero ciò che
manteneva John in coma farmacologico.
Sul
volto campeggiava una mascherina d’ossigeno che gli prendeva bocca e naso e le
labbra, dischiuse sotto di essa, erano testimoni di un respiro debole e
stentato, ma presente.
Sherlock
non sapeva cosa fare. Ancora combatteva l’irrazionale sensazione di girarsi ed
andarsene, mettersi a correre per tornare a casa e buttarsi sul divano
lasciando fuori il resto del mondo con quella situazione al limite del
surreale; dall’altra percepiva il suo corpo come paralizzato e, di conseguenza,
era incapace di muoversi. Teneva gli occhi azzurri fissi su John ma, nonostante
fosse così vicino, gli sembrava lontano, distante anni luce da quella stanza,
in un posto tutto suo in cui Sherlock non riusciva ad entrare per costringerlo
ad aprire gli occhi, a dimostrargli che fosse ancora vivo e non solo uno
spauracchio messo lì per ritardare un’eventualmente certa dipartita.
Voleva
sfiorarlo, toccargli un piede, madi
tutto il movimento necessario per farlo riuscì a muovere solamente un dito.
Un
dito e nient’altro.
Fu
Molly, fra tutti, quella che capì ogni cosa.
Chissà
perché le bastava guardare Sherlock in faccia per intuire cosa provasse, e
nonostante fosse ormai sopraffatta dalla tristezza per le condizioni di John,
fu l’unica in grado di curarsi anche di Sherlock, che soffriva in un modo tutto
suo chiuso in una mente per molti impenetrabile.
Tranne
che per John. E, a volte, raramente e più che altro casualmente, anche per
Molly Hooper.
In
silenzio si mosse verso il detective, facendo il giro del letto e arrivandogli
al fianco. Allungò la mano verso la sua, prendendo le dita sottili ed
affusolate di Sherlock fra le sue calde, e con delicatezza fece qualche passo
indietro, tirandolo a sé in direzione di John.
Holmes,
guardandola senza un particolare cambiamento d’espressione, seguì il movimento.
Si
ritrovò, guidato da Molly, esattamente accanto a John. Mrs. Hudson gli posò una
mano sulla spalla, lasciandoci piccole pacche, poi a sua volta si fece
indietro.
Sherlock
osservò il volto di John in silenzio, le labbra schiuse ed il respiro quasi
inudibile. Lo guardava dormire un sonno innaturale che lo proteggeva dal dolore
e, pensandoci, non poteva fare a meno di dirsi che sarebbe stato meglio vederlo
soffrire, piuttosto che guardarlo giacere immobile come se fosse morto.
Solo
il continuo ronzare dell’ossigeno e i battiti regolari dell’elettrocardiogramma
dicevano a gran voce il contrario.
Dischiuse
le labbra per dire qualcosa, ma nulla gli uscì. La sua voce faticava a formarsi
nella bocca e, comunque, non avrebbe saputo davvero cosa dire.
Rimase
così, immobile nel silenzio teso dei presenti, senza mai staccare lo sguardo
dagli occhi chiusi dell’unica persona al mondo che era riuscita a guadagnarsi
un posto nella sua vita.
Lentamente,
appoggiò la mano sinistra su quella inerte di John, sfiorandone il palmo con i
polpastrelli delle dita.
Le
aveva preso la mano, alzandosi dalla poltrona e seguendola.
Joy
aveva attraversato la soglia dell’appartamento, guidandolo giù dai diciassette
scalini, arrivando in un numero ben preciso di passi alla porta che dava su
Baker Street.
Sempre
mano nella mano.
John
avrebbe potuto pensare che fosse strano, tenere e farsi tenere la mano da una
persona morta, o ancora peggio dal proprio subconscio. Tuttavia si era anche
detto che pensare come le persone razionali in quel mondo non aveva molto
senso, così aveva semplicemente seguito la ragazza, fiducioso che lei sapesse
cosa fare.
Davanti
alla porta, lei si girò e gli sorrise incoraggiante. Lui sorrise a sua volta,
annuendo, come per dirle silenziosamente di essere pronto ad andare ovunque
l’avesse portato.
Quella,
annuendo a sua volta, appoggiò la mano destra sulla maniglia e la spinse,
aprendo l’anta bianca su di uno scenario ancora più candido... che però non era
Baker Street.
Attraversando
la soglia, John si trovò davanti a quello che aveva tutta l’aria di un atrio.
Non era eccessivamente ampio, ma era lungo, e non appena cominciarono a
camminare per attraversarlo, poté notare sulla loro sinistra le tipiche
postazioni dei bigliettai della metropolitana.
Alzò
gli occhi e, attaccata ad una porta di vetro bianca come tutto ciò che li
circondava, la scritta “Waterloo Underground Station” troneggiava sull’unica
nota di colore presente: un lungo e sottile cartello blu.
« Questa è... » fece fatica a
trovare le parole giuste per cominciare il discorso, rompere il silenzio: « ...la stazione
della metropolitana di Waterloo? » domandò allora, sicuro di ciò che stava
dicendo ma smanioso di sentirselo dire da Joy.
Quella,
continuando a guidarlo per mano fino alle scale in discesa nel ventre della
terra, annuì distrattamente.
Non
c’era niente intorno a loro, né persone né suoni. Il silenzio, che faceva da
padrone incontrastato, veniva spezzato solamente dai loro respiri e dai loro passi
nudi sui gradini.
Watson
sentiva la mano calda di Joy stringere la sua in una morsa gentile, e chissà
perché non tentò nemmeno di liberare la presa nonostante la strada da
percorrere fosse ormai abbastanza ovvia. La presenza della ragazza al suo fianco,
la mano stretta nella sua, dal momento in cui si era ricordato tutto aveva
smesso di essere strana ed inquietante ed era divenuta quantomeno rassicurante.
Joy
lo fece scendere fino alla fine, addentrandosi nei corridoi sotterranei a passo
sicuro. Di nuovo, solo i loro piedi nudi sulle piastrelle del pavimento emettevano
l’unico rumore udibile.
A
colpo sicuro, Joy lo guidò sulla banchina per i treni in direzione Paddington. Arrivata ai binari, con le dita dei piedi a
sfiorare la linea gialla a terra – l’unica cosa colorata, anche in quel caso –
si fermò. Entrambi lo fecero.
« Cosa stiamo
facendo? » chiese John, la
voce ridotta ad un sussurro per non rischiare di rompere troppo violentemente
il silenzio quasi totale.
« Aspettiamo » rispose lei.
Fin
qui c’era arrivato. « Cosa? » chiese dunque
John, accigliato.
« Il treno,
naturalmente » gli rispose
quella, gli occhi incollati di fronte a sé.
John,
per un attimo, la guardò come si guarda un pazzo. Poi rammentò che era il suo Es, quello, e diede del pazzo a se stesso per diretta
conseguenza. « Naturalmente... » ripeté in un
soffio, fissando uno sguardo vacuo e decisamente interdetto sui binari sotto di
loro.
Non
ce la fece a stare in silenzio.
« Sì... ma perché
Waterloo? » chiese di nuovo,
tornando a guardarla.
Lei
non fece una piega ma si dipinse un lieve sorriso sulle labbra che, da quando
si era ricordato tutto, era ormai onnipresente. Si voltò semplicemente di
qualche grado in sua direzione.
« Devi riprendere
il viaggio da dove lo hai lasciato » gli disse solo, tornando con lo sguardo
davanti a sé.
Guardava
tutto e non guardava niente, in realtà, e John lo aveva intuito. Strinse la sua
mano nella propria, ricevendo in cambio una stretta simile.
Contrariamente
alle sue aspettative, fu Joy a riprendere parola.
« Io non verrò con
te, John » gli disse, la
voce limpida e tranquilla, come se parlassero del tempo.
« No, cos...? » balbettò John: « perché? » chiese poi,
guardandola con negli occhi una lieve punta di panico.
Quella
sospirò, aspettandosi la reazione. « Perché io ho fatto ciò che dovevo fare.
Ti sto mostrando la strada di casa, ma quest’ultimo pezzo è qualcosa che devi
affrontare da solo, senza aiuti » gli spiegò.
John
si sforzò di ritrovare la calma ed annuì. « In cosa consiste? » domandò poi,
cominciando a rendere tangibile nella propria mente l’idea che da lì in poi se
la sarebbe cavata da solo.
« Il treno che
prenderai non sarà vuoto » cominciò a
spiegargli: « è tanta, la gente
che si perde qui. Persone che smarriscono la strada, che non sanno dove andare,
cosa fare. Tutti trovano l’aiuto che serve loro, alcuni riescono a tornare a
casa. Altri... beh, altri si perdono di nuovo. Rimangono intrappolati in questo
mondo senza possibilità di uscirne » spiegò, tornando poi a guardare John
negli occhi: « come avrai
notato, le persone tendono a dimenticare le ragioni per cui vale la pena
tornare a vivere. Più passa il tempo, più la memoria svanisce. Molto presto
finiscono per dimenticare anche la loro identità e allora stanno semplicemente
ferme, immobili, a fissare oggetti e paesaggi che fanno parte di loro ma che
non riconoscono » una pausa, il
sorriso che svanisce pian piano: in lontananza, il rumore sulle rotaie di un
convoglio in arrivo.
« Sul treno su cui
salirai ora ci saranno molte anime perdute, John. Alcune molto vecchie.
Probabilmente non tenteranno di parlarti, ma tu non devi distrarti: ascolta
sempre le fermate e, quando arrivi alla tua, scendi senza guardarti indietro.
La maggior parte di queste persone non può più essere aiutata... » sussurrò infine,
lasciandogli la mano.
Nel
momento in cui lo fece, un treno bianco della metropolitana arrivò e rallentò
piano, lasciando che una delle porte si fermasse proprio di fronte a lui.
Quando quella si aprì, e John si voltò per vedere Joy un’ultima volta, quella
era già sparita.
Deglutì,
facendo un passo avanti ed entrando. Le porte si richiusero subito dietro di
lui.
Il
convoglio riprese la sua corsa, esattamente come avrebbe fatto un treno della
metropolitana nella realtà.
Come
aveva detto la ragazza, il vagone non era vuoto. Una serie di persone tra le
più disparate, vestite tutte di bianco e tutte a piedi scalzi, erano sedute sui
sedili; alcune guardavano a terra, altre fuori dal vetro, altre ancora la mappa
delle fermate presente sopra ogni porta automatica.
Mentre
il treno prendeva velocità, John andò a sedersi nel primo posto disponibile,
ovvero fra una signora di mezz’età fasciata in quella che sembrava una camicia
da notte ed un signore compito con indosso un abito d’inizio novecento ed una
tuba.
Non
rivolse loro la parola e, così come gli aveva detto Joy, nemmeno loro lo fecero
con lui.
In
pochi minuti, la voce metallica dello all’altoparlante annunciò la fermata
successiva.
“Prossima fermata:
Enbankment. Siamo in arrivo a Enbankment.”
Enbankment. A sentire il nome della stazione
successiva, John drizzò la schiena e guardò automaticamente fuori dai
finestrini.
Avevano
superato il punto dello scontro, a quanto sembrava. Lui non aveva notato niente
nei tunnel bui nei quali sfrecciavano a bordo di quel treno candido; non aveva
sentito rallentamenti, sobbalzi o qualsiasi altra cosa che avesse anche potuto
far pensare a qualche detrito, i binari sconnessi, o anche solo un segno che
gli avesse suggerito qualcosa come “questo è il punto in cui sei quasi morto,
ma fatti coraggio, stai andando avanti, stai proseguendo, stai ancora
respirando”.
Vedeva
la stazione di Enbankment fuori dal vetro e, così
come il treno si era fermato, ora ripartiva con la stessa calma di una routine
disarmante.
« Lei è una delle
persone dell’incidente ferroviario? ».
La
domanda giunse inaspettata per John, che trasalì. Nella mente gli passò per un
secondo il consiglio di Joy – “non ti distrarre, ascolta le fermate” – ma
quella frase era stata pronunciata con una voce ed un tono così gentili, che il
suo animo inglese protestò quando la prima intenzione fu quella di non
rispondere affatto.
Si
voltò alla sua sinistra, dove l’uomo vestito in abiti d’inizio ventesimo secolo
lo stava guardando in attesa di una risposta. Era palese che fosse stato lui a
prendere parola, e l’attenzione di John rimase per un attimo catturata dai suoi
baffi voluminosi.
«S-Sì... » confermò, accompagnando la voce con il capo.
Quello
annuì a sua volta, tornando a fissare un punto qualsiasi del buio oltre al
finestrino. « Non è il primo
che passa da queste parti, ultimamente. Dev’essere
stato proprio un brutto incidente. Fra Waterloo ed Enbankment,
dico bene? Siete saliti tutti in quel punto » disse, pacato.
John
lo osservò per un istante, decidendosi poi a seguire l’istinto e a parlargli.
Sarebbe comunque stato attento alle fermate, dato che venivano dette all’altoparlante,
ma poteva benissimo passare quei minuti che lo separavano dalla sua fermata
chiacchierando con una di quelle persone “sperdute”. Soprattutto perché, al
contrario delle altre, l’uomo al suo fianco sembrava essere pienamente
cosciente di dove fosse.
« Immagino di sì » disse dunque,
appoggiandosi meglio con la schiena al sedile: « ma non lo so con certezza... ».
« È logico supporlo
» aggiunse l’uomo,
sembrando lieto di poter fare conversazione con qualcuno: « se si trova qui,
molto probabilmente non è ancora riuscito a sapere quali siano effettivamente
le dimensioni del disastro. Ma le posso assicurare che siete transitati in
parecchi, dunque può tranquillamente aspettarsi qualcosa di grave. A proposito,
dove scende lei? » gli domandò,
tornando a guardarlo.
“Prossima fermata:
Charing Cross. Siamo in arrivo a Charing
Cross.”
Watson
trattenne sorpreso le parole, ancora scombussolato. « Baker Street » disse poi,
portando automaticamente gli occhi alla mappa. Cosa che fece anche l’altro.
« Oh, capisco.
Cinque fermate quindi » considerò
abbastanza frivolmente: « lei è il primo
che si ferma così vicino; mi è capitato di parlare con una signorina un po’
spaventata che doveva scendere a WillesdenJunction, mentre un anziano, pensi, doveva percorrere
l’intera linea fino a Harrow & Wealdstone» gli spiegò.
John
era sempre più perplesso, e nel suo tentare di non darlo a vedere ne era il
ritratto perfetto. Probabilmente l’uomo lo notò, perché si limitò a sorridergli
con occhi gentili, accavallando una gamba sull’altra con fare elegante.
« Deve sapere, caro
signore, che più tempo si passa qui e più è probabile che ci si dimentichi dove
si deve andare. Non è la prima persona che vedo fallire, e io sono uno di
quelli rimasti qui troppo a lungo, purtroppo » gli disse, usando una pacatezza ed
una leggerezza espressiva che lo lasciarono basito.
« Cosa le è
successo? Sempre se non le dispiace che glielo chieda... » gli domandò
Watson, ormai incuriosito dal modo di parlare e di vestire dell’uomo, entrambi
palesemente vecchio stile.
Quello,
sorridendogli di nuovo, negò con il capo e si dimostrò disponibile ai
convenevoli della chiacchierata.
« Oh, amico mio,
sono stato assassinato! » rivelò, John
trasalì. « O meglio,
suppongo che l’intento di mio cognato fosse quello, quando mi ha spinto davanti
ad un convoglio in arrivo. Purtroppo credo che non gli sia andata bene,
considerando che sono qui, ma... beh, è successo moltissimo tempo fa. Credo che
fosse il 1910... no, il 1909. Purtroppo mi sono ricordato troppo tardi perché
dovessi tornare alla mia vita, e ho perso la fermata... adesso mi impegno a
fare in modo che persone come lei non dimentichino dove devono scendere » raccontò.
“Prossima fermata:
Piccadilly Circus. Siamo in arrivo a Piccadilly Circus.”
Il
medico lo guardò con un’espressione a metà fra il sorpreso e il dispiacere
cortese, cosa che l’uomo sembrò apprezzare dato che gli diede una piccola pacca
sulla spalla. Disse qualcosa di simile a “è passato molto tempo ormai” e,
togliendosi della polvere invisibile dalla manica della giacca, tornò a
rivolgergli la parola.
« E lei, se non
sono indiscreto, si ricorda ancora perché vuole tornare in vita? » gli chiese.
John
capiva qual’era lo scopo di quell’interrogatorio, così come era consapevole
delle buone intenzioni della persona al suo fianco; tuttavia parlare delle sue
scoperte in quel campo era e rimaneva leggermente imbarazzante.
« C’è... beh, c’è
una persona che voglio rivedere, ecco... » rivelò, pronunciando la frase più
semplice del mondo senza nemmeno rendersene conto.
Serviva
forse una spiegazione filosofica per ciò che voleva davvero fare? Il suo
desiderio di rivedere Sherlock, qualsiasi fosse il motivo scatenante, era così
carente dal lato morale?
Ogni
persona ha un motivo per voler continuare a vivere, e forse la causa che aveva
portato tutti gli altri individui in quel vagone a rimanere lì seduti in
eterno, dimentichi dei loro sentimenti, era proprio perché avevano avuto il
dubbio che le ragioni per vivere non fossero abbastanza, agli occhi degli altri.
L’uomo
al suo fianco, di fatti, annuì comprensivo. « È sempre la miglior ragione » gli rispose.
“Prossima fermata:
Oxford Circus. Siamo in arrivo a Oxford Circus.”
« E... questa
persona è la sua fidanzata? » domandò l’uomo, assottigliando le labbra sotto i
baffi in uno di quei sorrisetti indagatori.
John
deglutì, e forse arrossì un poco. Non seppe dirlo con certezza.
« N-No... cioè...
no. Proprio no » balbettò,
indeciso su cosa rispondere.
L’altro,
davanti al suo dubbio, continuò la sua indagine: « però vorrebbe che lo fosse? » domandò,
indiscreto.
Watson
fu costretto a deglutire di nuovo, cercando in qualsiasi anfratto della sua
testa una risposta da dare che corrispondesse al meglio alla situazione in cui
versavano lui e Sherlock. Ma quel pensiero si mescolava un po’ troppo con le
proprie, personali prospettive per un futuro di cui sapeva ancora poco o
niente, perciò non era nemmeno sicuro che la risposta che avrebbe finito per
dargli sarebbe stata, oggettivamente, corretta o meno.
« È una persona a
cui tengo molto, e a cui voglio molto bene. Però non so se... cioè, non ho mai
preso in considerazione al possibilità che... » iniziò, trovando subito difficoltà
ad esprimersi.
L’uomo,
guardandolo con un sorriso, alzò una mano come per fermarlo e risparmiargli la
fatica. « Mi perdoni se la
metto alle strette, ma ha appena ammesso che questa persona è il motivo per cui
vorrebbe continuare a vivere... » gli disse: « ...io credo che la sua importanza
sia abbastanza scontata, una volta detto questo. Cosa potrebbe essere, dunque,
per lei, un passo in più come il fidanzamento, se parte già da una premessa di
assoluta dipendenza da essa? » domandò, usando quell’inflessione un po’ antica per
cui le relazioni amorose sfociavano subito nel fidanzamento.
A
parte quel piccolo particolare, però, l’osservazione dell’uomo aveva un senso.
Ed era giusta.
Ormai
Sherlock era parte della propria vita, e anzi... ne era direttamente il fulcro.
E
più ci pensava, più Watson sentiva che non era importante dare una definizione
socialmente accettabile al loro rapporto; probabilmente, finché avesse avuto la
possibilità e l’occasione di stare al fianco di Sherlock, gli sarebbe andato
bene anche così.
Watson
gli sorrise, annuendo. « Sì... dopotutto
non ha tutti i torti » asserì.
“Prossima fermata:
Regent’s Park. Siamo in arrivo a Regent’s
Park.”
Il
treno si fermò e ripartì di nuovo nel silenzio calato fra i due uomini.
Un
silenzio complice e sollevato, che portava a John più benefici che malesseri e
che cancellava i dubbi dalla sua mente uno ad uno. Non si sarebbe dimenticato
qual’era il motivo per cui stava tornando indietro, per cui decideva ancora una
volta di affrontare la vita e tutti i problemi che, impietosa, gli aveva messo
davanti e, ne era sicuro, con cui avrebbe continuato a disseminare il suo
cammino fino al giorno in cui sarebbe definitivamente morto.
Voleva
vedere Sherlock. Voleva sorridergli, parlargli, sedere con lui nel salotto del
221B bevendo un tè ed ascoltando l’ennesimo, prolisso sproloquio su qualche caso
d’importanza nazionale che Mycroft aveva avuto
l’ardire di proporgli, oppure che lui aveva accettato e poi risolto nel giro di
qualche ora.
E
se avesse potuto passare il resto della sua vita così... invecchiare fra le
pareti famigliari e piene di fori di proiettile del loro appartamento, fra il
sempre maggiore disordine del loro salotto, con provette a riempire ogni angolo
della cucina e qualche testa mozzata nel frigorifero ogni tanto, beh... gli
sarebbe stato bene.
Anzi,
forse non chiedeva di meglio.
“Prossima fermata:
Baker Street. Siamo in arrivo a Baker Street.”
« Credo che sia la
sua fermata, amico mio » gli disse il
signore al suo fianco, sorridendogli incoraggiante.
John
annuì, alzandosi e posizionandosi davanti alla porta in mezzo agli sguardi vuoti
ma incuriositi delle persone del vagone.
La
fine del tunnel, poi una stazione piena di luce.
Il
treno rallentò e si fermò. Le porte si aprirono.
In
un respiro, John attraversò la soglia, consapevole che non appena avrebbe
aperto gli occhi nella realtà – nella realtà vera – avrebbe dimenticato ogni cosa di quel limbo bianco e
luminoso, terra di passaggio per chi si era perso fra la vita e la morte.
Chiuse
gli occhi e, con un sorriso e molte aspettative, si lasciò andare alla luce.
Era
mezzogiorno del 4 marzo, e John dormiva.
I
medici erano venuti quattro ore dopo l’inizio del trattamento per staccarlo dal
macchinario per la dialisi, che ormai aveva completato la sua funzione di
ripulitura del sangue. Avevano controllato le pulsazioni, l’elettroencefalogramma,
l’elettrocardiogramma, le ferite e il taglio chirurgico fatto in sala
operatoria; era risultato tutto nella norma e, ormai convinti che tenerlo in
coma fosse superfluo, avevano rimosso anche la flebo di barbiturici.
Il
medico era lo stesso che era venuto a parlare con loro in sala d’attesa prima
dell’alba.
Con
un sorriso sollevato aveva detto loro che andava tutto bene, e che John si
sarebbe svegliato una volta smaltiti i medicinali. Siccome i barbiturici erano
farmaci che limitavano l’accesso di sangue al cervello – di modo da
“disattivarlo” se non per le funzioni principali, quali respirare e fare
battere il cuore – ci sarebbe voluto un po’ prima che riuscisse a recuperare in
pieno tutte le sue facoltà, ma nel giro di ventiquattrore sarebbe tornato la
persona di sempre.
Nell’udire
quelle parole, mrs. Hudson era scoppiata in lacrime.
Aveva ringraziato Dio cinque o sei volte, il medico che aveva parlato con loro altre
tre o quattro, poi si era limitata ad asciugarsi gli occhi con un sorriso
tenero tutto per John.
Lestrade
aveva sospirato pesantemente, sentendosi improvvisamente crollare addosso tutta
la stanchezza accumulata durante la giornata. Nonostante sorridesse era palese
che non si sentisse bene e, a sorpresa un po’ di tutti, era stato Mycroft a sorreggerlo, tenendolo per le spalle finché non
si era accomodato su di una sedia nelle vicinanze. Dopotutto erano le nove del
mattino e Gregory non aveva chiuso occhio dalle sette del mattino precedente –
e la giornata non era stata una delle più leggere, ovviamente.
Harry,
con la spalla appoggiata allo stipite della porta, si era limitata ad un
sorriso sollevato. Non aveva detto niente, né aggiunto alcunché a parole;
semplicemente aveva chiuso gli occhi ed era tornata dov’era rimasta fino a quel
momento, seduta in sala d’attesa nel posto accanto alla finestra. La sua
convinzione nel non voler entrare in camera del fratello non le impediva, però,
di rimanere nelle vicinanze finché non si fosse definitivamente svegliato.
Molly
si era lasciata andare in una risata liberatoria e aveva incrociato le mani
sotto al mento con uno schiocco. Aveva poi rivolto un sorriso radioso a
Sherlock, il quale però non l’aveva guardata; teneva gli occhi fissi su John,
sempre al suo fianco su di una scomodissima sedia d’acciaio con la seduta in
plastica, e nonostante ascoltasse tutto ciò che veniva detto nella stanza non
gli aveva staccato di dosso lo sguardo nemmeno per un istante.
Cosa
che stava facendo anche in quel momento, quando ormai l’orologio al suo polso
segnò le dodici passate.
Sherlock
non aveva dormito, non aveva mangiato, non aveva nemmeno bevuto qualcosa che
non fosse qualche sorso d’acqua dalla bottiglia che Mycroft
gli aveva portato verso le otto del mattino. Aveva un taglio in testa che
pulsava come l’inferno, era sotto antibiotici e antidolorifici per la stessa
ragione e, in più, arrivava da una giornata ancora più pesante di quella che
aveva infine steso l’ispettore Lestrade, ormai arrivato a casa.
Molly
era tornata al Barts, la signora Hudson faceva la
spola fra la camera di John e la sala d’attesa mentre Mycroft
era dovuto tornare al lavoro, facendosi comunque promettere di essere chiamato
non appena John avesse ripreso conoscenza.
Il
guaio, però, era che non lo aveva ancora fatto.
Vero
era che il tempo di metabolizzazione dei farmaci era diverso da persona a
persona, e che probabilmente il fisico di John, già inizialmente debilitato, ci
avrebbe messo un po’ di più del solito... tuttavia Sherlock non riusciva a
levarsi dalla testa il pensiero che tre ore fossero troppe.
Cominciò
a pensare che la causa potesse essere un’altra. Non c’erano segni che
mostrassero la caduta di John in un coma naturale, però rimanevano sempre cause
di tipo psicologico.
E
se John non avesse desiderato
svegliarsi? Era possibile controllare quella condizione con la mente? Dopotutto
non era questo il processo logico dietro al dolore psicosomatico?
E
se John non si fosse più svegliato perché semplicemente non voleva farlo?
Perché riteneva, magari, di non avere niente per cui aprire gli occhi? Niente
che meritasse la sua presenza nel mondo della veglia?
Sherlock
era confuso e la stanchezza che alla fine aveva bussato anche alla sua porta
non lo aiutava. Nonostante le buone notizie non riusciva a tranquillizzarsi.
Probabilmente sarebbe stato a suo agio solamente quando John avesse aperto gli
occhi, avesse parlato, gli avesse sorriso.
In
poche parole, solamente davanti alla prova empirica ed oggettiva che stesse
bene.
Chiudendo
gli occhi si chinò sul letto, appoggiando la braccia incrociate sul materasso e
la testa su di esse, a contatto con la coscia di John. Osservando ad occhi
socchiusi la mano immobile del migliore amico a pochi centimetri dal proprio
volto, allungò le dita a sfiorarle, afferrando il suo indice e tenendolo
stretto.
L’indice.
Solo l’indice. Un minimo contatto per
capacitarsi che fosse caldo, che qualcosa vivesse ancora, in John Watson. Che
niente era perduto e che tutto sarebbe ritornato com’era stato appena trenta
ore prima.
Chiuse
gli occhi giusto un attimo, cercando inconsciamente di sincronizzare il proprio
respiro con quello di John.
Un
attimo, ecco il lasso di tempo in cui tutto accadde.
Sherlock
Holmes sentì un fruscio, poi una lieve carezza sulle dita della mano.
Spalancò
gli occhi. Li tenne fissi sulle loro mani, aspettando che quel fenomeno si
ripetesse, così da poter convincere se stesso che non se l’era immaginato, che
non era frutto della sua immaginazione.
Che quelle dita si
erano mosse davvero contro le sue.
Avvenne.
Questa volta vide la lieve carezza
che il dito medio di John depositò sul dorso delle sue, muovendosi con fatica
ma volontariamente.
Si
drizzò di scatto, puntando subito gli occhi azzurri verso il volto di John, un
groppo in gola che si disciolse solo quando vide le iridi blu dell’amico sotto
le ciglia socchiuse e percepì il lieve sorriso che gli tendeva le labbra sotto
la mascherina per l’ossigeno.
Gli sembrò di
riprendere a respirare dopo una notte passata sott’acqua, in apnea, chiuso su
se stesso in una pozza d’acqua sporca e cupa in cui i suoni arrivavano attutiti
e rimbombavano come tamburi stonati.
Scattò
in piedi, lasciando che la sedia cadesse rumorosamente a terra. Si chinò
sull’amico con il busto, occhi negli occhi, e solo allora si accorse di quanto
fosse agitato: le mani, bloccate a mezz’aria nell’intento puramente istintivo
di circondare il volto di John, gli tremavano leggermente, senza controllo.
Lui
stesso non era padrone della sua paura, del suo sollievo, dell’esplosione di
gioia e dei battiti accelerati del proprio cuore e mescolava tutte quelle
emozioni in una sorta di soluzione chimica ormai satura; la sua mente non
riusciva a disciogliere tutte quelle emozioni e così le lasciava sedimentare,
creando solo caos, panico immotivato.
John
lo notò subito. Si era appena svegliato ma aveva già intuito le condizioni in
cui versava Sherlock.
Lo
aveva letto nei suoi occhi indecisi e sgranati, spaventati dalla confusione,
brillanti della stessa luce che gli aveva visto a Baskerville
quando, per una notte, ogni sua sicurezza era crollata ad effetto domino.
Cercò
di parlare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo. Cercò allora di sollevare
la mano ma nemmeno il movimento degli arti sembrava concepibile, in quel
momento. L’unica cosa che riuscì a fare, grazie alla vicinanza fra loro, fu
afferrargli il lembo della camicia e tirare il tessuto, di modo da
trasmettergli in quel misero gesto ciò che con le parole non era ancora in
grado di dirgli.
Calmati, Sherlock.
Va tutto bene. Sono qui, va tutto bene.
Sherlock
avvertì la presa sulla sua camicia e, trattenendo il respiro, cercò dentro di
sé la calma. Il suo cervello si ridestò dal trauma e dalla sorpresa,
riprendendo a fare il suo lavoro, concedendo al detective di respirare
finalmente la sua aria, il suo ossigeno: quello fatto di pensieri e
ragionamenti.
Deglutì,
e fu soltanto la voce a tradire un lieve tremore, questa volta. Le mani,
tornate immobili, si posarono finalmente sul viso di John, i polpastrelli
bollenti delle proprie dita a sfiorare le guance tiepide dell’altro.
« H-Hai avuto un’emorragia
interna » cominciò, lo
sguardo incatenato a quello di John, che non aveva la minima intenzione di
scostare i suoi occhi da quelli di Sherlock: « l’emorragia ti ha provocato
un’insufficienza renale lieve. Ti hanno messo in dialisi ma in sala operatoria
il tuo cuore ha ceduto e... » deglutì: « ...hanno deciso di metterti in coma
farmacologico. È per questo che non riesci a parlare o a muoverti » gli spiegò,
tornando gradualmente lo Sherlock Holmes di sempre. Il suo sguardo si era
stabilizzato, la sua mente aveva ripreso il controllo della situazione.
John era sveglio,
e sorrideva. Andava tutto bene. Tutto bene.
Fece
scivolare via le mani dalle gote del medico, appoggiandosi con le mani sul
cuscino ai lati della sua testa. Continuò a guardarlo fisso negli occhi ma
questa volta con una punta di rabbia, unita forse a qualche rimasuglio di
ansia.
« Non farlo mai più
» soffiò il
detective.
John
continuò a guardarlo, impossibilitato a fare altro.
« Non farlo mai
più... questo. Mai più. Tu non c’eri e io non sapevo cosa fare. Non farlo mai
più » disse – ordinò.
Watson,
socchiudendo gli occhi, annuì.
Dopotutto...
era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.
Dopo
essere stato visitato dai medici, avere conosciuto il chirurgo che lo aveva
operato, avere ricevuto un abbraccio in lacrime da sua sorella, uno
stritolatore da mrs. Hudson e avere assistito a come
quest’ultima convinceva Sherlock a dormire almeno qualche ora – rigorosamente
sulla poltrona della camera, dato che tutti i tentativi della donna di farlo
tornare con lei a Baker Street erano andati in pezzi contro la cocciutaggine
del detective – John si era addormentato di nuovo, concedendo al proprio corpo
tutto il riposo di cui aveva bisogno.
Quando
si risvegliò era ormai il tramonto, Sherlock dormiva ancora e qualcuno aveva
ritenuto opportuno rimuovergli la mascherina d’ossigeno. A quanto pareva,
respirava bene anche senza.
Si
guardò intorno e puntò sul comodino alla propria destra il telecomando del
piccolo televisore a parete.
Prima
di prenderlo, però, fece un controllo generale di quanto il suo cervello avesse
giovato del riposo concessogli. Mosse prima le dita delle mani, tutte e dieci,
cercando di non forzare troppo la destra per non spostare la flebo di
fisiologica che gli avevano inserito nella vena sul dorso della mano. Alzò poi
entrambe le braccia parallelamente, notando con piacere di riuscirci. Mosse
infine le dita dei piedi sotto le coperte e girò la testa a destra e a sinistra,
constatando che tutto sembrava essere tornato al proprio posto.
Avrebbe
tentato anche di parlare, probabilmente, ma aveva paura di svegliare Sherlock.
Per quei pochi minuti che lo aveva visto gli era sembrato tremendamente stanco
e non voleva assolutamente privarlo del sonno a cui si era infine arreso.
Allungando
il braccio quindi – e sentendo i punto su fianco tirare quando si mosse per
accompagnare il movimento – afferrò il piccolo aggeggio e rimase per un attimo
a fissare il comodino.
A
quanto pare era venuta della gente mentre dormiva, perché una piantina di
primule gialle aveva trovato posto accanto alla caraffa dell’acqua e al
relativo bicchiere. Sul biglietto, scritto a mano, un “rimettiti presto (ci servi per tenere a bada il geniaccio)! Anderson -
S. Donovan” lo fece ridacchiare silenziosamente.
Accanto
alla piantina c’era poi una confezione che conosceva bene, proveniente dal pub
in cui ogni tanto si rifugiavano lui e Greg quando decidevano di passare una
serata a bere birra, mangiare panini e a lamentarsi di Sherlock. Sulla carta
marrone, con una penna a sfera era stato scritto un “so quanto fa schifo il cibo dell’ospedale. Goditelo. Greg”.
Un
pacchettino di cioccolatini era quello che aveva lasciato Molly, invece, con un
bigliettino allegato che diceva semplicemente un “rimettiti presto! Ti voglio bene. Molly”.
Mrs.
Hudson non aveva lasciato biglietti, ma l’odore dolce della sua torta di mele
gli colpì piacevolmente il naso non appena tirò su un lembo della carta che la
ricopriva.
Non
avrebbe mai ringraziato abbastanza quella donna, lo sapeva.
Mycroft non aveva portato niente di nuovo, ma si
era premurato di fare irruzione nel loro appartamento – ma più probabilmente lo
aveva fatto entrare mrs. Hudson – e gli aveva portato
il suo notebook, su cui era stato lasciato un biglietto scritto in
un’eccepibile grafia: “Sarebbe perso
senza il suo blogger. Mycroft Holmes”.
Gli
sorse spontaneo un sorriso. Fratelli maggiori, non cambiavano mai.
Interiormente
grato per tutti quei pensieri lasciati per lui, prese il telecomando e lo puntò
verso la televisione, togliendogli la voce non appena si accese. Girò qualche
canale poi, trovato quello che gli interessava, guardò le immagini che il
telegiornale stava passando.
Il
solo pensiero di essere stato all’interno di quel groviglio di acciaio gli
faceva salire la nausea. Il cameraman stava mostrando l’interno del tunnel,
accompagnato dai vigili del fuoco, ed il giornalista incaricato di fare il
reportage indicava freneticamente i vagoni distrutti del treno, parlando di
cosa non riusciva a capirlo, dato che nel leggere il labiale non era mai stato
bravo. Ne guardò qualche altro minuto poi, semplicemente, spense il televisore.
Vedere
da fuori quello che lui aveva provato sulla pelle lo infastidiva troppo. Gli
chiudeva lo stomaco in una morsa e gli troncava il respiro nei polmoni.
Probabilmente la sua analista ci sarebbe andata a nozze.
« Probabilmente sì ».
Sussultò
nel sentire la voce di Sherlock tagliare in due il silenzio, leggendogli come
al solito nella mente ed indovinando perfettamente ciò che stava pensando.
Lo
guardò alzarsi dal divano, i ricci neri spettinati ma gli occhi vigili e
riposati come li aveva visti ogni mattina da quasi due anni a quella parte.
Gli
si avvicinò a grandi passi, fermandosi a fianco del letto ed osservandolo
indagatore, nel tentativo di percepire ogni piccolo segnale, segno o chissà
cos’altro potesse indicare al detective le sue condizioni di salute. John
glielo lasciò fare.
« Perché sono
sempre io quello che finisce all’ospedale? » scherzò, riuscendo pian piano a ritrovare
la capacità di parola. Prova voce: superata!
Ma
Sherlock non era in vena di scherzi.
John
incatenò lo sguardo ai suoi occhi azzurri, cercando – inutilmente – la causa di
quell’espressione contrita. « Cosa c’è, Sherlock? » chiese poi, serio.
L’altro
sospirò, chiudendo gli occhi un secondo per poi riaprirli di nuovo.
« Ho un cuore, John
» gli disse poi,
tono grave, voce bassa. Come se si vergognasse. Come se se ne pentisse. Come se
lo rifiutasse.
Lo
stomaco di John si contrasse di nuovo, ma lui lo nascose bene. Voleva fare una
cosa ma non sapeva se Sherlock sarebbe stato d’accordo, se si sarebbe scostato,
se gliel’avrebbe permesso o meno.
Nel
silenzio, decise di rischiare. A qualche passo dalla morte le prospettive
cambiano ed i dubbi calano di dimensioni come iceberg che si sciolgono nel
lungo viaggio verso l’equatore.
Alzò
la mano sinistra – quella libera dalla flebo – e la poggiò delicatamente sul
petto di Sherlock. Quello non si mosse, lasciandolo fare senza il minimo imbarazzo
o dubbio.
John
sentì il battito del cuore di Sherlock contro il palmo della mano, e sorrise. « Lo sapevo già » disse.
« ...fa male » gli rispose
Sherlock: « voglio strapparlo
via ».
John
chiuse gli occhi e negò con il capo. « Non farlo... » mormorò. « Dallo... dallo a
me. Me ne prenderò cura per te » aggiunse, gli occhi incapaci di incontrare di nuovo
quelli azzurri dell’altro.
Almeno
finché la mano di Sherlock non raggiunse la sua, appoggiata ancora sul suo
petto. Solo allora John alzò di nuovo gli occhi sull’altro, oceano nel
ghiaccio, in attesa di una risposta che avrebbe potuto renderlo l’uomo più
felice del mondo o un animale malmenato che si lecca le ferite in un angolo.
Sherlock
strinse con la propria mano quella di John, intrecciando le dita a quelle del
medico.
« È tuo » gli rispose.
John
non poté far altro che sorridergli.
Poté
quasi giurare, sentendolo con la mano, che il cuore di Sherlock – ora suo – avesse appena perso un battito.
Epilogo
• un mese dopo
221B
Baker Street
Quando
riaprì gli occhi alla luce del nuovo giorno, il letto accanto a sé era sfatto
ma vuoto.
John
sospirò in un sorriso, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la mano sulle
lenzuola stropicciate, trovandole fredde. Sherlock doveva essersi alzato già da
un pezzo, come la maggior parte delle volte.
Trovando
la forza di alzare la testa dal morbido cuscino che aveva ospitato il suo sonno
per l’intera nottata, prese visione della sveglia sul comodino, scoprendo che
erano le nove meno un quarto del mattino. Sbadigliò e, finalmente cosciente di
sé, si mise a sedere.
Subito
il fianco si fece sentire. John vi portò sopra la mano, massaggiando i muscoli
intorno al taglio chirurgico ancora in via di guarigione nel tentativo di
scioglierli. Si rilassò un poco quando smise di fare male e, finalmente, si
alzò in piedi, recuperò le ciabatte ed uscì dalla propria cameradirigendosi giù per le scale, obiettivo
cucina.
Fu
lì che trovò Sherlock, seduto al tavolo con le gambe accavallate a leggere il
giornale.
Indossava
la vestaglia blu e solo quella, John
ne era sicuro. A volte, i livelli di pigrizia del suo coinquilino – avrebbe dovuto
cominciare a chiamarlo “compagno”, d’ora in poi? – sfioravano quelli di Mycroft, ma si era sempre guardato bene dal farglielo
notare.
« Buongiorno » salutò entrando.
«Mh... » fu l’onnicomprensiva risposta di Sherlock. John
sorrise, gli scostò i capelli dalla fronte con una mano e vi posò le labbra in
un piccolo bacio fugace.
Holmes
non si distrasse dalla lettura ma John non se ne curò affatto. Il detective e
le dimostrazioni d’affetto non erano termini adatti a stare nella stessa frase,
ma andava comunque bene così.
Dopotutto,
era Sherlock Holmes. Non riusciva a pensare a qualcosa di diverso dalla stramba
quotidianità affettiva ancora in via di costruzione.
« Hai già fatto
colazione? » chiese John
dirigendosi ai fornelli.
« Solo tè per me » rispose il moro
mentre John afferrava tutto il necessario per preparare il tè e metteva in
tavola fette biscottate e marmellata.
« Trovato qualcosa
di interessante? » domandò poi al
detective, riferendosi al quotidiano. Per una persona che non conosceva nemmeno
il nome dell’attuale Primo Ministro, la lettura del giornale significava che c’era
un caso interessante, dunque probabile lavoro in arrivo.
« La mia camera è
più spaziosa ».
Watson
si accigliò. « Prego? ».
« Sono sicuro che
la tua roba ci entrerebbe senza problemi » continuò imperterrito Sherlock, ignorando
la domanda implicita dell’altro.
John
non poté fare a meno di nascondere un sorriso soddisfatto. « Ed è tutto
scritto sul giornale? » ironizzò,
mettendo in infusione due bustine di tè direttamente nella teiera.
Se
Sherlock ebbe intenzione di rispondere, probabilmente gli fu impedito dal
doppio suono del campanello. Il postino, decifrò John, che con un “vado io” – abbastanza
scontato, in realtà, dato che Sherlock non si sarebbe comunque sprecato ad
alzarsi per andare alla porta – John scese velocemente le scale, salutando il
portalettere e ricevendo la solita montagna di posta.
Ritornando
al piano superiore, la scorse velocemente. A parte le bollette da pagare,
praticamente immancabili, una cartolina da Dublino attirò la sua attenzione. La
girò, e nel leggere la calligrafia infantile con cui era stata scritta sorriso
rincuorato; Alice era alla sua prima gita scolastica fuori porta e, a quanto
diceva, aveva scelto per lui la cartolina più bella del negozio.
Avrebbe
dovuto ringraziarla, magari telefonandole.
Continuò
a scorrere le buste, incontrandone una che portava lo stemma della BritishArmy. La aprì alla bene e
meglio.
Insieme
ad una lettera scritta a mano che lesse solo sommariamente vi era la fotografia
di un gruppo di soldati, tra i quali spiccava Edward Miller. Era appena tornato
al reggimento e aveva chiesto esplicitamente di essere trasferito al 5thNorthumberlandFusiliers;
richiesta accettata, considerando che il plotone apparteneva a quella
compagnia. Lo informava inoltre di essere appena rientrato dall’infortunio, che
la spalla stava benone e che aveva rinunciato a partire. Lui e la sua ragazza
avevano parlato di matrimonio, dunque voleva rimanere in Inghilterra per farsi
una vita, magari una carriera nell’esercito.
Sorrise
di nuovo, arrivando nel frattempo al piano superiore. Finché non si trovò fra
le mani una busta strana, con l’effige di una... culla?
« Sherlock? » chiamò dall’ingresso,
chiudendo la porta dietro di sé con aria decisamente allibita.
« John? » si sentì
rispondere dalla voce profonda dell’altro, segno che lo stava ascoltando.
« Nella posta di
oggi c’è l’invito ad un... battesimo? » borbottò stranito, leggendo velocemente
il biglietto di cartoncino: « ...un battesimo fra quattro mesi, per giunta. Chi è
Nicholas Ryder? » domandò.
Sherlock,
alzatosi per spegnere il bollitore del tè, sorrise appena nel versarlo in due
tazze.
« Sherlock, perché
il pargolo si chiamerà “John Sherlock”? » chiese John, alzando gli occhi dal
biglietto quando dall’altro non venne risposta: « Sherlock? ».
« Cosa ti fa
pensare che io ne sappia qualcosa, John? » ironizzò il detective con un sorrisetto
furbo, avvicinandosi all’altro e porgendogli una delle due tazze di tè.
Watson
lo guardò con un sopracciglio sollevato: « preferisci che ti risponda prima di
mandarti al diavolo o posso togliermi subito la soddisfazione? ».
Sherlock
nascose un sorrisetto divertito sul bordo della propria tazza, bagnandosi le
labbra con il tè. Davanti allo sguardo di John che non ammetteva silenzi
programmati o cambi repentini di discorso, alla fine capitolò.
« Beh, trovo che
sia una scelta di nomi oculata. Oltre che lusinghiera, certo. “John S. Ryder” suona bene » commentò, impedendo con la frase
successiva la risposta che John aveva già sulle labbra: « e poi, l’alternativa
era Marcus» disse,
sottolineando il nome con una sorta di scherzoso disprezzo.
John,
ormai conscio di essere entrato nella tana del lupo con tutto il braccio e non
solo con la mano, semplicemente lasciò perdere. Bevve qualche sorso di tè,
appoggiò tazza e posta sul tavolo di fianco al detective e, approfittando della
vicinanza dell’altro per rubargli un bacio, si diresse a passo svelto verso
camera sua.
1.
"PassingAfternoon"
è il titolo di una canzone di Iron & Wine. È la
OST di chiusura dell'episodio 4x16 di Dr. House ("Il Cuore di
Wilson") e, da quando l'ho rivisto per raccogliere ispirazione, anche di
diritto la OST ufficiale di questo capitolo.
2.
Sherlock Holmes, nei lavori originali di Doyle, è un
drogato. Nella serie della BBC il duo Mofftis ha
deciso di fargli superare la dipendenza, ma tracce del fatto che comunque lo
fosse sono visibili in "Uno Studio in Rosa" (quando Lestrade è nel
loro appartamento con la scusa di una retata antidroga) e anche nell'episodio
pilota mai andato in onda (in cui è lo stesso Sherlock ad ammettere che il
vizio di drogarsi gli era passato da poco).
In
particolare, Sherlock (di Doyle) era solito cadere in
profondi stati depressivi quando era senza casi da risolvere, e riusciva ad
iniettarsi in vena dosi di cocaina e/o morfina anche 3 volte al giorno.
3.
È un gioco di parole con il significato del nome "Joy", che significa
"gioia"
4.
Brevemente: Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi, divise la mente umana
in tre parti principali, ovvero "Es",
"Io" e "Super-Io".
Mentre
il Super-Io è l'interiorizzazione delle regole morali apprese dai genitori
durante lo sviluppo (distinzione fra giusto e sbagliato, buono e cattivo...), e
l'Io è una sorta di "sistema di controllo" che permette all'individuo
di bilanciare la propria personalità in relazione alla realtà e alle regole
sociali, l'Es è la parte del subconscio completamente
slegata dalla logica; è puro impulso primitivo, che secondo Freud si libera del
tutto durante il sonno (perché nel sonno si è soggetti ad un minor controllo
razionale ed inibitorio).
5.
A scuola di Medicina (da Zia Wikipedia e con la
gentile partecipazione del dr. House).
-
la Dialisi è un macchinario che ripulisce il sangue. Vengono applicati due aghi
sul braccio del paziente, uno per il sangue in entrata e uno per quello in
uscita; il sangue passa in questo macchinario che ne separa i componenti,
pulendolo dalle scorie, per poi "ricomporlo" e rimandarlo in circolo
nel corpo.
-
il Bypass aorto-coronarico non è altro che una
circolazione extra corporea del sangue per escludere il cuore. Vengono
collegati dei "tubicini" alle due principali arterie del cuore (Aorta
e Coronaria) e questo continua la sua circolazione senza passare dal cuore
grazie ad una macchina che ne mima la funzione. Il cuore, in quel lasso di
tempo, ovviamente non batte.
-
Il coma indotto (o farmacologico, o famaco-indotto) è
uno stato di coma provocato dai medicinali. L'attività del cervello è ridotta,
durante il periodo di coma, e teoricamente non dovrebbe esserci fase REM,
dunque niente sogni. Ma non ho raccolto abbastanza dati sull'argomento, dunque
prendetelo come necessità di trama ;D