Desclaimer: Sherlock, John, e
tutti gli altri personaggi della serie sono proprietà di Arthur Conan Doyle prima, e di Moffat e Gatiss dopo. Io non scrivo per scopro di lucro ma qualcuno
deve darmi una botta in testa, perché se continuo a creare cose di questo tipo
è un male per tutti.
Note:
Questa “cosa”, perché non ho il coraggio di chiamarla “fanfic”,
mi è stata ispirata da diversi telefilm – oltre all’insana passione per gli action movies di serie B.
Prima di tutto, le due
puntate a mio parere più belle di Dr.
House, le 4x15 e 16 (“La Testa di House” e “Il Cuore di Wilson”).
Poi, l’episodio 9 di Angel Beats
(“In Your Memory”).
Infine, le puntate 3x15,
16 e 17 di Grey’s Anatomy
(“Camminare sull’Acqua”, “Annegare sulla Terraferma” e “Una Specie di Miracolo”).
Il titolo è preso dalla
canzone “Keep Breathing” di
Ingrid Michaelson, che eleggo come ufficiale colonna
sonora della fic.
Saranno 4 capitoli e se l’angst non lo vedrete nei primi, negli altri due ve lo
troverete persino nei capelli. Vi ho avvertiti.
È meglio se dico, inoltre,
che userò personaggi miei ma non nei ruoli principali (lo dico perché
sono una di quelle persone che non li sopporta XD)
Ah, e infilerò un po’ di
simbolismo qui e là, dunque... lo so
che è una noia leggere le note a fondo pagina, ma questa volta potrebbero
servire, ok? È una questione di visione d’insieme (?).
A chi vorrà farsi del
male gratuitamente leggere, buona lettura ♥
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ALL WE CAN DO
(is keep breathing)
Venerdì 3 Marzo – parte 1
• The Tube; Lambeth Station,
h. 9:30 am*
Erano
le nove e trenta del mattino di un temperato venerdì 3 marzo.
Cosa
strana, per Londra. A quanto pareva un anticiclone piuttosto insperato era
riuscito ad allungare i suoi influssi fino alla Gran Bretagna facendo godere ai
londinesi, dopo un febbraio freddo e spesso spazzato da piogge e nevicate, la
prima settimana di timido sole.
Alcuni
dicevano che era precursore della primavera. John credeva che da lì alla
primavera ne passasse, di acqua sotto i ponti, ma evitò qualsiasi commento al
giornale che stava leggendo in favore di un rapido attraversamento della
strada.
Era
venerdì e, con la giacca aperta per godere a sua volta di quel sole marzolino,
John Watson si infilò velocemente giù per le scale della metropolitana di Lambeth.
A
dire il vero, nonostante il bel tempo quella giornata non era cominciata per
niente bene.
Il
suo adorabile coinquilino aveva deciso
che, finché Lestrade non gli avrebbe passato un caso
di qualche tipo, aveva l’assoluta necessità di giocare al piccolo chimico.
Anzi, al piccolo speziale.
All’alba
di quella mattina era rientrato al 221B con un mazzo di fiori. Petali grandi,
fra il fucsia ed il lilla, stelo lungo... erano belli.
Sì,
beh, erano belli ma erano papaveri. E non papaveri normali: papaveri da oppio.
Per
i primi cinque secondi si era chiesto dove diamine avesse trovato dei papaveri
in marzo e, poi, come diavolo avesse fatto a trovare proprio quei papaveri. Poi aveva lasciato
perdere ed era scattato in piedi, chiedendo spiegazioni, e quello, con la
faccia d’angelo e la voce di uno che crede fermamente di non stare facendo
niente di male, gli aveva risposto che aveva visto un film interessante su Jack
lo Squartatore e voleva sintetizzare il Laudano.(1)
Ora:
John era un soldato, un medico, ma soprattutto era coinquilino e amico di
Sherlock Holmes da quasi due anni, il che rende quasi banali le prime due
qualifiche citate.
Da
soldato aveva riconosciuto il papavero da oppio, da medico sapeva cos’era e a
cosa serviva il Laudano, da coinquilino ed amico gli impedì con tutta l’anima
di mettere nei guai lui e se stesso.
Sherlock,
bastano i pezzi di cadavere in frigorifero, aveva detto. Già quelli sono
illegali e Lestrade chiude un occhio, l’altro e pure
le orecchie. Non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno
ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga, aveva detto.
Il
moro si era voltato con espressione accigliata, osservandolo stranito. « Non faccio niente
di male » gli aveva
espresso con semplicità: « solo un
esperimento. Non è detto che lo usi » aveva aggiunto.
Scusami,
ma tendo a non credere ad un assuefatto di nicotina che non è eroinomane solo
perché ci è appena uscito, aveva risposto Watson. Da medico, Sherlock: dammi
quei fiori e trovati un altro passatempo.
E
questa era stata la fine della loro conversazione in toni normali. Dopo erano
passati gradualmente ad un sempre più elevato numero di decibel, tanto che mrs. Hudson era salita per vedere cosa stesse succedendo –
e per avvertire che stavano praticamente svegliando tutto il vicinato, dato che
erano le sette e un quarto.
John
aveva urlato di dargli quei fiori o se li sarebbe presi con la forza.
Sherlock
aveva sbottato che era un progetto ambizioso, da parte sua, ma che non ci
sarebbe mai riuscito per via della vecchia ferita alla spalla.
John
allora aveva risposto che aveva anche le gambe, e quelle erano sane.
Sherlock
aveva riso, dicendo che non ne aveva il coraggio, ma soprattutto il cuore.
John
gli aveva “gentilmente” ricordato che era stato in guerra, il cuore era in
grado di gestirlo.
Sherlock
aveva riso di nuovo.
John
aveva definitivamente perso la pazienza.
Certo,
si erano praticamente presi a pugni e lui si era guadagnato quattro dita della
mano di Holmes stampate sul polso in un livido bluastro, però almeno aveva
fatto il suo lavoro di “guardiano” liberandosi dei papaveri e si sentiva in
pace con se stesso.
E
adesso, praticamente dall’altra parte di Londra, anche dannatamente in colpa.
Se
ne era andato di casa senza dire una parola, scendendo le scale con passo
marziale e pesante, ignorando i commenti della padrona di casa e dirigendosi
dalla sua attuale ragazza, Kate, che per tutta risposta aveva deciso di
scegliere proprio quella mattina per piantarlo e dirgli di “tornare dal tuo
fidanzato, che sicuramente ha la tua attenzione molto più di me!” testuali
parole.
Chissà
perché era sempre colpa di Sherlock. Anche indirettamente. Anche a distanza. Wireless.
John
sospirò affranto sulla banchina della Bakerloo line, direzione Paddington.
Nonostante avesse dovuto essere arrabbiato con lui, per molti motivi che non
comprendevano solo il litigio, in realtà non faceva altro che crogiolarsi in
una colpa che sapeva di non meritarsi, ma non poteva farci niente.
Consapevole
che una volta salito sulla metropolitana non sarebbe stato più in grado di
usare il cellulare – in quei condotti non prendeva – lo estrasse dalla tasca
del cappotto e ne osservò lo schermo.
Per
un attimo si convinceva sempre che fosse Sherlock, a fare la prima mossa. Che
fosse l’altro ad ammettere i propri errori e a mandargli le sue scuse. Non
importava che telefonasse, tanto non lo faceva mai comunque; bastava un sms. Si
sarebbe accontentato.
Sarebbe
stato felice, John, per una volta. Per una volta non si sarebbe sentito lo
stronzo di turno, anche se aveva quasi sempre ragione.
Ma
sullo schermo c’era solo lo sfondo e lui, come al solito, si decise a scrivere
un sms all’amico per fargli delle scuse che, sempre come al solito, avrebbe
dovuto fare Sherlock a lui.
Era
diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.
“Mi dispiace per prima.” digitò: “Sono a Lambeth,
nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John” scrisse, inviandolo
subito prima che il rumore del treno in arrivo riempisse la galleria.
Ripose
il cellulare in tasca quando il convoglio si fermò e, aspettando l’apertura
delle porte, entrò nella pancia della metropolitana e si sedette sul primo
sedile disponibile. Fortunatamente a quell’ora i pendolari erano già tutti al lavoro,
dunque c’era relativamente poca gente.
Alzò
gli occhi sulla mappa delle fermate, seguendo con lo sguardo l’intera linea
fino a trovare Baker Street.
Sette
fermate e poi sarebbe finalmente tornato a casa.
Odiava
litigare con Sherlock.
• 221B Baker
Street, h. 9:30 am
Sherlock
Holmes se ne stava steso sul divano con una borsa del ghiaccio premuta sulla
spalla sinistra. Piccolo regalo d John. E si annoiava.
Lestrade sembrava essere in una nuova fase di
transizione psichica in cui molto probabilmente aveva preso la decisione di
provare a fare le cose per conto suo, dunque di cercare di smettere di chiedere
aiuto a Sherlock.
Ogni
tanto gli capitava. Si rendeva conto – inutilmente, pensava lo stesso Sherlock
– di non poter sempre telefonare a lui per risolvere i casi, ma allo stesso
tempo era anche consapevole che quei casi andavano oltre la sua capacità di
ragionamento.
Quindi
Lestrade ci provava, si bloccava, ci provava di nuovo
e, quando si rendeva conto di essersi bloccato ancora e sempre allo stesso
punto, si risolveva a chiamarlo.
Era
molto simile alle diete di suo fratello Mycroft. Ci
provava, a stare lontano dal cioccolato, ma poi ne aveva il bisogno e così lo
mangiava, consapevole di stare facendo uno sgarbo a se stesso ma perdendo
l’autocontrollo necessario a controllare i propri impulsi.
Fortunatamente
succedeva solo con il cioccolato. Considerando il lavoro che faceva, se perdeva
l’autocontrollo durante un meeting in Corea come minimo ci scappava la terza
guerra mondiale.
Rimaneva
comunque il fatto che finché Lestrade non si fosse
trovato in un cul de sac con il
caso in corso, la sua testardaggine gli avrebbe impedito di passarglielo.
Questo voleva dire niente da fare, ovvero noia.
In
più, ci si metteva anche John.
Si
sistemò meglio la borsa del ghiaccio sulla spalla, toccando cautamente la pelle
sotto alla vestaglia e sentendo un po’ di dolore sotto le dita.
Era
stato John a consigliargli la visione di qualche film per combattere almeno due
ore di tedio esistenziale, e seguendo questo suo spudorato consiglio – doveva
proprio essere arrivato all’ultima spiaggia – aveva noleggiato un dvd su Jack
lo Squartatore.
C’era
il Laudano, e per passarsi il tempo aveva pensato che fosse una cosa
interessante cercare di sintetizzarlo. Magari gli sarebbe stato utile, in un
prossimo futuro, non si poteva mai dire. Dopotutto avevano già cercato di
avvelenarlo una volta, e se era vero che l’organismo si abituava ai veleni se
vi era un’ingestione costante di piccole quantità assolutamente sicure per la
salute, allora il Laudano poteva davvero fare al caso suo.
Da
un contatto aveva avuto persino i papaveri da oppio, per essere sicuro di avere
dell’oppio autentico ed evitare di ritornare nel giro di spacciatori che aveva
lasciato tempo prima (non tanto, ma comunque passato).
Gli
sembrava di aver fatto tutto con cura. Con minuziosità. Tutto per evitare che
John potesse trovare appigli con cui fargli una delle sue solite filippiche su
ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, sugli esperimenti innocui e su
quelli che lui chiamava “potenzialmente pericolosi per la salute umana”, salvo
poi catalogarli buttali-via-e-basta quando lui gli
aveva fatto notare che l’uso dell’avverbio “potenzialmente” significava che non
lo erano del tutto o nell’immediato.
Ovviamente
aveva pensato troppo in grande.
John
non aveva cercato il pelo nell’uovo obiettandogli la purezza dei materiali di
base, ma si era semplicemente fermato sul guscio dello stesso uovo dicendogli “non
ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora,
qualsiasi cosa che assomigli ad una droga”.
Fissando
gli occhi sul soffitto, Sherlock sospirò.
Non
era sua intenzione litigare. Non lo era stato all’inizio e non lo era stato
nemmeno dopo, quando effettivamente John aveva perso la pazienza e aveva alzato
la voce. Lui voleva solo passarsi il tempo con un esperimento interessante.
Arricciò
le labbra, disturbato dal pensiero che John fosse arrabbiato con lui, ma non
gli diede peso.
Sapeva
esattamente come sarebbe andata. Ancora prima di tornare a casa, John avrebbe
ceduto ai suoi sensi di colpa e gli avrebbe chiesto scusa – ovviamente a
ragione. Probabilmente per sms.
Lui
non avrebbe dovuto fare altro che cercare dei nuovi papaveri da oppio e
proseguire con il suo esperimento, sopportando come unica cosa i sospiri
rassegnati di John – cosa che già faceva benissimo.
Sì.
Sarebbe stato come ogni volta.
Quasi
predisse, addirittura, il momento in cui il suo cellulare squillò un messaggio.
Ma Sherlock non si mosse per due ragioni: la prima, era che sapeva
perfettamente chi era, ovvero John che si scusava; la seconda, era il fatto che
il cellulare fosse sul tavolo di fianco ai loro notebook, il che voleva dire
alzarsi dal divano.
Avrebbe
aspettato il rientro di John per farsi passare il cellulare e leggere le scuse.
Sempre se fosse tornato in tempo breve – quasi sicuramente prima delle dieci e
mezzo, secondo i suoi calcoli, ma era sicuro solo per l’ottanta percento.
Seccato,
soffiò dal naso.
Odiava
litigare con John.
• The Tube;
Waterloo Station (underground), h. 9:34 am
Il
treno si fermò alla stazione di Waterloo, facendo scendere e salire i vari
passeggeri. Rimase fermo per qualche minuto poi, con il solito segnale che
avvertiva della chiusura della porte, riprese la corsa verso Enbankment, la stazione successiva.
John
si guardò attorno distrattamente, distogliendo lo sguardo dal giornale che
aveva riaperto per passarsi il tempo durante la corsa. Non erano molti i
passeggeri che attiravano la sua attenzione, se non una madre con sua figlia e
l’aria famigliare di un ragazzo con la divisa dell’esercito, la stessa che
aveva indossato anche lui per tutta una vita.
Scostando
subito l’attenzione dal ragazzo, e riportandola sul giornale, sorrise
amaramente.
Quando
era tornato dall’Afghanistan aveva avuto per molto tempo la convinzione di
essere ormai alla frutta. Era tormentato dagli incubi e dal proprio cervello,
dato che soffriva di una zoppia inesistente, ma sentiva ancora quella pulsione
sconsiderata che lo aveva portato ad arruolarsi subito dopo la laurea, la
stessa voce nella testa che gli presentava la vita militare come l’unica
alternativa, come l’unica via di fuga.
A
volte, nel cuore della notte, quando Sherlock non suonava il violino o non lo
teneva sveglio con i suoi ragionamenti... la sentiva ancora.
Sussurrava
nell’ombra. Gli mostrava, come una musa, scenari in cui si vedeva mollare di
nuovo tutto e andare a dimostrare ai responsabili di reclutamento che non era
un invalido, uno zoppo, un uomo inutile.
Si
vedeva con di nuovo addosso quella divisa, di nuovo con le mani imbrattate di
sangue che suturavano una ferita da arma da fuoco in mezzo alla polvere, di
nuovo a scostare con lo stivale sabbia e sassi durante il turno di guardia.
Sorrideva,
in quei momenti. Sorrideva perché, complici i suoi pensieri, credeva davvero
che una cosa del genere fosse ancora possibile.
Poi,
pensava a Sherlock. Rifletteva. Usava la mente, per una volta seguendo le
istruzioni del suo amico... e allora smetteva semplicemente di vedersi addosso
quella divisa e, con la mente, la riponeva dov’era in realtà sempre rimasta: in
una busta di plastica dentro l’armadio.
Sherlock
sarebbe morto di sicuro, senza di lui. Se lo sentiva.
Un
giorno avrebbe aperto il frigorifero, affamato e al limite della propria forza
fisica, sperando di trovare una spesa che in realtà nessuno aveva fatto, e
sarebbe morto di fame.
Oppure
avrebbe sintetizzato tutta una mensola di veleni e una mattina, annoiato dalla
mancanza di un caso, ne avrebbe provato uno e ci avrebbe lasciato la pelle.
Altrimenti
se lo vedeva di nuovo a prendere una pillola potenzialmente mortale solo per
provare la sua intelligenza. O catturato in un altro giochino con Moriarty e svariati chili di esplosivo. O cadavere da
qualche parte, per strada, ucciso da chissà cosa o chissà chi, morto per chissà
cosa e chissà quanto, spirato per chissà quale causa naturale o umana o aliena.
Tutti
scenari che, per quanto improbabili, una volta conosciuto Sherlock Holmes
acquistavano una loro sconcertante concretezza.
Scosse
il capo, ridendo di se stesso. No, non poteva andarsene. Alla fine finiva
sempre per dirselo.
Aveva
paura di pensare dove sarebbe finito Sherlock, senza di lui. E non lo diceva
per egocentrismo.
Mentre
la metropolitana prendeva velocità sotto di lui, staccò la mano destra dal
giornale per estrarre il cellulare dalla tasca. Non c’era nessun messaggio,
nessuna risposta e nemmeno campo; lo sapeva, non lo aveva sentito né suonare né
vibrare, tuttavia la speranza che Sherlock avesse risposto al suo sms, per
quanto minima, aveva comunque un suo posto speciale in un angolo della sua
mente e, anche se odiava ammetterlo, nel suo cuore.
Così
come lo aveva Sherlock.
Sospirò.
Accidenti John Watson, passi da un casino
all’altro pensò, parlando silenziosamente con se stesso.
Poi,
all’improvviso, tutto cambiò.
Avevano
lasciato da poco la stazione di Waterloo, giusto qualche minuto, forse due, e
il treno prese a vibrare violentemente sotto di loro. Tutti gli occupanti del
vagone si guardarono intorno, spaesati.
Se
fossero stati fermi e non in movimento costante, John avrebbe detto che si
trattasse di un terremoto a giudicare dalla violenza delle scosse che aveva il
vagone. Oscillava persino, scuotendo i passeggeri che cominciavano a
preoccuparsi, ad esclamare parole di sorpresa e, perché no, di paura.
Poi,
la frenata improvvisa. Come passare da 100 a 0 nell’arco di pochi secondi. Fu
preceduta da un forte scossone, poi da un sibilo acuto e fastidioso di acciaio
che stride contro altro acciaio, dopodiché l’accelerazione del vagone si fermò
di botto, sbalzando tutti i passeggeri in avanti con una forza inaudita.
Ma
non finì lì.
Subito
dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a
causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso,
nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri
che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al
convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio
nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la
mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era
inizialmente accomodato.
Si
sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli
occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
Un
rumore fortissimo coprì gli altri suoni sentiti in precedenza, il suo corpo
veniva sballottato avanti ed indietro senza direzione alcuna e lui perse
completamente il senso dell’orientamento quando la mano gli si staccò, per
forza di cose, dal suo appiglio in metallo.
Accompagnato
dall’odore di bruciato e dalla sensazione di stare per morire, pensando a tutto
e a niente e ad Harry e a sua madre e a Sherlock
in quegli ultimi istanti, in quei momenti in cui “Cristo, non sono
sopravvissuto alla guerra per morire così!”, lasciò andare la presa anche sulla
propria coscienza.
Il
buio lo inghiottì.
• TfL Headquarters, BCV, h. 9:40 am
Michael
Crew, trentanovenne di un metro e ottanta con tanti
capelli neri e qualcuno bianco, era comodamente seduto nel suo ufficio e stava
mangiando un cornetto alla crema con una mano mentre controllava la posta con
l’altra.
Pubblicità,
pubblicità, lettera di raccomandazione. Pubblicità, curriculum, curriculum,
avviso di garanzia (« oh, accidenti...
il caso Peters »), pubblicità, pubblicità, avviso di
pagamento, lettera della banca, curriculum, curriculum, morso al croissant e relativa
goduria gustativa, pubblicità e pubblicità. Diede un altro morso alla colazione
come degna chiusura, scrollandosi qualche briciola dalla cravatta blu a trama
incrociata.
Buttò
direttamente le lettere di pubblicità nel cestino senza nemmeno aprirle, mise
l’avviso di pagamento e l’avviso di garanzia di fianco al computer e impilò i
curriculum sopra agli altri dieci che erano arrivati negli ultimi sei giorni.
Avrebbe dovuto dire alla segretaria di aprirli, rispondere qualcosa tipo “siamo
spiacenti ma non è sufficientemente qualificato e/o non ci sono posti
disponibili per la mansione per cui ha fatto domanda” e rispondere a tutti di
cercarsi un altro lavoro. Si dimenticava sempre, maledizione.
Aveva
appena terminato il croissant e stava per appoggiare le labbra sulla sua prima
tazza di tè della giornata – English Breakfast con un goccio di latte, da vero
inglese! – quando il trillo violento del telefono lo distolse dalle sua intenzioni.
Sbuffando,
prese malamente la cornetta.
« Ufficio BCV, Crew » rispose seccato
con il proprio cognome.
Rimase
in ascolto per qualche istante, massaggiandosi con pollice ed indice della
sinistra l’attaccatura del naso. « Arriva al dunque, cosa diamine è
successo?! » sbottò poi, come
ogni capo ufficio che si rispetti fa quando gli impiegati interrompono la solita
routine mattutina.
Ad
un certo punto, sgranò gli occhi. « Cos... cos’hai detto che è...? » balbettò,
incapace di accettare ciò che gli era appena stato detto dall’altro capo della
linea.
Probabilmente
gli venne ripetuto, perché Michael Crew sbiancò.
Lasciò
penzolare la cornetta dalla scrivania, uscendo di corsa dall’ufficio e
cominciando a fare lo slalom fra i vari corridoi della struttura fino ad
arrivare all’ufficio interessato, quello del movimento ferroviario della Bakerloo line, aprendo la porta
con un botto e mettendosi direttamente di fronte alla persona che solo pochi
secondi prima stava parlando con lui al telefono.
« Ripetimelo... » soffiò, a dir
poco terrorizzato e a tanto così dal panico.
L’impiegato,
fissando alternativamente il capo e i due compagni d’ufficio se possibile
ancora più pallidi di lui, deglutì.
« È... È deragliato
un convoglio sulla Bakerloo, signore. Fra Waterloo ed
Enbankment... signore » sibilò. Sembrava sul punto di
svenire. O di vomitare.
Michael
Crew alzò lo sguardo, smettendo di respirare. Solo in
quel momento si rese conto che tutti i sacrosanti telefoni del piano, in tutti
i sacrosanti uffici, stavano squillando come impazziti e i dipendenti degli
uffici a fianco che lo avevano visto passare si erano affacciati alla porta, in
attesa di sapere cosa fare, o anche solo di una conferma.
Deglutì
a vuoto.
« Chiamate le forze
dell’ordine... » biascicò,
riuscendo tuttavia a farsi sentire a causa del silenzio di tomba caduto fra le
persone presenti: « ...avvertite i
capostazione di Waterloo ed Enbankment di negare
l’accesso ai pendolari, dite loro di svuotare le banchine e di collaborare con
la polizia... » poi, mentre
parlava, prese coraggio: nei suoi occhi un lampo furioso di rabbia mista a
panico, nel suo sangue un livello di adrenalina che avrebbe fatto risorgere un
morto: « voglio... anzi
no, pretendo sulla mia scrivania i
tabulati di movimento della Bakerloo. Spostamenti
civili, treni, carrelli a motore, spostamenti del personale, tutto! » esclamò, e ogni volta che parlava
qualcuno annuiva e si attaccava al telefono.
« Chiamate gli
addetti alla manutenzione della linea e chiedete loro di entrare nei tunnel e
sincerarsi delle loro condizioni strutturali. Dobbiamo sapere se ci sono
cedimenti, crepe, pezzi di calcinaccio staccati, scricchiolii, qualsiasi cosa!
Voglio sapere anche quanti ragni ci sono attaccati al muro, tutto chiaro?! ».
« Sì! » rispose una voce
femminile, prima che tutti si disperdessero e tornassero nei rispettivi uffici.
Mentre
usciva a passo spedito dall’ufficio del movimento per tornare nel proprio,
Michael Crew si ripeteva di non credere ai presagi.
Non
credeva nella stranezza di una giornata così mite ad inizio marzo, non credeva
nel gatto nero che gli aveva attraversato la strada quella mattina uscendo dal
vialetto di casa, non credeva nel sale che aveva rovesciato la sera prima a
cena e non credeva che fosse stata tutta colpa della scala sotto cui era
passato prima di entrare in sede.
Shit happens, dicevano.
...Ora
ci credeva.
• New Scotland
Yard, h. 9:45 am
Il
Detective Inspector
Lestrade digitò le ultime frasi del rapporto,
rileggendo il periodo e annuendo con soddisfazione. Controllò una seconda volta
la forma lessicale, la correttezza dei termini specifici e l’elenco delle varie
procedure effettuate. Controllò che tutti i documenti descritti fossero
effettivamente presenti nel fascicolo del caso e, una volta stampato, firmò il
rapporto e lo allegò al faldone.
Indagini
concluse, e questa volta aveva fatto tutto da solo. Il colpevole aveva
confessato, si era guadagnato il suo avvocato d’ufficio e tutta quella storia
sarebbe finita in tribunale, cioè fuori dal suo ufficio, dalla sua sezione e
dalla sua responsabilità.
Sorrise
soddisfatto, infatti, richiudendo il fascicolo. Lo mise sul mobile accanto alla
posta in uscita e, stiracchiandosi le spalle e le braccia, si conferì due
minuti di pausa prima di mettere le mani sulla posta in entrata.
Non
fece nemmeno in tempo ad alzarsi per andare a prendersi un caffè, che Sally
Donovan entrò nel suo ufficio come una furia, aprendo la porta senza bussare e
precipitandosi davanti alla sua scrivania.
Ora,
va bene che le ante erano di vetro, ma non gli sembrava che bussare fosse
passato di moda.
« Sergente, non
crede di dover... »
« Ispettore,
abbiamo un problema » lo interruppe
però la donna, palesemente agitata e con il respiro pesante.
Poche
volte Gregory Lestrade aveva visto quell’espressione
in faccia alla collega. L’ultima volta se la ricordava ancora. Era novembre e
più di quarantamila studenti avevano improvvisamente deciso che una
manifestazione pacifica non bastava, per far sentire la loro voce.(2)
Lestrade le prestò ascolto.
« È... deragliato
un treno della Tube. Sulla Bakerloo. Tra Waterloo ed Enbankment » disse lei, seria e professionale nonostante fosse
palese che la notizia la disturbasse.
Se
lo ricordavano tutti l’attentato terroristico alla metropolitana, da quelle
parti. E non era un bel ricordo.(3)
Il
cervello di Greg andò subito a cercare, nella memoria, la piantina di Londra e
localizzò il punto della linea dov’era avvenuto l’incidente. Interiormente,
rabbrividì.
« Sotto al
Tamigi... » mormorò, Donovan
annuì in silenzio.
« Chiama l’anti-terrorismo
e l’unità anti-crisi » disse poi,
alzandosi dalla sedia e recuperando il cappotto: « e dai ordine ai comandi di polizia
più vicini di chiudere le strade per le due stazioni, la linea ferroviaria
della Upperground in parallelo e di fare sgombrare
gli edifici pubblici delle vicinanze. Dì a Foster di contattare i paramedici e
di creare un collegamento costante via radio fra noi, gli ospedali e la TfL, soprattutto
la TfL » ordinò, incamminandosi nel contempo fuori
dalla stanza e lungo il corridoio già più confusionario del solito: « voglio un loro
responsabile ad Enbankment, vado lì anche io. Raggiungimi
appena puoi » le disse,
andandosene senza nemmeno aspettare il cenno d’assenso della donna, che ritornò
indietro cominciando ad urlare ordini a destra e a manca.
Uscendo
da New Scotland Yard ed infilandosi in una delle automobili dirette a sirene
spiegate verso il centro della città, Lestrade pregò
silenziosamente qualsiasi entità superiore in ascolto che fosse solo tutto fumo
e niente arrosto.
Aveva
una brutta sensazione. Sperava veramente di sbagliarsi.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment, h. 9:42 am
Era
steso a terra in mezzo alla sabbia, gli occhi puntati al cielo. Si era
dimenticato come respirare.
Si
stava dimenticando anche come vivere.
Watson! Watson!!
Lo hanno colpito,
chiamate un medico!
John, devi resistere,
ok? Ti portiamo via da questo inferno, ma devi resistere! John!
Chi cazzo è
stato?!
Siamo in guerra,
per l’amor di Dio! Secondo te chi è stato?!
Watson! Watson
resisti!
John, John
guardami. Guardami!
È di un
kalashnikov... dobbiamo muoverci o non ce la farà!
Sentiva
le voci distanti dei suoi commilitoni, come se fossero all’estremità opposta di
un lungo e vuoto tunnel e rimbombassero da lontano, da giù in fondo.
Fissava
il cielo, John, e con gli occhi che cominciavano a lacrimare per la luce forte,
sempre più forte e bianca, candida, sentì alcune mani togliergli la divisa,
toccargli il petto, le spalle, tenergli ferma la testa.
Dolore.
Luce. Dolore... luce.
Non
riusciva a respirare. Lui non respirava e quelle voci continuavano a chiamarlo.
“Lasciatemi”,
avrebbe voluto dire. Ma non riusciva nemmeno a parlare.
Lasciatemi
qui. Non si sta male, qui. In mezzo alla luce.
Poi,
le voci cambiarono.
Mamma! Mamma!
Cristo, ma cosa...
cosa cazzo è...
Oh Dio! Cristo,
Signore! Aiuto! Aiuto!!
Mamma, mamma,
mamma!
Urla,
gemiti, ansiti e lamenti. Lacrime. Pianti.
Era
steso a terra in mezzo a cocci di vetro, gli occhi puntati ad una lampada al
neon dalla luce fredda e instabile. Si era dimenticato come respirare.
Ma
quello non era l’Afghanistan.
Aprì
gli occhi completamente, ritrovandosi davanti la luce tremolane ed incerta di
un neon scoperto, a circa cinquanta centimetri di distanza dal suo viso. L’udito
era terribilmente ovattato, riusciva a sentire solo il proprio respiro nelle
orecchie, unito al battito del cuore, assordante. Era steso sul fianco destro
e, ne era sicuro, la sua guancia appoggiava sul pavimento scuro a scanalature
sottili della metropolitana di Londra.
Gli
tornò tutto in mente con una violenza allarmante.
Non
ci volle molto per farsi un’idea di cosa fosse successo.
Aprendo
del tutto gli occhi e mettendo bene a fuoco la sua situazione, mosse lentamente
la testa e si guardo intorno.
Non
sapeva come, ma era stato sbalzato praticamente in fondo al vagone, che sembrava
essere appena inclinato sulla destra dell’asse principale. Era disteso nel
punto in cui esso, probabilmente, era andato ad infilarsi sotto al vagone
precedente che ne aveva corrotto la forma, schiacciando il soffitto verso il
pavimento tanto che le ultime due luci al neon erano a meno di un matro dalla pavimentazione, da quanto erano rientrate.
E
John ci stava proprio nel mezzo.
Ebbe
subito l’istinto di togliersi da quel punto – un’irrazionale timore di rimanere
schiacciato – e, aiutandosi con le mani, strisciò all’indietro, togliendosi
dall’ “imbuto”.
Si
mise poi seduto, gradatamente. L’udito tornò quasi del tutto.
La
situazione attorno a lui era degna di uno dei film d’azione che guardava la
sera tardi, di sabato, quando rientrava a casa e magari Sherlock non c’era o
era in camera sua con la porta chiusa. Ne aveva visti molti basati su incidenti
ferroviari ma mai, mai avrebbe pensato di fare parte di uno di questi, un
giorno.
Eppure,
eccolo lì. Non poteva essere nient’altro.
Intorno
a lui, la maggior parte dei passeggeri era stesa a terra, incosciente. I vetri
dei finestrini erano quasi del tutto esplosi, solamente uno aveva resistito e presentava
solo un’intricatissima ragnatela di crepe. Per terra i cocci di vetro formavano
un campo di schegge taglienti e, fra di esse, macchie di sangue più o meno
abbondanti facevano da cornice a quello che era divenuto il suo incubo più
recente.
Seduto
a terra, ancora intontito dall’incidente e incapace di stabilire le proprie
condizioni fisiche e mentali, John Watson sentì la coscienza traballare.
Alla
sua destra, un soldato stava riaprendo gli occhi in quel momento.
Poco
avanti a lui, una bambina era inginocchiata sui frammenti di vetro temperato e
scuoteva la madre, pregandola di svegliarsi attraverso la pronuncia continua a
spaventata del suo nome.
Poco
più in là, infine, una ragazza era in preda al panico con un pezzo di metallo
infilato nella coscia, i jeans sporchi di sangue.
Loro,
erano le uniche persone che davano segni di vita.
No...
quello non era l’Afghanistan.
• 221B Baker
Street, h. 10:30 am
La
signora Hudson salì di fretta i diciassette gradini che separavano il pian
terreno dall’appartamento al primo piano, faticando per l’età ed ignorando l’anca
dolorante.
Arrivata
sul pianerottolo aprì la porta, riprendendo fiato e guardandosi intorno alla
ricerca dell’unico dei due coinquilini che sapeva essere presente.
E
che infatti trovò sul divano, gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento,
la borsa del ghiaccio che gli aveva dato almeno un’ora prima ormai sciolta.
Stava
pensando, probabilmente. Si sarebbe arrabbiato, ragionò la padrona di casa, ma non aveva scelta.
« Sherlock, caro? » chiese, in piedi
a poca distanza da lui.
Quello
non rispose.
Lei
tentò di nuovo. « Sherlock? » chiamò, più
agguerrita.
« Signroa Hudson, sto pensando. La pregherei di tacere » gli rispose
allora Sherlock, senza nemmeno aprire gli occhi.
Cosa
che mise la cara signora sul piede di guerra. « Penserà più tardi! Guardì qui! » si lamentò,
agguantando il telecomando della televisione e accendendola su di un canale a
caso.
Lo
speaker di un telegiornale stava parlando con tono nasale e conciso, leggendo
alcuni fogli che teneva in mano e che venivano costantemente sostituiti con
informazioni supplementari.
Bastò
la considerazione che erano le dieci e trenta del mattino, e che a quell’ora
non c’erano di certo telegiornali, a destare l’interesse dell’uomo sul divano.
Holmes
si mise seduto, lasciando che la borsa del ghiaccio cadesse sul tappeto. Fissò
gli occhi sul mezzobusto dai capelli trifolati chiuso in un colletto inamidato
e chiuso da una cravatta bordeaux.
« È un’edizione
straordinaria... » gli disse la
donna, il telecomando ancora in mano: « ...è così su tutti i canali. Credo che
sia successo qualcosa di grave » sentenziò.
« Alzi il volume,
signora Hudson » disse allora Sherlock,
ora completamente assorto da quella stranezza.
All’azione
della donna, la voce dello speaker si fece più chiara. « ...entità del danno. È un punto rischioso
per le squadre di soccorso, perché il tunnel passa direttamente sotto al
Tamigi, in una galleria sotterranea sovrastata da almeno sei metri d’acqua e
fanghiglia. Un solo cedimento potrebbe riempire il tunnel d’acqua. Ancora non
sappiamo se si può o meno parlare di attentato terroristico, ma le squadre di
New Scotland Yard sono già al lavoro per... ».
Sotto,
in una striscia in sovrimpressione che si spostava dal lato sinistro a quello
destro del teleschermo, una frase diceva: “incidente nella Tube, treno deraglia
sulla Bakerloo Line”.
« Waterloo ed Enbankment » sussurrò Sherlock, assottigliando gli occhi.
Mrs.
Hudson si voltò ad osservarlo. « Cosa, caro? » chiese, un poco distratta dall’ancorman.
« Sta parlando di
tunnel subacqueo, e l’incidente è avvenuto sulla Bakerloo,
c’è scritto. Le uniche fermate collegate da un tunnel sotto al Tamigi sulla Bakerloo Line sono Waterloo ed Enbankment » spiegò velocemente.
A
volte dimenticava che stava parlando con Sherlock Holmes, la persona che sapeva
a memoria persino i sensi unici e i divieti d’accesso di tutta Londra. Le linee
della metropolitana dovevano essere persino banali, da imparare a memoria, per
lui.
Stava
per dire qualcos’altro ma, come se fosse fatto apposta, il cellulare di
Sherlock prese a squillare. Non terminò il secondo squillo che Sherlock aveva
già accettato la chiamata e si era portato il telefonino all’orecchio.
« Sherlock Holmes » aveva risposto.
« Sono io » disse la voce famigliare di Lestrade dall’altra parte, semi-coperta da rumori di sirene
e di persone che gracchiavano ordini ed informazioni: « pensi di essere disponibile per le prossime
ore? » gli domandò, la
voce seria, di un tono che Sherlock non aveva mai realmente sentito.
« La metropolitana?
» domandò Holmes,
conciso.
Gli
sembrò quasi di vedere Lestrade annuire, dall’altra
parte della linea. « ci siamo trovati davanti ad una situazione
particolare. Mi servi... in fretta » gli disse, probabilmente mangiandosi una buona
parte d’orgoglio.
Cosa
che faceva comunque ogni volta.
« Arrivo » disse Sherlock,
chiudendo la telefonata e volando in camera a cambiarsi.
Preso
dalla foga, non lesse il messaggio che John gli aveva mandato, lasciando
semplicemente che l’avviso “un nuovo sms” rimanesse immobile sullo schermo del
telefonino quando se lo mise nella tasca del cappotto, uscendo di casa con la
solita fretta di chi ha, finalmente, qualcosa da fare per le mani.
~ to be continued...
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*
ho scritto i luoghi di riferimento in inglese per gusto personale, ma li spiego
per dare una mano a chi mastica poco la lingua.
-
la metropolitana londinese si chiama "London Underground"
(underground = sottoterra, sottosuolo) ma loro la chiamano "The Tube"
(il Tubo). Dunque, con "The Tube" mi riferisco alla metropolitana.
-
La TfL (Transport for London) è l'agenzia che si occupa dei servizi di
trasporto di Londra. Per la gestione della metro essa è divisa in 3 centri, quello
che controlla la Bakerloo Line
è il BCV.
-
La dicitura "Waterloo > Enbankment" si
riferisce al tratto di galleria fra le due stazioni citate.
1.
Il film è "From Hell",
dove Johnny Depp interpreta un ispettore Abberline
dedito all'oppio. Il Laudano invece è una sostanza ricavata mescolando l'oppio
in una soluzione di acqua ed alcool con l'ausilio di alcune spezie. E' tossica
in grandi quantità (anzi, è propriamente un veleno) ma in quantità minori da un
effetto allucinogeno. Molti artisti ed intellettuali dell'800 usavano berne
qualche goccia mescolato all'assenzio.
Ah,
non sperateci. In Italia è illegale ;D
2.
Riferito ai disordini causati dagli studenti per protestare contro l'aumento
spropositato delle tasse universitarie, il 12 novembre 2010.
3.
Il 7 luglio 2005, una cellula terroristica di Al Quaida
fa esplodere tre vagoni di tre diversi treni della metropolitana (due sulla Circle Line e uno sulla Piccadilly Line) e un autobus a
due piani. 56 vittime in totale.