♥ Missione convivenza ♥

di Hikari93
(/viewuser.php?uid=110541)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: A casa del nemico ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Sotto un'altra luce ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Litigi ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Pianificazioni ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Di colazioni e acquisti producenti ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Discorsetti illuminanti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Missione convivenza





Prologo


 

Image and video hosting by TinyPic

 





Era sembrata una giornata storta già dall’inizio.
Quando mi ero svegliato e avevo guardato fuori dalla finestra, la mancanza di nuvoloni troppo neri preannunciava una giornata piuttosto soleggiata. Non calda, ma tiepida perlomeno. Di certo, non mi sarei aspettato la pioggia scrosciante che si era scatenata non appena avevo messo piede fuori da casa e avevo sbattuto il portone con violenza. Avevo cercato le chiavi in tasca e contemporaneamente controllato l’orologio al polso, maledicendo il quadrante che, essendosi girato all’ingiù, mi impediva di vedere all’istante che ora fosse. Sapevo una sola cosa, però, e cioè che ero tremendamente in ritardo e che non esisteva il tempo materiale per accaparrare l’ombrello. Che, tanto per mettere la cosiddetta ciliegina sulla torta, era anche rotto, se non ricordavo male. Imprecai a denti stretti, rivolgendo l’occhiataccia peggiore che potessi al cielo, diventato improvvisamente scuro. Quasi a volermi rispondere, si fece spazio un tuono fragoroso, che scosse l’aria e fece sobbalzare il sottoscritto.
Stupidamente, tentai anche di forzare la porta, dato che la chiave sembrava essere miracolosamente sparita, mentre le gocce di pioggia, sempre più grandi, si facevano strada tra i capelli, scorrendo fin dentro il colletto della camicia e facendomi rabbrividire. Mi sarebbe venuta una polmonite, se non mi fossi mosso. E dire che ero considerato un ragazzo alquanto fortunato…
«Al diavolo la chiave» urlai voltandomi di scatto e cominciando a correre a più non posso. Il professore mi aveva avvisato: un altro ritardo e mi avrebbe sospeso per una settimana. Ormai scuse come “la sveglia non è suonata” oppure “ho aiutato una vecchietta per strada” non funzionavano più, anzi, suscitavano soltanto l’ilarità dei miei compagni di classe, soprattutto di uno in particolare. Preferivo non pensarci, del resto lo avrei sfortunatamente rivisto in mattinata. C’era soltanto una piccola nota positiva, quasi impercettibile, ma troppo importante, in tutto questo: era l’ultimo, maledetto giorno di scuola prima delle tanto agognate vacanze di Natale. Sospirai. Quanto amavo le vacanze, e quelle di Natale in particolare, perché erano le più durature. A detta di Anzu, andavo a scuola solo per attendere le vacanze. Non potevo darle tutti i torti.
Schivando le pozzanghere a terra, oltre che le vecchiette e vecchietti che avevano deciso di fermarsi a parlare proprio sul marciapiede su cui dovevo passare, tentavo con tutte le mie forze di appoggiare quanto meno possibile i piedi a terra. Per essere puntuale, avrei solo dovuto volare o disporre di una macchina. Cosa che non avevo ovviamente.
Nel mio campo visivo apparve il tetto dell’edificio tanto odiato. Istintivamente sorrisi. Di questo passo ce l’avrei fatta, e sarebbe stato il mio primo giorno da puntuale. Pensandoci, forse i professori avevano la loro parte di ragione, quando mi rimproveravano per i ritardi. Ma il bello era che Yugi si schierava anche dalla loro parte!
“Basta che ti svegli dieci minuti prima, non è difficile Jono!”mi aveva ripetuto solo l’altro ieri, con un sorriso che mi impediva di desiderare di picchiarlo a sangue. Yugi svalutava l’importanza del “riposare bene”. Non avrei mai potuto rinunciare a dieci minuti del mio dolce sonnellino!
Con la pioggia che continuava a cadere fitta su di me e sulla strada, con la possibilità di scivolare a ogni passo, mi ritrovai un macchinone blu davanti, parcheggiato proprio come se la sua intenzione fosse di ostruirmi il passaggio. Sbuffai, ma non ne feci una tragedia, anche perché tempo non ce n’era. Mi limitai ad aggirarlo, esponendomi per un periodo di tempo limitatissimo a probabili spruzzi d’acqua, da parte delle automobili che sfrecciavano incontrastate sulla corsia. Mi appellai mentalmente alla buona fede degli automobilisti, pregando affinché, vedendomi, rallentassero.
Ma a quanto pareva la sfortuna mi amava, quel giorno.
Non ebbi nemmeno il tempo di realizzare cosa mi stesse accadendo, che una limousine mi passò accanto. Fortunatamente, -molto strano, ma ebbi un minimo di buona sorte dalla mia parte- la velocità con cui avanzava era piuttosto ridotta, quindi si limitò a bagnarmi soltanto le scarpe che, comunque, erano già zuppe per via delle pozzanghere.
Mi voltai, e solo allora mi resi conto che sarebbe stato meglio un bagno in piena regola, seguito da una polmonite cronica, piuttosto che quello che realmente mi stava accadendo. Perché il proprietario della macchina doveva essere proprio lui? Tra tante persone che potevano permettersi una… forse no, non erano in molti coloro che potevano concedersi il lusso, in tutti i sensi, di possedere una limousine.
“Fà che non mi veda, fà che non mi veda”, supplicai, pur consapevole che Seto Kaiba mi aveva già inquadrato, fermandosi apposta al mio fianco. Feci finta di non dargli corda, anche se sentivo fortissimo l’impulso di spaccargli la faccia: era sempre così quando lo vedevo o lo sentivo parlare, sempre.
«Katsuya, in ritardo come al solito, suppongo.»
Odiavo la sua voce, la odiavo. Fischiettai, mettendomi le mani in tasca e ignorandolo.
«Sapevo della tua condizione economica, ma non avere neppure un ombrello…» continuò, sogghignando.
Cercai di resistere a ogni eventuale manovra che mi avrebbe condotto di filato in galera. Strinsi soltanto i pugni, immaginandomi che uno di essi potesse stamparsi in faccia a Kaiba, lasciando un bel ricordino su quel suo viso apparentemente perfetto.
Razza di vipera velenosa!
«Senti, Katsuya, mi è venuta un’idea. Ammesso che tu non abbia perduto nemmeno il dono naturale dell’udito, potresti ascoltarmi.» Fece una pausa, mentre –lo sapevo- se la stava ridendo sotto i baffi. Non ero interessato a sentirlo, eppure non mi mossi, aspettando che si decidesse a parlare. «Perché non scrivi una letterina a Babbo Natale, chiedendogli un ombrello?»
«E tu, invece, perché non vai al diavolo?»
«Oh, ma allora ci senti! Altrimenti avresti potuto aggiungere anche un paio di amplificatori sonori…»
«Ti stavo semplicemente ignorando!» urlai, puntandogli l’indice contro.
Mi puntò contro i suoi occhi gelidi e ridenti, in faccia aveva dipinto un ghigno derisorio. Ormai, ero abituato a quella faccia da schifo e quell’espressione da “io sono superiore a tutti”. D’un tratto, sembrò riscuotersi e alzò le braccia al cielo. «Non me ne ero reso conto. Sai, Katsuya, non sei capace nemmeno di ignorare la gente. Ma tranquillo, prima o poi troverai qualcosa che ti compete» rise.
Lo scimmiottai, ripetendo parole e frasi senza senso, imitando al meglio il suo tono. Simulai anche il becco in movimento delle papere, stringendo e riaprendo le mani e facendo combaciare le dita.
«Cosa ti prende? Ti senti nel tuo stato naturale di bestia irrazionale?»
«Nemmeno tu sei tanto intelligente quanto vuoi farti credere, Kaiba. Ti stavo semplicemente imitando» spiegai, dandomi delle arie, come se avessi detto la cosa più intelligente del mondo. Ma,non appena ebbi pronunciato anche l’ultima sillaba, mi accorsi dell’ulteriore figuraccia che avevo fatto. Probabilmente arrossii e assunsi l’espressione di un pesce lesso.
Una nuova risata me ne diede la conferma. «Sei un imbecille patentato, Jonouchi» asserì, prima di partire a tutto gas, spruzzandomi ancora.
«E tu sei un idiota, Kaiba!!!» gridai, attirandomi le occhiate curiose di alcuni passanti. Comunque, non ebbi il tempo di rimettermi a camminare, che una nuova vettura passò, stavolta bagnandomi completamente. Avrei voluto emanare altre migliaia di insulti contro l’essere più odioso del mondo, ma mi trattenei.
Il prossimo che mi diceva che ero fortunato, avrebbe ricevuto un cazzotto talmente potente, che le parole gli sarebbero ritornare in bocca, tutte quante!!!
Il suono della campanella dell’istituto, tanto forte da essere udita anche da dove mi trovavo, mi diede un’altra terribile certezza: sarei arrivato in ritardo anche quel giorno.

Arrivato in classe, zuppo come un pulcino, venni squadrato da capo a piedi dal professore della prima ora. Non tentai nemmeno di convincerlo, dirigendomi da solo verso il corridoio, pronto a restare lì in punizione per un’ora intera. Mi accompagnarono le risate generali, più il ghigno di Seto che mi bruciava sulla schiena, tant’era intenso.
Tutto bagnato, in punizione… cosa potevo chiedere di meglio?
Strano a dirsi, ma furono i sessanta minuti più tranquilli della mattinata, o almeno per quel po’ che ne avevo vissuto. Mi sembrava di essermi svegliato da millenni, tante erano state le cose –sfortunate cose– che mi erano accadute.
Quando il docente uscì, mi guardò in cagnesco, poi mi invitò ad andare in infermeria, così che potessi controllare se avessero qualche indumento asciutto. Capirai lo sforzo… dopo un’ora che ero rimasto a gocciolare come un vestito appena lavato, non mi sarebbe servito a granché. Tuttavia, feci quanto mi era stato richiesto, onde evitare di suscitare nuovi problemi.
«E ritieniti fortunato che non ti ho fatto sospendere!» mi disse arcigno.
Bla, bla, bla…
In infermeria trovai Mana, una ragazzina che non so per quale motivo si era trovata a fare l’assistente dell’infermiere vero e proprio. Di solito, non mi interessavo troppo ai pettegolezzi, a meno che non ci fossi io in mezzo, ovviamente. Quello di Mana non era il caso. Mana era una ragazza proveniente dall’Egitto e le sue caratteristiche, bene o male, avrebbero potuto far capire che era straniera. La pelle, infatti, era leggermente più scura rispetto alla mia. L’espressione del viso era sempre gentile e disponibile. Per quel po’ che ne sapevo, le piaceva scherzare e conoscere nuova gente.
Almeno a detta di Atem, mio compagno di classe, era così.
«Jono, ma come ti sei conciato!» Scattò in piedi appena mi vide. Mi osservò. «Hai mal di testa? Mal di pancia? Mal di qualunque cosa? Mahado dovrebbe arrivare a momenti!
Scossi la testa, avvilito. Mi sentivo mortalmente stanco. «Mana, non è che, per favore, riusciresti a trovare dei vestiti della mia taglia? Mi va bene tutto, purché possa togliermi di dosso questa roba bagnata.»
Lei sorrise, poi parve studiarmi: sembrava pensierosa. Si portò un dito sotto al mento e alzò lo sguardo verso il soffitto. «Dovrebbe esserci qualcosa… qualche vecchia divisa dell’ex squadra di calcio dell’istituto. Va bene?»
Annuii, dandole il mio consenso. Ormai che importava?
Asciugato e vestito alquanto ridicolmente, tornai in classe. Tra risate generali, tornai al mio posto. Lanciai uno sguardo anche a Seto, per vedere se stesse ridendo o anche solo sogghignando. Nulla. Era perso nella lettura di non so che libro. E approposito di libri… tastai la cartella, e aprendola trovai tutto impregnato d’acqua. Perfetto: dovevo solo sperare che, nel “caldo” mese di Dicembre, splendesse il Sole!
Mi accasciai sul banco, sfinito, fingendo di non sentire le battute che facevano sul mio nuovo -ma provvisorio!- look.
«Buongiorno Jono» tentò Yugi timidamente.
Alzai la mano, a dimostrare che l’avevo sentito.
«Ma che ti è successo? Sei passato sotto le cascate del Niagara per poi superare un provino di calcio? Per entrare a far parte della “grande nazionale scolastica”, poi!» rise Honda, che fu decisamente meno delicato di Yugi.
«Honda, se ci tieni ai denti, è meglio per te che la smetti» minacciai.
Lui mormorò degli scusa divertiti, mentre Yugi sospirava e scuoteva la testa.
Avvertii una mano darmi dei colpetti sulla spalla. Non feci in tempo a girarmi, che sentii parlare: «Jonouchi, è stata solo una giornata storta, non ti abbattere.»
Sorrisi: Atem aveva ragione.

«Vuoi un passaggio, Katsuya?»
«Eh?»
All’uscita della scuola, all’ultimo e desiderato trillo, almeno per quell’anno, Seto mi aveva rivolto la parola, approfittando forse del fatto che Yugi e gli altri sembravano essere stati risucchiati dalla folla di studenti in uscita.
«Ti avevo chiesto se volevi un passaggio in macchina, dato che non possiedi un ombrello. Ma a quanto pare la tua risposta è no.»
Ero stupito da ciò che avevo sentito.
«Del resto è meglio così, la mia macchina è di alto livello.» Il ghigno di disprezzo che mi riservava ogni volta era riapparso a deformargli il volto. I suoi occhi blu si erano tuffati nuovamente dentro ai miei.
Mi morsi il labbro e guardai in basso, incapace di sostenere il suo sguardo. Non c’era cosa che mi dava più fastidio. Io odiavo perdere, ma se si trattava di perdere contro Kaiba -fosse anche una semplice “gara di sguardi”-, mi sentivo dieci volte peggio del normale.
«Però c’è qualche altra cosa che posso offrirti, dato che mi fai pena.»
Alzai il capo, e mi sembrò che mi guardasse dall’alto al basso. Ne fui infastidito.
«Ti va' un’offerta di lavoro?»
«Cosa?» spalancai ridicolmente la bocca.
Lui scosse il capo. «L’avevo detto che avevi problemi di udito… ti serve un lavoro sì o no?»
La domanda era diretta e la risposta anche. Era indubbio che avessi bisogno di soldi. Il mio ultimo lavoro, ovvero consegnare i giornali, era finito nel momento esatto in cui avevo mandato in malora la maggior parte dei quotidiani, dato che ero caduto rovinosamente dalla bicicletta. Il mio ego mi diceva di rifiutare, ma quel minimo di coscienza mi consigliava di accettare. «Di che si tratta?» Sempre meglio informarsi prima.
«Niente che ti ammazzerà Katsuya, lo scoprirai a tempo debito. Ma voglio una risposta adesso. Accetti?» Mi porse la mano.
Ci riflettei su, ma mi pareva di avere una sola possibilità, anziché due, almeno se volevo sopravvivere dignitosamente. Strinsi la mano al mio peggior nemico, preparandomi al peggio.


 





Una long, una long, non ci credo!!! *______*
Spero tanto che vi piaccia perché, non riesco a negarlo, a me piaciucchia, e di solito le cose che mi piacciono non piacciono agli altri. Tengo in particolare all’IC dei personaggi, di cui lascio a voi il giudizio. Sapete, non so giudicare i miei stessi personaggi! >///>
Per favore, me la lasciate una recensione piccola, piccola? Pure se negativa o neutra, basta che mi fate sapere! >///<
Ho preferito uscire un po’ dal contesto di Yu-Gi-Oh!, inserendo così Atem in anima e corpo, e quindi non solo in spirito, e Mana. Mi piacciono entrambi come personaggi! >w<
Non so se ci saranno accenni di AtemXMana, decidete voi. A me piacciono anche AtemXAnzu a dire la verità, ma anche AtemXMana non mi dispiacciono, anzi! *___*
Comunque, il fulcro saranno Jonouchi e Seto! –w-
Oddio, li amo! <3
Vabbè, vi lascio! >w<
Fatevi sentire, okay? *___*

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1: A casa del nemico ***


Capitolo 1: A casa del nemico







Image and video hosting by TinyPic



 

Nel misero “tempo debito” che Kaiba mi aveva offerto, che mi aveva poi svelato essere un solo giorno di semplici ventiquattrore, avevo riflettuto su cosa avrei dovuto fare per quel tizio. Essere alle sue dipendenze era un’espressione che suonava male, che odiavo. Avrebbe potuto sfruttarmi come un cane o chissà cos’altro. Umiliarmi, più di quanto già faceva.
Il giorno prima delle vacanze, giorno che doveva finalmente essere rilassante, si era dimostrato uno dei peggiori. Tralasciando la pessima mattinata e il pomeriggio non da meno per via di pensieri su pensieri che riguardavano un certo riccastro, neppure di notte avevo trovato pace. Mi ero continuamente girato e rigirato nel letto, chiudendo e aprendo gli occhi in media ogni decimo di secondo. La sveglia, poi, sembrava rotta, considerato che segnava sempre lo stesso orario.
Cos’era, ansia forse? Paura? Giammai.
Ragionandoci, lo avevo catalogato come un semplice e puro fastidio. Un senso di intorpidimento allo stomaco che mi impediva di addentrarmi al calduccio, sotto le coperte, e di dormire beato. Era strano che non riuscissi a prendere sonno: amavo dormire tanto quanto mangiare! L’avessi detto ai miei amici, avrebbero pensato che fossi posseduto.
Alla fine avevo riposato solamente per una mezz’oretta, prima che la sveglia -ma perché funzionava, ora, quella maledetta?- annunciasse l’inizio del mio primo giorno di vacanza da scuola, alias il mio primo giorno di lavoro. Qualcosa mi diceva di aggiungere un bel “forzato”.

Quando arrivai davanti a casa Kaiba, non avevo quasi più aria nei polmoni. Come mio solito, infatti, avevo perso tempo con i cosiddetti “altri cinque minuti”, e avevo tardato. Tipico.
Mi appoggiai sulle ginocchia piegate, e trassi quanti più lunghi respiri potessi. Sapevo già che una volta entrato tra quella quattro mura, sarebbe stato difficile trovare anche un solo spiazzo che non fosse stato contaminato da Seto Kaiba. La peggiore delle malattie infettive, il più marcio tra i frutti andati a male, quanto di più sadico e antipatico potesse esserci nel mondo. E il tutto in un unico organismo: Seto Kaiba.
Alzai il capo, deciso a non indugiare più del dovuto. Avevo fatto una fatica immane, inimmaginabile, per arrivare mezzo minuto prima; se avessi perso questo, seppur minimo, anticipo, sarebbe stato come aver tardato.
Sbuffai, e presi a camminare verso il cancello alto e nero, terminante a punta. Sembrava una galera, degna dimora del suo possessore. Oltre le sbarre, in quello che era un immenso e spazioso giardino senza fiori, sorgeva incontrastata “Reggia Kaiba”.
Già, proprio “reggia”.
Probabilmente in tutta Domino non esisteva una dimora tanto imponente, di chissà quanti piani e con chissà quante stanze. E quanto relax, quanta comodità e quanti inservienti… sarei diventato uno di quelli? Comunque, l’unico edificio più mastodontico poteva essere solo la Kaiba Corporation, guarda caso appartenente sempre e “Mister Simpatia”.
Chissà, magari sarebbe diventato il padrone assoluto della città. Non potevo nascondere che ce lo vedevo fin troppo bene in quel ruolo, tanto da farmi raggelare il sangue nelle vene.
Rabbrividii a causa di una soffiata di vento che mi prese in pieno e mi strinsi nella spalle. Osservai una sottospecie di citofono di ultima generazione, con tanto di telecamera incorporata. Probabilmente il signorino mi aveva già visto. Infischiandomene di questa possibile ipotesi -del resto sapevo che mi aspettava, no?- allungai un dito e suonai. Simbolicamente, ripulii il polpastrello contro la giacca, non avendo intenzione di infettarmi con quelli che, d’ora in avanti, avrei chiamato Kaibagermi.
Ed eccolo: sul videocitofono comparve il faccino adorabile di Seto. Avrei allungato volentieri un braccio e fracassato la sua faccia, se avessi potuto davvero procurargli dei danni. Ma evitai, dato che sarebbe stato solo un mio svantaggio.
«Sei arrivato.» Non era una domanda, quanto una constatazione.
Avrei voluto sventolare la mano davanti al monitor, esprimendomi in un ironico “beh, non mi vedi? Problemi di vista, stamattina?”, ma evitai di nuovo. Più tempo passava e più avevo l’impressione che avrei dovuto evitare molte, ma molte cose di quelle che mi sarebbero passate per la mente.
«Buongiorno» salutai. Fu già uno sforzo immane. Potendo, cercavo di rivolgere la parola a Kaiba quanto meno possibile. Tuttavia, non riuscii a nascondere un sorrisetto nervoso e tirato, che però non comportò alcun mutamento nell’espressione facciale del mio “videointerlocutore”. Stranamente, quel giorno Seto sembrava meno propenso a battibeccare. Meglio così. Io non lo avrei disturbato, e me ne sarei tenuto alla larga, e lui non mi avrebbe disturbato e -possibilmente- si sarebbe tenuto alla larga.
«Entra su, non perdiamo altro tempo.» E mi aprì.
Rimasi sbalordito dall’assenza di ironia nel suo tono, ma non glielo feci osservare.
Il cancello si aprì verso l’interno, come quelli delle case stregate nei film horror. Mi trattenni dallo spalancare ridicolmente la bocca -perché quelle sbarre che si muovevano facevano davvero un bell’effetto- e mi mossi. Avrei dovuto essere sempre calmo e padrone di me, quanto più serio possibile ed efficiente, cosicché Seto non potesse avere niente da ridire.
Mi misi le mani in tasca e camminai, tranquillo. Mi accostai all’enorme portone marrone, e attesi. Stavo già per lamentarmi del fatto che mi avesse volutamente lasciato fuori a congelare come un hawaiano in Antartide, quando un’anta si aprì velocemente, quasi travolgendomi.
Fui lesto a scansarmi, dunque la mia faccia non ne risentì. Mormorai solo un paio d’insulti silenziosissimi verso il padrone di casa, ma una voce mi interruppe.
«Ti stavamo aspettando Jonouchi.»
Mokuba Kaiba. Un piccoletto che avrebbe difeso a spada tratta suo fratello anche se questi si fosse trovato nel torto più marcio. In compenso, caratterialmente era più ragionevole di Seto, tranne in alcuni casi, casi in cui, purtroppo, il gene Kaiba si faceva sentire più forte.
Tentai di rilassarmi, constatando che ci stavo riuscendo.
«Seguimi, ti porto immediatamente da Seto.»
Risposi con un sorrisetto nuovamente nervoso e forzato.
Seto, Seto, Seto! Quel dannato nome riusciva a farmi andare su tutte le furie! Ancora sconosciuti i metodi secondo i quali avveniva il mio cambiamento repentino di umore. Qualcosa da scoprire, un po’ come la questione degli UFO.
«Andiamo» mormorai, conscio che si trattasse di un’esortazione rivolta più a me che a Mokuba.
Il ragazzino annuì e mi fece strada.
Non appena misi piede dentro, spalancai occhi e bocca. Trattenni a stento un’esclamazione di stupore -mai apprezzare il nemico, specialmente se ti trovi al suo covo-, ma la mia faccia doveva dire molto, troppo.
«E’ enorme, vero? Quando la vidi per la prima volta, feci più o meno la tua stessa faccia.»
Come, come, come? Mokuba c’era nato qui dentro. Forse la famiglia Kaiba si era trasferita nel corso degli anni, del resto non che Seto parlasse molto di sé, anzi; di lui sapevo solo il nome, a momenti. A ogni modo, preferii lasciar perdere, almeno per il momento. Anche se il fatto che il ragazzino si fosse morso le labbra, come a pentirsi di aver parlato, me la diceva lunga. Oh beh, fatti loro.
«Più che una casa mi sembra una dimora reale, Mokuba!» Con lui non dovevo temere di tenere la bocca serrata, non troppo almeno.
In effetti, spalancata la porta, l’ambiente in cui mi ero ritrovato era stato diverso da ogni tipo di costruzione ed edificio che avessi mai visto. Persino i centri commerciali in cui talvolta mi recavo con Yugi e il resto della compagnia mi sembravano così piccoli al confronto. Ci trovavamo davanti a un rampa di scale che portava al piano superiore. In pratica, questo primo “luogo” aveva la stessa funzione della sala d’attesa degli studi medici: mi sembrava di aver intrapreso un rito di iniziazione, che si sarebbe concluso solo quando fossi stato al suo cospetto.
Mi sforzai di rimuovere quegli sciocchi pensieri dalla testa, e proseguii, preceduto sempre da Mokuba. Sulle scale ci mancava solamente il tappeto rosso, poi sarebbero state “regali”.

Inutile dire che arrivai col fiatone.
Chissà per quale motivo, ma Seto Kaiba mi stava aspettando proprio al quinto piano. Ero rimasto di stucco nel vedere con quanta rapidità e facilità Mokuba salisse, percorrendo talvolta anche due gradini per volta.
«Siamo arrivati, Jonouchi» mi disse infine, quando ero più morto che vivo.
«Finalmente…» biascicai tra un respiro profondo e l’altro.
Guardai con astio la porta. Ci avrei messo il cartellino “Attenti al Kaiba”, oppure “Vietato l’accesso” o ancora “Pericolo esplosioni”. Effettivamente la semplicità di essa mi parve fatta apposta per i miei assurdi progetti di avviso. Avrei fatto solo un bene alla comunità, mettendoceli.
«Ehi Seto, siamo arrivati!» enunciò Mokuba, abbassando la maniglia e mostrandomi una stanza molto semplice, arredata col minimo indispensabile: si trattava di una sottospecie di studio, con le “normali” due sedie a poltroncina ai due lati di una scrivania. Su di essa, vidi disposto un portatile chiuso, affiancato da un mucchietto di libri messo l’uno sull’altro. Mi sorpresi del paradosso tra ciò che l’esterno faceva supporre, e ciò che effettivamente si trovava all’interno. «Non abbiamo preso l’ascensore, proprio come volevi tu.»
Momento, momento… ascensore? Non l’avevo notato, altrimenti avrei almeno chiesto di poterla utilizzare. Uffa, come fare dinnanzi all’alleanza Kaiba?
Inquadrai all’istante il padrone di quell’impero. Non riuscii a non trasmettere tutta l’antipatia che provavo nei suoi confronti.
«Ottimo Mokuba, ben fatto. Ora puoi andare.»
Il ragazzino annuì, sparendo dietro la porta.
Tra me e Seto Kaiba scese un rumoroso silenzio. Le occhiate astiose e infastidite che gli lanciavo cozzavano con le sue, fredde e impassibili, producendo un sibilo acuto. Nemmeno quando aveva parlato, prima, si era smosso. Ma mi aspettavo da un momento all’altro un suo cambiamento di espressione facciale. Cambiamento che non si mostrò.
«Siediti Katsuya, a meno che tu non preferisca restare in piedi.»
Decisi all’istante: mi sarei trattenuto, ma non fatto trattare come uno straccio. Avrei risposto alle sue provocazioni come avevo sempre fatto da quando lo conoscevo. «No, no, mi siedo volentieri, grazie.» Fui quanto più acido riuscissi a essere con quel ringraziamento finale, dunque mi accomodai, proprio di fronte a lui. «Allora, di che si tratta?» chiesi. Non mi andavano giri di parole, e speravo di uscirmene quanto prima da quella situazione.
«Vai di fretta, Jonouchi, a quanto vedo.»
Alzai le spalle e sventolai una mano davanti al volto, in un gesto di noncuranza. «Beh non proprio, ma dato che devo lavorare, mi aspetto di cominciare quanto prima. Prima inizio, prima finisco, ecco.»
«Nemmeno a me piace perdere tempo, dunque andiamo al sodo.»
Cercai di non darlo a vedere, ma drizzai le orecchie quando parlò. Ero proprio curioso di sapere che cosa avrei dovuto fare. Il tempo sembrava essersi fermato e Seto, che di solito aveva sempre la lingua biforcuta, pronta a offendere, a umiliare e a parlarmi spiacevolmente in continuazione, pareva non avere la minima intenzione di continuare. Deglutii, e mi disposi in ascolto.
«Sarai una specie di tuttofare, Katsuya» disse secco.
Alzai i sopraccigli. «Tuttofare?»
«Considera che la maggior parte dei miei inservienti è in ferie per il periodo natalizio, dunque capirai, forse, che mi occorre qualcuno di allenato che possa avere la forza di occuparsi di più faccende» spiegò. Poi, appoggiò un gomito sul bracciolo della sedia e mi squadrò. Probabilmente si aspettava una mia reazione, che non tardò ad arrivare.
«Che intendi con allenato?»
Lui ghignò. Lo sapevo, lo sapevo che non avrei dovuto aspettare molto tempo per vedere quella sua espressione da superiore. «Bisogna spiegarti sempre tutto. Ti ho visto correre di mattina molte volte, per arrivare puntuale a scuola, ovviamente senza risultati.»
Sbuffai, stringendo i pugni.
«E ho pensato che tu fossi la persona adatta, quella che mi serviva.»
«Sei un lurido bastardo Kaiba, lasciatelo dire» mormorai, a denti sempre più stretti.
Ma lui non si scompose. Anzi, guardò alle mie spalle e mi parve leggermente sorpreso. O forse non lo era, chissà: era complicato interpretare Seto Kaiba, capire cosa gli frullasse per la mente. «Vedo che non hai portato nulla con te.»
Stavolta fu mio il turno di essere sorpreso. «Come scusa?»
Seto si appoggiò maggiormente allo schienale, facendo combaciare ancora di più la sua schiena al tessuto rosso. Poi poggiò una guancia sul pugno stretto. «Sarai un tuttofare a tutte le ore, Katsuya. Avrai una tua camera e vivrai qui per tutto il periodo natalizio, a mia completa disposizione.»
«Cosa?» urlai, alzandomi di scatto e facendo cadere la mia sedia a terra. Non mostrai nemmeno l’intenzione di volerla rialzare. «Ma questo… ehm… insomma…» cercai una frase che potesse aiutarmi. «Questo non era previsto!» sbottai.
«Niente era previsto, ma hai comunque accettato. Non c’era alcun contatto, ma mi hai stretto la mano, come se avessimo fatto un patto. Ora, un contatto regolare ce l’ho, eccolo qui.» Aprì un cassetto, tirandone fuori un foglio con qualche scritta che dalla mia posizione non riuscivo a leggere. «Se sei un uomo d’onore, e non una femminuccia, leggilo, riscontra che c’è scritto proprio quanto di ho detto, e firma, tenendo fede al tuo accordo.»
Dannazione, il suo discorso non faceva una piega dal punto di vista dell’onore. Seppur fosse vero che non mi avesse detto della “forzata convivenza”, allo stesso modo non potevo negare che aveva chiarito che mi avrebbe reso noto tutto solo dopo che avessi accettato. Accidenti, odiavo dargli ragione!
«Dà qua!» proruppi, afferrando il pezzo di carta tra le sue dita lunghe e affusolate. Tentai di non guardarlo in quegli occhi ridenti che mostravano di avermi in pugno.
Lessi con velocità quel che c’era scritto, poi allungai una mano. «Dammi una penna» sussurrai irato.
«Saggia decisione» mi disse soltanto.
Fui veloce: firmai.
Da quel momento, sarei diventato a tutti gli effetti il “tuttofare del Signor Seto Kaiba”. Mi avrebbero aspettato delle vacanze di inferno, lo sapevo già! Che bene avrei potuto ricavarne da tutta quella storia, oltre che un’emicrania terribile e un eccesso di veleno dentro di me?

 




Dunque, vediamo un po’ se c’è qualche precisazione da fare. Solo che Jono non sa che Seto è stato adottato, e qui si spiega la sua riflessione riguardo alle parole di Mokuba. Per il resto, credo sia chiaro, ma in caso di qualcosa chiedetemelo pure tramite recensioni o tramite messaggi privati, come preferite! ^___^

Ma non perdiamo tempo, la cosa più importante che ho da dire è che ringrazio tantissimo Tayr Soranance Eyes, perché mi ha betato il capitolo. Un lavoro ottimo, mi congratulo! *___*
Certe cose mi erano proprio sfuggite, grazie! *^*
Credo proprio che migliorerò di parecchio grazie al tuo preziosissimo aiuto, grazie ancora!







 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2: Sotto un'altra luce ***



Capitolo 2: Sotto un'altra luce










Image and video hosting by TinyPic







 




Seto mi congedò, affidandomi a Mokuba affinché mi conducesse in quella che per due settimane circa sarebbe stata camera mia. Quando uscii, tirai un respiro profondo.
«Allora hai accettato» constatò.
Annuii, anche se col pensiero ero distante. Man mano che il tempo passava, stavo capendo di dovermi rilassare un po’, ecco. Per quanto Seto Kaiba fosse odioso, presuntuoso e tanti altri aggettivi che, per riuscire in quello che volevo fare, ovvero darmi una calmata, dovevo necessariamente allontanare dal cervello, come se non li avessi mai conosciuti.
Aveva inizio una nuova operazione: “ignorare la parte malefica di Seto Kaiba”, alias comportarsi come se si trattasse di Yugi, per quanto fosse impossibile.
«Mio fratello è stato gentile a offrirti un lavoro» osservò Mokuba, come se mi avesse letto nel pensiero e volesse dirmi di non trattarlo male. Quando poi, al massimo, era lui che trattava male il sottoscritto.
«Dipende da quale punto di vista si vede la cosa» affermai, ma non spiegai cosa intendessi. Praticamente, se Seto mi aveva assunto solo per umiliarmi, non era un fattore positivissimo. In ogni caso, però, mi avrebbe pagato – Seto aveva tutte le odiose caratteristiche dell’universo osservabile, ma era una persona d’onore, glielo dovevo concedere –, quindi tanto valeva smetterla di comportarsi da bambini capricciosi e fare sul serio.
«Questa è camera tua.» La voce di Mokuba mi riscosse.
Avevamo attraversato corridoi tutti uguali, con pareti tutte uguali e porte… tutte uguali ovviamente, finchè non eravamo giunti in fondo ad un ultimo corridoio. Chissà quale tra quegli usci conduceva alla camera di Seto.
«Scusami Mokuba» Lo fermai prima che, veloce come una lepre, fosse già ritornato da suo fratello. «La stanza di Seto?»
Lui accennò un sorrisetto. «E’ al primo piano.»
Mi ci vollero due secondi in più del dovuto per capire il perché di quella espressione “alla Kaiba”. Primo piano…
«Seto sei un bastardo!» urlai, mentre il ragazzino, piuttosto divertito, si affrettava a raggiungere le scale.
Lo sentii mentre aggiungeva: «Seto dice che ti farà bene fare un po’ di esercizio fisico ogni mattina, prima di metterti al lavoro!»
Giustamente, Signor Kaiba, scendere dall’ultimo piano al primo, ogni mattina, è l’attività fisica che tutti sognano di fare. Ma non mi sarei avvilito, al massimo avrei chiesto un aumento del salario. Il suo gioco era proprio quello di indispettirmi, ma a me perdere contro Seto Kaiba non piaceva per niente, e non avrei perso.
Calmo, entrai nella stanza.
Dovevo ammettere che non era niente male. Era enorme e completamente arredata con tutte le comodità. Il letto sembrava morbidissimo; immaginai quale sollievo mi avrebbe dato dopo un’intensa giornata da “tuttofare”. Oltretutto, era a due piazze, quindi avrei potuto dispormi come meglio volevo, anche nel modo più strambo.
Lo tastai subito, buttandomici sopra senza troppi convenevoli. L’apparenza inganna a volte, ma non in quel momento: il materasso era veramente il più comodo che avessi mai provato e le coperte, rosse, non erano da meno.
Per il resto c’era una scrivania nell’angolo, di un colore bianco tendente all’avorio, con sopra alcuni libri, che di sicuro non avrei mai letto, e questo lo sapeva anche il padrone di casa.
Non che non fossi intellettuale, ma leggere non era nelle mie priorità, ecco.
In fondo alla stanza, intravidi una finestra nascosta da una tenda decorata con dei ghirigori particolari: era carina da vedere. Grazie a essa, almeno, non sarei stato svegliato dai possibili raggi solari di Dicembre.
Sul comodino al mio fianco era posizionata la lampada e dirimpetto ad esso si ergeva un armadio enorme. Ma considerando che non avevo vestiti con me, con cosa lo avrei riempito? Chissà, magari Seto era stato buono e mi aveva fatto trovare qualcosa della mia misura. Ipotesi alquanto assurda, infatti, aprendolo, trovai solo il vuoto più totale.
Mi scompigliai i capelli, mentre, pensieroso, mi grattavo la testa.
Non mi restava altro da fare che andare da Seto e chiedergli di poter passare a casa mia, per recuperare qualcosa da mettermi, oltre che spazzolino e altri oggetti che mi sarebbero stati utili.

«Salve ragazzi!» salutai Yugi, Anzu e Atem, che probabilmente si erano incontrati per caso al supermercato – dove ero diretto – dato che avevano delle buste in mano.
Lì per lì non capii le loro facce basite.
«Vedo che hai cominciato da Seto» osservò Atem. Avevo comunicato ai miei amici del mio prossimo lavoro a casa Kaiba… se ne ricordavano quindi. Ma come faceva Atem a sapere che Seto mi aveva mandato a fare la spesa?
«Come fai a saperlo?» domandai confuso.
Le risatine di Anzu non mi piacquero. Atem, invece, accennò un sorrisetto, mentre Yugi, alquanto imbarazzato, fece incrociare gli indici delle mani, avvicinandoli e allontanandoli nervoso. «Vedi Jonouchi, credo che Atem l’abbia capito da quello.» Mi indicò.
Forse Seto non aveva tutti i torti quando mi diceva che ero un babbeo. Come avevo fatto a dimenticare di togliermi uno stupido grembiulino rosa shocking che lui mi aveva fornito?
Sbiancai, slacciandolo alla svelta per toglierlo, con gesti nervosi e inconcludenti. Mi aiutò Atem. Lo ringraziai.
«Ma perché eri vestito così?» rise Anzu, la mano davanti alla bocca come se volesse nascondermi il suo atto.
Sospirai. «Ora vi racconto come sono andate le cose finora.»
Dissi loro del colloquio, del contratto e soprattutto raccontai di quando mi ero recato da Seto, per chiedergli di poter andare a recuperare qualcosa da mettermi addosso a casa mia.
«Mi ha ricattato» dissi. «Mi ha detto» tossii per prepararmi a una perfetta imitazione «se proprio ci tieni, dovrai indossare questo!» indicai il grembiulino «almeno all’andata» conclusi. «Visto, è stato un ricatto!» piagnucolai.
«Ma Jonouchi, avresti potuto togliertelo appena svoltato l’angolo, non so! Come faceva a controllarti?» intervenne Yugi.
Il fatto che avesse ragione mi lasciò a bocca aperta. «Come ho fatto a non pensarci?» mi lamentai inginocchiandomi sul posto e iniziando a disegnare cerchi immaginari per terra.
«Dai non importa!» disse Yugi, tentando di consolarmi con delle affettuose pacche sulla spalla. «Se non fossi così sbadato, non saresti il nostro Jonouchi!» aggiunse.
Gli scoccai un’occhiata avvilita e mormorai un “grazie” poco convinto.
Dopo aver salutato i miei amici, mi diressi al supermercato. Acchiappai un carrello e iniziai a gironzolare tra i diversi reparti, acciuffando ciò che serviva al mio datore di lavoro, e sbavando ridicolmente davanti a barrette di cioccolato al latte o alle nocciole che non facevano parte della mia spesa di quel giorno.
Anche perché le parole di Seto erano state chiare: «I soldi sono contati, bada.»
Ma mi stava venendo il sospetto, osservando l’involucro che conteneva una deliziosissima cioccolata con gli smarties, che Kaiba-senior mi avesse dato i soldi strettamente necessari non perché fosse tirchio come Zio Paperone, ma cosicché non potessi comprare altro, come dolci e schifezze varie che mi facevano gola.
Con un’alzata di spalle avvilita, salutai il reparto dolci, recandomi verso quello “frutta e verdura”.
Alla fine del giro, pagai – Seto era stato un mito, erano avanzati solo pochi spiccioli, coi quali sarebbe stato impossibile comprare anche un solo dolcetto – e imboccai, con tanto di buste in mano, la strada di casa mia.
Ma ora sorgeva un bel problemino: come avrei fatto a trasportare sia buste che valigia? Probabilmente la prima parte dell’esercizio fisico cominciava ora.
Presi il minimo indispensabile: si trattava soltanto di trascorrere due settimane a casa Kaiba, non mi serviva l’intera casa. Cercai una borsa non troppo grande, così che fosse più leggera da trasportare, e la riempii. Poi, me la caricai addosso come un normale zaino scolastico e portai le buste della spesa in mano.
Il tutto era terribilmente pesante, come se la gravità si fosse triplicata all’improvviso, ma piano piano, cercando di accelerare per non sentirmi dire di aver fatto tardi, arrivai sano e salvo a casa Kaiba. Per dimostrare che ero a mio agio, non l’avrei nemmeno chiamata “carcere Kaiba”, come mi era venuto in mente di fare.
«Ecco fatto!» boccheggiai, quando fui entrato. Lasciai che lo zaino scivolasse a terra, attirato da quella forza gravitazionale che, finalmente, sembrava essere ritornata normale. «Accipicchia, e che faticaccia!» Accennai a un sorriso quasi – e ripeto quasi – spontaneo, mentre fissavo Seto negli occhi.
Lui aveva le braccia conserte e, appoggiato alla parete dell’atrio, mi fissava in modo indecifrabile. «Ben fatto, ora sistema tutto» ordinò. Non c’era rabbia né costrizione nel suo tono, ma sembrava quasi che mi stesse chiedendo un favore.
«Ma non conosco la casa» obiettai semplicemente, senza allarmarmi o cominciare a dar di matto come facevo spesso quando Seto era nei paraggi. Anch’io sapevo fare la persona matura, uhm.
«Imparerai sul posto.»
«Non credo sia possibile.» Ero ancora calmo.
Fece un sospiro. «E’ come quando fai un esame, ammesso che tu ne abbia mai sostenuto uno, o un colloquio importante. Bisogna capire subito cosa si richiede che tu dica per essere visto sotto una buona luce.»
Incrociai anch’io le braccia al petto. «Forse non avrai tutti i torti, Kaiba, ma non posso mica aprire tutti i cassetti di casa tua!» Calmo, calmo, dovevo restare calmo e, per quanto fosse strano, ci stavo riuscendo abbastanza bene.
«Dovrai intuire, allora» rispose semplicemente, facendo comparire il “bellissimo” ghigno da pugni in faccia.
«Cosa vuoi che ci voglia!» ironizzai.
«Appunto» concesse. «Inoltre mi pare che tu sia abbastanza fortunato.»
Alzai le sopracciglia, contrariato. «Chissà cosa me lo fa pensare, ma credo che la fortuna mi stia abbandonando da un po’ di tempo a questa parte.»
«Ma davvero?» ghignò. «Problemi tuoi, e ora fila. Basta con le chiacchiere.»
«La fa semplice il signorino» bisbigliai, torcendo leggermente il collo, come seavessi voluto parlare a qualcuno di invisibile al mio fianco. Gettandogli un’occhiata in tralice, vidi che Seto stava salendo le scale, ignorandomi.
«E va bene!» mi opposi, alzando la voce. «Credi che non ne sia capace? Capirai che ci vuole per aprire tutti i miseri cassetti della tua illustre dimora! Ci metterò pochi attimi!»

«Vedo che non hai ancora finito» osservò Seto, vedendomi con in mano ancora una scatola di cereali, probabilmente per Mokuba. «Mezz’ora fa» simbolicamente guardò l’orologio «mi pare di averti sentito dire che sarebbe stato un giochetto.»
«Infatti lo è stato» risposi naso all’insù, trovando finalmente l’ultimo scaffale. «Certo, sarebbe stato più facile se avessi potuto mettere tutto in un solo posto, ma a quanto pare qui piace posizionare le cose a chilometri di distanza» esclamai.
Seto non si mosse di un millimetro. «Non ci vedo nulla di strano, questa è casa mia
Purtroppo aveva ragione, quindi, onde evitare ulteriori figuracce e parlate a vanvera, preferii starmene zitto.
«Jonouchi?»
Alzai il capo, esponendo un mezzo broncio. «Che vuoi?» biascicai.
«Sai cucinare?»
«Ehm… c-certo.» Cercai di non mostrarmi insicuro, ma la verità era che non ero capace di prepararmi nemmeno un piatto di pasta decente, a momenti. Insomma, a me – e lo ammettevo vergognosamente – aveva sempre, o quasi, badato mia sorella Shizuka. E come dirlo a Seto senza fare una figuraccia?
«Se si tratta di panini, vero?» domandò sicuro.
«Va bene, va bene, non ne sono capace, okay?» mi lamentai, imbronciato. «Ma scommetto che nemmeno tu lo sai fare!» azzardai.
«Scommetti male, Katsuya.»
Alzai un sopracciglio. «Allora abbiamo risolto il problema, te la sbrighi tu?»
Scosse il capo e mosse il dito, negando. «Sarebbe troppo facile.»
«E allora che si fa?»
«Semplice, puoi scegliere: o avrai una diminuzione della paga, perché non svolgi un servizio efficiente, oppure ti piazzerai lì e starai a guardare cosa faccio, così da apprendere quanto prima possibile» disse.
Non che la scelta fosse difficile, ma avevo qualcos’altro da dire. «Scusami, ma non c’è proprio nessun’altra persona che può svolgere questo compito? Tra tutti i tuoi camerieri, non c’è nessuno che possa cucinare?»
«Hai visto qualcun altro oltre noi?» chiese paziente.
Scossi la testa.
«Ebbene, ti sei risposto. Quindi non perdiamo altro tempo.»
Mi ordinò – “chiese” sarebbe troppo gentile – di prendere la carne e l’insalata. Così feci. Non mi lamentai del fatto che l’avessi appena posata al suo posto, percorrendo in lungo e in largo il corridoio del primo piano.
«Guarda» imperò, mentre velocemente la lavava e la tagliuzzava.
Mi accorsi che aveva indossato un grembiule nero come quello che avevo indosso io. Mi astenni dal fare commenti a voce, ma non avrei mai pensato che Seto potesse scendere dal piedistallo cui credevo non si allontanasse mai. Non pensavo che potesse essere così umano.
«Ti piace cucinare?» chiesi. Chissà, magari Seto non era così male come pensavo. Magari era giusto un po’ meno peggio di quello che credevo.
«Continua tu.» Mi passò il resto dell’insalata, senza rispondermi. Mi voltai, seguendolo con lo sguardo. Prese un coltello e iniziò a tagliare la carne cruda a fette. D’un tratto alzò gli occhi e li puntò nei miei, facendomi sobbalzare, tanto era intenso quel blu. Mi sentii in soggezione. Stavo cominciando a vedere Seto sotto un’altra luce?
«Che c’è? Sbrigati.»
«Un secondo, mamma mia» sbottai. Gli diedi subito le spalle e ripetei quanto gli avevo visto fare. Non riuscivo a tenere bene il coltello tra le mani, perché queste, inspiegabilmente, mi tremavano. Chiusi un secondo gli occhi e cacciai fuori l’aria. Poi ripresi.
Mi sentivo stranamente stonato: sicuramente era colpa dei Kaibagermi, che mi stavano attaccando, contagiandomi chissà quale strana patologia.


 





Ringrazio sempre la mia cara beta-reader e sensei (da oggi ù.ù) che risolve tutti i miei disastri in quanto a grammatica e affini, perdendoci un sacco di tempo, suppongo, curando la forma, il suono e tutto. Grazie mille Tayr Soranance Eyes

E grazie anche a tutti quelli che leggono o leggono e recensiscono! ^///^




 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3: Litigi ***


Capitolo 3: Litigi

 

Image and video hosting by TinyPic







Avevo trascorso la maggior parte della giornata con odiosi manici di scopa in mano – da notare la somiglianza tra Seto e i manici di scopa: entrambi alti e magri, detestabili e avversi al sottoscritto; altrimenti come avrei potuto spiegarmi la botta in fronte causatami dal manico legnoso e duro? Avevo un bel bernoccolo, e sicuramente non era dovuto alla mia goffaggine! Goffo io, poi! Tsè – pezze color giallo-canarino-sottoposto-a-un-acquazzone da immergere, bagnare e strizzare, spugne nuove di zecca – comprate appositamente per me? Mister Taccagno mi stava sorprendendo! – e altri gingilli, tutti racchiudibili sotto la semplice ed efficace denominazione di “Sfruttaumani”.
Risultato di una giornata di sfacchinata? Mal di schiena, dolori in più punti e terribile mal di testa. In sostanza, avrei potuto incollarmi uno logan dietro la schiena, recitante: “Pronto per la rottamazione”.
Tuttavia bastarono pochi giorni per far sì che mi abituassi a tale ritmo: faccende domestiche e affini non erano più un problema.
Il mio vero inghippo, invece, consisteva sicuramente nel cucinare. Essere negato non mi si addiceva, perché ero qualcosa di più, di peggiore e indefinibile.
«Se il pollo fosse stato vivo» mi disse una volta l’esimio Signor Kaiba «pur di non farsi straziare in questo modo preferirebbe ritornare in vita e farsi riammazzare.»
Ah-Ah-Ah, molto divertente, pretendiamo il bis. O forse no.
E dunque, a parte le battutine del mio “adorabile” datore di lavoro, filava tutto liscio come l’olio, anche se nemmeno a distanza di giorni riuscivo a dimenticare il momento in cui Seto Kaiba non mi aveva permesso di entrare in camera sua. Non c’era un motivo per cui mi fossi fissato con la camera del mio principale, forse dipendeva dal fatto che mi fosse stato negato.
C’era da ammettere, però, che si era comportato educatamente, rispetto ai suoi standard, quando mi aveva gentilmente invitato a “cambiare aria”.
«Jonouchi» mi aveva richiamato.
Secchiello in una mano, scopa nell’altra, l’avevo fissato interrogativo. «Sto pulendo, come mi hai detto, che c’è che non va?» avevo chiesto ingenuamente.
«Quella è camera mia.»
Okay.
Avevo capito che il padrone di reggia – casa era riduttivo – facesse economia anche sulle parole da spendere per spiegarsi, ma quella frase non mi sembrava una delucidazione soddisfacente. «Quindi…?» avevo incalzato.
«Quindi gira a largo.»
Ed era finita lì… per lui almeno. Mi sentii subito deciso: non appena Seto avesse abbassato le difese, o – nel gergo dei riccastri – tolto l’antifurto, mi sarei precipitato lì dentro.
Dunque avevo aspettato l’occasione giusta comportandomi normalmente, e, a giorni di distanza, continuavo ad attendere.
Quella mattina il sonno era particolarmente incombente. La sveglia che mi ero portato da casa aveva trillato come una forsennata per più di dieci minuti, ottenendo in risposta soltanto i miei mugolii di disappunto. Il giorno prima, purtroppo, non ero riuscito ad addormentarmi facilmente e a concedermi le necessarie otto ore e passa di dolce riposo, troppo impegnato ad architettare piani di infiltrazione in casa Kaiba, soffermandomi, per esempio, a pensare soluzioni contro i Kaibagermi. Sicuramente lì dentro erano concentrati al massimo.
Scherzi a parte, non riuscivo a togliermi dalla testa Seto. Insomma, lui non poteva essere veramente come si dipingeva. Doveva avere qualche punto debole, qualche sentimento che non lo legasse solo a Mokuba. Dopo averci passato qualche giorno insieme, l’idea che Seto non fosse così marcio quanto credevo non voleva lasciarmi. Cominciai a pensare che era proprio per questo che volevo vedere camera sua.
Stupido, probabilmente.
Acchiappai la sveglia – stupido oggetto rotondo e rumoroso! – in mano e la sbattei più volte sul comodino, ritmicamente, ma ebbi come risultato solo un mal di testa mattutino, a causa dei rumori che si sovrapponevano al suono acuto della sveglia.
Mi preparai in tempo record e scesi giù, in cucina, dove ad aspettarmi c’erano già i due Kaiba. Li salutai con un cenno del capo – troppo stanco per parlare – e mimai un’occhiataccia verso Seto, più per abitudine che per odio vero e proprio.
Ma lui, come sempre, sembrò non farci caso. «Va’ a vestirti meglio. Oggi si esce.»
Cosa? Avevo sentito male forse?
«Non pensavo di aver parlato troppo difficilmente» sghignazzò.
Lo ignorai volutamente: forse era il sonno a impedirmi di controbattere. «Usciamo? E dove andiamo?»
Fu Mokuba a rispondermi: «Seto è stato invitato all’inaugurazione di un nuovo parco divertimenti stile natalizio in quanto presidente della KaibaCorporation. Hanno pensato di inaugurarlo oggi, ventitré Dicembre, proprio perché, come ti ho detto, è stato ideato in occasione del Natale. E a quanto si è detto ci saranno prezzi scontatissimi in questi giorni festivi!» I suoi occhi scintillarono dalla gioia. «Ovviamente, l’ingresso oggi è gratis, e per noi saranno gratis anche le attrazioni. Non vedo l’ora di provarle!» terminò entusiasta.
L’avevo ascoltato estasiato: ammetto che anche a me avrebbe fatto piacere provare qualche attrazione. Che so, montagne russe mozzafiato, un autoscontro di ultima generazione – immaginando di colpire la limousine di Seto – e chissà quanto altro!
Mi ero completamente svegliato grazie a quella splendida notizia.
Strinsi i pugni e aprii la bocca senza emettere suono, come se mancasse poco affinché uscisse un urlo micidiale e spaccasse i timpani ai presenti. «Ma è fantastico, Mokuba!»
Ehehehe, ecco che il mio lavoretto, eccettuata la paga che avrei ricevuto dopo, portava il suo primo vantaggio: un parco divertimenti sicuramente immenso – perché da quando Seto era per la normalità? – e tutto gratis. Avrei pagato per vedere la faccia disperata di Honda, se l’avesse saputo! «Ma» guardai ciò che avevo addosso tirando il bordo del maglione «che potrei mettermi di meglio?»
Magari… magari Seto mi avrebbe proposto di indossare qualcosa di suo, prendendolo dalla sua camera! Se così fosse stato, sarebbe stata una giornata coi fiocchi.
E lui sospirò, facendomi fremere per l’attesa. «Hai ragione, andiamo.» E non lo disse tanto per dire: si alzò e si diresse fuori, a prendere l’auto.
Io, invece, restai come uno stoccafisso a fissare la parete, constatando che il mio piano era fallito. «Ma non dovrei essere un po’ più decente per un evento di tale importanza?» tentai.
Seto, il portone aperto, una gamba già fuori, si voltò verso di me, ghignando. «Sarebbe impossibile fare miracoli» sbottò.
Non seppi spiegarmi il perché, ma non rimasi completamente indifferente alla sua affermazione, sebbene non fosse la prima volta che paragonava il mio stato al suo. Benché altre volte avessi risposto con una risata o con uno sbuffo – o semplicemente ignorandolo – stavolta me ne stetti in silenzio, seguendolo a testa alta, Mokuba davanti a me, anche se dentro di me qualcosa si era smosso.
Cercai di non dargli importanza, classificandolo come la reazione del mio stomaco alla mancanza di una degna colazione più la gioia di un parco divertimenti da urlo.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo, tranne per la partenza.
«Sai guidare?» Lo guardai come se avesse chiesto se avessi mai alloggiato sulla Luna, gesto a cui Seto reagì scuotendo il capo. «Lasciamo perdere.»
«Avresti dovuto informarti prima sulle mie capacità, ora non venire a lamentarti con me.» Ricordavo di essermi imposto più di una volta di dover restare calmo, zitto e di dover resistere alle sue sicure provocazioni, a meno che non avessi voluto essere licenziato, ma il limite era stato ampiamente superato. Perché a furia di accumulare e accumulare, alla fine si scoppia. E’ come si quando si gonfia un palloncino: se si eccede, è meglio tapparsi le orecchie in attesa del sicuro scoppio.
Ma ciò che da un lato mi preoccupava era il mio modo di dibattere.
I litigi tra me e Seto c’erano stati sempre, in qualsiasi occasione e per ogni piccolo dettaglio. Sempre. Lui arrogante, io arrogante a mia volta.
Arrogante, non dispiaciuto, né arrabbiato.
Con Seto spesso erano volate le parole, e qualche volte avevo rischiato grosso, a un passo dall’usare le mani – dovevo ringraziare Yugi e compagnia per avermi fermato, altrimenti sarebbe stata espulsione assicurata da scuola – però non si poteva parlare propriamente di odio, piuttosto di una forte antipatia. Eppure, quando gli avevo parlato pochi secondi fa mi ero sentito offeso, e qualcosa mi diceva che le parole di Seto mi stavano colpendo in modo diverso. Come quando si riceve uno schiaffo da qualcuno da cui non te lo saresti mai aspettato. Come se un mio caro amico mi avesse fatto un torto.
Ed era questo che mi mandava in bestia: non sapevo spiegarmi il mio atteggiamento. E a quanto pare nemmeno il presidente della KaibaCorp ne era capace, dato che non mi prese proprio in considerazione. O forse, semplicemente, quello che pensavo io non gli interessava.
Come sempre, del resto.
Perché doveva infastidirmi se tra di noi era la norma?
Per l'intero viaggio in auto mi lasciai cullare dal rumore del motore e dalla strada che, vista dal finestrino, sfrecciava accanto a me. Restai tutto il tempo con la testa appoggiata al vetro, con la speranza che il gelo del finestrino potesse rimettermi in sesto e farmi svegliare completamente – perché era chiaro che se stavo facendo ancora congetture e ipotesi su Seto Kaiba dovevo avere qualche problema legato alla troppa fatica o al troppo poco sonno –. Scrissi il mio nome sfruttando l’alone formatosi, cosicché concentrandomi sui caratteri, potessi distrarmi un po’.
Cavolo, era davvero strano pensare che stessi riflettendo così tanto! Urgeva un controllo medico immediato: i miei amici mi ci avrebbero portato subito, se mi avessero sentito.

«E’ enorme!» Mokuba era su di giri. Si guardava intorno meravigliato, il ritratto della felicità. Secondo me avrebbe voluto provare ogni singola giostra. «Seto, hai visto? Posso andarci?»
Il maggiore dei Kaiba non annuì neppure, né diede segno di aver ascoltato il fratello, anche se sapevo che lo aveva fatto. «Se proprio ci tieni, avrai tutta la mattinata libera per farlo.»
«E tu?» m’intromisi, balbettando per il freddo pungente. Mi sforzai di controllare il risentimento che ancora provavo nei suoi confronti. Per fortuna, conoscendomi, sapevo che un po’ di sano divertimento mi avrebbe giovato. O al massimo, l’indomani mattina – sarebbe anche stata la Vigilia di Natale – mi sarebbe passato tutto.
«Quell’uomo al centro del parco, vicino alla ruota panoramica, lo vedi?» Non attese una mia risposta, ma continuò: «Ebbene, sarò impegnato a discutere con lui. Tu va’ pure con Mokuba.»
«Oh certo, certo» mi sventolai una mano davanti al naso «non intendo minimamente stare a sentire le sciocchezze che vi direte.» Col cuore a mille – perché non volevo sentire una sua battuta, non ora, non era proprio il momento – aspettai che parlasse, però, fortunatamente, stesse zitto. Ne approfittai per sbrigarmi: «Coraggio Mokuba!» Lo afferrai per la maglietta. «Andiamo a divertirci! Propongo di cominciare dalle montagne russe!» E, ridendo, mi allontanai da Seto Kaiba, sentendo che sarebbe stato meglio così: avrei potuto spaccargli la faccia a pugni se fossi rimasto.
Il mio buonumore non ci mise molto a ritornare.
Bastarono un paio di urla divertite sulle montagne russe e qualche oh di sorpresa sull’immensa ruota panoramica per allontanare quello dal mio cervello.
Mokuba non era poi tanto male: era molto più del piccoletto “Seto-ha-sempre-ragione” che avevo imparato a conoscere.
«Sei un tipo divertente, mocciosetto» risi, colpendolo piano con quella che doveva essere una spinta – guai a fargli del male!.
Lui sorrise, poi si passò l’indice sotto al naso. «Anche tu. Non sei stupido come dice Seto!»
Perfetto. La sua esclamazione per poco non mi fece andare la cioccolata calda – che avevamo preso al bar del parco – di traverso. Tossii violentemente prima di riuscire a respirare di nuovo a pieni polmoni. «Bah» poggiai la guancia sul pugno chiuso, poi sbuffai «la colpa è di Seto. Sono solo due le persone che gli garbano: una sei tu e l’altra è se stesso. Se non sei un suo o tuo clone non gli andrai mai a genio. Sarai sempre troppo inferiore» serrai il pugno sotto al tavolo «stupido, ignorante… insomma, non sarai come Seto Kaiba.»
«Mio fratello non è cattivo» mugolò lui, ma non con la solita vocetta irritante, bensì con calma. «Lui, ecco…» ci pensò un po’ su «non è cattivo.»
«Ho mai detto il contrario?» ribattei, disinteressato. «E’ ovvio che tu non la pensi così: con te è tutto “coccole e carezze”, per quanto la sua persona possa esserlo. E da un lato è anche “normale”» mimai le virgolette con le dita «che lui pensi male di noi comuni esseri mortali e non miliardari. Crescere in un certo ambiente determina questo atteg… c’è qualcosa che non va?» Mokuba mi sembrava perso in se stesso, a pensare chissà che cosa. Fissava il tavolo senza staccare gli occhi, anche se si vedeva che la sua attenzione era tutta per chissà che cosa. «Mokuba?» richiamai.
Il ragazzino sobbalzò. «Ehm… ecco» roteò gli occhi, sembrava tergiversasse «no nulla… guarda, Seto avrà finito, andiamo!» E balzò giù dalla sedia, lasciandomi addosso la curiosità di sapere cosa volesse dirmi.
Scrollai le spalle e lo seguii, più o meno pronto al viaggio di ritorno.
Quando tornammo a casa Kaiba, era pomeriggio, non ebbi il tempo materiale di rimuginare su tutte le cose che avrebbero potuto assillarmi: né la camera di Seto, né il mio atteggiamento verso di lui e nemmeno le parole di Mokuba. Mi saltò all’occhio un particolare che, chissà com’era stato possibile, non avevo notato prima: mancavano le decorazioni di Natale e prima della Vigilia restava solo un giorno.
«Niente decorazioni?» domandai allibito.
Mokuba abbassò lo sguardo – evidentemente era del mio stesso parare, però non voleva contraddire Seto, al quale, sicuramente, le festività non andavano troppo a genio, tantomeno gli addobbi – e fissò prima il pavimento, poi il fratello. «Allora Seto?» chiese flebile.
«Risalite in macchina.»








 








Allora! U___U
Come sempre ringrazio la mia adorabilissima sensei, sempre troppo gentile con me! *___*
(lo dico sempre che sono in debito con lei: prima o poi dovrò fare qualcosa xD).
Insomma, forse questo capitolo è un po’ più noioso degli altri, meno comico, più riflessivo, ma, ehi, prima o poi dovranno accorgersi l’uno dell’altro, no? *____*
*cerca delle attenuanti*
E va bene, fatemi sapere se vi è piaciuto almeno un po’.
Intanto ringrazio: coloro che leggono e recensiscono;
le 3 preferite e le 5 ricordate.
Grazie! <3




 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4: Pianificazioni ***


Capitolo 4: Pianificazioni


 

Image and video hosting by TinyPic

 


 

 

  «Ora sì che va bene!» esclamai.
Mokuba, al mio fianco, annuiva convinto e contento. Gli occhi ridenti e azzurri brillavano alla vista di un semplice alberello messo su in fretta e furia, che dava già un viso nuovo e allegro alla mogia Villa Kaiba. Non era nemmeno troppo torreggiante: considerata l’altezza del soffitto, avremmo potuto allestire l’albero di Natale più maestoso del paese; nemmeno quello al parco ne sarebbe stato all’altezza. Eppure, quel misero addobbo, ricco però di luci colorate che si accendevano e spegnevano a ritmo e di palline che ne venivano illuminate a loro volta, calzava proprio a pennello nell’angolo dell’atrio, accanto alle scale.
«Manca solo la punta» notai, e mi guardai intorno per cercarla. Trovatala me la rigirai tra le dita, osservandone il luccicare dei brillantini puntiformi e ridendo nel vedere le mani che, a contatto con l’oggetto, si tingevano di una curiosa tonalità rosso natalizia. «Perché non la metti tu, Kaiba?» urlai, fermando la marcia militare – in netto contrasto con l’atmosfera di una delle feste più dolci dell’anno – del padrone di casa. «Non hai fatto altro che guardarci, mentre sgobbavano per abbellire un po’ questo postaccio vuoto e spento!» Allargai le braccia. «Non trovi anche tu che sia bastato un piccolo simbolo, per farci entrare direttamente nell’atmosfera natalizia?» Effettivamente, io ero entusiasta: non esisteva alcuna festività capace di farmi sentire libero e felice come il Natale; e poi c’erano i panettoni – che adoravo persino più dei giorni di vacanza da scuola.
«Non dire sciocchezze.» E riprese a salire.
Ebbene, calma, sangue freddo, respiri profondi e pugni saldi ai fianchi. «Senti, riccastro, te l’hanno mai detto che a Natale si è tutti più buoni?» bofonchiai, le braccia al petto.
«Queste cose le lascio agli stupidi senza speranza come te.» Si avviò per le scale, e ancor prima che potessi richiamarlo il suono ritmico dei suoi passi si bloccò, e la sua voce tornò a farsi sentire: «E magari scrivi anche una letterina a Babbo Natale, chiedendogli di donarti un cervello, babbeo» mormorò le ultime frasi, che però sentii lo stesso.
«E tu chiedigli di portarti una sottospecie di cuore, anche non originale, così che tu possa somigliare quantomeno lontanamente a un umano, stupido!» Avevo gridato, mettendoci tutta l’anima in quelle parole forse senza senso. Perché cominciavo veramente a odiare Seto Kaiba, in quanto era un’entità al di fuori della mia comprensione; usciva da tutti gli schemi, ingannava gli altri, mostrandosi per quello che non era. Per quanto cercassi di non pensarci, infatti, non riuscivo ad allontanare il benessere interiore che avevo provato quando Seto, giorni prima, mi era parso diverso.
Umano.
Amico.
Dovevo riuscire a capire se si era trattato di un caso, oppure di un avvenimento vero e proprio; un fuoco di paglia o una scintilla scoppiettante e veloce?
L’avrei saputo.
La prima cosa da fare era entrare in camera di Seto, buttare giù a calci – anche se probabilmente era meglio evitare metodi tanto drastici – quella maledetta porta che allontanava il Signor Kaiba dal mondo reale. Lì dentro doveva esserci la soluzione al mio problema: una stanza è sempre arredata secondo il gusto personale, rispecchia l’anima dell’individuo in un certo senso. Non ero più così sicuro di volerla aprire, allora… cosa poteva esserci in un agglomerato di indefiniti metri quadrati – non sapevo quanto fosse grande la camera – che riuscisse a rispecchiare Seto Kaiba? Il fatidico mostro sotto al letto cui credono i bambini? Beh, valeva la pena di incontrarlo, se fosse servito per ottenere la mia risposta. Peccato che non sapessi di preciso nemmeno la vera domanda.

 

 
Avvicinarsi a quella stanza era ancora più difficile che battere Seto in qualche gioco, perché sì, anche se poteva non sembrare, perdevo sempre per un “tanto così”, a prescindere da quante ne dicessero e pensassero Honda e Anzu. Seto non era un cane da guardia, non si ergeva a difesa della porta combattendo con le unghie e con i denti, anzi, per la maggior parte delle volte era lontano… in apparenza; arrivava sempre quando le dita erano sul punto di combaciare alla maniglia. Piuttosto, allora, era la mia sfortuna a essersi svegliata dal lungo letargo tutta in una volta.
Una volta che ero stato particolarmente preso in considerazione dalla dea bendata, riuscendo così ad aprire addirittura il desiderato uscio, la figura di Seto Kaiba mi si era stagliata di fronte, e mi aveva surclassato solo con lo sguardo. Mormorando un “ops” fuori luogo e inchiodante mi ero dileguato alla velocità della luce.
Probabilmente, il padrone di casa avrebbe chiuso un occhio, oppure non si sarebbe accorto del mio piano, se non avessi, stupidamente, messo in scena tutti i miei – fallimentari – tentativi nell’arco di un pomeriggio. Potevo sperare che Seto fosse tanto idiota e ottuso da non capire la mia curiosità? Probabilmente no.
«Jounouchi, si può sapere che cavolo ti prende?» sibilò lui senza nemmeno alzare gli occhi dal portatile. «Sembri un animale chiuso in gabbia.»
Ennesimo boccone amaro, rospo mandato giù a fatica. Avevo finito per quel giorno e trascorrevo il resto del mio tempo guardando il pavimento, quasi catturato da quei disegni strani che le mattonelle, disposte curiosamente, partorivano. Frattanto, riflettevo riguardo qualche nuova azione offensiva, possibilmente non fallimentare. «Taci Kaiba» riuscii a dire, tranquillo e canzonatorio insieme, mentre staccavo e riattaccavo il cerotto dall’indice tagliuzzato a causa di un coltello birichino che mi era scivolato da mano.
«Che cosa hai in mente, testa bacata? E’ semplice capirti, non elabori mai pensieri al di sopra di una certa soglia.»
Alzai le spalle, indifferente, e per un attimo il ticchettio delle dita sui tasti fu l’unico suono nella stanza. Era piacevole a modo suo, sembrava che Seto ne fosse completamente abituato, come a una leggera musica di sottofondo. Guardava lo schermo senza soffermarsi sulla tastiera nemmeno per un secondo, segno che lui e la macchina era una cosa sola. Strana coincidenza: avevo sempre considerato Seto come un automa, e ora che iniziavo a vederlo diversamente mi veniva in mente quel paragone simpatico.
Ci avrei riso sopra soltanto una settimana prima. Era molto più semplice guardarlo in faccia e inarcare le sopracciglia in un’espressione contrariata e schifata, mentre tentare di capirlo era qualcosa di più. Era da adulti, invece io mi ero sempre comportato da bamboccio in quel campo. Non mi ero mai veramente interessato a Seto Kaiba perché per farlo bisognava capirlo, e comprenderlo davvero era molto più difficile di quanto lo era stato con Anzu, Yugi o Honda. Il presidente della KaibaCorp non era soltanto un involucro, ma tirare fuori ciò che componeva il suo io non era uno scherzo. Piuttosto una sfida.
«Niente» mi decisi a rispondere infine «che ti possa interessare. Che stai combinando, piuttosto? Tartassi quella tastiera in un modo incredibile!» risi leggero dando il via alla mia personalissima battaglia contro Seto Kaiba, anche se l’altro contendente ne era all’oscuro.
«Lavoro.» Non mi aspettavo qualcosa di molto diverso da lui.
«Oh, ma insomma, Seto, domani è la Vigilia, datti un giorno di respiro!» Sventolai la mano di fronte al naso in un gesto di obiezione.
«Sarà una giornata come tutte le altre, e la mia azienda non può fermarsi per un misero giorno segnato in rosso sul calendario» rispose, e il problema principale era che si trattava di una risposta alla Seto, seria. Signori, non avevo mai creduto nel Grinch* prima di quella serata accanto al fuoco, stile indiani.
«Accipicchia, dovresti rilassarti un po’ di più» commentai. «Esiste qualcosa a cui tieni oltre tuo fratello? Qualcosa che non sia materiale, dunque la tua azienda è esclusa a priori.» Domandargli di parlare di sé era come sperare di prendere un dieci in un compito dopo aver consegnato in bianco, ma un ostinato proverbio continuava, nonostante lo scorrere del tempo, a recitare sempre allo stesso modo: tentar non nuoce.
«Non ti pago per impicciarti degli affari miei.» Tombola: Jounouchi uno, proverbi zero.
Alzai le spalle. «Come non detto.» Feci appello a chissà quale forza interiore sconosciuta per alzarmi e muovere qualche passo verso di lui. Emanava radiazioni negative di una colorazione viola veleno; queste assumevano le sembianze di faccine stile horror che a bocca spalancata e mostrando i denti, suggerivano vivamente di non avanzare oltre. Mi chinai fino a sbirciare tanti strani codici sullo schermo del portatile. L’alfabeto-Kaiba, magari!
«Non è di tua competenza. Non ci capiresti un’acca nemmeno se te lo spiegassi cento volte.» Grazie mille, davvero gentile. E’ sempre gratificante sentirsi apprezzati.
«Probabilmente è vero» ridacchiai prendendo posto al suo fianco, pronto a essere consumato dalla sua aura negativissima. Mi sembrava di sentire già dei pizzicori sulla pelle. «Ma sono bravo in altro.»
«Per esempio?» O fingere di essere interessato gli riusciva male, oppure era sarcastico. Il mio sesto senso – facoltà meglio conosciuta da me medesimo come “Kaibasensismo” – mi suggeriva la seconda opzione.
«Che so…» mi finsi vago ma una mezza ideuzza stava nascendo piccola piccola nella mia testa, e non potevo ignorarla. Il problema era convincere il mister. «Magari nell’organizzare feste, nel far divertire la gente…»
«Devo dartene ragione, basta guardarti in faccia.»
Strinsi i denti e mi agitai sul posto, sperando di reprimere la voglia di prenderlo a pugni e a calci. E a testate: tante e tante testate, così da dimostrargli quanto male potesse fare una “testa bacata”. «Ma come siamo divertenti» digrignai i denti, a ogni sillaba la pianta del piede aderiva con forza al pavimento. «Mettimi alla prova, se non mi credi.»
Sospirò e, finalmente, l’esimio si decise a dedicarmi più attenzione, smettendola di scrivere e guardandomi in faccia. «Non servono questi trucchetti: puoi scordarti di allestire una festa sfigata per un gruppo di sfigati in casa mia.»
Non so se divenni rosso, fatto stava che le orecchie mi dolevano sulle punte e lo sguardo fu basso in un istante. «Ma che hai capito, era uno stupido esempio» borbottai.
E adesso come avrei fatto? Il mio semplicissimo piano consisteva nell’approfittare del casino che gli invitati – alias i miei amici – avrebbero fatto e sgattaiolare furtivamente in camera di Seto. Diamine, sembravo sempre più un ladro!
«Mi spiace di averti rovinato il piano» enunciò, falso, probabilmente riferendosi alla festa, senza ovviamente sapere che la mia vera intenzione era un’altra, rovinata egualmente.
«Possiamo organizzarla a casa mia, allora» dissi d’un getto. «Ci verresti così?» lo provocai.
«Dovresti chiedere un giorno di permesso. Ti ricordo che sei alle mie dipendenze giorno e notte, Vigilia e Natale inclusi.» Uffa, a quanto pareva non dovevo rinunciare soltanto alla mia idea – eh sì, all’epoca era sembrata sensazionale – ma anche al consueto festino coi miei amici. Pur volendo non potevo fargliene una colpa, però: erano i patti. «Però, potrei acconsentire a un’unica condizione.» Seto che scendeva a compromessi con me? O erano compromessi subdoli, oppure la fine del mondo era vicina. «Continuerai a lavorare per me, anche davanti ai tuoi amici.»
Risi, passandomi l’indice sotto al naso. «E questo è tutto?» Non riuscirai a mettermi in ridicolo, Seto.
«Dovrai organizzare tutto da domani pomeriggio in poi, però. Per il resto dovrai lavorare come sempre» sentenziò chiudendo il portatile in un gesto sicuro e alzandosi.
«Tu ci verrai allora!» Non era proprio una domanda, quanto una richiesta di conferma; in ogni caso non rispose nulla.
Non riuscivo a smettere di sorridere: avevo realizzato almeno metà della mia impresa, mentre per l’altra parte… avrei dovuto aspettare ancora. Anche perché l’intrufolarvisi dentro quando Seto era alla festa implicava l’arrampicarsi su per il cancello e forzare chissà quante porte. Finire in galera la notte di Natale per dare uno sguardo alla camera di un riccastro viziato? Non ne valeva la pena.
Se avessi seguito Seto in quel momento? Avrei potuto sbirciare?
Lo pedinai furtivo, come quel ladro che non smettevo di sentirmi, misurando i passi come fossero macigni e regolando il respiro. Ma probabilmente avevo a che fare con creature sovrannaturali, ipersensibili e con orecchie simili a reti paraboliche. Seto Kaiba, infatti, comparve appena dietro l’angolo, con le braccia incrociate al petto e il labbro contratto in una smorfia di disappunto. «La smetti con questo teatrino?»
Negare era alquanto inutile. «Voglio solo sapere che ci tieni in quella stanza, nient’altro!» Sapevo, però, di non avere il diritto di pretendere qualcosa di tanto personale come poteva essere una stanza.
Sbuffò e senza che potessi impedirlo mi afferrò per il braccio con forza, sembrava che le sue dita si stessero fondendo con la mia pelle. Sebbene mi divincolassi non riuscivo a impedire che Seto mi trascinasse dietro di sé: era forte, e più di me; non era da escludere che l’avessi sempre sospettato, ma trovarsi di fronte all’evidenza mi faceva andare su tutte le furie.
«Contento ora?» sibilò fermando la sua folle avanzata, con me al suo seguito, solo quando arrivammo all’entrata ed ebbe aperto. «Una normale stanza» continuò.
E in effetti era vero: facendo una panoramica veloce, potevo vedere un discreto numero di oggetti vari, ma mai superflui, che occupavano una posizione specifica, come in una scacchiera. Niente fuori posto, tutto schematico. C’era Seto lì dentro, come avevo pensato.
«Ora riuscirai a trovare un po’ di pace?» domandò tranquillo, con quella calma che odiavo perché sapeva di presa in giro.
Non gli augurai la buonanotte quando si sbatté la porta alle spalle, né risposi alla sua domanda a voce. Però no, non ero in pace con me stesso, perché un oggetto aveva attirato la mia intenzione. Avevo trovato l’ago nel pagliaio.
Due per Jounouchi, zero per proverbi.

 
   

 


 







* Paragonare Seto al Grinch non è stata opera mia, ma bisogna ringraziare la mitica Soe! Me lo disse in una recensione, e mi sembrò un’idea talmente perfetta che non potevo non aggiungercela! Cx
 
Per il resto... non credo ci sia troppo da dire riguardo al capitolo. Non succede niente di troppo, niente di particolare. E’ un capitolo di stallo che serve, come tutti i capitoli di transizione, a collegare diverse parti della storia! ^___^
Beh, spero che vi sia piaciuto almeno un pochino! .///.
Grazie mille! <3
 

  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5: Di colazioni e acquisti producenti ***


Capitolo 5: Di colazioni e acquisti producenti

 
 





  Image and video hosting by TinyPic



 

Quando ebbi finito di stropicciarmi gli occhi, seduto sul letto, gettai uno sguardo alla sveglia al mio fianco, e fu solo opera di un miracolo se non piansi di commozione e orgoglio per me medesimo; i numeretti sul display erano uno zero, seguito da un cinque, poi da un altro zero e un due.
Miracolo, gente: Katsuya Jonouchi si era svegliato prestissimo.
Avevo pensato, infatti, che concedendomi qualche ora di sonno in meno, avrei avuto più tempo per organizzare quanto dovevo. Seto mi aveva informato dicendomi che di mattina dovevo dedicarmi alle mie solite mansioni, mentre di pomeriggio avrei potuto fare quel che volevo. Però, se avessi terminato prima, avrei potuto muovermi più presto, no?
Quindi, bando alle ciance, mi precipitai giù – scendere un numero consistente di scale doveva essere veramente salutare per la circolazione sanguigna, ecco perché Kaiba mi aveva confinato all’ultimo piano. Eh sì, mi voleva proprio bene! – e subito studiai cosa mai potesse esserci da sbrigare. Mmm… considerando che avevo pulito per tutto il giorno prima e anche per tutto quello prima ancora, non mi sorpresi nel constatare che ogni minimo oggetto in “Villa Kaiba, sezione cucina” luccicava e brillava quasi di luce propria.
Opera mia, modestamente.
E allora cosa potevo fare? O meglio, provando a pormi la domanda diversamente, Seto cosa voleva che facessi? Mah, da come mi aveva parlato solo ventiquattro ore prima, sembrava che ci fosse chissà quanto lavoro da sbrigare, e invece…
Magari per ingannare il tempo avrei potuto addentrarmi nell’intricato dedalo di corridoi di casa Kaiba, rischiando così di perdermi o, peggio, di finire vittima di una qualche creatura mitologica stile Drago Bianco Occhi Blu. Tutto all’ultima moda, ovviamente; per esempio una qualche statua robotizzata che, a un mio passo falso, si sarebbe messa in azione da sola e, non riconoscendomi come il suo padrone o il fratellino del suo padrone, mi avrebbe sputacchiato contro qualche fiammata bianco lucente, carbonizzandomi.
Non era molto allettante l’idea di essere cotto a puntino come un… pollo al forno?
Però avrei potuto preparare qualcosa per colazione, così, tanto per sentire un abbozzo di complimento dal padrone di casa – ah, ah, ah, ma che vana speranza!
Meno male che ingraziarmi Seto non era una mia priorità, un mio scopo o qualcos’altro di simile, altrimenti avrei dovuto rinunciarvi in partenza.
Lasciando le fantasie assurde ai visionari, l’idea della colazione era buona; e volevo esagerare, gliela avrei portata anche a letto! Del resto non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione sia – era una fissa ormai – di entrare nella sua stanza – possibilmente senza rischiare di perdere l’uso del braccio per una stretta troppo forte che impediva il passaggio del sangue – che di vederlo in pigiama.
Sì, esatto, in pigiama.
Perché la divisa firmata KaibaCorp – quella bianca svolazzante con tanto di microfono fashion per farsi passare i compiti in classe – lo rendeva invulnerabile all’apparenza, mentre un normale pigiama – e non ditemi che ci stanno stampate sopra la K e la C perché potrei avere un collasso – lo classificherebbe come individuo quasi normale.
Frattanto, comunque, avrei dato un’occhiata negli stipi, sperando che le pentole di ieri, sistemate alle meno peggio, non mi cadessero addosso.
Temetti quasi di prendere la scossa quando toccai la maniglia di quella porta con le dita. La abbassai piano, come se potesse esplodere da un momento all’altro. Mi affacciai di un poco, in modo da poter guardare all’interno della camera e scorgere un Seto profondamente addormentato e, soprattutto, senza quella corazza di freddezza e presunzione che indossava costantemente.
Oh, beh.
Sicuramente il mio intento non era quello di trovare Seto già in piedi – erano le sei del mattino –, con indosso già i suoi pantaloni neri aderentissimi, ma tanto aderenti che per un vergognoso istante mi chiesi se non si fossero fusi con la sua pelle, e a torso nudo.
Mi lanciò una semplice occhiata che non seppi interpretare e indossò la maglia come se niente fosse. Ma logicamente, insomma! Eravamo due maschi, stessa specie, non c’era niente da nascondere, voglio dire… uguali!
«Mi sorprende vederti già in piedi» disse.
Sapessi quanto sono sorpreso io, che almeno uno scopo ce l’ho!
«Senti Seto, fai sempre le ore piccole?» chiesi fingendomi indifferente.
Avanzai di qualche passo e poggiai ciò che avevo preparato – sul classico, una tazza bollente di tè, sicuramente più appropriata per Seto di una tazza di latte, più alcuni biscotti che, dopo minuti e minuti di fatica, avevo trovato miracolosamente in uno dei millemila cassetti – sulla sua scrivania. Allungai l’occhio verso una foto incorniciata, della quale, però, non distinguevo il soggetto, visto che era completamente abbassata. Che fosse in disordine? Qualcosa in disordine nell’ordinatissima camera dell’ancor più ordinatissimo presedente della KaibaCorp? Sa-cri-le-gio!
«Tu, piuttosto… quale insolito motivo ti ha portato a non poltrire fino alle dieci?»
Era comica la nostra mancanza di interazione. Non eravamo capaci di portare avanti un discorso normale, quello che fanno tutte le persone civili, perché entrambi tendevamo a uscircene con argomenti tutti nostri, fuori traccia, e continuavamo a seguire il nostro personale filo conduttore del discorso, ignorando l’altro.
Sì, proprio comico.
«Avevo pensato di potermi anticipare qualcosa, così da avere più tempo nel pomeriggio» spiegai e nella spiegazione uno sbadiglio mi fece spalancare ridicolmente la bocca. E per coronare il tutto mi stropicciai anche gli occhi, similmente ai bambini.
«Dormire in piedi non è retribuito, bonkotsu» mi avvisò ghignando.
«Peccato» risposi calmo, invece che farmi prendere dall’istinto e dirgliene di tutti i colori come facevo spesso. «Sarebbe stato bello ottenere soldi tanto facilmente» aggiunsi anche. «Ti rifaccio il letto?» domandai subito, prima che potesse parlare, non senza un leggero fastidio allo stomaco.
«No, vattene pure.»
Il solito sgarbato, puff!
«Tanto meglio» dissi e mi voltai per uscire, quando il mio sguardo si posò sulla colazione che gli avevo lasciato e, di conseguenza, sulla foto rovesciata. Fui tentato di sollevarla, ma non mi sembrava giusto. Non senza il permesso di Seto, perlomeno. «Oh, qualcosa di disordinato in questa stanza tanto perfetta, Seto» esordii giocoso, quasi volto a prenderlo in giro. Non potevo essere diretto, porgli una domanda tanto per semplice curiosità, così come non potevo confessare, nemmeno a me stesso, che avevo voglia di conoscere Seto un po’ più profondamente. Ma se lo avessi fatto sarei stato tagliato fuori da quella commedia teatrale che rappresentava alla perfezione il nostro rapporto: scambio di battute, comicità, insomma sì, una vera e propria commedia. C’erano dei copioni da rispettare, dei ruoli, e il mio non era quello di soffermarmi a comprendere Seto Kaiba. Non lo era mai stato, anche se avrei voluto che lo fosse almeno per una volta.
Okay, lacrimuccia.
«Una foto» osservai genialmente toccandone la cornice. La sfiorai con lentezza estenuante, pronto a fermarmi nel caso in cui Seto me lo avesse chiesto.
Ma non successe.
Ehy, ehy, pronto Seto! Sto toccando qualcosa che ti appartiene con le mie manacce da schifoso pezzente bonkotsu. Non fa niente?
L’immagine ritraeva Seto e Mokuba diversi anni prima, intenti a giocare una partita a scacchi. A colpirmi furono l’abbigliamento di entrambi e lo sfondo, il posto: niente sopraccitate divise svolazzanti “tendenti al mantello”, niente super tecnologia, niente ricchezza. Quelli nella foto non erano Seto Kaiba e Mokuba Kaiba, non quelli che avevo conosciuto da sempre. Soprattutto in Seto si vedeva un certo cambiamento: gente, il riccastro sorrideva. Evidentemente, dopo questa rivelazione alquanto scioccante, in ogni parte dell’universo conosciuto e sconosciuto – certe notizie arrivano ovunque, eh! Le questioni che riguardano la KaibaCorp superano le conoscenze della scienza – si stava abbattendo un cataclisma. A breve sarebbe arrivato anche qui.
«Ho detto che puoi andare» ripeté autoritario.
Capita l’antifona.
Mi trattenni e non gli chiesi niente riguardo alla foto, anche perché sapevo che, se davvero volevo riuscire a sapere qualcosa in più, non era Seto colui che dovevo interrogare.
Inoltre, Mokuba sarebbe stato un interlocutore molto più piacevole di Seto.
* * *
Jonouchi aveva chiamato poco tempo prima, e che lo avesse fatto da una cabina telefonica o che Seto gli avesse permesso di utilizzare il suo, di telefono, non lo sapevamo. A quanto pareva, Kaiba gli aveva concesso il permesso di organizzare il solito festino per Natale, per cui aveva avvisato per confermare la sua possibile partecipazione.
Peccato che certe cose andrebbero organizzate un po’ prima. Giusto quel po’ di tempo necessario per evitare una fila chilometrica al supermercato.
Fila che, ovviamente, io trovai.
«Accidenti» mormorai, e fermai i miei passi di colpo. Presi seriamente in considerazione l’idea di andarmene e di spiegare a Yugi che… mmm… che… insomma, avrei inventato qualcosa. La manovra di inversione di marcia venne bloccata dall’urto con qualcuno. «Oh, scusa» dissi. Guardai in basso – avevo sentito un tonfo – e la vidi. «Mana, sei tu.» Le porsi la mano.
Si rialzò. «Grazie mille. Come mai anche tu qui?»
Mi resi conto con una certa noia di essere ancora lì, con tutta quella gente. Sicuramente il mio stato d’animo traspariva dal volto, perché Mana scoppiò a ridere all’improvviso.
«Quel broncio è buffissimo» spiegò, ilare, in risposta alla mia espressione perplessa, e non potei fare a meno di sentirmi in imbarazzo.
«E’ la Vigilia, stasera organizziamo qualcosa tra amici» risposi tentando di sviare il discorso da quello che era stato il mio broncio buffissimo. Anche Yugi mi ripeteva spesso che a volte mettevo su espressioni alquanto simpatiche. «E tu, Mana? Hai programmi per questa sera?» le domandai.
Scosse il capo. «Sono qui per quotidiani sostentamenti.»
«E allora ti andrebbe di venire a casa di Yugi?» Avevo parlato di getto, senza pensare. Senza nemmeno chiedere a Yugi se potevo – conoscendolo, però, non ce n’era minimamente bisogno. «Non è bello passare la Vigilia da soli» mi sentii in dovere di spiegare, come per giustificare la mia proposta.
I suoi occhi si illuminarono di luce viva e, in un gesto impulsivo, mi prese le mani tra le sue. «Davvero?» domandò. «Davvero, davvero, davvero, davvero?»
«Certamente» risposi un po’ titubante. Sebbene la conoscessi, non mi aspettavo tutto questo entusiasmo. Ma ne fui immensamente felice. «Ti dispiacerebbe aiutarmi con la spesa? Diciamo che… non è una delle mie attività preferite» conclusi sorridendo.
Lo scintillio nelle iridi della mia interlocutrice era tutt’altro che un buon segno. Mana era semplicemente un mito, una personalità unica nel suo genere. Sempre piena di energie, disposta a farsi in cento per gli altri, di buona compagnia, solare, e anche una bellissima ragazza.
Già.
Mi sorrise per un istante infinitesimo prima di scattare verso gli scaffali più vicini, lasciando dietro di sé la fantomatica scia di polvere in stile cartoon.
«M-Mana?» provai a chiamarla sbalordito, un braccio – inutilmente – proteso in avanti.
«Se non ci sbrighiamo non ce la faremo nemmeno per stasera!» E si perse tra le chissà quante persone. Sperai con tutto il cuore di non aver peggiorato la situazione.
Però, nonostante tutto, lei mi faceva sorridere.
Sempre.
Ovviamente, dopo aver evitato che lei facesse a botte con un energumeno enorme che ci era passato davanti, io e Mana percorremmo la strada di casa insieme. Il bivio arrivò troppo presto, e troppo presto dovemmo separarci. Ci salutammo come due amici e quando stavo per voltarmi, sentii una stretta al braccio.
«Atem» disse lei, un po’ imbarazzata come non l’avevo mai vista prima «grazie di tutto.» Mi diede un bacio sulla guancia, e i suoi capelli lunghi mi solleticarono il viso.
«Sciocchezze, non c’è bisogno di ringraziarmi. A stasera!»
Ma con Mana, ero pronto a metterci la mano sul fuoco, non si sapeva mai cosa aspettarsi.
«Atem!» mi chiamò di nuovo, con voce più alta, tant’era che quasi mi preoccupai. Non feci in tempo a voltarmi che la incontrai, la vidi molto vicina a me, parte di me. Era il suo sapore quello che per un istante troppo breve avevo avuto sulle labbra. Un bacio rapido, un nonnulla che mi trasmise un tutto. «A stasera» concluse lei, le mani intrecciate dietro la schiena, le labbra che le tremavano.
E prima che potessi domandare alcunché, Mana si girò. Fu lenta ad andarsene, a camminare, lo faceva come se non fosse successo nulla. E, intanto, osservavo la sua schiena farsi sempre più lontana.
Fu un gesto involontario quello di passarmi la lingua sulle labbra.
Era un sapore buonissimo.
 
«Hai comprato tutto?» domandò Yugi non appena entrai.
«Mh, sì.»
«Sei distratto» osservò.
Negai.
«E’ successo qualcosa.» E non era una domanda.
«Assolutamente…» conclusi con un “no” nello stesso momento in cui Yugi disse “sì”.
Non ero sorpreso che Yugi mi avesse già scoperto. Innanzitutto, non era bravo a tenermi tutto dentro ma lo manifestavo anche nei piccoli gesti; però, lui era il mio migliore amico, era una catena indistruttibile quella che ci univa, un legame che ci permetteva di capirci a vicenda, e subito. Non esageravo nel dire che ci comprendevamo similmente a una mamma col proprio figlio. O, almeno, era quello che l’esperienza mi aveva fatto ritenere vero.
«Ho incontrato Mana» spiegai, consapevole che non ne avrei parlato con nessun’altro, se non lui.
«Non preoccuparti, non aggiungere altro, ho già capito.» Strizzò l’occhio. «Sei cotto a puntino, Atem.»
Esattamente.

 
 
 


 




 
Allora… beh! Cx
Ho pensato – e spero di aver fatto bene – di aggiungere anche un altro punto di vista! UwU
Così, per movimentare un po’ la cosa! ^___^
Mi scuso se la storia procede a rilento, ma a me piace fare le cose con calma – e forse TROPPA calma. >___>
Beh, grazie a tutti coloro che mi seguono e alla mia sensei che continua a betarmi i capitoli facendo un lavoro eccezionale! *.*

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6: Discorsetti illuminanti ***


Capitolo 6: Discorsetti illuminanti
 





Image and video hosting by TinyPic

 

 
 

Okay, teoricamente era piuttosto semplice come cosa. Dovevo trovare il piccoletto, salutarlo affettuosamente, inscenare una normalissima chiacchierata e cercare di trarre quante più informazioni fosse possibile. Era un pallino fisso il mio, ormai, e la foto vista in camera di Seto non aveva fatto altro che accendere in me una curiosità ancora più grande.
Jonouchi, quando imparerai a farti gli affaracci tuoi e a non ficcare il naso nelle questioni altrui – specialmente di un certo soggetto di nostra conoscenza – allora sarà tutto perfetto.
Ma la mia coscienza, che mi ripeteva assiduamente di starmene al mio posto (mmm… sembrava quasi Seto, altro che la mia coscienza!), non capiva di trovarsi in presenza di un bravo ragazzo. E, come da copione, i bravi ragazzi aiutano sempre i cattivi ragazzi, magari con l’aiuto di qualche magico folletto. Sì, Mokuba era il magico folletto.
«Jonouchi… che cosa stai facendo?»
Per la serie: se Maometto non va alla montagna, allora sarà la montagna ad andare da Maometto. Eccola là: Mokuba si ergeva in tutto il suo metro e un mandarino marcio davanti a me, e mi stava squadrando dall’alto – che battuta! – in basso con occhi perplessi.
«Che c’è, non hai mai visto gente che pensa?» domandai con una punta di fastidio.
«Gente che pensa sì, ma proprio tu… no, non me lo aspettavo.» Scosse la testa, accentuando la sua scontata frase.
Tutti ripetitivi ‘sti Kaiba.
Pazienza, pazienza… chissà che tipo di incantesimo – no, mi ero superato, a un Seto fattucchiero sotto mentite spoglie, magari vestito da nonnina, o nonnino se preferiva, non ci avevo ancora pensato – era stato scagliato all’alba dei tempi in quella casa/palazzo/reggia. I presenti – esclusi i camerieri, quindi dire Seto e Mokuba era più che sufficiente – venivano uniformati tipo robot, tutti a seguire spasmodicamente le orme di mamma – o mammo? –  orso. Mammo Kaiba.
«Tralasciamo, mocciosetto, tralasciamo» concessi con una sventolata di mano, «c’è un’altra cosa che mi interessa sapere da te, adesso.»
«Che vuoi?»
A giudicare dall’espressione di Mokuba, il mio tono doveva essere stato troppo… ehm… troppo cattivello. E’ vero che avevo voluto provare a spaventarlo, ma quell’aria di timore, misto a “ahò, ma questo è uscito di matto!” mi fece pensare di non aver esattamente raggiunto il mio scopo. Oh, beh, poche chiacchiere e più fatti, meglio lasciar perdere.
«Non pensare a chissà cosa, tieni a freno la fantasia… ma ti va di parlare di te e tuo fratello?» buttai lì, e il suo viso confuso mi indusse a chiarirmi meglio: «che c’è di male, no? Poi io e te siamo amici, e anche io e tuo fratello lo siamo a modo nostro! Lui, però, è… boh, molto cinico, no… antip… ecco, è molto chiuso» di mentalità «per questo non chiedo direttamente a lui» conclusi sbrigativo, cercando di essere quanto più credibile possibile.
Ehi, era difficile trovare un aggettivo non vagamente offensivo per Seto Kaiba!
«E perché ti interessa?» mi domandò.
«Non vorrai costringermi a ripetere tutto quello che ho già detto, spero!»
«Ah» sospirò, «chiamale motivazioni quelle. Che vuoi sapere, su?»
Bravo Mokuba, bravo bambino.
Forse era meglio essere sinceri, mah… magari non troppo, giusto evitare di dire bugie non addentrandomi in ambiti che non avrei voluto tirare in ballo, ecco.
Prima, però, che potessi aprire bocca, Mokuba mi acchiappò per il braccio e mi trascinò con sé.
«Andiamo in salotto, almeno ci sediamo!»
Giusto! A casa Kaiba le cose andavano fatte con comodo, mica “alla pezzotta”! Parlare in piedi, puff, era superata come cosa! Se capitava per strada, tipo, non dubitavo che avrebbero tirato fuori da chissà dove una sedia portatile, smontabile e rimontabile in tre decimi di secondo senza un minimo margino di errore.
Qualcosa, forse la coscienza di cui sopra, mi stava accusando di essere troppo cattivo nonché lamentoso senza motivo, visto che quella di Mokuba era solo gentilezza.
No, Jonouchi, che cosa abbiamo detto prima, eh? Tu fai parte de buoni! Le considerazioni lasciale agli altri!
Arrivammo.
Come ogni altro anfratto della dimora dei monsignor Kaiba, anche il salotto rispondeva a tutti i canoni di esagerazione, bellezza, maestosità. Superlativa.
Mokuba si accomodò su una poltroncina di un rosso accesso – che, per chi fosse interessato, continuava a rispondere a tutti i canoni già nominati in precedenza – e, poggiata la guancia sul pugno chiuso, gesto degno di un Kaiba qual era, mi fissava, aspettando, immaginai, che parlassi, che chiedessi.
«Embé?» rimbeccò, infatti.
«Embé niente, no?» sbottai, guardandomi ancora intorno e fossilizzandomi alla vista del mastodontico lampadario in stile Reggia Versailles di Lady Oscar. Infine, la testa ancora girata alle mie spalle in direzione del tanto lussuoso oggetto, mi accomodai su un altro divanetto, di fronte a Mokuba.
Non avevo mai visto quella stanza: beh, non che avessi pensato di arrivare a vederle tutte in quelle due settimane scarse che avevamo di vacanza, era ovvio; inoltre, immischiarsi e arrischiarmi in quel dedalo di trappole e chissà che altro – come i già citati robot Drago Bianco occhi Blu – era l’ultimo dei miei pensieri.
«Mah, raccontami qualcosa di voi, qualsiasi cosa» proposi poi, distogliendo l’attenzione da qualsiasi altro pensiero.
Mokuba fece spallucce. «Non c’è niente da dire, siamo così come ci vedi.»
Accipicchia, allora la mia opinione sui Kaiba – su Seto – era destinata a rimanere di poco al di sotto del pessimo!
«Anzi no. Per me è così, per mio fratello non proprio. Tu non potresti capirlo.»
«Ah… io non potrei capirlo?» Bello passare da vittima a colpevole. «Perdonami, ma non ho notato tanti sforzi da parte del tuo fratellone…»
«Seto non è come pensi! Seto ha lavorato tanto per arrivare fino a questo punto. Giorno e notte, una fatica immane per un ragazzo della sua età!»
Calma, calma, non ci alteriamo.
Mamma mia, come andava in fiamme il piccolo Kaiba a una minima parola semi storta su suo fratello.
«Sarà come dici, ma permettimi un’osservazione: fatica fino a un certo punto e non nel senso fisico del termine. Lavorare sodo è un’altra cosa. Partire con la strada spianata è tutto un altro discorso. Sì, capisco, non si ottiene niente senza un po’ di impegno, però guadagnare una certa cifra quando si ha già un gruzzoletto da parte, come base, è più semplice che partire dalla polvere del salvadanaio» obiettai, forse alzando un po’ troppo la voce.
In effetti, quell’argomento mi stava abbastanza a cuore, vista la mia situazione familiare ed economica, che non era un granché, anzi.
«Tu non capisci!»
«E allora spiegami, è questo che sto aspettando» replicai.
Mokuba allora si guardò intorno, quasi volesse essere sicuro che non ci fosse nessuno oltre noi lì dentro – anche se dovevano esserci teleschermi dovunque per tener d’occhio che nemmeno gli acari disubbidissero al Sommo. Pareva voler dire qualcosa, lo capivo persino io – persona alquanto distratta e rimbambita – che c’era altro che voleva dirmi, quasi desiderasse confidarsi con qualcuno. Eh, beh, io ero proprio quel qualcuno.
«Mokuba, ho visto una foto in camera di Seto recentemente. Eravate voi due da piccoli» confessai infine. «Sembrava esserci un altro clima, ma forse mi sbaglio. E’ successo qualcosa che non so?»
In quel momento mi sentii molto un membro effettivo di casa Kaiba e la cosa mi fece uno strano effetto. Mah, da un lato non volevo ammettere di desiderare di conoscere quella faccenda e, nel caso ci fosse stato un qualsiasi problema, di volerlo risolvere, o almeno provarci. E poi, mi ero imposto di cercare di capire meglio Seto: quella foto non poteva essere qualcosa di falso e distorto; mi sembrava vera, lo era davvero. Avevo letto sul viso di Seto e Mokuba la stessa innocenza mia e di Shizuka, un’innocenza mista a dolore e sofferenza.
O forse stavo soltanto viaggiando troppo di fantasia, chissà.
«Jonouchi, perché vuoi saperlo?»
Decisi che era necessario essere sincero e schietto fin dall’inizio per ottenere qualcosa in cambio. Chiarezza in cambio di chiarezza, equo.
«Vedi, ho avuto una situazione familiare… particolare» accennai, non mi piaceva parlarne, evitavo di tirare fuori il discorso persino coi miei amici, figurarsi, «quindi… no, e poi sono sensibile a queste cose, nonché curioso di personaggi misteriosi come te e tuo fratello!» E la buttai sul ridere, incapace sia di andare avanti con la storia della mia vita che di continuare a essere troppo serio.
Mokuba abbassò la testa e fissò il pavimento. Aprì la bocca una prima volta ma non emise parola, infine si decise: «Jonouchi, mi prometti che non lo dirai a nessuno?»
Alzai simbolicamente le braccia al cielo. «Promesso.»
«Io e Seto…» cominciò titubante, «non siamo dei veri Kaiba, insomma, non figli di Gozaburo Kaiba.»
«Figli illegittimi?» scherzai, cercando di metterlo a suo agio – poteva sembrare strano per uno come me, visto come mi comportavo di solito, eppure diventava sempre più difficile gestire una situazione di tale tensione. Mokuba aveva stretto i pugni tanto che, a breve, secondo me si sarebbe fatto male.
«Figli adottivi, Jonouchi. E’ stato Seto a far sì che accadesse.»
E mi raccontò in breve cos’era accaduto a lui e a Seto ai tempi dell’orfanotrofio in cui erano cresciuti dopo la morte dei genitori, della loro sofferenza e della loro solitudine. Del disagio e del senso di inadeguatezza che il ritrovarsi in un luogo diverso con persone diverse e senza legami aveva portato in loro. Vidi chiaramente, poi, grande gioia ed entusiasmo, nonché fierezza, mentre Mokuba narrava del suo rapporto con Seto, di come questi lo difendesse dai bambini anche più grandi di lui stesso, di come sapesse sorridere prima e di come, secondo lui, sapeva ancora fare, solo che ci riusciva in modi alternativi.
Percepii il mio stesso legame con Shizuka. Anche la nostra era stata una situazione complicata, anche noi avevamo sofferto; mi sentii terribilmente vicino a Seto.
«Sai Mokuba, ho una sorellina anch’io. Si chiama Shizuka.»
«Davvero? Non l’ho mai vista!»
Sorrisi; il ricordo di mia sorella non solo mi metteva di ottimo umore, ma anche se fossi stato terribilmente arrabbiato, mi avrebbe messo subito a mio agio, facendomi raggiungere una fantastica calma interiore.
«Lei vive con nostra madre. Sai, quando i miei hanno divorziato ci hanno separati. Lei con nostra madre, io con nostro padre.»
Lui scattò in piedi. «Io… io senza Seto non ce l’avrei fatta, ne sono certo» mormorò. «Mi spiace, Jonouchi.»
Alzai le spalle, ormai… il passato apparteneva al passato, e lì doveva rimanere.
Guardai l’orologio: era proprio ora di sbrigarsi che la festicciola aspettava solo di essere preparata, e anche se non era sembrato avevamo perso un sacco di tempo. Inoltre, nonostante Mokuba fosse stato di un’onestà disarmante, io ancora non me la sentivo di parlare di mio padre; era un argomento, un capitolo della mia vita che preferivo tenere solo per me, per il momento. O comunque limitare di discuterlo, sia con me stesso che con altri.
«E’ tardi Mokuba, devo andare. Continueremo a parlare un altro giorno, se ti va. Ci vediamo più tardi, alla festa!»
«Mi raccomando, acqua in bocca» sussurrò lui, «se ci sente Seto è la fine.»
Poggiai un dito sulle labbra sorridenti, poi mi voltai, salutai con la mano e me ne andai, destinazione casa di Yugi.
C’erano molte cose da fare, parecchie da sistemare.
Mi avviai, perciò, svelto, desideroso anche di abbandonare almeno per un po’ la vista e la presenza opprimente di quelle mura che ogni giorno, man mano che scoprivo qualcosa su chi le abitava e comandava, diventavano più strette, diverse, più pensati e soffocanti.
Mi stavo accorgendo che Seto, checché se ne potesse dire, da un lato mi somigliava.
E non sapevo quanto la cosa mi piacesse o meno.
 
Scocciante, stancante e pure frustante, viste le ultime notizie, però il tempo trascorse molto velocemente e duramente tra una faccenda e l’altra.
Particolarmente memorabile la quasi caduta del Sig. Muto – Atem, salvatore universale, lo aveva afferrato giusto in tempo, supportato altrettanto prontamente da me e da Honda –, scivolato su un lago d’acqua generatosi dal rovesciamento del secchio a causa di una Mana che, arrivata prima con l’intenzione di dare un aiuto,  era inciampata in esso.
Nota Bene:era stato Yugi a lasciare il secchio lì, non io, come aveva subito accusato Honda.
In cucina si arrangiarono Otogi e Anzu.
Intimammo Mana, per il bene universale della somma cucina e anche dei mobili di casa Muto, a non muoversi dal divano su cui, visto che era ospite, l’avevamo gentilmente fatta accomodare. Mai che si stancasse, era un’ospite, diamine!
Le pulizie finite, le pietanze quasi pronte e presto pronte per essere servite a tavola.
Mancava solo qualcuno – tra cui Seto –, poi sarebbe stato tutto perfetto – tipica frase da favola, ma vabbé.
«Avete visto, ha cominciato anche a nevicare!» osservò Anzu, romantica.
«In perfetto pandan con il Natale» continuò Atem, piuttosto disinteressato ai cambiamenti climatici. Commentò tanto per commentare, in sostanza.
Poi il campanello suonò.
«Sono Seto e Mokuba» annunciò già Anzu, che ancora era persa a guardare fuori e, in particolare, a vedere i fiocchi di neve che cadevano.
Personalmente, non mi aspettavo che sarebbero venuti veramente…
«Su, vado io!» mi offrii volontario con fin troppo entusiasmo, cosa che stupì non poco i miei amici.
«Guarda che non vogliamo risse stasera, quindi tieni a bada i cazzotti, Jonouchi.»
Sventolai la mano in un gesto di noncuranza totale.
«Sta’ zitto, Honda.»
Bene, era ora. Se non fosse stato Seto a fare il primo passo – e potevo giurare sulla barba rifatta di Babbo Natale che lui non avrebbe nemmeno sollevato la scarpa da terra –, allora sarei stato io a mostrarmi – per davvero – più disponibile e meno arrogante – nei limiti: mica mi sarei fatto trattare a cane!
Sforzati Jonouchi! A differenza sua, non c’è niente che tu non possa fare, vedila così!
Sospirai silenziosamente per non farmi sentire, infine girai il pomello e aprii.
Sorrisi, sperando che sembrasse naturale. «Buonasera Seto, ti stavamo aspettando. Coraggio, entra pure!»

 
 
 
 
 
 




 








 
Ciao capitolo 7 di “Missione Convivenza”, sono mesi che provo a scriverti e finalmente sei nato – pure con molta facilità, la stessa che ha sempre distinto la stesura di questa storia.
Vabbé, scusate il ritardo! ^^”
E scusate pure gli errori e orrori che potrebbero esserci. Mi pareva brutto farvi aspettare ancora, e mi pareva ancora più brutto dire alla mia sensei di muoversi a betare il capitolo perché dovevo postarlo. Ù-ù
Ma penso che, più o meno, sia discretamente leggibile! XD
Grazie mille per aver letto, e se vi va lasciate pure un commento! (mi fa solo piacere! <3).
Grazie ancora! 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=825088