Your eyes are like my heart: Black

di soniuccia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** That strange presentiment ***
Capitolo 2: *** The kid with black eyes ***
Capitolo 3: *** The girl with chocolate eyes ***



Capitolo 1
*** That strange presentiment ***


 

Quando quella mattina mi alzai, ero piuttosto fiduciosa.

Era il primo giorno d’estate, il sole splendeva e le previsioni non preannunciavano cattivo tempo nemmeno nei prossimi giorni.

Da qualche tempo, una strana felicità mi abitava.

Forse era il caldo incombente o semplicemente il fatto che tra un mese avrei compiuto otto anni.

Fatto stava che niente avrebbe potuto rovinare quella sensazione.

«Cassie!»

Mi sentii chiamare da mia mamma.

«Cassie la colazione!»

Scesi entusiasta dal letto e presi a scendere di corsa le scale.

Arrivata alla fine un delicato e dolce profumo invase le mie narici.

Varcai la soglia della cucina e mi sedetti al tavolo.

In quel momento mia madre mi mise davanti un piatto con dei pancake.

Sgranai gli occhi. Era da secoli che non li preparava. Che fosse anche lei di buon umore?

La osservai, facendo attenzione a notare se avesse qualcosa di nuovo o se fosse cambiata in qualche modo.

Gli stessi capelli castani di sempre, gli stessi occhi armoniosi color nocciola stranamente simili al cioccolato, stesse guance perennemente arrossate.

Direi che era tutto nella norma.

Quando davanti a me posò poi del cioccolato fuso, iniziai a pensare che forse aveva perso davvero il nume della ragione...

Al contrario di me, lei odiava tutto ciò che era dolce. Io invece ne avevo un amore spropositato,  tanto che un giorno mi ero fatta spiegare come preparare dei biscotti.

Dopo avere ripulito tutto il piatto, mi alzai e corsi a prepararmi per uscire, cosa che il giorno prima la mamma mi aveva promesso.

Ci eravamo trasferiti da poco a Londra ed io ero affascinata dalla London eye cioè una grande ruota panoramica. Dopo avere implorato i miei genitori miliardi di volte, si convinsero a portarmici.

Di corsa salii nella mia camera e afferrai una graziosa maglia gialla e dei pantaloni bianchi.

Dopo averli indossati ed essermi guardata allo specchio soddisfatta, mi precipitai in bagno. Mi guardai allo specchio. Ero molto simile a mia mamma:

gli stessi capelli castani ondulati, gli occhi nocciola e lo stesso viso armonioso.

L’unica cosa in qui eravamo diverse erano le guance. Le le aveva rosee, io sempre bianche così come tutto il viso. Feci spallucce e cominciai a sciogliermi i ricci ribelli che mi arrivavano alle spalle.

All’improvviso, sentii un clacson suonare e capii all’istante che era mio padre, tornato dal qualche posto dove la mamma gli aveva imposto di andare, tipo al supermercato.

Posai la spazzola e dopo essermi messa le mie scarpe di ginnastica, scesi ed assieme la mamma ed uscii di casa.

 

***

 

Si era ormai fatta sera ed io ero al settimo cielo.

Dopo un pomeriggio di passeggiate e dolcetti sgranocchiati qua e là, finalmente stava per arrivare il gran finale: la London eye. Già pregustavo il tanto atteso momento in cui  sarei arrivata in cima!

Dopo qualche minuto che camminavamo, chiamai mio papà con una tirata di un angolo del giubotto.

Abbassò lo sguardo.

«Cosa c’è Cassie?»

«Papà, noi tre rimarremo sempre assieme vero?»

Gli chiesi stringendomi a lui.

«Certo»

Riaspose scompigliandomi i capelli.

Fu curioso il fatto che lo disse proprio in quel momento, perchè quando alzai la testa dal suo giubotto, mi trovai difronte un muro.

«No! Ho sbagliato strada!»

Fece papà. Quando ci voltammo, ebbi un tuffo al cuore.

Un uomo. Davanti a noi. Una pistola in mano.

Mi sentì catapultata dietro la schiena di mamma dalle sue mani affusolate.

Il suo viso aveva perso l’espressione gioiosa che aveva. Era in preda al terrore.

Quando l’uomo si mosse avvicinandosi, spontaneamente indietreggiai.

Aveva un passo malfermo, era di sicuro ubriaco.

Il mio cervello vagò cercando una via d’uscita.

Era un vicolo cieco. Solo se l’uomo si fosse avvicinato fino quasi a toccarci sarei potuta scappare. E i miei genitori?!

Delle lacrime scesero silenziose lungo il mio viso.

Avevo già intuito ciò che sarebbe successo, per questo strinsi ancora più forte la maglia di mamma.

L’uomo continuava ad avanzare. Mamma e papà si scambiarono un’occhiata e ritornarono a guardare l’uomo.

Quando alzò la pistola sentii la mamma tremare.

«Datemi la borsa!»

Urlò.

Papà obbedì.

L’uomo guardò all’interno e io sentii mia mamma cominciare a spostarsi di lato.

Capii in un attimo le loro intenzioni.

Papà lo avrebbe distratto per darci qualche secondo per fuggire. Rischiando la vita.

Quando infatti lo vidi gettarglisi addosso e la mamma iniziare a correre con me in braccio piangendo, confermai le mie idee.

Sentì un enorme botto e dei passi veloci che ci seguivano.

Eravamo in vantaggio, ma ci avrebbe raggiunto.

La mamma cadde slogandosi la caviglia.

Si mise in ginocchio e mi guardò negli occhi. I suoi occhi nocciola galleggiavano nelle lacrime. Poi mi prese per le spalle.

«Corri! Corri e non fermarti Cassie! Corri!»

Mi alzai velocemente ed ubbidì giusto in tempo per vedere la mamma che mi sorrideva e l’uomo puntargli l’arma alla testa seguita da un rumore assordante.

Non mi fermai. Nemmeno quando le mie gambe si fecero di pietra, nè quando ormai non vedevo più per le lacrime.

Sfinita, rallentai semplicemente il passo.

Continuai a correre finchè non persi l’equilibrio e caddi davanti un enorme edificio rischiarato dalla luna estraniato dalla città.

In ginocchio mi portai le mani agli occhi singhiozzando.

Erano morti. Per sempre. MORTI.

Avvertii un bruciore alla caviglia a cui, prima, non avevo fatto caso. La guardai e la vidi che sanguinava.

Di sicuro mi ero tagliata nella mia corsa disperata verso la salvezza.

Alzai timidamente la testa verso l’edificio osservando se c’era qulacuno a cui chiedere aiuto.

Poi lo vidi.

Un bambino di pressapoco 10 anni affacciato ad una finestra che mi guardava curioso. Riuscii a notare i capelli scompigliati neri, ma presto lo vidi allontanarsi.

“Sono perduta”

Mi dissi.

Ma subito sentii aprirsi il pesante portone in legno vedendone uscire un’uomo sulla sessantina e il bambino della finestra che mi si avvicinarono subito.

Poi chiusi gli occhi, giusto in tempo per vedere un paio di occhi azzurri e un paio neri come la notte sopra la mia testa.

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Capitolo 2
*** The kid with black eyes ***


Quando aprii le palpebre ero in un morbido letto, in una stanza sconosciuta.

Mi stropicciai gli occhi. Ma dov’ero?

I ricordi mi sommersero ritornando prepotenti.

Le lacrime sgorgarono di nuovo senza che potessi contrastarle.

Come avevo potuto lascire là mia madre?

Avrei dovuto aiutarla, invece ero scappata come un vigliacca.

Mi asciugai rabbiosamente le lacrime dal volto e guardai fuori dalla finestra. Era ancora notte.

Mi venne in mente anche quel bambino con gli occhi neri.

Quello che mi aveva salvata.

Mi alzai sulle punte ed uscii silenziosamente dalla stanza.

La caviglia mi era stata fasciata, ma sicuramente da qualcuno che non era un dottore.

Mi sforzai di ricordarmi in quale piano avevo visto la figura.

Era sicuramente il settimo.

Presi a salire le scale delicatamente e quando arrivai a destinazione, mi resi conto della pessima idea che avevo avuto.

C’erano tantissime stanze come avrei potuto scovare il ragazzo?

Passai il corridoio osservando le porte.

Poi, una attirò la mia attenzione. Era socchiusa.

Mi fermai e sbirciai all’interno. Non c’era nessuno.

Timidamente entrai e osservai che era praticamente uguale alla mia...

Che fossero tutte le stanze così?

C’era solo una differenza dalla mia, i parecchi fogli sparsi a terra. Li osservai.

Quesiti. Di ogni genere. Presi a sfogliarli e ne risolsi qualcuno con una matita trovata a terra.

Poi, prese dalla stanchezza, non mi accorsi nemmeno degli occhi che si facevano sempre più pesanti fino a chiudersi del tutto.

 

***

Quando rientrai nella mia stanza, sobbalzai.

Un corpicino steso sul pavimento dai capelli castani.

Mi era venuta a cercare, quella bambina, e mi aveva trovato.

Non lo avevo previsto.

Chiusi piano la porta per non svegliarla e mi avvicinai.

Era bellissima addormentata.

Era a terra circondata dai miei quesiti.

Raccorsi da terra i fogli e mi accorsi che ne aveva risolto qualcuno. L’aveva fatti tutti giusti.

Non vi era errore.

La osservai nuovamente.

Il viso, ancora segnato dalle lacrime, appariva tranquillo. Solo io mi accorsi di tutta la sofferenza che conteneva.

Aveva sicuramente perso i gentori quella notte.

Mi abbassai al suo livello e mi accorsi che aveva la garza alla caviglia sporca di sangue.

Il più delicatamente possibile, la slegai. Frugai in qualche cassetto e trovai un tovagliolo che bagnai d’acqua per poggiarlo sulla sua pallida caviglia.

Poi strappai un pezzo di stoffa da una delle mie numerose maglie bianche e gliela avvolsi bloccando la carta e il sangue che continuava a fuoriuscire.

Rimasi ancora qualche minuto ad osservarla, finche non mi accorsi che tremava.

La ferita le aveva di scuro fatto infezione.

Forse avrei dovuto chiamare Watari per farla portare nella sua stanza, ma decisi di no. La volevo lì con me. Delicatamente, infilai la mia mano sotto la sua schiena e l’altra tra la coscia e la gamba e la sollevai, poggiandola sul letto. La coprii con le coperte e continuando a guardarla, mi scappò un sorriso.

 

***

Mi risvegliai avvolta da un piacevole tepore che mi fornivano le coperte.

Le coperte?

Per quanto mi ricordavo, mi ero addormentata a terra nella stanza di quel ragazzo.

“ Mi sono addormentata nella stanza del ragazzo?!”

Mi sedetti sul letto e mi guardai intorno.

Fuori era ancora notte, doveva essere molto tardi.

Sobbalzai lievemente quando vidi una figura maschile seduta in posizione fetale con gli occhi chiusi.

Capelli corvini e scompigliati. Sui 10 anni.

Mi portai un mano alla bocca.

“È lui! E mi ha messa sul letto cedendomi il suo posto...”

Lentamente scesi dal letto in punta di piedi e mi ci avvicinai.

Era veramente carino e strano, in un certo senso.

Aveva delle profonde occhiaie e non riuscivo a capire come potesse stare seduto in quella posizione.

Lo scossi piano.

Un fremito di ciglia e due iridi neri invasero il mio campo visivo.

“Meraviglioso”

Pensai, arrossendo lievemente.

Quando lui mi vide si bloccò.

Sembrava incuriosito, forse dal fatto che lo avevo svegliato...

Gli sorrisi  dolcemente quando sentii le sue morbide dita affusolate che mi tenevano il mento.

Abbassai lo sguardo, timida.

«No, non abbassare gli occhi..»

Mi disse lui con voce atona. Lo guardai meravigliata.

«Sono dello stesso colore del cioccolato»

Continuò lui.

Lo stesso colore del cioccolato...

Una lacrima scese veloce lungo la guancia, venendomi in mente mia mamma.

Lui mi osservava con il pollice poggiato sul labbro inferiore, poi lo spostò sul mio viso asciugandomi quella lacrima.

«Non piangere...»

Mi disse.

Alzai nuovamente lo sguardo per vedere lui che mi osservava leggermente intristito, come se provasse una piccola parte dei miei sentimenti.

Accennai un sorrisetto, per rallegrarlo.

«Come ti chiami?»

Mi chiese ancora immobile.

«Cassie»

Risposi decisa.

«E tu?»

«Ryuzaki, ma non è il mio vero nome. Qui però mi chiamano L»

«Perchè ti chiamano con una lettera?»

Chiesi nuovamente curiosa.

Ryuzaki sembrò pensarci.

«Non so... soprannominano quasi tutti con una lettera qui...»

Disse infine.

Annuii piano.

«Perchè ieri seri sei arrivata qui piangendo?»

Chiese, aprendomi di nuovo quella piaga che sembrava avermi momentaneamente lasciata in pace.

«I miei genitori sono stati uccisi durante una rapina a mano armata...»

Lui mi guardò sorpreso. Evidentemente non si aspettava che io conoscessi  certi termini...

Quando poi si riprese continuò.

«Capisco»

Rimasi ferma a fissarlo. Mentre parlavo con lui, la tristezza non mi opprimeva.

«Scusa Ryuzaki, non potresti dirmi il tuo vero nome?»

Dissi in preda alla curiosità.

«Sinceramente non l’ho mai detto a nessuno... non sono molto bravo con le persone»

Disse abbassando lo sguardo evidentemente vergognato.

«Tranquillo, a me puoi dirlo!»

Continuai sorridendogli incoraggiandolo.

«Okay... Mi chiamo L Lawliet, gradirei mi chiamassi comunque Ryuzaki»

Mi rispose.

Lawliet.. che bel nome... mi ispirava fiducia al sol pronunciarlo...

Annuii vigorosamente.

«Ma dove siamo qui?»

Chiesi infine, esponendo la domanda che mi assaliva da quando mi ero svegliata nella mia camera.

«Siamo alla Wammy’s House, è un orfanotrofio per bambini superdotati considerati possibili successori dell’attuale miglior detective al mondo»

Un’orfanotrofio... Quella parola così brutta, mi fece pensare a quello che avevo perso. Alla mia famiglia, alla mia vita, alla mia libertà...

Strizzai forte gli occhi e le lacrime uscirono di nuovo incontrollate.

All’improvviso, mi sentii avvolgere da due forti e calde braccia.

Ryuzaki mi stringeva per darmi sollievo.

Timidamente, anch’io ricambiai l’abraccio, posando la testa nella incavo del suo morbido collo. Un senso di completezza mi avvolse completamente, sentendo di essere a casa. Di nuovo. Come se non fosse mai successo nulla.

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Capitolo 3
*** The girl with chocolate eyes ***


 

 

Quando il sole iniziò a farsi strada tra le tende della finestra, mugugnai e strizzai gli occhi, nolente dall’alzarmi.

Indispettita dalla luce che forzava i miei occhi, mi girai dall’altra parte, quando il mio ventre cozzò contro qualcos’altro.

No, non qualcos’altro, bensì, qualcun’altro.

Facendo appello a tutta la mia forza di volontà, socchiusi leggermente le palpebre ancora pesanti come macigni e misi a fuoco la figura dai capelli corvini e spettinati, rannicchiata su sè stessa, con un pollice alle labbra.

Quando finalmente il mio cervello cominciò a funzionare, tutti i dettagli della sera precedente, ritornarono a galla.

Dopo essermi avvenurata alla rierca di quel ragazzo alla finestra, avevo trovato una camera con la porta socchiusa, ma vuota. Vi ero entrata e mi ero assopita. In seguito mi ero trovata nel letto del ragazzo. Avevo così conosciuto Ryuzaki, gli avevo in breve raccontato di come ero finita in quell’orfanotrofio e poi avevamo iniziato a parlare del più e del meno, fino a quando, streamati, non eravamo crollati dal sonno nel letto.

Sorrisi amorevolmente, guardando come, in realtà, Ryuzaki assomigliasse ad un bambino bisognoso d’affetto, nonostante più grande di me di due anni.

Persa in questi pensieri, non mi accorsi del baccano che proveniva dai corridoi nel frattempo.

Controvoglia, poggiai i piedi sul freddo marmo del pavimento. Un giramento di testa mi prese di sorpresa e, barcollante, andai ad aprire la porta della stanza, guardando dall’uscio il corridoio, in attesa di capire cosa fosse successo.

Sentivo chiaramente degli adulti parlare (più che parlare, uno di loro sembrava preso dal panico), due per la precisione, ma non riuscii a capire nulla di quello che si stavano dicendo. Quando sentii dei passi salire per le scale, mi pietrificai sul posto, indecisa sul da farsi.

Il mio cervello lavorava velocemente analizzando tutte mie reazioni e i lati positivi e negativi che avrebbero scaturito.

Sicuramente cercavano me, questo l’avevo capito, ma non potevo fuggire, non avrei fatto in tempo a nascondermi. Per prendere un pò di temppo chiusi velocemente la porta. Ma il sangue mi si congelò nelle vene, non appena si sentirono le porte di quel corridoio essere tutte spalancate e, quasi sicuramente, controllate.

Che avrebbero detto gli adulti nel trovarmi qui dentro? Si sarebbero infuriati e molto.

E se avessero punito Ryuzaki?

No, non l’avrei permesso!

Velocemente, aprii le ante del grande armadio a lato della porta e mi infilai silenziosamente, chiudedolo giusto in tempo per sentire la porta spalancarsi, mentre i due anziani, entravano e svegliavano il ragazzino addormentato con le loro voci.

«Non si trova nemmeno qua!»

Fece il primo sempre più nel panico.

«Stai calmo Roger, sono sicuro che è all’interno dell’edificio!»

Parlò il secondo. Poi, quello che intuii essere Roger, continuò.

«Mi spieghi come faccio a essere calmo Watari!!? S in persona ha richiesto la sua presenza!!»

Per un millesimo di secondo, mi chiesi chi fosse S, ma poi capii che al 93% di probabilità, quello era il più grande detective al mondo, quello per cui era stato fondato quest’orfanotrofio. Una voce più calma si intromise nella discussione di Roger e Watari. Timidamente sbirciai da dietro un’anta. Come avevo pensato, L era intevenuto.

«S? S ha richiesto personalmente la ragazza che ho visto ieri notte?»

A quella frase mi scappò un sospiro di sollievo, mi stavo coprendo, e anche bene!

Roger confermò i suoi dubbi con un cenno del capo, seguito da un preoccupatissimo:

«L’hai vista per caso qui in giro?!»

Ryuzaki scosse timidamente la testa, e i due uscirono delusi dalla stanza.

Non capivo se il ragazzino sapeva che lo spiavo dall’armadio, ma gli ero comunque grata per non avere detto niente.

Lo vidi sospirare e scendere dal letto.

Camminava leggermente piegato in avanti in una posizione affascinante quanto bizzarra. A piedi nudi, andò dall’altra parte del letto e sistemò le pieghe che avevo lasciato durante la notte, a causa del mio sonno movimentato.

Sospirò per l’ennesima volta e si accovacciò a terra prendendo in mano i fogli della sera precedente, iniziando a completarli.

 

***

 

Delle voci arrivarono distrattamente alle mie orecchie mentre ero disteso nel letto. Quando aprii gli occhi, la prima cosa che feci, fu guardare l’altro lato del letto trovandolo vuoto con mia immensa tristezza.

Poi, girandomi verso la porta, notai Watari e Roger che parlavano animatamente.

«Non si trova nemmeno qua!»

Fece Roger nel panico. Stavano sicuramente parlando Cassie, col 99% di probabilità.

«Stai calmo Roger, sono sicuro che è all’interno dell’edificio!»

Disse convinto Watari. Poi, Roger, che non sembrava per nulla sollevato dalla rassicurazione di Watari, continuò.

«Mi spieghi come faccio a essere calmo Watari!!? S in persona ha richiesto la sua presenza!!»

Per un millesimo di secondo, il mio cervello andò in Black-out. S?!

Quell’S?!

Cioè, S aveva richiesto la presenza di Cassie? Doveva essere molto intelligente allora...

Magari, però avevo capito male... Timidamente, ma senza darlo a vedere, di intromisi nella discussione, cercando di districare i miei dubbi.

«S? S ha richiesto personalmente la ragazza che ho visto ieri notte?»

Roger confermò i miei dubbi con un cenno del capo, seguito da un preoccupatissimo:

«L’hai vista per caso qui in giro?!»

Per un secondo, mi ritrovai a pensare a quello che sarebbe stata la cosa più giusta da dire. Se Cassie se ne era andata, magari non voleva farsi scoprire... mio malgrado avrei dovuto mentire per coprirla e io odiavo mentire.

Scossi la testa, con lo sguardo basso, mentre i due uscivano delusi dalla stanza.

Con un sospiro, sistemai il letto e mi rannicchiai a terra prendendo in mano i quesiti e cercando di concentrarmi.

Se ne era andata... da quanto?

Perchè, in realtà? Ma soprattutto... dove?!

«Grazie per avermi coperta»

Una vocina a me famigliare, mi fece alzare la testa di scatto. Vicino a me c’era Cassie che sorrideva allegra. Da dove era spuntata?

«Ahaha, ero dentro l’armadio!»

Concluse come se mi avesse letta nel pensiero.

«Di niente»

Mi sforzai di non balbettare, cosa che però mi risultava alquanto difficile, visto che la ragazzina era a circa venti centimetri dal mio volto.

«S è quel detective di cui mi hai parlato ieri notte? Quello per cui è stato fondato questo orfanotrofio?»

Annuii, fissandola nei meravigliosi occhi castani quando, d’improvviso, si alzò sistemandosi il piagiama.

«Bene, sarà meglio che mi inventi una scusa per giustificare la mia assenza con Roger e Watari!! A dopo!»

Disse la bimba allegramente, ridendo timidamente e uscendo dalla porta della mia camera. La sua risata era così.. unica.

Vera e propria musica.

Senza accorgermene accennai un sorrisetto felice, al solo pensare che l’avrei rivista a pranzo. 

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