Figli della Luna

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***
Capitolo 16: *** XVI. ***
Capitolo 17: *** XVII. ***
Capitolo 18: *** XVIII. ***
Capitolo 19: *** XIX. ***
Capitolo 20: *** XX. ***
Capitolo 21: *** XXI. ***
Capitolo 22: *** XXII. ***
Capitolo 23: *** XXIII. ***
Capitolo 24: *** XXIV. ***
Capitolo 25: *** XXV. ***
Capitolo 26: *** XXVI. ***
Capitolo 27: *** XXVII. ***
Capitolo 28: *** XXVIII. ***
Capitolo 29: *** XXIX. ***
Capitolo 30: *** XXX. ***
Capitolo 31: *** XXXI. ***
Capitolo 32: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** I. ***


‘Io sono alfa e omega
neve rossa d'ignare prede,
soffio di nuova vita
chiusura del naturale anello.
Io sarò forse ucciso,
mai disperso, cancellato
come immortale spirito del bosco
di nuovo vigore sarò creato.
Io sono il lupo.’

Autore ignoto


 

 

‘Tutto contina e si estende, niente si annulla,
e morire è qualcosa di diverso da quello che si suppone,

qualcosa di più fortunato.’
Canto VII da Il canto di me stesso

Walt Whitman


 
 

 I.

 
 
 

 



 
 
 
 
 
 
 
Il vento sibilava tra le fronde incupite dall’oscurità della notte, scivolando tra gli alberi come uno spettro e portando con sé i profumi umidi e potenti della foresta.

E il grido di uomini e bestie.

Una macchia indistinta tra le ombre, nulla più di una evanescente presenza, si mosse lesta tra i tronchi degli alberi decennali.

Si muoveva con grazia di movimenti, e una velocità tale da renderla quasi invisibile all’occhio umano.

Quasi.

Uno sparo, un uggiolio e un tonfo sordo sul sottobosco madido di umidità e ricoperto di fogliame e fango.

La nivea figura scivolò a terra, ringhiando ferita nella direzione da cui era giunto lo sparo.

Grida sempre più forti e passi sempre più concitati raggiunsero le sue orecchie sensibili, aumentando l’ansia e la rabbia della creatura stesa a terra.

Le zampe del bianco animale ferito si rizzarono sul terreno soffice mentre il suo respiro, reso spasmodico dal dolore provocato dalla lacerazione sanguinante alla spalla, sibilò tra le zanne scintillanti e pronte a colpire.

La consapevolezza che i suoi nemici erano ormai vicini, lo rese audace e temerario, ma non incauto.

Uno, due tre … dieci uomini. Del traditore, nessuna traccia. Ma, per lo meno, i maledetti avevano seguito lui, non gli altri.

Morire così, sarebbe valso a qualcosa. Morire così, andava bene.

Ergendosi in tutta la sua considerevole altezza, il niveo lupo dalla fiera figura fronteggiò i cacciatori pronti a ucciderlo, lui già proteso verso la Madre e verso il divenire.

Fu, perciò, con sorpresa e irritazione, che le sue nari percepirono qualcosa che mai si sarebbero aspettate. E che, per lui, significava qualcosa di molto peggio della morte.

L’umiliazione.

Uggiolando nervosamente, ormai circondato dai cacciatori e già preda dei primi spasmi che precedevano la perdita dei sensi, il lupo si chiese quale sarebbe stata la sua sorte e se gli sarebbe stata concessa una fine onorevole.

Con un rantolo si accasciò e tutto divenne freddo e buio come una notte d’inverno.
 
***

Mi svegliai di soprassalto, spaventata e ancora preda degli ultimi residui dell’incubo.

Il viso era ricoperto da un sottile strato di sudore appiccicoso e il respiro, affannoso, era spezzato da brevi sospiri.

Gli occhi, spalancati e dolenti, osservarono confusi il mondo attorno a me cercando di mettere a fuoco le pareti familiari che mi circondavano.

Rammentai urla e sangue.

Questo, mi aveva destato.

Solitamente non facevo sogni così brutti da portarmi a risvegli tanto drammatici ma, come spesso si dice, c’è sempre una prima volta.

Quando riuscii a focalizzare la mia stanza, spostai lo sguardo verso le finestre dalle imposte socchiuse, da cui giungevano i deboli bagliori del sole del mattino.

A giudicare dall’inclinazione dei raggi che penetravano all’interno della stanza, doveva essere molto, maledettamente molto presto.

Imprecai tra me, già decisa a voltare le spalle al sole ingrato, quando un rumore proveniente dal cortile dietro casa mi portò a rizzare le orecchie.

La curiosità ebbe il sopravvento sul mio desiderio di tornare a dormire così, in punta di piedi, mi avvicinai alla finestra per capire cosa stesse succedendo.

Attraverso le imposte socchiuse, che offrivano una scarsa visione del cortile, scorsi alcuni pick-up scuri e sporchi di terriccio, oltre a parecchie persone in tenuta da caccia.

Sbuffai, immaginando fossero gli amici del mio patrigno, Patrick Smithson.

Non mi piaceva rimuginare sul suo discutibile hobby, e meno ancora mi piaceva vedere tutti i suoi compagni di scorribande aggirarsi per casa armati di tutto punto.

Il fatto che fossero in azione di prima mattina me li fece odiare ancor di più, visto e considerato che avevano contribuito ad allontanarmi dal mio comodo lettuccio.

Feci per tornarci, quanto il ringhio strozzato di un animale  sfiorò le mie orecchie, attirando definitivamente la mia attenzione e cancellando del tutto la possibilità di un ritorno a letto.

In fretta, tornai alla finestra per capire cosa stesse realmente succedendo là fuori e, sconvolta, intravidi la sagoma di un animale, tra quei corpi di uomini massicci.

Il colore singolare del pelo mi lasciò interdetta. Era bianco come la neve.

Il mio primo pensiero fu chiedermi che razza di animale fosse ma, dopo un attimo di distratta riflessione, un secondo e più drammatico pensiero si materializzò nella mia mente appena destata.

Aveva portato in casa un animale per ucciderlo?!

La sola idea mi fece accapponare la pelle e, nel contempo, fece sorgere in me una rabbia così feroce da portarmi a lanciare alle ortiche ogni prudenza e prendere la via della porta.

Sapevo fin da quando avevo messo piede lì assieme a Gordon, mio fratello, di non poter assolutamente avvicinarmi alla cantina di casa, e ora cominciavo a comprenderne i motivi.

Patrick macellava per caso degli animali, in quell’antro segreto? E sua moglie Mary Beth, il cui appellativo di matrigna stonava tremendamente con la sua dolcezza, era a conoscenza dei suoi deprecabili hobbies?

Dischiusi la porta per scrutare il corridoio al primo piano della casa e, nulla trovando a ostacolare il mio passaggio, scivolai fuori e percorsi la sua lunghezza in punta di piedi.

Mentalmente, ringraziai Mary B per la sua passione per i tappeti persiani.

Non appena raggiunsi le scale, trattenni il fiato e misi un piede sul primo gradino.

Sperai ardentemente che il legno non cigolasse, rendendo così chiaro al mondo intero che qualcuno, in casa, si era svegliato.

Sempre che il mio cuore impazzito dall’ansia non mi tradisse per primo.

Per mia fortuna, la scala si comportò egregiamente, reggendo il mio peso senza emettere alcun suono al mio passaggio.

Questo mi consentì di raggiungere il pianerottolo dabbasso senza essere scoperta da mio fratello e Mary B, che dormivano ancora placidamente nelle loro stanze.

Beato il loro sonno pesante!

Il cuore continuava a martellarmi nelle orecchie come un tambuo.

Questo rendeva difficile ascoltare con chiarezza i rumori della casa ma, in ansia com’ero visto quello che mi stavo accingendo a fare, difficilmente la situazione avrebbe potuto essere diversa.

Scrutai a destra e a manca, accertandomi che non vi fossero cacciatori nel salotto o in cucina dopodiché, messa mano alla maniglia della porta che conduceva alla cantina, presi un gran respiro e la abbassai.

Il metallo risultò essere ben oliato – niente di strano, Patrick era un maniaco dell’ordine – e la maniglia non emise alcun suono, come pure i cardini.

Presi un breve respiro per farmi coraggio e, nel contempo, per cercare di togliermi di dosso la paura strisciante che stava risalendomi la schiena come una serpe pronta a mordermi al primo passo falso.

Non ero fatta per l’azione sul campo, lo sapevo. Prima di arrivare in cantina sarei morta lungo il percorso per la troppa paura.

Ma dovevo scoprire cosa mi stava spingendo a infrangere ogni regola di casa Smithson, o sarei impazzita di sicuro.

Dovevo dare un nome all’ansia e alla tensione che mi avevano portato fuori dalla mia stanza.

Richiusi perciò la porta alle mie spalle e, afferrato il poco coraggio che avevo con entrambe le mani, mossi i primi passi in quell’oscurità quasi totale.

Le rade grate di metallo che davano sul cortile, erano l’unica fonte di luce a me concessa, ma bastarono a impedirmi di non cadere.

Da quelle misere feritoie penetrava un fioco chiarore, che mi permetteva di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare nei gradini della scala che conduceva alla cantina.

Naturalmente, il mio cuore non aveva smesso di pompare come un pistone impazzito; riempiva la mia testa con il suo tum-tum assordante, impedendomi di concepire anche un solo pensiero coerente.

Una volta raggiunta la cantina, cos’avrei fatto?

Sarei entrata scatenando il putiferio tra i cacciatori? Avrei origliato per comprenderne le intenzioni? Sarei filata via al primo accenno di pericolo? Cosa?

Raramente prendevo iniziative simili, ero molto più abile a programmare che a fare.

Per quello, c’era la mia amica Nancy. Era lei la donna d’azione, l’inarrestabile uragano che sbaragliava ogni cosa. Io, piuttosto, ero colei che guidava l’uragano.

Sogghignai, immaginandomi Nancy al mio posto e, subito, me la vidi in mezzo a un branco inferocito di uomini accigliati, ritta in piedi con insolenza e l’aria di voler comandarli a bacchetta.

Dovetti reprimere una risata, di fronte a uno spettacolo mentale di quel genere. Sì, Nancy sarebbe stata la più adatta per un’incursione di quel genere.

“Che diavolo ci sto andando a fare, io?” sussurrai tra me, prima di trasalire.

Un rombo di motori mi fece tremare come una foglia abbandonata al vento, facendomi rattrappire su me stessa.

Spaventata come poche altre volte, mi guardai intorno turbata, chiedendomi convulsamente il perché di quel rumore improvviso.

In fretta, mi aggrappai al muro e poggiai il naso contro la grata metallica di una delle feritoie.

Scrutai fuori attraverso il vetro sporco – in quel momento utilissimo – e, sorpresa sorpresa, vidi i pick-up andarsene dal cortile. E Patrick era compreso nel gruppo!

Sempre più confusa, ma sollevata dalla loro partenza, tornai a posare i piedi a terra e raggiunsi in tutta fretta la porta che dava sulla cantina, decisa a scoprire cosa stesse succedendo.

Paura o non paura, ormai ero giunta fino a quel punto e non avevo intenzione di tirarmi indietro.

Mamma e papà non ci avevano insegnato a essere pavidi, e non volevo venire meno a quel precetto proprio in quel momento.

Sorrisi tristemente pensando a loro e, come sempre, fu difficile pensare all’idea di non averli più al fianco.

Tenendo perciò bene a mente gli insegnamenti di mia madre, poggiai l’orecchio alla porta della cantina per cercare di capire se, dall’altra parte, ci fosse qualcuno.

Il tamburellare del mio cuore si era chetato un poco, permettendomi di ragionare con più facilità – nonostante non mi sentissi ancora al massimo.

Dopo aver chiuso gli occhi per concentrarmi meglio, tentai di percepire eventuali rumori provenienti dalla cantina.

Ascoltai attentamente per diversi minuti, il respiro pacificato e la mente finalmente sgombra da pensieri vorticosi e confusi.

Dischiusi allora la porta per quanto mi fu possibile, e infilai la testa per controllare cosa vi fosse in quell’ambiente tenuto così gelosamente nascosto.

Una serie di rastrelliere, colme di attrezzi da giardino, chiavi inglesi e cacciaviti rivestivano la parte di fronte a me.

Contro quella rivolta a nord – la più lontana rispetto al mio nascondiglio improvvisato – un paio di enormi mobili in vetroresina ricoprivano per intero il muro di mattoni, imbiancati di fresco.

Una cassettiera, alta circa un metro e mezzo, era sistemata proprio dinanzi alla porta dietro cui mi trovavo.

Questo mi impedì di scorgere agevolmente il centro della cantina, dove riuscii solo a intravedere un’enorme gabbia, di uno strano metallo lucido. Forse era d’acciaio.

Storsi il naso, indispettita da quella precauzione.

Perché barricare una porta, se non per tenere fuori i curiosi? E perché, poi?

Quella visuale parziale non mi concedeva il lusso di aver un quadro d’insieme, impedendomi di fatto di farmi una chiara idea di ciò che si nascondeva dentro la cantina.

Detestavo muovermi senza sapere bene cosa ci fosse di fronte a me, ma l’urgenza che avvertivo dentro la mia testa – che ora sembrava essere sintonizzata su un’unica parola, ‘sbrigati’ – mi impedì di agire con la consueta calma e prudenza.

Dovevo sbarazzarmi delle mie paure, e terminare ciò che avevo iniziato.

Decisa quindi a capire cosa vi fosse dentro quella gigantesca trappola lucente, feci per muovermi.

Di colpo, però, un basso ringhio di gola si librò nell’aria leggermente stantia, bloccandomi sul posto.

Rabbrividii, e la paura tornò a divorarmi, raggelandomi le mani come se fossero divenute due pezzi di ghiaccio.

Turbata, mi chiesi cosa avessero catturato di così pericoloso, da doverlo sistemare in una gabbia dalle sbarre così grosse.

Ero davvero sicura di volerlo scoprire, a quel punto?

Il secondo suono che udii non fu più animalesco, assomigliava più al rantolo di un uomo.

Colta alla sprovvista e rinfocolata la mia curiosità, così come la mia ansia di scoprire la verità, trovai il coraggio di sospingere la cassettiera con tutta la mia forza per poter passare.

E lì mi bloccai, gli occhi spalancati al pari della mia bocca.

Dinanzi a me, disteso in posizione fetale e dandomi le spalle, se ne stava un uomo dalla pelle bronzea, con capelli ricci e neri come ali di corvo e … completamente nudo!

Solo un rozzo panno a quadretti lo riparava dal freddo pavimento di cemento, che ricopriva la cantina, ma la sua pelle non sembrava dar segno di patire per quel trattamento indecoroso.

Cercando di non far caso alla sua nudità, che non aiutava di certo a tranquillizzarmi, avanzai passo passo con aria guardinga, non sapendo bene cosa aspettarmi.

Sbuffai contrariata, quasi desiderando prendermi a schiaffi, desiderosa di scoprire se, un sistema così brutale, avrebbe potuto risvegliarmi dal sogno a occhi aperti in cui ero finita.

Già pronta a farlo, l’uomo volse a mezzo il capo, fulminandomi con due occhi d’ambra screziata, così furenti che avrebbero potuto tagliarmi in due senza problemi.

Anch’io li avevo di quel colore – un’autentica rarità – ma i suoi avevano qualcosa di così … diverso, di così inumano, che rabbrividii nel fissarlo.

Non avevo mai scorto in nessuno, uomo o donna che fosse, uno sguardo del genere ma solo …

Beh, mi sembrava assurdo anche solo mettere insieme un pensiero simile, eppure, gli unici occhi in cui avevo scorto quella luce ferale, erano quelli dei lupi nei documentari della National Geografic.

Occhi che sapevano di selvatico, di bosco, di carne e sangue, di freddo e patimento. Occhi che sapevano stregare per la loro bellezza ferina. Occhi che tentavano e spaventavano assieme.

Deglutii, cercando di distogliere lo sguardo da quelle profondità ambrate che continuavano a fissarmi con un’intensità bruciante.

Sollevando le mani perché fosse chiaro che non avevo armi nascoste con me, esordii dicendo sommessamente: “Non voglio farti del male.”

Lui grugnì, rattrappendosi su se stesso e stringendo i denti.

Solo allora notai il sangue che macchiava il panno sotto di lui.

A giudicare da come la macchia si stava allargando, sarebbe morto dissanguato. E forse era proprio quello che volevano Patrick e i suoi.

Quello che non riuscii a capire fu perché. E l’animale che gli avevo visto portare dentro a forza di braccia, dov’era? Non lo vedevo da nessuna parte.

Imprecai tra me, lasciando perdere per il momento il pensiero dell’animale per focalizzarmi sull’uomo che giaceva ferito nella gabbia.

Digrignando i denti per la rabbia, fissai ciò che avevo davanti agli occhi provando pena e furia al tempo stesso.

Era indubbio che quel tizio si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che gli amici di Patrick lo avessero conciato male, ma perché rinchiuderlo, nudo e ferito?

Cosa volevano farne, di lui?

Non volevano certo macchiarsi di un delitto?!

Sperai davvero di no. Di Patrick detestavo un sacco di cose, ma non pensavo fosse davvero in grado di uccidere un essere umano.

Eppure … beh, quello che avevo davanti smentiva in pieno ciò che avevo sempre ipotizzato su di lui, portandomi a chiedermi quanto brava fossi a comprendere le persone.

Di sicuro, non riuscivo a capire il perché di quell’uomo nella gabbia. Ma non me ne sarei andata, finché non avessi scoperto i motivi di quella prigionia assurda.

Mi avvicinai guardinga, quasi temendo di veder comparire qualcuno da dietro i mobili della cantina.

Tornai con lo sguardo agli occhi infuocati dell’uomo che avevo innanzi e, sopresa delle sorprese, mi bloccai a metà di un passo quando vidi solo laghi smeraldini a frapporsi alla mia occhiata.

Dov’erano finiti i diabolici e ferali occhi ambrati di prima? Che diavolo stava succedendo?

Cominciando a tremare, mio malgrado, per la paura e la confusione crescenti, appoggiai una mano alle sbarre di metallo della gabbia.

Lo fissai come un’ebete, mentre i suoi occhi di gelido smeraldo mi trapassavano da parte a parte come se fossero stati due raggi laser.

Pur avendo cambiato colore – già di per sé cosa assurda, visto che ero più che certa della loro iniziale tinta ambrata – quello sguardo restò selvaggio.

Era del tutto privo dell’umanità che avrebbe dovuto avere; c’era un animale, celato dietro quelle iridi così meravigliosamente scintillanti.

Era come se una bestia vibrasse sotto la sua pelle, smaniosa di uscire allo scoperto e di divorarmi.

Sbattei le palpebre, cercando a fatica di liberarmi da quello sguardo, che mi teneva avvinta a sé con una forza inusitata e che non riuscivo a comprendere.

Lasciandomi scivolare a terra, mi inginocchiai accanto alla prigione dell’uomo domandandogli: “Perché ti tengono qui dentro?”

Sprezzante, la sua voce roca e profonda vibrò contro le pareti della cantina, e dentro la mia testa, mentre replicava rigido e fiero: “Una Cacciatrice dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro!”

“Cacciatrice? Che intendi dire? Io … non caccio! E, di sicuro, non mi sarei mai permessa di ferire e rinchiudere un essere umano dentro una gabbia!” replicai piccata, stringendo con maggiore forza le sbarre tra le mani.

Umano…” ribatté a sua volta, ironico e sfrontato. “… neppure nella morte, vorrei essere un umano. Non offendermi, fingendoti all’oscuro di tutto, ragazza!”

Strabuzzai gli occhi di fronte a quella frase sconcertante e, di per sé, assurda.

Basita, esalai confusa: “Scusa la domanda idiota; ma chi pensi di essere?”

La sua fronte liscia e priva di imperfezioni si corrugò sensibilmente mentre la voce, da sprezzante che era, divenne orgogliosa nel dirmi: “Sono un licantropo! Cosa credi che sia?!”

Dovetti sembrare davvero una stupida – e stupita – perché la sua espressione ombrosa lasciò il posto a qualcosa di molto simile alla sorpresa.

La fronte si rilassò, la bocca perse di colpo quell’espressione imbronciata che aveva avuto fino a quel momento e la voce, ora dubbiosa, sgorgò dalle sue labbra dicendomi: “Non lo sapevi sul serio.”

Crollai col sedere a terra, le mani tremanti premute sul pavimento di cemento gelido e, scuotendo scioccamente il capo, esalai: “Sapere … cosa? Chi piglia per cretino chi?”

I suoi occhi smeraldini cercarono i miei, che erano sgranati fino all’inverosimile e, nuovamente, scorsi la bestia in lui, una parte animalesca che, normalmente, non avrebbe dovuto esserci.

In quell’uomo, però, sembrava premere contro le pareti della sua pelle abbronzata, quasi sforzandosi di non dilaniare ogni centimetro di carne disponibile per eruttare con un ringhio feroce.

Tremai – sentii i miei denti sbattere tra loro, preda di una paura atavica – e l’uomo, calmandosi completamente, mi disse: “Come vedi, non devi temere nulla da me, fanciulla. Sono ben più che inerme.”

“Come puoi … non puoi essere davvero … ciò che dici” balbettai, stringendomi le braccia al petto e massaggiandole con forza per cercare di bloccare il tremore che mi scuoteva.

Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, per spiegare la sua presenza all’interno di quella gabbia, quella era di sicuro la più assurda, la più inverosimile, la più …

Beh, la più vicina a quello che mi stava martellando la testa, fin da quando quegli occhi mi avevano sfiorato per la prima volta, pochi minuti prima.

Una bestia.

Avevo avvertito questo, in lui. Non un uomo violento, o qualcosa di simile.

No, la mia anima, il mio cuore, il mio cervello avevano iniziato – e continuavano –  a urlare a squarciagola questa verità fuori da ogni tipo di logica, e io alla logica mi ci aggrappavo sempre!

Da quando l’irrealtà la faceva da padrone, nella mia testa? Era Gordon il fanatico del fantasy, non io!

Eppure sapevo, percepivo la cruda realtà nelle sue parole, pur avendo un terrore folle di credervi.

“Sfortunatamente, è la pura verità. O non mi troverei qui, bloccato da catene d’argento, e con un proiettile che mi sta avvelenando poco per volta il sangue” mormorò, scrollando appena le spalle prima di piegare in una smorfia la bella bocca carnosa.

Mi passai nervosamente le mani sul viso, come per schiarirmi le idee e cercare di tacitare il mio cervello ora iperattivo, prima di tornare a guardare l’uomo steso a terra, ma nulla cambiò.

Nulla di ovvio, o razionale, venne in mio soccorso.

Sentivo che qualcosa, in lui, non andava.

Quelle urla silenziose nella mia testa non avevano smesso di ossessionarmi, spingendomi a credere in quello che lui aveva appena sostenuto con così tanta convinzione.

Era come se, sulla mia pelle, avvertissi la morbidezza del pelo della bestia che lui sosteneva di essere.

In ogni caso, folle o meno che fosse, bugiardo o meno che fosse, credulona o meno che fossi, quell’uomo non poteva continuare a rimanere bloccato in quella gabbia, o sarebbe morto dissanguato.

Sarei tornata in un secondo momento a pensare a ciò che il mio Io razionale si rifiutava di credere, mentre il mio subconscio accettava con fervore.

Mi guardai perciò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da leva, per fare pressione sul lucchetto che teneva chiusa la gabbia, e l’uomo mi disse: “Hai addosso l’odore di uno dei Cacciatori… eppure dici di non esserlo.”

“Non so di che parli” brontolai, prendendo un piede di porco da una delle rastrelliere, dopo aver cercato inutilmente altri attrezzi più idonei.

“Faccio fatica a credere che tu non sia una di loro. Perché ti troveresti qui, sennò?” mi disse l’uomo, fissando a terra lo sguardo, forse affaticato da quella posizione forzata.

Meglio così. Non volevo ritrovarmi i suoi taglienti occhi addosso, per quanto essi fossero belli.

Mi distraevano troppo, e rendevano la mia mente più dinamica di quanto non potessi sopportare in quel momento.

Dovevo poter ragionare con freddezza su cosa fosse meglio fare in quel momento, non concentrarmi sugli sconcertanti segreti usciti dalla bocca di quell’uomo!

“Ribadisco, non so di che parli. In quanto all’odore, penso di non puzzare per nulla, visto che ho fatto il bagno prima di andare a dormire, ieri sera” sbuffai, piegandomi su un ginocchio e infilando il piede di porco nel pertugio offerto dall’arco metallico del lucchetto.

Feci forza con entrambe le braccia e, stupendomi non poco quando esso cedette al primo colpo, osservai il lucchetto cadere a terra e tintinnare fastidiosamente sulla superficie di cemento.

Storsi il naso dubbiosa – perché avevano messo un lucchetto così piccolo? – e dissi: “Ti libero subito. Abbi pazienza.”

Lui non disse nulla, limitandosi a scostare un poco le gambe per facilitarmi l’entrata nella gabbia.

Cercando di concentrarmi sul compito che mi ero auto imposta, misi mano alle catene sulle caviglie, notando con dispiacere quanto il metallo le avesse arrossate e lese in più punti.

“Non avresti dovuto cercare di forzare le catene. Hai combinato un disastro” brontolai, dispiaciuta per il dolore che senz’altro stava patendo.

La pelle arrossata sembrava essersi gonfiata a causa dello sfregamento e, senz’altro, presto sarebbero apparse le prime vesciche.

Rabbrividii al solo pensiero, sapendo quanto avrebbero fatto male.

“Non ho tentato di forzarle. E’ l’argento” disse per contro lui, come se la sua fosse una spiegazione sufficiente a spiegare il danno causato alle sue carni.

Sbattei le palpebre, confusa, e lui sbuffò, aggiungendo: “L’argento è come veleno, per noi.”

La sua esternazione mi fece accapponare la pelle – pensava davvero di essere quel che mi aveva detto? E io ero davvero convinta di volergli credere? – e, sempre più interdetta, esalai: “Ma come è… possibile?”

Rassegnato e, forse, preoccupato che scappassi a gambe levate una volta che mi avesse spiegato per filo e per segno la verità, mi disse roco: “Sono davvero un licantropo. Non mento. Ti proverei ogni cosa, se l’argento non mi avesse indebolito così tanto.”

La situazione non mi piacque affatto, e sentirlo parlare di fesserie come i licantropi, mi fece pensare con dispiacere che quel bell’uomo fosse matto da legare.

Ma come spiegare, allora, l’argento?

Come spiegare la sua presenza lì?

Come spiegare le strane sensazioni che avevo provato in precedenza?

Come spiegare il disagio che percepivo, come se qualcuno mi stesse graffiando ogni centimetro del corpo?

E come spiegare il mutare del colore dei suoi occhi?

Datti una calmata, Brianna, e fai una cosa per volta. Primo, tiralo fuori, secondo, curagli quella benedetta ferita, terzo, portalo da un bravo psichiatra.

Restare lì, in ogni caso, era troppo pericoloso… per entrambi.

Lasciai quindi perdere le mille domande che mi affollavano la mente in quel momento – avrei chiesto spiegazioni più dettagliate una volta che fossimo stati fuori – per concentrarmi sulle catene che cingevano le sue caviglie.

Sommessamente, gli chiesi: “Hai sentito se e quando torneranno?”

Nuovamente sprezzante, l’uomo ringhiò con la sua voce roca e profonda: “Non prima di aver raccolto tutti i membri titolati della loro spregevole cricca. Nessuno vorrebbe perdersi l’uccisione di uno di noi.”

Un brivido mi percorse la schiena a quelle parole, le mani bloccate sulle catene e lui, chetando il tono di voce, aggiunse: “Hanno parlato di un club a Glasgow. Forse, dove si ritrovano per bere. Non so di più.”

Annuii, prima di mettere nuovamente mano alle catene e, aggrottando la fronte, sbuffai dicendo: “Ma è peggio di un nodo gordiano!”

“Spero tu non voglia tagliarmi le caviglie, per risolvere il problema alla radice” commentò lui, cercando di ironizzae sulla mia scelta metaforica.

“No di certo” replicai, cercando di sciogliere l’intricata rete, formata dalla sottile ma lunghissima catena argentata che lo teneva bloccato. “Non capisco proprio come l’argento possa averti lasciato delle bruciature simili. So che le allergie possono essere tremende, ma così?”

“Solo i Cacciatori sanno dell’argento” ringhiò l’uomo, mettendo a voce tutta la sua ira.

“Quando dici cacciatori, non intendi quelli che hanno la regolare licenza rilasciata dalla Corona Inglese, vero?” gli domandai, liberando le caviglie.

Lui scosse il capo nell’allungare verso di me i polsi martoriati da abrasioni, evidentemente causate dall’argento.

Mordendomi un labbro nell’osservare le carni lacerate, oltre alla macchia di sangue che si stava allargando sotto di lui, chiesi: “Dove ti hanno ferito?”

“Appena sotto la clavicola destra”  mi disse, osservandomi mentre mettevo mano al secondo nodo di catene argentee.

“Pensi di resistere? Posso rattopparti, ma prima vorrei tirarti fuori da qui” mormorai, cercando di affrettarmi a liberarlo.

Lui annuì, restando in silenzio mentre io finivo di sciogliere il pesante nodo metallico.

Lasciai cadere anche la seconda catena prima di guardarmi in giro nervosamente, alla ricerca di qualcosa che potesse indossare.

Non potevo medicarlo in quello stato! Non ne sarei di certo stata in grado.

Ed era fuori discussione salire in camera di Patrick per cercare qualcosa, visto che Mary B era ancora all’interno, placidamente addormentata.

Uscii perciò dalla gabbia e mi affrettai a controllare l’interno dei mobili in fondo alla cantina, trovando a sorpresa la tuta da meccanico che Patrick soleva usare ogni tanto.

Sollevata, me ne tornai da lui e, dopo aver posato l’indumento accanto all’uomo, volsi le spalle per non guardarlo e dissi: “Dovrebbe andarti bene. Patrick è abbastanza alto e robusto.”

“Chi è?” mi chiese l’uomo, mentre un fruscio di stoffa mi giungeva alle orecchie.

“Il mio patrigno” specificai.

Volevo fosse chiaro fin da subito che io non avevo il suo stesso sangue. Beh, più o meno, insomma.

“Patrigno?”

Annuii, restando voltata, e mi spiegai meglio. “Io e mio fratello Gordon siamo stati adottati dagli Smithson tre anni fa, circa tre mesi dopo la morte dei nostri genitori. Patrick è un cugino di mio padre.”

Nel sentirlo sbuffare, mi volsi a mezzo e, non senza un certo apprezzamento, lo osservai in piedi fuori dalla gabbia, a torso nudo, con i pantaloni della tuta diligentemente abbottonati, ma nulla di più.

Di certo, non erano della sua taglia.

Deglutii a fatica, maledicendo i miei ormoni impazziti di sana ventenne e, indicando la parte superiore della tuta, legata in vita, chiosai: “Troppo stretta?”

“Già. Ma almeno salvo le apparenze” mormorò, tastandosi la spalla sanguinante per poi stringere i denti.

Sobbalzando nel vedere, per la prima volta, la causa prima dell’enorme macchia di sangue sul pavimento, dissi lesta: “Vado a prendere il necessario per medicarti, poi ce ne andremo da qui e mi racconterai qualcosa di meno assurdo di quel che mi hai detto. Non voglio che ci trovino, o potrebbero pensare di fare spezzatino della sottoscritta, e di te uno scendiletto, ammesso e non concesso che tu dica il vero, cosa di cui dubito fortemente.”

Lui sogghignò, prima di asserire: “Non mi fiderei neppure io, ma ti metterai nei guai, portandomi via di qui. Inoltre, ti ho detto la verità.”

“Mi sono già messa nei guai quando ho messo il naso qui e ti ho liberato. Neppure dovrei starci, nella cantina” replicai per contro, facendo l’atto di andarmene.

Lui mi afferrò un braccio, gli occhi non più verdi come smeraldi, ma cangianti e macchiati di gocce dorate.

Immobilizzata dal suo sguardo come un gatto abbagliato dai fari, non seppi né muovermi, né proferir parola.

La forza con cui mi aveva afferrata non era quella di un uomo.

E quegli occhi cangianti non potevano appartenere a un essere umano.

Quindi, cos’era realmente?

Possibile che quello che continuavo a negare così strenuamente, fosse vero?

Dovevo sul serio dare retta alla parte più illogica di me che, solitamente, ascoltavo ben di rado?

Scorgendo il mio panico, allentò la presa e mormorò: “Scusa. Volevo solo sapere cosa volevi fare.”

Presi un gran respiro – dopotutto non mi avrebbe ammazzata, era un buon inizio – e dissi: “Prendo il necessario per andarcene di qui e, eventualmente, per approntare un piccolo campo per medicarti con più sicurezza. Tornerò tra un paio di minuti, te lo prometto.”

Non so se fu il mio sguardo sincero a convincerlo, o il mio tono di voce, ma lui annuì, intrecciando le braccia nerborute sul torace abbronzato e solcato da una scia di peluria sottile.

Sorrisi di fronte alla sua posa abbastanza rilassata, nonostante quella fosse una situazione tutt’altro che piacevole, e asserii: “Due minuti.”

“D’accordo.”

Mi chiusi la porta della cantina alle spalle, risalendo i gradini a due a due e, con passo felpato, rientrai in casa e raggiunsi lo sgabuzzino dove tenevo il necessario per il campeggio.

Lì, raccolsi il mio zaino della McKinley, già debitamente equipaggiato grazie a Nancy e alla sua decisione di uscire in campeggio quel week-end.

Ne estrassi uno dei cambi d’abito – non potevo continuare a girare in pigiama – e me lo infilai alla svelta, prima di mettere in tutta fretta nello zaino quello che mi ero appena tolta.

Dopo aver afferrato scarponcini e tenda, sgattaiolai nel vicino bagno a pian terreno e dilapidai le scorte di medicinali nell’armadietto fissato al muro.

Non avevo ancora idea di dove avremmo potuto andare, né di come avrei spiegato tutto quel gran casino a Patrick.

Di certo, però, non avrei permesso a nessuno, neppure a lui, di infierire su un uomo, pazzo o meno che fosse, licantropo o meno che fosse.

Non limitarti a porgere l’altra guancia, difendila, quella guancia.

Sorrisi, quando mi tornò alla mente la frase che mia madre era solita usare, quando tornavo a casa lamentandomi dei miei compagni di classe.

Beh, quella volta, avrei difeso la guancia di quell’uomo da Patrick e i suoi. A costo di passare un brutto quarto d’ora.

Mi sarei fidata di quella parte solitamente poco utilizzata di me che ora, invece, sosteneva a gran voce la tesi che, qualsiasi cosa fosse successa, io dovevo tirar fuori di lì quell’uomo.

E lo avrei fatto.

Una volta fatta scorta di medicinali, presi le chiavi della mia auto e tornai dabbasso, ben decisa a non perdere un secondo di più.

Non appena rimisi piede in cantina, l’uomo mi guardò con occhi sgranati, esalando confuso: “Avevi intenzione di scappare di casa prima ancora di incontrare me?”

Io ridacchiai, replicando: “No, avevo solo in previsione una gita nei boschi con le mie amiche. E’ stata una fortuna, perché così non ho dovuto perdere tempo a preparare lo zaino. Andiamo, allora…”

Notando la mia indecisione nel proseguire il discorso, lui sorrise – il primo sorriso che scorsi dacché i nostri sguardi si erano incrociati – e disse, allungandomi una mano: “Duncan… Duncan McKalister.”

Stringendo l’ampia e possente mano – che avrebbe potuto triturarmi la testa senza sforzo – replicai: “Brianna Ann Spencer… cioè, Smithson… beh, insomma, hai capito.”

Lui ridacchiò e annuì, prima di portarsi la mano sinistra alla spalla. “Dobbiamo fare in fretta. L’argendo comincia a farsi sentire.”

“Tampona la ferita con queste bende” gli dissi sbrigativa, passandogliene un sacchetto.

Fosse allergico o meno all’argento, era evidente che qualcosa non andava, perché il suo pallore si stava facendo più evidente a ogni secondo che passava. “Dovrebbero bastare, per il momento.”

Detto ciò, mi diressi verso il portone della cantina, tallonata dappresso da Duncan.

Soprendentemente, non mi turbò l’idea di averlo alle spalle – ero più che convinta che non mi avrebbe fatto del male – e la cosa mi stupì parecchio.

Perché, con Patrick, non mi ero mai sentita a mio agio mentre con Duncan, un perfetto sconosciuto e un potenziale malato di mente, sentivo di potermi fidare?

Di certo non poteva solo essere a causa della sua bella faccia. O almeno, così speravo. Volevo credere di essere un poco più pignola di così.

Sbirciai fuori dopo aver aperto il portone di legno e, fattogli segno di seguirmi, ci avviammo verso la mia Mini Minor verde del ’95, che si trovava sotto un olmo all’altro capo del cortile inghiaiato.

Aperte le portiere con la chiave, sistemai in fretta lo zaino e gli scarponi nel baule, mentre Duncan mi raggiungeva con passo stanco e l’aria di essere quasi allo stremo.

“Dobbiamo tenerci lontani dalle vie trafficate, o potrebbero avere qualcosa da ridire sul mio stato” ridacchiò stentatamente Duncan, salendo a fatica in auto.

“Direi proprio di sì” ammisi, controllando che riuscisse ad allacciare la cintura nonostante il dolore alla spalla.

Dopo aver annuito nel vederlo pronto a partire, guardai spiacente la casa dalle imposte ancora chiuse e, tra me, chiesi scusa a Gordon.

Ero certa che la mia fuga improvvisa lo avrebbe sicuramente mandato in paranoia, per non dire fuori di testa. Così come sarebbe successo a Mary B.

Ma non me la sentivo di lasciare solo Duncan, specialmente dopo quello che Patrick e la sua cricca gli avevano fatto e, soprattutto, per quello che avevano avuto intenzione di fargli.

Misi in moto e uscii dal cortile col motore al minimo, prima di immettermi sulla Birdston Road e dirigermi verso sud.

Fui grata per la strada deserta, e la totale assenza all’orizzonte di quei maledetti pick-up che avevano assediato la nostra casa di prima mattina.

Restai testardamente sotto le trentacinque miglia orarie, nonostante le occhiatacce di Duncan che, a più riprese, mi chiese urgentemente di aumentare l’andatura.

Io, più che decisa a non attirare l’attenzione, replicai in più di un’occasione: “Conosco la zona, e so dove si mettono le pattuglie. E poi, sto guidando io.”

Le mani ben salde sul volante, fissai il mantello scuro della strada di fronte a me, cercando rilassare i tratti del mio viso e il ritmo del mio respiro.

Le mie nocche, sbiancate dalla stretta convulsa, smentivano comunque  la mia apparente calma.

Come un ciclista impegnato in una estenuante gara di resistenza, cercai di impormi un certo grado di pace mentale.

Usai l’orizzonte per raggiungere una leggera trance, che mi sarebbe servita per uscire indenne dal panico che si stava mangiucchiando un pezzo alla volta il mio cervello.

Non potevo permettermi di strepitare come una pazza o mettermi a piangere per la paura – sebbene ne avessi una gran voglia – ; mamma e papà ci avevano insegnato a non aspettare la cavalleria.

E, in quel caso, di certo non sarebbe arrivata. Anzi, tutt’altro.

Io ero l’unica cavalleria a disposizione, perciò, niente attacchi di panico.

Oltrepassammo l’interland di Glasgow in meno di mezz’ora, mezz’ora in cui il sedile della mia Mini divenne un miscuglio inguardabile di tinte indefinibili.

Il rosso cupo del sangue di Duncan che continuò a scivolare copioso dalla ferita, nonostante la pressione esercitata dalle bende.

Piansi mentalmente all’idea di quel che avrei speso per ripulirla – e soprattutto di come avrei spiegato tutto quel sangue al titolare dell’autolavaggio.

Prima di tutto, però, dovevo pensare a salvarlo dal dissanguamento, o tutto sarebbe stato vano.

A Eaglesham, svoltai in una stradina sterrata, verso sud-ovest, inoltrandomi nella campagna coltivata in direzione di una serie di bacini idrici poco distanti e fuori mano.

L’ideale, come nascondiglio per curare la ferita di Duncan, sempre che il suo fisico avesse retto fino a laggiù.

Badandovi solo marginalmente – i miei occhi corsero sempre più spesso alla figura del mio compagno di fuga, timorosi nello scorgere i segni del suo cedimento fisico – mi lasciai alle spalle diverse fattorie.

I trattori, già in movimento, non mi turbarono tanto quando la vista del pallore spettrale del viso di Duncan.

Erano già parecchie miglia che non diceva più nulla, e mi chiesi turbata se sarebbe sopravvissuto il tempo necessario per permettermi di estrarre il proiettile.

Era mai possibile che non mi avesse mentito e che, in effetti, l’argento lo stesse uccidendo?

Se si fosse trattata di un’allergia, avrebbe già avuto uno shock anafilattico, invece il suo corpo non si era né gonfiato, né si era coperto di pustole.

Sembrava, semplicemente, che stesse smettendo di vivere poco alla volta.

Allungai una mano per tastargli la fronte e, mordendomi un labbro per l’apprensione, la sentii calda sotto le mie dita. Brutto segno davvero.

Come poteva essere così pallido e avere la febbre? Che diavolo gli stava succedendo?

“Ci siamo quasi. Resisti” mormorai, cercando di rincuorare anche me stessa, e non solo lui.

Lui annuì, sussurrando: “Ti ho messa davvero in una bella situazione. Scusa.”

“Tranquillo, sono un’esperta di situazioni incasinate. Come vedi, in questa mi ci sono infilata da sola, e con gran classe” cercai di ironizzare, mentre il bacino artificiale dove avevo intenzione di nascondere l’auto si avvicinava sempre più.

Lì, avrei avuto tutto il tempo per curarlo e decidere sul da farsi.

Raggiunto il bacino, inchiodai l’auto con uno stridore sordo di pneumatici sulla ghiaia della mulattiera, e lì nascosi la Mini sotto un gruppetto di piante di noce dal tronco nodoso e robusto.

Fatto ciò, inforcai lo zaino sulle spalle e mi misi gli scarponi ai piedi, dopodiché aiutai Duncan a scendere dall’auto per dirigerci nel boschetto vicino.

Il suo peso gravava sulle mie spalle – non ero abbastanza alta per fornirgli un appoggio eccellente, ma non potevo far di meglio.

Il suo respiro affannoso mi fece capire che, i suoi sforzi di rimanere cosciente, erano ormai vani e prossimi a venire meno. Dovevo sbrigarmi.

Indicandogli uno stretto sentiero boschivo, gli chiesi: “Come può, l’argento, farti reagire a questo modo? Se fossi semplicemente allergico, ti dovresti gonfiare come un pallone e avere uno shock anafilattico.”

Lui sogghignò, scosse il capo e infine mormorò: “Non è allergia. E’ come ingoiare veleno, per noi. Ci divora poco alla volta e, se non interverrai alla svelta… io…”

“Duncan? Ehi, non mi mollare così, eh?” esalai, sicuramente impallidendo al pari suo, notando il sudore profuso sul suo viso innaturalmente cereo.

“Farò… del mio… meglio… ma non so se…” cercò di dirmi qualcosa, prima di appoggiarsi al primo albero utile per riprendere fiato.

“Merda!” esclamai, guardandomi intorno freneticamente.

Non eravamo lontani dalla carreggiata come avrei voluto, ma non potevo più aspettare, perché ormai le condizioni di Duncan non permettevano ulteriori indugi.

Dovevo estrargli quel maledetto proiettile dalla spalla, e dovevo farlo subito, o lo avrei perso.

La sola idea mi fece venir voglia di imprecare, prendere a calci tutto quello che mi circondava, unitamente a un gran desiderio di inginocchiarmi e mettermi a gridare di paura.

Ma non mi era concesso né l’uno ne l’altro sfogo.

Proteggila, quella guancia.

E l’avrei protetta, mi dissi, stringendo i denti per non mollare.

Tornai a fissare Duncan, ansimante e preda di un dolore che potevo solo immaginare, un dolore che mi faceva sentire inutile e impotente ma che, al tempo stesso, mi diede la forza per non cedere.

Sfiorandogli il braccio con una mano, sussurrai: “Ce la faremo, vedrai.”

Lui annuì, non potendo fare altro e il mio sguardo, turbato, andò ai bendaggi madidi di sangue.

Nuovamente, mi chiesi cosa stesse succedendo all’interno di quel corpo apparentemente invulnerabile, ora però preda di  un avvelenamento davvero singolare.

L’argento che, fino al giorno prima, mi era sembrato solo un metallo innocuo e carino, ora stava uccidendo un uomo che, fino al giorno prima, non mi sarei mai immaginata di incontrare.

E salvare.

 
 
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N.d.A. benvenuti nel mio nuovo universo. Spero che la storia che ho da offrirvi possa essere di vostro gradimento. Buona lettura e, se volete, commentate! Mi fareste davvero cosa gradita

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Capitolo 2
*** II. ***


2

 

 

 

 

Mi guardai intorno freneticamente, l’adrenalina che fluiva nel mio sangue simile a combustibile infiammabile.

Mi dava la forza necessaria per non crollare in preda al panico, ma non sapevo per quanto sarebbe durata.

Sentivo già strisciarlo sulla mia schiena, come un serpente gelido e pronto a mordere.

Duncan, addossato a me e ansimante, mi scrutò con occhi incupiti dal dolore.

Non potendo proseguire, senza il rischio di vederlo crollare a terra in tutto il suo metro e novanta circa di altezza, mi fermai, esalando in preda all’ansia: “Basta! Qui va bene. Ora stendo il sacco a pelo e ti ci siedi sopra.”

Lui annuì, troppo stordito anche solo per parlare mentre le mie mani, muovendosi il più velocemente possibile, stesero a terra il sacco a pelo, sprimacciandolo più e più volte.

Con dita tremanti, aprii la cassetta del pronto soccorso che tenevo nel mio zaino ed estrassi alcune salviettine detergenti per disinfettarmi, prima di iniziare il lavoro vero e proprio.

Una volta fatto questo, indossai i guanti sterili e ripulii dal sangue la pelle di Duncan, sentendogli dire con tono ansante: “Devi… devi togliere…il proiettile…”

Lo sapevo, dannazione, ma non ero certa di avere il coraggio di tagliuzzarlo mentre lui era ancora cosciente.

Avevo sentito Mary B parlare dei suoi interventi mille e mille volte.

Affascinata da ciò che era in grado di fare con bisturi e filo, non mi ero mai persa le sue spiegazioni mentre, tra un commento e l’altro, sorseggiavamo the o mangiavamo pasticcini.

Ma ora che ero io a dover operare, la cosa non mi emozionava più. Tutt’altro. Ne ero terrorizzata.

 “Non ho antidolorifici tali da permetterti di non sentire l’incisione che dovrò farti” precisai, allungando le mani verso la sua schiena, tastandola con dita tremanti per individuare il proiettile.

Lo schifoso era proprio sottopelle, lo potevo sentire senza problemi.

“Non… funzionano… non hanno effetto… su di noi” sussurrò lui, ansimando con forza.

Lo fissai sconvolta – era pazzo, forse? Come, non facevano effetto? – prima di concentrarmi sul suo aspetto emaciato.

Era pericolosamente pallido e il suo rantolo non mi piaceva affatto.

In poco meno di mezz’ora era peggiorato tantissimo, e non avevo idea di quanto avrebbe potuto resistere ancora.

Dovevo sbrigarmi, indipendentemente da tutte le sciocchezze che mi stava propinando.

“Quindi, se anche ti dessi un quintale di novocaina, non ti farebbe nulla?” gli chiesi, cercando il mio coltellino svizzero nella tasca interna dello zaino.

Ma dove diavolo era?!

“Esatto” annuì, chiudendo un momento gli occhi prima di riaprirli a fatica e aggiungere: “Sento la tua paura. Ma non devi aver timore di farmi male.”

Ottimo, mi fiuta pure? Ma chi diavolo è?, pensai contrariata e confusa.

Evidentemente, la mia faccia doveva essere un libro aperto sulle mie emozioni sconclusionate.

Altrimenti, come avrebbe potuto capire che ero letteralmente terrorizzata all’idea di mettergli le mani addosso?

Deglutii a fatica e mugugnai: “Senti, devo inciderti con il mio coltellino, il che non è il massimo. Ma non potevo andare a svaligiare la borsa di Mary B, o se ne sarebbe accorta.”

“E’ un medico?” mi domandò, accennando un mezzo sorriso.

“Sì. E vorrei diventarlo anch’io. Mi sono iscritta al primo anno di Immunologia, alla UCL di Londra, e dovrei iniziare a ottobre” farfugliai nervosamente mentre disinfettavo la lama con l’ennesima salviettina antibatterica. Parlare a ruota libera mi aiutava a non pensare a quello che, entro breve, avrei dovuto fare.

“Allora… sarò… il tuo primo… paziente” cercò di ironizzare,prima di aggrottare la fronte.

“Ti fa male?” sussurrai, mettendo mano alla sua spalla per tenerlo fermo.

Lui scrollò debolmente le spalle, prima che una smorfia di dolore alterasse i suoi lineamenti perfetti.

Preso un gran respiro, mi apprestai a incidere.

La lama lacerò la pelle, affondando nella carne senza problemi.

Parve non provocare alcun dolore a Duncan che, immobile, sopportò stoicamente senza battere ciglio.

Quella ad avere dei problemi, in quel momento, ero io.

A quanto pareva, l’adrenalina era finita, e il mio corpo cominciava a risentire della vista del sangue e della carne viva, esposta al mio sguardo allucinato.

Come se fossero state le mie stesse dita a perforare la pelle, percepii distintamente la viscida parete di carne sanguinante esposta all’aria e la morbidezza dei fluidi corporei, che stavano scivolando fuori da essa.

Fu quasi troppo, per me.

Da quando, ero diventata così sensibile a ciò che vedevo? O era solo il panico?

Mi morsi a sangue un labbro, sperando che il dolore provato mi allontanasse da quelle sensazioni fin troppo violente e che, a stento, riuscivo a comprendere.

Duncan, sorpreso, sussurrò: “Ti sei fatta male?”

“N-no, perché?” balbettai, quasi tremando. Che intendeva dire?

“Sento odore di sangue” mi informò.

“Ovvio” sbottai, posando a terra il coltello per prendere una pinzetta, con l’intenzione di estrarre il proiettile.

Lui accennò una risatina e precisò: “Non il mio… il tuo. Riconosco la differenza.”

Ah, bene! Perfetto! Voleva anche fare dell’ironia?!

Perché continuava con quella storia della licantropia? Perché voleva convincermi a tutti i costi di essere un uomo lupo?

Eppure, questo spiegherebbe tutto!, ribatté quella perfida parte di me che ancora credeva alle streghe e ai folletti.

Taci, me stessa! Ne riparleremo dopo!, rispose per contro la mia parte obiettiva e logica, desiderosa di averla vinta sull’altra Me.

Sperai la smettessero alla svelta di litigare. In quel momento, dovevo rimanere concentrata, e non assistere a un incontro di catch all’interno della mia testa.

Con la mano tremante bloccata a pochi centimetri dalla spalla insanguinata di Duncan, ansai nervosamente: “Cristo,… non so se ci riesco.”

Devi. O morirò entro le prossime dodici ore. Il mio corpo comincerà ad assimilare dentro di sé il proiettile e, a quel punto, l’argento farà il resto” mi spiegò, crudo e lapidario.

Un pugno in piena faccia avrebbe fatto meno male.

“Come… assimilare?!” esalai, afferrando con la mano libera il polso malfermo nel chiaro intento di bloccare il mio tremore convulso.

Duncan sospirò e aggiunse con minore enfasi: “Guariamo in fretta e, se avessi dell’argento dentro di me durante la fase di guarigione, io…”

“Non. E’. Possibile” gracchiai, stridula. Era davvero folle!

Devi credermi. Non ti sto raccontando fandonie. So che è una situazione tremenda, e che tutto ciò che ti sto dicendo ti sembrerà assurdo, ma è la pura e semplice verità. Chiediti solo una cosa: perché il tuo patrigno mi teneva in una gabbia ricoperta d’argento, e legato con catene dello stesso materiale? Chieditelo!”

Era assurdo, totalmente fuori dalla norma, eppure… avevo pur visto i suoi occhi cambiare colore.

E quelle sensazioni… quello sguardo che sembrava nascondere molto altro.

La mia parte razionale urlava di non credergli, di estrarre il proiettile e poi fuggire a gambe levate da quel pazzo furioso.

L’altra, del resto… quella sognatrice, quella che per anni avevo soffocato dietro un muro di silenzi, mi pregò di concedere il beneficio del dubbio a quell’uomo.

Prima di tutto, sii solerte con il prossimo, bambina mia. Non puoi mai sapere cosa potrebbe capitarti nella vita, ed essere gentili e disponibili può portare solo del bene.

Perché le parole di mia nonna mi rimbalzarono nel cervello, e proprio in quel momento? Perché?

Guardai la mano che teneva la pinzetta, sinistramente scintillante sotto i raggi del sole, e il sangue scarlatto della ferita che, incessante, continuava a fuoriuscire dalle sue carni.

Annuendo debolmente tra me, ringhiai: “Al diavolo. Va bene.”

“Grazie… non so … davvero come potrei fare, senza il tuo aiuto” mormorò, cercando di parlare nonostante il dolore che stava provando.

Il sudore copioso su tutto il suo corpo, così come i suoi ansiti strozzati, parlavano per lui.

Scossi il capo, prima di darmi una sberla in faccia e sbottare con veemenza: “Forza, ragazza, sveglia!”

“Mi spiace tanto” sussurrò Duncan.

“Mica ti sarai fatto sparare addosso di proposito, spero” celiai, tornando ad avvicinarmi alla sua spalla.

Grida e sangue.

Un lampo dell’incubo che mi aveva destata colpì la mia corteccia prefrontale come un colpo di gong, all’improvviso. Perché mi era tornato alla mente?

“Non del tutto” buttò lì Duncan, aggrottando la fronte. “Fai attenzione… di solito usano… usano proiettili con ogive… piene di nitrato d’argento.”

“Cazzo!” mi sfuggì dalle labbra, mentre sgranavo gli occhi per la sorpresa. “Ma che razza di armi usano?!”

“Se sopravvivo, te lo spiegherò” mi promise lui.

“Non morirai, questo te lo assicuro. Non voglio cominciare così la mia esperienza medica” gli promisi, aggrottando la fronte e imponendomi di darmi una calmata.

Dovevo solo pensare al proiettile e alla pinza che lo avrebbe cinto per estrarlo dalla carne di Duncan.

Già, una vera passeggiata.

Respirai affannosamente, quando il metallo della pinzetta scivolò all’interno del taglio che avevo praticato col coltello.

Muovendomi cauta, cercai a tentoni la capocchia del proiettile, finché non avvertii qualcosa all’estremità della mia perlustrazione.

“Eccolo” sussurrai, ormai senza voce per l’ansia che mi divorava il petto.

Duncan era immobile e silenzioso, in attesa.

Un movimento sbagliato e avrei potuto rompere l’ogiva, lasciando che il liquido argentato contaminasse il suo sangue.

Beh, non dovevo commettere errori, questo era sicuro.

Annuii tra me, mentre la pinza prendeva possesso del proiettile e, con mano stranamente ferma, cominciai a estrarlo, un millimetro alla volta.

L’immobilità di Duncan poteva essere paragonata solo a quella di una statua.

Immaginai, comunque, quanto dolore gli procurasse quel mio procedere così lentamente nell’estrazione.

Quando riuscii finalmente a vedere la capocchia dell’ogiva, il mio cuore si fermò un istante – paura e gioia ballavano a braccetto dentro di me.

L’istante seguente riprese iperattivo, pompando ora rabbia e dolore nel mio corpo.

Non potevo credere che Patrick potesse aver sparato un proiettile simile, e a un altro essere umano.

Magari era stato proprio lui a ferirlo, e questo mi fece stare ancora peggio.

Lo estrassi del tutto, gettandolo lontano e con stizza, prima di applicare una pezzuola pulita sulla ferita e mormorare con un sospiro tremulo: “Okay, sei a posto.”

Duncan prese un gran respiro liberatorio e, voltando il capo verso di me per concedermi un sorriso, ansò grato: “Davvero brava. I miei complimenti.”

Mi leccai nervosamente le labbra, un tremore sempre crescente che mi invadeva le viscere e, con voce gracchiante, domandai: “Ora che sei a posto, posso piangere?”

Mi guardò comprensivo, mentre le prime lacrime solcavano le mie gote sicuramente pallide.

Nel volgersi un poco di più, mi tolse di mano la pezzuola che tenevo contro la spalla, spiegandomi con tono quasi spiacente: “La ferita si rimarginerà in pochi minuti, ora che l’argento non è più nel mio corpo.”

Continuando a piangere in silenzio, il cuore che lentamente stava svuotandosi di tutte le mie ansie e i miei timori, annuii a più riprese, stordita.

Non ero del tutto certa di aver capito appieno quanto mi aveva appena detto, concentrata com’ero stata solo su quello che avevo fatto.

Nonostante i miei incubi peggiori, ero riuscita a portare a termine l’operazione senza fare danni.

Gli occhi lucidi di lacrime, dopo qualche momento passato a guardare le mie mani tremanti, tornarono a scrutare la spalla appena operata di Duncan.

Allibita, fissai la sua magica guarigione – fu come osservare un documentario, in cui viene mostrata la crescita di una pianta a velocità accelerata – mentre tutto, in me, sembrò capovolgersi.

Stava guarendo realmente a una velocità pazzesca.

Era mai possibile che tutto quello che mi aveva detto fosse vero?

Era veramente possibile che esistessero i licantropi e che Patrick li cacciasse?

Certo, se tutto ciò fosse stata la cruda realtà, si sarebbero spiegate molte cose.

Ma come credere, nonostante lo spettacolo eccezionale a cui stavo assistendo a occhi sbarrati?

Duncan mi fissò comprensivo, le mani ora rilasciate in grembo, mentre io continuavo a osservare i lembi di pelle saldarsi millimetro dopo millimetro.

Stavano formando una linea rosea e rigonfia di tessuto cicatriziale, guarendo letteramente dinanzi a me.

Aprii e chiusi la bocca diverse volte, indecisa su cosa dire, ma nulla sgorgò dalle mie labbra, rinsecchite al pari della gola.

Ero basita di fronte a quel, beh, miracolo era l’unica parola che mi veniva in mente.

“Questo è parte di ciò che sono. Puoi accettarlo?” mi chiese, sbirciandomi con i suoi occhi smeraldini, quasi timoroso di spaventarmi.

Beh, ero ben oltre lo spavento.

La parte analitica della mia mente, stava lavorando febbrilmente per dare una spiegazione scientifica a quel meraviglioso quanto unico processo di rigenerazione.

Il mio Io più irrazionale, invece, stava letteralmente urlando dentro la mia testa: ‘ci ha trovati!’, ‘ci ha trovati!’.

Ma trovati, chi?

Dire che ero in confusione, era un eufemismo. Una pallida imitazione della realtà.

Mai, nella vita, mi era capitato di essere così in disaccordo, o in disarmonia, con me stessa e nel contempo, di desiderare che tutte le mie rigide credenze finissero in un cestino.

Volevo lasciare libero spazio a ciò che di miracoloso, e incredibile, c’era nel mondo.

La razionale Brianna soppiantata da quella creativa?

Beh, da quel che sembrava stesse succedendo all’interno del mio cervello in subbuglio, sembrava proprio esserci in atto un ammutinamento e, per qualche strano motivo, ne fui lieta.

Preso il toro per le corna, fissai perciò Duncan in viso e, deglutendo un paio di volte prima di trovare il coraggio di parlare, esalai con voce gracchiante: “Non mi stavi mentendo, allora, vero?”

“No.” Scosse semplicemente il capo, senza aggiungere altro.

D’accordo. Era realmente un licantropo.

Io cosa dovevo fare, allora? Scappare? Urlare? Svenire?

Cosa?!

“Ti sono debitore” aggiunse poi all’improvviso, sorridendomi e spiazzandomi completamente.

C’era qualcosa di molto formale, in quello che aveva appena detto.

Non si era limitato a ringraziarmi; quel che era insito nelle sue parole aveva un significato più profondo, come se quello che avevo appena fatto per lui lo avesse toccato nell’animo.

“Mi mangerai?” riuscii a dire, pur sentendomi un’idiota nel mettere a parole le mie paure.

Lui scoppiò in una risata così bella che mi colse ancor più di sorpresa.

Come potevo aver paura di un uomo che sapeva ridere così? Era impossibile.

Duncan si passò una mano tra i capelli umidi di sudore, prima di tornare a guardarmi e rassicurarmi col suo dire.

“Noi licantropi non ci cibiamo di esseri umani e, meno che meno, io farei del male alla donna che mi ha salvato senza timore del pericolo.”

Ancora quella sensazione di pace, di tranquillità, come se la sua presenza fosse logica, accanto a me.

In effetti, non avevo paura di lui, e cominciavo a familiarizzare con l’idea, di per sé assurda, che lui fosse veramente un licantropo.

Tutto ciò andava oltre l’immaginabile, eppure mi sembrava… giusto.

Dio solo sapeva il perché. In ogni caso, risposi con un sorriso incerto e replicai: “Sono ancora terrorizzata a morte, quindi eviterei di dire ‘senza timore del pericolo’, perché non è realistico.”

Fattosi serio, Duncan ribadì il suo dire.

“Ma tu sei stata coraggiosa, Brianna. Quante altre persone si sarebbero fidate ciecamente di uno sconosciuto, e l’avrebbero aiutato come hai fatto tu?”

Già, quante? Ben poche. Forse nessuna.

Ma io mi ero sentita spinta ad aiutarlo e, forse, lui poteva spiegarmi perché.

Scossi il capo, confusa, e feci spallucce, incapace di dare una risposta alla sua ovvia domanda.

“Dai pure la colpa al fatto che sono una girl scout.”

Lui mi sorrise un attimo, prima di accigliarsi e sentenziare: “Ora, però, sono restio a lasciarti tornare a casa. Sicuramente, il tuo patrigno non impiegherà molto a comprendere il tuo coinvolgimento nella mia fuga, e ti punirà.”

Mi irrigidii all’istante, nel sentirlo parlare a quel modo e lui, addolcendo i tratti del viso, si arrischiò a sfiorarmi una mano con la propria, aggiungendo: “Lungi da me è l’idea di farti del male, Brianna. Non leverei mai un dito, contro di te.”

“Ma?” sussurrai, incitandolo a proseguire.

La sua mano calda, che sfiorava la mia solo con la punta delle dita, sembrava emanare una specie di corrente elettrica a basso voltaggio.

Era come se avessi avvicinato la mano a un oggetto elettrificato, e sentissi la pelle sfrigolare leggermente al contatto con l’energia statica.

Lui sospirò, ritirando la mano ma non annullando di fatto la sensazione di prurito, che si estese a tutto il mio corpo, dandomi l’impressione di essere accarezzata da morbide piume.

Ma che mi succedeva?!

Volgendo lo sguardo a scrutare le coltri di rami e foglie, che inibivano in parte la visuale del cielo terso del mattino, Duncan mormorò roco: “Temo per la tua incolumità, e non vorrei mai che Patrick usasse te per giungere a me. Non ti ripagherei mai così, dandoti in mano a un potenziale assassino.”

Nel sentire quella parola, assassino, rabbrividii e, con la mente, tornai alla visione di lui chiuso in gabbia, completamente nudo e in catene.

Sul momento avevo preferito non pormi troppe domande ma lì, sola con Duncan, e messa di fronte ai suoi timori più che fondati, non potei esimermi dal chiedergli: “Volevano davvero… ucciderti?”

Annuì, il volto indurito da ricordi che preferivo non conoscere in quel momento.

“Mi hai chiesto dei Cacciatori. Non sono le classiche persone dotate di licenza di caccia, come tu avrai già capito. Noi chiamiamo così le persone che cacciano noi.”

“Ma… ma è…” tentennai, mordendomi un labbro, indecisa se proseguire o meno.

Ci pensò Duncan a mettere a parole i miei dubbi.

“Illegale? Certo che lo è. Per il bel mondo, noi siamo comuni esseri umani, visto che ne abbiamo le sembianze. Ma i Cacciatori sanno bene cosa siamo in realtà. E se ne infischiano delle regole vigenti.”

“Quindi…cacciano i…i…?” borbottai, non riuscendo ancora a dire quella benedetta parola, pur sapendo che era la sola risposta alle mie domande.

Accettarlo  mentalmente era un conto, metterlo a parole, a quanto pareva, era più difficile.

Ma non potevo essere un po’ meno con i piedi per terra?!

Duncan mi sorrise comprensivo, forse intuendo le mie difficoltà, forse percependo la mia ansia.

Non sembrava comunque impaziente di sentirmi enunciare l’ovvio – si fa per dire – perciò, preso un bel respiro, mi fissò attento prima di parlare per me.

“Sì, Brianna. I licantropi. Nel vero senso della parola. Siamo sudditi devoti della Luna, figli della Madre Terra e legati a Lei a doppio filo, molto più di quanto i Cacciatori stessi non immaginino.”

Sbattei le palpebre diverse volte mentre, stralunata, osservavo quel volto abbronzato e dai lineamenti decisi, immaginando un lupo dietro quelle sembianze umane.

Un’ombra pallida scivolò nella mia mente, un altro residuo dell’incubo e, con esso, avvertii calore, morbidezza e… familiarità. Perché?

La sensazione di formicolio tornò, quando lui aggiunse con voce dura: “Loro ci cacciano fin da quando il primo uomo venne a conoscenza della nostra esistenza. Ed è una lotta che non avrà mai fine. Mai! Per questo, non posso lasciarti tornare a casa. Sarebbe troppo rischioso per te, e io non permetterò che tu corra dei rischi.”

Okay. Una creatura suddita della luna. Un mito ancestrale. Beh, non tanto, a quanto pareva.

Forse potevo farcela. Dopotutto, era fatto di carne e sangue, e poteva rimanere ferito o morire, da quel poco che avevo visto. Non era poi così diverso da noi.

Non era tanto difficile da comprendere.

Poggiai entrambe le mani sul petto, come a voler trattenere il mio cuore palpitante e, preso un gran respiro, protestai debolmente: “Patrick non arriverebbe a farmi del male.”

“Quanto ne sei certa?” replicò Duncan, alzandosi in piedi e passeggiando nervosamente dinanzi a me.

Il formicolio aumentò, tanto da costringermi a massaggiare le braccia per il fastidio. Perché continuavo a percepire quelle strane sensazioni? Non avevo toccato erbe urticanti, perciò, che diavolo mi stava accadendo?

Bloccandosi a metà di un passo, quando mi vide massaggiare le braccia con una frenesia quasi assurda, sollevò un sopracciglio con aria evidentemente sorpresa.

I suoi occhi, attenti e meditabondi, intensificarono la loro analisi e, per un istante, desiderai schiaffeggiarlo. Perché mi guardava a quel modo?

Come se si fosse stato spento un interruttore, il formicolio cessò.

Che i miei recettori sensoriali fossero fuori uso, a causa dello spavento preso e delle novità che stavo assimilando in quel momento? Difficile dirlo.

Duncan, comunque, aveva smesso di fissarmi, il che fu un bene per entrambi.

Più tranquilla – ora che il formicolio era passato, ero in grado di ragionare più agevolmente – ammisi: “Non lo so… ammetto che non lo so.”

“Allora non tornerai a casa” sentenziò, perentorio.

Quel tono sferzante mi fece accigliare all’istante e, alzandomi a mia volta – certo, non ero abbastanza alta per apparire minacciosa – replicai rigidamente: “Non sei nella posizione di impormi nulla.”

“Sento il dovere di proteggerti, per cui non ti lascerò andare. Anche se mi spiace intromettermi così nella tua vita, non vedo altre soluzioni” ribatté, fronteggiandomi e guardandomi dall’alto in basso con aria arcigna.

Sì, lui faceva sicuramente più paura di me.

Mi guardai intorno smarrita, osservando in lontananza la piccola sagoma della mia auto e, arrampicandomi sugli specchi, brontolai: “Non posso venire con te. Non appena Patrick scoprirà che non ci sono, chiamerà la polizia per segnalare la targa della mia auto, e noi saremo spacciati.”

“Non andremo via in auto” ci tenne a precisare, rabbonendo lo sguardo e fissandomi con aria spiacente.

“Come?!” esclamai basita, prima di notare un bagliore sinistro nei suoi occhi.

Aggrottai la fronte, subodorando guai, prima di intimargli: “Specifica chiaramente cosa stai tramando.”

Duncan lanciò uno sguardo all’auto con cui avevamo raggiunto il boschetto e, sospirando, ammise: “Mi spiace, ma dovrà finire nel bacino idrico. Non devono trovare tracce, o potremmo trovarceli alle spalle prima di essere abbastanza distanti da loro.”

Finire. Nel. Bacino.

Erano tre parole che non mi piacevano per niente. E glielo dissi con veemenza.

Duncan si scusò nuovamente, ma fu irremovibile.

Io sarei andata con lui – dove, ancora dovevo scoprirlo – e la macchina sarebbe dovuta sparire. Un disastro dietro l’altro, insomma.

D’accordo aiutarlo. Non avrei mai permesso a nessuno, tantomeno a Patrick, di fare del male a Duncan, sebbene non lo conoscessi.

D’accordo salvargli la vita. Avrei rifatto altre mille volte quell’incisione, a costo di farmi venire un infarto per la paura, pur di togliere quel proiettile killer.

Ma d’accordo scappare? Ero pronta? Lo volevo realmente?

Fu a quel punto che Duncan mi prese per le spalle e, abbassandosi quel tanto che gli bastò per fissarmi negli occhi, mi confidò: “Avrai tutta la protezione del branco, Brianna. Con noi non sarai in pericolo e, quando riterrò che le acque si siano calmate a sufficienza per permetterti un rientro in totale sicurezza, allora potrai tornare a casa.”

Non mi sembrava di avere molte carte a mio favore, da mettere sul tavolo.

Quel che stava dicendo Duncan era vero.

Non potevo sapere come l’avrebbe presa Patrick, o peggio, la sua cricca di amici.

Avrebbero potuto davvero usarmi per giungere a Duncan che, mosso dal senso di colpa, si sarebbe smascherato per salvarmi.

Non potevo permettermi di rischiare, specialmente dopo aver scoperto quale fosse l’hobby di Patrick.

Niente vietava che lui riversasse su di me la sua collera anche in maniera più che violenta, visto quanto avevo fatto.

Era tutto maledettamente giusto, eppure… eppure i miei piedi non volevano muoversi di un millimetro.

C’era una persona troppo importante che mi impediva di allontanarmi.

Al confronto, la mia sicurezza e la mia salvaguardia non contavano nulla, se paragonate a lui.

Come potevo fargli questo?

Mary B era buona e gentile, la persona migliore che avremmo mai potuto sperare di trovare, dopo ciò che era successo ai nostri genitori ma… Dio, come potevo pensare di lasciare Gordon?

E senza alcuna spiegazione, per giunta?

Duncan parve capirlo perché addolcì i tratti del volto e, sfiorandomi la guancia con una mano, la carezzò debolmente, comprensivo.

“Non preoccuparti per tuo fratello. Non appena avremo raggiunto casa mia, potrai metterti in contatto con lui per rassicurarlo.”

Quella frase mi rincuorò non poco.

Fu come se un enorme peso mi venisse tolto dalle spalle, accompagnato da una strana sensazione di piacere, come se qualcuno mi stesse nuovamente carezzando con mille piume morbidissime.

Preferii non analizzare troppo sui motivi di quel piacere – ero troppo stanca fisicamente, e psicologicamente, per potermi permettere un tale esercizio mentale.

Mi limitai a godere di quelle sensazioni, sperando che non scomparissero troppo velocemente.

Era bello, per qualche attimo, essere cullati da quella calda piacevolezza, anche se non avevo la minima idea di dove provenisse.

Fiorì un sorriso sulle mie labbra, mentre la sensazione di piacere svaniva come un alito di vento scivolato tra le fronde.

Duncan, a quel punto, si raddrizzò e mi informò circa le sue intenzioni.

“Vado a sistemare l’auto. E’ meglio se non guardi.”

“Dalle un bacio da parte mia” esalai, reclinando il viso e sospirando in maniera melodrammatica.

Lui sbatté le palpebre diverse volte, prima di ridacchiare e scuotere il capo.

Si incamminò poi verso la mia Mini Minor che, entro breve, avrebbe esalato il suo ultimo respiro affondando inesorabilmente nel bacino idrico.

Per distrarmi – la sola idea di vederla sprofondare mi inorridiva – cominciai a ripiegare il sacco a pelo ma, non appena udii lo sciabordio violento dell’acqua, mi volsi sorpresa.

A occhi sgranati, fissai Duncan tornare a passo tranquillo, come se nulla fosse successo.

“Aspetta solo un dannatissimo momento! Non hai acceso il motore, l’avrei sentito! Eppure… eppure…”

Come diavolo era riuscito a farla finire in acqua in pochi istanti? Non era possibile! A meno che…

Impallidii leggermente, mentre lui mi fissava sempre più spiacente, e sbottai.

Quanto sei forte!?”

“Meglio che non te lo dica ora” affermò, afferrando il mio zaino per aiutarmi a indossarlo.

Prima la guarigione miracolosa, e ora la forza sovrumana.

Quanto c’era di vero, nelle leggende? E potevo definirle ancora tali, a quel punto?

“Andiamo?” mi chiese, fissandomi speranzoso.

Mi guardai indietro un’ultima volta, pensando a quanta gente si sarebbe preoccupata per me, a quanti guai sarebbero sorti.

Immaginando, però, cosa avrebbe potuto farmi Patrick per recuperare Duncan, mi decisi e, annuendo convinta, sentenziai: “Andiamo pure.”

E che io fossi dannata se avevo idea di cosa sarebbe successo dopo.





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N.d.A. Spero di non aver sconvolto nessuno, con la scena dell'estrazione del proiettile, ma era importante per dare i primi indizi di ciò che sta avvenendo a Brianna. Per un po', niente scene truculente, promesso. :)

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Capitolo 3
*** III. ***


3

 

 

 

 

  Camminammo per diverse ore, tenendo un ritmo piuttosto blando a causa della debolezza di Duncan.

  Pur con tutto il suo impegno, non si era ancora ripreso dal principio di avvelenamento da argento.

Io, nel frattempo, avevo preferito non addentrarmi troppo nel suo mondo così strano, preferendo concentrarmi su quel poco che avevo scoperto in quel breve lasso di tempo.

Scartai definitivamente l’idea che potesse essere pazzo.

Ai pazzi non si rimarginano le ferite a velocità record, e non sollevano auto con una mano.

Cercai perciò di ricordare quel che sapevo del mito dei licantropi, andando a sbattere sempre su storie ancestrali risalenti ai Celti, ai Nativi Americani o agli dèi nordici, gli Asi.

Rammentai la figura di Fenrir, ma ben poco sul suo ruolo all’interno della mitologia nordica, il che mi fu di ben poco aiuto per chiarirmi le idee.

Optai quindi per le leggende sui Nativi Americani, che parlavano di uomini in grado di mutare in lupi, o del mito del Dio Lupo adorato dai lakota e da altre tribù del centro degli Stati Uniti.

Tutto questo girovagare all’interno della mia personale libreria sui miti, però, non mi portò da nessuna parte.

Andai sempre a sbattere contro un muro liscio e privo di imperfezioni, a cui non avrei potuto aggrapparmi neppure se fossi stata un geco.

Senza l’intervento esterno offerto dalle spiegazioni di Duncan, sarei andata poco lontano.

Quando infine ci fermammo per pranzare e riposarci, mi ritenni sconfitta e dovetti dar voce alla mia curiosità insoddisfatta.

Lo fissai di straforo, borbottando: “D’accordo, da sola non arrivo a capo di nulla. Spiegami quel che sta succedendo.”

Lui sorrise.

Forse aveva intuito il mio tumulto interiore e, da persona educata quale sembrava essere, mi aveva lasciata in pace perché meditassi per conto mio.

Si sedette, incrociando le gambe su un morbido tappeto di foglie ed erba verde come i suoi occhi limpidi.

Dopo aver atteso che io lo imitassi, prese dalle mie mani una barretta energetica ai cereali e mi chiese educatamente: “Da dove vuoi che cominci?”

“Quanto c’è di vero nei miti?” esclamai di getto, prima di addentare la mia barretta.

“A quali ti riferisci, in particolare?” replicò per contro lui.

“Quelli europei. Non credo che… che voi abbiate qualche attinenza con i Nativi Americani, giusto?” specificai, prima di aggiungere: “Sì, insomma, il mito di Shung Manitu Tanka, o storie affini.”

“Posso dirti dove tutto nacque. Può darsi che il mito dello spirito del dio-lupo dei lakota derivi da storie raccontate da miei antenati, che si stabilirono in America millenni addietro” scrollò le spalle lui, prima di proseguire nel suo racconto.

“Il primo uomo lupo di cui si ha memoria nella nostra storia, risale a circa cinquemila anni addietro. Esso non aveva un nome, poiché i lupi non hanno bisogno di nomi, ma la donna che lui volle con sé si rivolse sempre a lui chiamandolo Fenrir. Dalla loro unione nacquero Hati e Sköll, i primi di una lunga e ininterrotta famiglia di licantropi. La loro unione, però, fu osteggiata dagli abitanti della tribù dove era nata la compagna di Fenrir, Avya. Suo fratello Fryc cercò con ogni mezzo di riportarla in seno alla famiglia, non riuscendovi.”

Lanciò un’occhiata verso il folto bosco, crucciato, come se quello sgarbo pesasse sulle sue spalle come, immaginai, fosse pesato ad Avya e Fenrir, a suo tempo.

Ugualmente, però, riprese a parlare.

“Fenrir e Avya abbandonarono perciò la casa dove avevano vissuto fino all’arrivo degli uomini di Fryc, portando con loro i due bambini e, per decenni, riuscirono a sfuggire all’occhio attento dei loro inseguitori che, insoddisfatti, continuarono a cercare la vendetta per l’onta subita. Hati e Sköll crebbero e si unirono a donne umane per creare a loro volta nuove famiglie ma, a quel punto, i discendenti di Fryc riuscirono a trovarli, e ne nacque una guerra.”

Si interruppe nuovamente, come se quel che mi stava raccontando fosse successo solo pochi giorni prima, e non migliaia di anni prima.

Io, da par mio, cercai di ascoltare con il cuore e la mente più aperti che potessi, ma mi fu difficile credere a tutto quello che mi stava raccontando.

Era come se avessi aperto il vaso di Pandora e vi stessi guardando dentro per scorgere i mali del mondo. Una cosa da folli.

Lui riprese mesto, mormorando: “La guerra venne interrotta e poi ripresa varie volte, nel corso dei secoli, man mano che i clan si spostavano o aumentavano di numero. Molti miei antenati salparono dalle lande del nord per dirigersi verso est, in Scandinavia, nella speranza di trovare terre dove prosperare senza l’assillo continuo dei Cacciatori, gli eredi di Fryc, ma non servì. L’odio li seguì, e a odio venne risposto con altro odio. Finché …”

“Finché?” lo incoraggiai, piegandomi verso di lui con espressione sempre più curiosa.

“Il dominio romano lambì le terre più a nord, dove noi avevamo i clan più potenti e numerosi e, avvertendo il pericolo per noi e la nostra gente, decidemmo di unire le forze contro l’invasore, stringendo un’alleanza con alcune tribù locali. Conosci i Pitti?”

“Sì, so chi sono” assentii, rammentando più che bene le lezioni di storia riguardanti il piccolo popolo originario del nord dell’Inghilterra.

“Ci volle un po’ ma, alla fine, le forze romane indietreggiarono, lasciando però sul campo di battaglia molti di noi e dei Pitti. Tutte quelle guerre, e quello spargimento di sangue amico, ci convinsero a radunarci nei luoghi più impervi per allontanarci dall’uomo e dal dolore, mentre le tribù dei Pitti si spinsero più a sud per trovare territori più ameni e lontani da noi.

“L’alleanza era stata accettata contro un male comune, ma era ovvio quanto, i rispettivi clan, poco si fidassero gli uni degli altri” mi spiegò, finendo la barretta e annodando la carta plasticata che l’aveva contenuta.

“Ma… non credo siate rimasti soli molto a lungo” ipotizzai a quel punto.

Lui scosse il capo, infastidito.

“No, infatti. L’uomo si riproduceva a una velocità incredibile, molto più di noi, e così i nostri clan vennero nuovamente a contatto con gli umani.”

“I Cacciatori?” mi interessai, preoccupata dal potenziale sviluppo di quella storia.

“Erano un numero esiguo poiché, dopo l’alleanza coi Pitti, molti clan cancellarono la faida di sangue nei nostri confronti, lasciando i Cacciatori a loro stessi. Con il passare dei decenni, la nostra storia divenne mito, e le poche famiglie di Cacciatori rimaste non costituirono più un pericolo come in precedenza. Un lupo senza branco  non è così pericoloso” nel dirlo, sogghignò, facendo scintillare i denti bianchissimi.

“Cosa successe, allora?” mormorai, gli occhi sbarrati e fissi sul suo viso.

Esprimeva una gamma di emozioni variegata, tale da chiedermi cosa realmente stesse provando in quel momento, raccontandomi le memorie della sua gente.

“Nascondemmo la nostra natura per non creare problemi. Sarebbe stato troppo duro dover combattere ancora, dopo la ritrovata libertà e, come ti ho detto, i Cacciatori erano facilmente gestibili, poiché erano in numero troppo limitato per costituire una minaccia” mi spiegò, scrollando le spalle e scrutando il bosco con espressione meditabonda.

Era pensieroso, perso in qualche ricordo, o forse indeciso su cosa dirmi, o quanto dirmi.

Storsi il naso, non del tutto convinta – cosa nascondeva il suo sguardo indecifrabile? – e chiesi: “E i Cacciatori non vi hanno mai smascherato, quando si resero conto di aver perso dei… beh, dei potenziali alleati?”

Un lampo scintillò nel suo sguardo, prima di borbottare: “Siamo in cima alla catena alimentare, Brianna. I Cacciatori sono abili, ma anche stranamente leali. Non avrebbero mai messo in pericolo degli innocenti. A loro interessava, e interessa tuttora, cacciare noi, non mettere in mezzo coloro che non sanno nulla delle nostre vere origini.”

Rabbrividii, percependo un gelo di cui non comprendevo la natura – la temperatura era più che gradevole.

Impulsivamente, mi massaggiai le braccia per scacciare quella sensazione fastidiosa dal corpo, cercando nel contempo di concentrarmi sulle parole di Duncan.

Segreti, menzogne perpetrate per secoli, cacciatori sempre alle calcagna, il pericolo dietro ogni porta.

Non doveva essere stata una bella esistenza, la loro, pur essendo in cima alla catena alimentare come aveva detto Duncan.

Duncan che, fissandomi ancora una volta con aria meditabonda, quasi sorpresa, sorrise curiosamente al mio indirizzo.

Come già mi era capitato, il gelo smise di colpo di percuotere il mio corpo intorpidito, neanche me lo fossi soltanto immaginata.

Sbattei le palpebre, confusa, prima di guardarlo smarrita e lui, dubbioso, mi chiese: “Perché hai fatto così?”

“Ho sentito freddo. So che è stupido, visto che è una bella giornata” ammisi, indicando il bel sole che splendeva in cielo.

Lui aggrottò la fronte, intrecciando le braccia sul petto possente e io, non potendolo evitare, lo fissai prima di arrossire leggermente.

Era difficile non badare al fatto che era un bell’uomo.

Somigliava troppo a Brad Pitt in Troy, per non guardarlo con apprezzamento ogni volta che potevo.

Speravo solo non mi prendesse per una ninfomane.

C’era già la mia amica Nancy a detenere quel primato. E io non avevo nessunissima intenzione di ambire al suo trono.

Pensare a lei mi fece sorridere e, tra me, me la immaginai al mio posto, seduta in un bosco assieme a Duncan.

Sicuramente, gli sarebbe saltata addosso nel giro di cinque minuti, e avrebbe dato a me della sciocca per essermi limitata a lustrarmi gli occhi senza dire, o fare, assolutamente niente.

Lasciai perdere quel pensiero, non appena mi accorsi che Duncan continuava a fissarmi dubbioso.

Dava l’idea che la mia esternazione non gli fosse sembrata un’idiozia, ma andasse vagliata attentamente, come se in essa vi fosse nascosta una risposta che lui voleva assolutamente conoscere.

Stetti a guardarlo per un po’ prima di sentirgli dire quasi sovrappensiero: “Hai gli occhi di un lupo.”

Sobbalzai leggermente – sì, lo sapevo – prima di annuire.

“Ambrati, sì. Sono curiosi. Sono stati motivo di miriadi di battute per anni interi. I capelli, per lo meno, sono normalissimi.”

Mi tirai una ciocca dei lunghi capelli castano chiari – ora più simili a un groviglio di paglia, che a una chioma ordinata – e ridacchiai, aggiungendo: “Magari li avessi come mia madre. Erano biondi. Come le mie sopracciglia.”

“Ti stanno bene così” replicò, prima di chiedermi: “Posso sapere cosa successe ai tuoi genitori? Perché tu e tuo fratello vi trovate qui?”

Un brivido e un crampo, all’altezza del cuore. Era sempre così, quando li sentivo nominare.

Per un momento, mi chiesi quanti anni ancora sarebbero dovuti passare, prima che il dolore si affievolisse fino a diventare… beh, accettabile.

Non volevo parlarne, ma lui era stato sincero con me, per cui…

Tornai seria e mormorai: “Morirono quattro anni fa in un incidente stradale. Un ubriaco tagliò loro la strada. Erano a Boston per vedere un concerto.”

“Boston? Ecco il perché del tuo accento. Hai vissuto in America” asserì, un po’ sorpreso.

“E pensare che credevo non si sentisse” sogghignai, abbozzando un sorrisino.

“Come mai vi trasferiste negli Stati Uniti?” mi domandò ulteriormente, come se quei quesiti apparentemente slegati tra loro potessero condurlo alla risposta che stava cercando.

“Beh, da quel che so io, mio padre ebbe un aspro litigio con i suoi genitori, così decise di partire portandoci a Chicago, dove si trovava la sede della ditta di informatica per cui lavorava. Mamma era incinta di Gordon,… era al settimo mese” gli spiegai, pensierosa, come se quel particolare fosse importante.

“Chissà perché tanta fretta” borbottò Duncan, rimuginando tra sé.

“Non mi hai detto come finisce la storia!” precisai, volendo cambiare alla svelta argomento.

Non mi piaceva parlare dei miei genitori, anche se erano già passati quattro anni dall’incidente che ce li aveva tolti per sempre.

Ricordavo ancora tremendamente bene la telefonata che un agente di polizia ci fece nel cuore della notte, dicendoci ciò che era successo.

La nostra babysitter era rimasta con noi tutta la notte, dopo quel che le avevo riferito. Non se l’era sentita di abbandonarci neppure per un minuto.

La mattina seguente, un assistente sociale si era presentato alla nostra porta assieme alla polizia.

Ci avevano accompagnato in un Istituto, in attesa che qualcuno della nostra famiglia inglese venisse a reclamarci.

Erano passati quattro mesi dall’incidente quando, una mattina di luglio, bella come il sole, Mary Beth era entrata nell’Istituto per venirci a prendere.

Non la conoscevo, all’epoca.

Di tutti i nostri parenti, nessuno ci aveva più contattato, da quando ci eravamo trasferiti in America, e i miei genitori ne erano stati oltremodo felici.

Solo la nonna materna – l’unica in vita della famiglia di mia madre – ci aveva seguiti a Chicago.

Aveva condiviso con noi i suoi ultimi anni prima di morire, una notte piovosa d’autunno, stroncata da un infarto.

La mamma e il papà ne avevano sofferto tantissimo, e così pure io e Gordon che, in lei, avevamo sempre visto ben più di una nonna allegra e chiacchierona.

Era stata la nostra seconda madre, quando mamma era stata impegnata come giornalista in ogni angolo degli Stati Uniti.

Ci aveva visti crescere, mentre il resto della nostra famiglia paterna ci aveva ignorato.

Nostro padre l’aveva accolta ben volentieri con noi, e la nonna lo aveva sempre ringraziato per aver portato via sua figlia da quella ‘terra ricca di pericoli’.

Non avevo mai capito cosa avesse voluto dire.

Fino alla sua morte, però, ogni volta che l’argomento ‘Inghilterra’ era tornato nei loro discorsi, quelle parole erano uscite dalla sua bocca, tesa in una smorfia.

Duncan, riportandomi al presente, si limitò a dire: “C’è ben poco altro. I nostri clan iniziarono a vivere all’interno delle società umane, nascondendosi in piena vista, per così dire.”

“Allora, tutta la storia di Odino, e gli altri dèi, che legano Fenrir a una roccia per impedirgli di mangiarsi tutti… è pura fantasia?” borbottai, storcendo la bocca.

Purtroppo, ricordavo talmente poco di mitologia norrena che i miei appigli erano davvero labili.

Lui rise sardonico, fissando per un istante la chioma dell’albero più vicino, prima di tornare a posare i suoi occhi di smeraldo su di me.

“Non posso sapere cosa ha portato gli uomini a raccontare un fatto, piuttosto che un altro. Ciò che so io di Fenrir differisce in parte dal mito, anche se alcune cose rispondono a verità. Nessuno di noi, però, sa che fine fece.”

Si torse le mani, meditabondo, prima di continuare con tono sommesso il finale del suo racconto.

“Ciò che sappiamo della sua storia ci venne tramandata dai suoi figli che, a loro volta, la raccontarono alla loro progenie. Né Hati né Sköll vennero mai sapere della fine del loro padre, dopo la morte di Avya. Di lui sappiamo solo che se ne andò dalla loro casa dopo aver parlato con un uomo che i figli non conoscevano. Quindi, può essere stato tratto in inganno e ucciso, o chissà cos’altro.

Forse, la versione del mito che tu conosci è stata tramandata per tranquillizzare le genti. E’ molto più sicuro pensare a un licantropo in catene, e immobilizzato per l’eternità, piuttosto che a uno libero di muoversi.”

“Immagino possa essere vero” annuii cauta.

“Credi nel mito?” mi irrise bonariamente Duncan, sorridendomi più tranquillo.

“Tutto può essere. Non si può sapere se Fenrir fosse realmente figlio di un dio, me l’hai detto tu. Conosci solo una parte della storia” precisai, rimuginando sulle sue ultime parole.

“Vero, non posso dirti se Fenrir abbia sangue divino nelle vene, o no. Posso solo darti la mia versione dei fatti, sperando ti basti” assentì, guardandomi con attenzione.

Annuii a mia volta, immagazzinando quell’ennesimo pezzo del puzzle all’interno di una metaforica scatola mentale.

L’avevo costruita in tutta fretta per riporre quel genere di informazioni e, tornando al discorso principale, gli chiesi: “Non è mai capitato, quindi, che qualcuno tradisse la vostra fiducia? O potete anche capire se una persona mente?”

Ormai, potevo aspettarmi di tutto e di più, visto quello che mi stava raccontando.

“Oh, certo. Vi furono dei delatori, ma vennero tutti prontamente… beh, eliminati, come coloro che ebbero la sventura di venire a conoscenza dei nostri segreti, decidendo di tradirci, o farci del male” mi spiegò, sorridendomi spiacente, come se parlarmi di fatti così cruenti lo facesse sentire a disagio.

Io mi limitai a deglutire, cercando di non pensare a ignoti corpi di uomini, o donne, dilaniati da fauci possenti o ferali artigli.

Pensare al sangue e alla morte avrebbe distrutto quella sottile, esile bava di ragno che teneva ancora in piedi il mio equilibrio psico-fisico.

“Vennero… tutti… uccisi?” riuscii a chiedere, non sapendo bene perché volessi conoscere la verità a tutti i costi.

Duncan si passò una mano tra i molli riccioli corvini, pensieroso, prima di ammettere: “Alcuni vennero … persuasi a tacere.”

Deglutii ancora a fatica, più confusa che mai e lui, come per spiegarsi meglio, aggiunse: “Non furono morti incolpevoli, se è questo che temi e, se possibile, le evitammo di buon grado. Ma era di importanza vitale che nessuno tirasse fuori l’argomento, o avremmo rischiato una guerra civile inutile, oltre che dannosa per entrambe le parti. I clan che se lo poterono permettere utilizzarono le capacità di alcune persone per… convincerli a non parlare.”

“Capacità? Che intendi? Stile medium, o roba simile?” esalai, sorpresa.

Voleva forse dire questo?

Lui scosse il capo, indubbiamente restio a proseguire. “No. Non esattamente.”

“Non capisco.” ammisi.

Cosa non voleva dirmi?

Mi fece un breve sorriso di scuse, spiegandosi poi meglio.

“Ci sono persone… speciali… persone che non sono licantropi, ma hanno affinità con noi e con il mondo degli Spiriti. Persone che possono… plasmare i pensieri degli altri, a volte anche degli umani, se hanno abbastanza potere. Una di queste persone abita ad Aberdeen, e si chiama Kate Alexander.”

Aggrottai la fronte, confusa, prima di borbottare: “Vuoi forse dirmi che è una… maga?”

“E’ una wicca” esalò lui alla fine, come se dire quella parola lo turbasse.

Di sicuro turbò me.

Nel mio cervello in subbuglio avvertii un clack improvviso, come di una serratura aperta di colpo.

In un attimo fuggevole come un respiro, sentii la voce flebile di mia nonna rivolgersi a mio padre, ed esclamare: “Nessuna wicca può cadere in mano loro. Devi portarle via!”

Il pensiero venne e passò come una folata di vento, lasciando dietro di sé il profumo di mia nonna e una miriade di dubbi non risolti.

Scossi il capo, indecisa su cosa chiedere e Duncan, sfiorandomi la spalla con una mano, mi chiese preoccupato: “Tutto bene?”

Ancora quel calore dilagante che si propagava dalla sua mano a ogni centimetro del mio corpo.

Ancora quel senso di soverchiante morbidezza, come se le sue parole fossero velluto caldo e avvolgente.

Sospirai, passandomi le mani sulle braccia e, sovrappensiero, sussurrai: “E’ così caldo.”

La sensazione scomparve immediatamente, lasciando al suo posto lo sguardo incredulo di Duncan e la sua bocca leggermente spalancata, quasi volesse parlare ma gliene mancasse la volontà,… o il coraggio.

Lo fissai preoccupata, non sapendo bene cosa aspettarmi da quell’espressione e lui, come costringendosi a calmarsi, prese un gran respiro e mormorò: “Puoi dirmi come si chiamava tua madre?”

La domanda mi spiazzò.

E con essa tornò la calma.

“Elizabeth McKenna, perché?” asserii senza esitazioni.

Fu come veder accendersi una lampadina nei suoi occhi.

Un lento sorriso sorse sul suo volto, e qualcosa di molto simile all’orgoglio balenò su ogni centimetro visibile della sua pelle abbronzata, tanto da farmi temere che fosse impazzito di colpo.

Che avevo detto di così eccitante da meritare una reazione tanto spropositata?

La sentivo persino sulla pelle, quella sua gioia sempre più evidente.

Era come essere immersa nel cioccolato fuso.

“Ma che diavolo…?” sbottai, guardandomi infastidita.

I miei nervi stavano impazzendo, per lanciarmi dei segnali così strani e contraddittori?

Il suo sorriso si allargò e, battendosi una mano sulla gamba, eccitato, mi domandò: “Posso chiederti cosa ti ha portato da me?”

Accigliata – il suo comportamento eccessivamente allegro stava cominciando a darmi sui nervi – borbottai: “Ho avuto un incubo che mi ha svegliata… a quel punto, ho sentito i pick-up e sono corsa alla finestra per curiosare in cortile.”

Rimuginai attentamente, cercando di non tralasciare nulla, dopodiché proseguii nel raccondo.

“Lì, ho visto che stavano portando un animale nella cantina. Te, a questo punto. Così sono scesa a dare un’occhiata. Io sono un’ambientalista convinta, e non amo l’hobby di Patrick… beh, insomma, quello che pensavo fosse il suo hobby. Sapendo a cosa da la caccia, semplicemente lo detesto con tutta me stessa, adesso.”

Quel commento gli fece molto piacere, ma non lo distolse dal suo terzo grado, perché proseguì con le sue domande apparentemente assurde.

“Che incubo era?”

Sbuffando, gesticolai con le mani e mugugnai: “Urla… e sangue.”

Non appena lo dissi, la mia mente venne letteralmente invasa da flash di immagini, sempre più veloci, sempre più violente.

Come se la mia memoria avesse deciso di collaborare solo su richiesta di Duncan,  rammentai esattamente quello che avevo visto durante l’incubo che mi aveva spinto a svegliarmi.

Impallidii e mi portai le mani al viso, come a voler cancellare quelle immagini tremende, ma ormai il mio personale filmino mentale era iniziato, e non esisteva un tasto per lo stop.

Le mie labbra tremanti lasciarono fuoriuscire parole sconnesse che sapevano di paura, di dolore e di morte.

Duncan, da allegro che era, divenne dapprima serio e poi furioso.

Mi morsi un labbro, prima di balbettare: “C’era talmente tanto sangue, talmente tanta … paura… non potevo sopportarlo. Non potevo.”

Duncan mi riscosse scrollandomi leggermente con una mano, cancellando di colpo l’incubo a occhi aperti che stavo vivendo.

Rilassai gradatamente i muscoli, mentre il mio respiro tornava a livelli regolari e lui, fissandomi con espressione più che seria, sentenziò: “Sei wicca. Ora ne sono più che sicuro.”

Ancora quella parola.

“Che cosa?!” esalai sconvolta.

Il solo sentirla mi fece accapponare la pelle e Duncan, notando la mia reazione, aggiunse lesto: “Non avere paura… non è una cosa negativa.”

“Come… come puoi dirlo?” gracchiai, gli occhi sgranati per l’ansia.

Il respiro tornò a farsi ansante, irregolare.

Il cuore mi rombava nelle vene gonfie di sangue mentre il mio cervello, solitamente iperattivo, sembrava essere andato in tilt.

Mi era precluso qualsiasi tipo di ragionamento, più o meno facile che fosse. Neanche mi avessero riempito di novocaina la materia grigia.

Duncan mi prese il viso tra le mani cercando un contatto visivo con me e, con voce bassa e roca, mormorò suadente: “Le wiccan erano mistiche in grado di creare un’unione tra umano e divino, tra gli Spiriti della Terra e il potere della luna, da cui tutti noi traiamo forza. Esse erano, e sono, nostre guide spirituali e consigliere fedeli, le uniche umane di cui ci siamo sempre senza timore alcuno. Sono sempre state creature benefiche, non maligne. E lo sono tutt’ora, per lo meno le poche che ancora sopravvivono.”

I suoi occhi smeraldini tennero in trappola i miei, finché il mio cuore non tornò alla normalità.

Quando ritenne che fossi abbastanza tranquilla, lasciarono la presa, liberandomi dalla loro stretta ipnotica.

Le pupille leggermente dilatate e l’aria vagamente spaesata, riuscii comunque a dire: “Cosa… te lo fa… pensare?”

“Innanzitutto, il nome. Tra le donne dei McKenna, è sempre stata presente una stirpe di wiccan. Secondariamente, il tuo incubo. Hai sognato l’evento che mi ha condotto da te. E, non da ultimo, le tue reazioni” mi spiegò cheto, sorridendomi gentilmente

“Le mie… reazioni?” ripetei, ampiamente confusa.

Cosa intendeva dire? Che ero un fenomeno da baraccone?

Dio, sapevo di non essere propriamente la classica teen-ager ma, da lì a essere una, …come l’aveva chiamata, lui? Una mistica? Beh, ce ne correva davvero molto!

Annuì, spiegandomi i motivi che l’avevano portato a quell’intuizione.

“Ho notato che ti sei sfregata spesso le braccia mentre ti guardavi intorno confusa, quasi avessi prurito su tutto il corpo, o sensazioni simili.”

Impallidii leggermente.

“Beh, non fa specie, visto che le wiccan possono avvertire in maniera sensoriale le nostre emozioni” aggiunse Duncan, come se nulla fosse.

A quel punto dovetti essere diventata cinerea in viso, perché Duncan mutò espressione ed esclamò: “Brianna, respira, sei pallidissima!”

Presi un gran respiro, come ordinatori da lui e, sentendomi quasi esplodere il cuore in petto quando il sangue venne nuovamente pompato nelle mie arterie, esalai: “Cosa sarei? Una strega?!”

“No, Brianna, no… non vederla in questo modo” scosse il capo con veemenza, cercando le mie mani.

Dopo averle strette tra le sue, calde e protettive, mi massaggiò i polsi con i pollici con movimenti lenti e circolari. Ipnotici come lo erano stati i suoi occhi.

L’iniziale terrore prese a scemare e mi calmai progressivamente, riuscendo persino a chiedere con voce quasi umana: “Allora, cosa sarei?”

“Per me, un dono del cielo” mi disse per tutta risposta, continuando con il suo massaggio tranquillizzante. “Più in generale, il termine wicca significa ‘saggia’. Quindi non ha connotazioni negative. Penso saprai che, negli  ultimi decenni, il culto della Wicca è risorto, e che molti lo seguono devoti… ma tutto questo non ha a che fare con ciò che tu sei, se non a un livello puramente teorico. Sia i cultori della Wicca che tu stessa, seguite la Madre Terra, ma le similitudini finiscono lì. L’essere una wicca, per te, significa ben altro.

Non badai gran che a tutta la sua spiegazione.

L’unica parte che mi rimase impressa nella mente, e che servì a calmare il mio cervello ai limiti del red out, furono le sue prime parole.

Per me, sei un dono del cielo.

 

 


 
 
 
 
 
 ______________________________________
1: Red out: espressione usata solitamente in aviazione. E’ lo stato fisico in cui il cervello risulta in assenza di ossigeno, (spesso dovuto alla forza G e anti-G del volo acrobatico sugli aerei) perdendo così conoscenza.

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Capitolo 4
*** IV. ***


4

 

 

 

 

 Va bene. A quanto pareva, non ero soltanto una ragazza in piena crisi post-diploma, o una teen-ager alle prese con un attacco di ormoni impazziti.

  No, ero anche una wicca.

C’era qualcos’altro che doveva capitarmi? Non so, finire in un crepaccio e lasciarci le penne? Essere investita da un treno impazzito? Ditemelo.

Non potevo, non volevo crederci, eppure ogni fibra del mio corpo tremante mi diceva che, quello che Duncan aveva appena detto corrispondeva alla verità.

Il punto era accettarlo.

Mi sembrava di avere una vera e propria crisi di rigetto, come se il mio fisico rifiutasse un organo estraneo.

O forse, semplicemente, rifiutavo me stessa per paura.

Singhiozzai, le braccia strette attorno al petto, il cuore che martellava come a volermi sfondare la cassa toracica, mentre gli occhi tristi di Duncan mi fissavano spiacenti.

Le sue mani, sollevate nel vuoto e pronte a colmare la distanza che ci separava, erano restie a compiere l’ultimo passo per raggiungere il mio corpo colmo di terrore.

Al momento, mi sembravano artigli protesi per afferrarmi e farmi del male.

Istintivamente, mi ritrassi.

Duncan prese male quel gesto spontaneo, perché reclinò il capo calando le braccia,  sussurrando poi con voce incrinata: “Scusami, Brianna. Sono stato davvero brutale a dirti una cosa del genere in questo modo. Non volevo spaventarti. Vorrei che credessi almeno a questo.”

Oh, potevo anche credergli, non avevo problemi; il fatto però rimaneva.

Ero nel panico più totale.

Duncan ritentò, più lentamente stavolta e, come cercando di chetare un uccellino spaventato, cominciò a parlarmi lentamente, con voce appena sussurrata.

“Non voglio farti alcun male, Brianna, e mi sento responsabile per il dolore che stai patendo adesso. Desidero solo aiutarti e alleviare il peso che senti premerti sulle spalle. Permettimi di darti una mano, Brianna” sussurrò, allungando piano le mani verso di me.

Non seppi dire con certezza quanto tempo passò accanto a me senza toccarmi ma, alla fine, mi ritrovai seduta in braccio a lui.

Il viso era premuto contro il suo torace, mentre calde lacrime stavano scivolando sul mio viso senza ritegno alcuno.

Le sue braccia forti e protettive mi avvolgevano come una coperta.

Per la prima volta, quella sensazione di calore dilagante che mi penetrava nel corpo non mi diede fastidio, né mi fece paura.

Quelle dolci carezze di velluto mi aiutarono a calmare i tremori che mi scuotevano, finché il mio piangere non si ridusse a una serie di singhiozzi labili, inframmezzati da lunghi sospiri tremuli.

Il suo potere – ora sapevo cos’era – continuò a cullarmi finché non fui del tutto calma.

Lasciando che il battito quieto del suo cuore desse un ritmo al mio, più frenetico e irregolare, mi trovai a rilassarmi tra le sue braccia come se lo avessi conosciuto da sempre, e non da poche ore.

Quando finalmente trovai il coraggio di scostare la guancia dalla morbidezza della sua pelle, ricoperta da fine peluria scura, riuscii anche a non apparire imbarazzata.

Se tutto ciò fosse successo con un’altra persona, sarei diventata rossa come un peperone maturo.

Nei suoi occhi, però, non trovai altro se non il desiderio di alleviare le mie pene, e questo mi rese possibile tranquillizzarmi del tutto.

Tornai a sedermi di fronte a lui, il respiro più quieto e il cuore finalmente pacificato e, con un sorrisino di scuse, dissi: “Perdonami lo sfogo. Credo di essere arrivata al limite.”

“Perdonami tu. Ti sei gettata a capofitto in una situazione che avrebbe spaventato chiunque e, oltretutto, scopri che la tua vita è diversa da come l’avevi immaginata. Non fa specie che tu sia un tantino nervosa. E, credo, giustamente confusa” replicò Duncan, scrollando le spalle.

Ridacchiai annuendo, prima di mugugnare: “Ti sarò sembrata una bambina.”

“Affatto. Tenersi dentro tutto è un’arma a doppio taglio. Sapere come sfogarsi è sempre di aiuto” replicò, accennando un sorriso.

Ripensai un attimo all’abbraccio che ci aveva uniti e, soprattutto, rimuginai sul fatto che eravamo due perfetti estranei.

Cercai anche di sentirmi offesa, o anche soltanto irritata dalla sua intraprendenza, ma trovai solo gratitudine nella mia mente vagamente tramortita da quelle novità.

Forse, proprio grazie alle doti di cui Duncan mi aveva appena accennato, capivo che in lui non v’era alcuna traccia di falsità, e che non aveva cercato di approfittare della situazione per i suoi scopi personali.

Aveva solo tentato di darmi una mano.

Curiosa, perciò, gli chiesi: “Visto quello che… beh, che sembro poter essere… dici che mi è possibile… capire se dici il vero?”

Lui mi sorrise comprensivo, e annuì.

“Le wiccan percepiscono le bugie dei licantropi, per questo avere una wicca all’interno del branco non solo era, ed è, considerato un onore, ma anche un vantaggio.”

“Un onore. Non capisco in che senso” ammisi, giocherellando con uno dei lacci dello zaino e lanciando sguardi incerti al suo viso.

Ora che mi ero calmata, o quasi, mi era praticamente impossibile restare ferma, come se un’assurda frenesia si fosse impossessata di me.

Persino tenere bloccato lo sguardo su qualcosa in particolare, mi risultava difficile.

Che fossi in lieve stato di shock? Difficile dirlo, ma era probabile.

Apparentemente non notando la mia iperattività, Duncan rimuginò un po’ sulla domanda che gli avevo fatto prima di ammettere: “Non sono la persona più adatta per parlarti delle wiccan, visto che non ho mai avuto a che fare con loro direttamente. E di Kate so poco; l’ho incontrata solo in un paio di occasioni, e non abbiamo scambiato che poche parole.”

“C’è qualcosa che mi nascondi, vero?”

Ipotizzai che, il leggero pizzicore che avevo appena avvertito alla base del naso, potesse voler dire che lui stava mentendo.

Duncan ridacchiò imbarazzato, e annuì.

“Dovrò abituarmi alla svelta, se non voglio cacciarmi nei guai con te. In effetti, ci sono alcune cose di cui non vorrei parlarti adesso, perché ho l’impressione che potrebbero turbarti.”

“Cose… negative?” mi preoccupai subito.

“Oh, no. Ma riguardano ciò che può fare una wicca, e credo tu non sia ancora pronta per sentirne parlare. Quando saremo arrivati in seno al mio clan, potrai affrontare questo argomento con la nostra Lupa Madre. E’ una donna saggia e potente, e lei conosce l’argomento meglio di me” mi spiegò Duncan, fiducioso.

Quella frase mi fece tornare in mente un particolare: quando mi ero imbarcata in quella folle impresa, non mi ero informata circa la nostra destinazione.

“Ehm, non per sembrarti un’impicciona ma, esattamente, dove siamo diretti?” chiesi, sollevando un sopracciglio con ironia.

Duncan spalancò gli occhi, forse sorpreso dalla domanda o, molto più probabilmente, resosi conto a sua volta di non aver mai accennato alla cosa.

Scoppiando a ridere, mi disse: “Sì, hai ragione. Non ne ho proprio parlato. Siamo diretti a Matlock, nel Derbyshire.”

Impiegai davvero poco, vista soprattutto la mia mente ancora immersa nel caos più totale, per digerire questa informazione e sgranare gli occhi in stile pesce palla.

La mia bocca disegnò una enorme O sul mio viso sconvolto prima che la mia voce, resa roca dalla sorpresa, riuscisse a uscire dalla mia gola per gorgogliare un confuso: “Dici… sul serio?”

“Temo di sì” ammise contrito. “Ma non devi preoccuparti della distanza. Nel giro di pochi giorni, avrò ripreso del tutto le forze e potrò mutare in licantropo. A quel punto mi salirai in groppa e, in pochissimo tempo, giungeremo a destinazione.”

Altro problema non indifferente.

Ormai sapevo, almeno tecnicamente, che Duncan possedeva anche questa controparte ferina, ma il punto era un altro.

Sarei riuscita a sopportare anche l’aspetto pratico, oltre quello teorico, o sarei impazzita?

Forse, avevo tralasciato di proposito di rimuginare su quel punto, vuoi per il desiderio di curare il prima possibile la sua ferita, vuoi per altri motivi.

Qualsiasi fosse la ragione, quel particolare era rimasto sepolto tra la mia spazzatura mentale, dove relegavo tutto ciò che non volevo affrontare, o che mi faceva paura.

Stabilire quale delle due opzioni rappresentasse il problema ‘Duncan lupo’ era difficile stabilirlo, ma il fatto rimaneva.

Non mi ero ancora posta il dilemma.

Avrei potuto accettare di vedere un uomo mutare in animale, senza lasciarmi andare al panico più completo?

Sarei riuscita a guardarlo negli occhi e riconoscervi anche l’uomo, senza vedere solo l’animale, e quindi provarne un istintivo terrore?

Non era facile stabilirlo e, pur amando la natura e tutte le sue creature, non ero del tutto sicura di poter affrontare anche quella prova.

Ma, più di tutto, mi resi conto di non voler offendere Duncan con un mio eventuale rifiuto della sua parte animale.

Sarebbe stato come schiaffeggiarlo, umiliarlo, di questo ne ero convinta.

Per cui, ero così certa di volere che si trasformasse?

Dalla sua espressione meditabonda, compresi che i miei pensieri dovevano essere venuti a galla fino a raggiungere il mio viso.

Per l’ennesima volta, le mie espressioni mi avevano tradita, spifferandogli ciò di cui avevo paura.

Avrei dovuto comprarmi una maschera, trasparente com’ero.

Sospirai e ammisi: “Posso sapere come apparite? Sì, insomma, in forma animale.”

“Siamo lupi nel vero senso della parola, anche se siamo grandi come pony, o poco più” mi spiegò Duncan in totale onestà, alzandosi in piedi e passando distrattamente una mano sul tronco nodoso di un giovane noce.

D’accordo, un pony. Forse potevo sopportarlo. Forse.

“Niente a che fare, quindi, con i licantropi di Underworld?” buttai lì, sperando di non fare una gaffe tremenda.

Lui arricciò leggermente il naso, concentrandosi, prima di scuotere il capo e asserire: “Non credo… non ricordo bene il genere, ma penso di no.”

La sua risposta mi sorprese, facendomi perdere per un momento interesse sull’argomento per spingermi su altro.

“Non vai al cinema?” gli chiesi spudoratamente, senza neanche tentare di non apparire stupita. O divertita.

La domanda parve incuriosirlo, e questo lo fece tranquillizzare.

I muscoli delle sue spalle, da rigidi che erano, si decontrassero quasi subito, vibrando leggermente prima di rilassarsi, quasi qualcuno li avesse lisciati con un’abile mano.

La cicatrice sulla schiena, notai, era già quasi del tutto scomparsa. Davvero impressionante.

“Diciamo che non sono un amante del genere. Preferisco i film in bianco e nero e d’essay” ammise, prima di ridacchiare e aggungere: “Scusa, so che suona molto out.”

“Ah, questo però lo sai!” ridacchiai, rilassandomi a mia volta prima di rendermi conto di un particolare.

In maniera molto sottile, quasi come se si fosse trattato di un impulso a bassa frequenza, Duncan mi aveva inviato leggere correnti di potere, morbide come il raso più fine.

Senza neppure accorgermene, le avevo assorbite dentro di me, servendomene spudoratamente per chetare la mia agitazione.

Sogghignai, fissandolo maliziosa, e mormorai: “Ma come siamo furbi.”

Mi fece un breve cenno col capo, come per omaggiarmi, e decretò: “I miei complimenti, sei molto sensibile. E’ indice di un potere davvero grande.”

“Preferirei non sapere, al momento, quanto io sia anomala” ridacchiai nervosamente.

“Non sei anomala, Brianna, ma una creatura rara e inestimabile” protestò vibratamente, afferrando un ramo del noce con aria quasi offesa.

Sembrava tenere molto alla cosa, e il fatto che io sbeffeggiassi quel dono pareva infastidirlo, perciò mi azzittii.

Non volevo offenderlo in alcun modo, visto e considerato che, in quella barca scricchiolante dove entrambi ci trovavamo, il capitano era lui.

Io non avrei saputo cosa fare, se avessi avuto il comando della spedizione e, cosa più importante, non avrei saputo come raggiungere Matlock da sola.

Mi sarei limitata a farmi beccare dalla polizia che, quasi sicuramente, Patrick e Mary Beth avevano già avvertito, e avrei finito col cacciarmi in guai enormi.

Sorridendo leggermente, mi figurai Mary B seduta nel suo studio.

Una mano avrebbe stretto frenetica il telefono, mentre l’altra sarebbe affondata tra le morbide ciocche di capelli castano ramati, grattandosi ansiosamente il cuoio capelluto.

Era un classico, per lei.

Ogni volta che si innervosiva per qualcosa, i suoi profondi occhi grigio-verdi si perdevano nel vuoto, e le sue mani si infilavano tra i capelli per torturarli.

Non rammentavo neppure più le volte in cui gliel’avevo fatto notare, e le altrettante volte in cui lei, ridacchiante, si era infilata le mani in tasca, parlando poi a vanvera per evitare di ricadere nell’errore.

Erano stati episodi di quel genere che ci avevano aiutato a legare, e ricordarlo in quel momento me ne fece sentire la mancanza.

Sperai ardentemente che non si facesse troppo male, vista quella sua abitudine autodistruttiva.

Con uno sbuffo infastidito, cercai di non pensare troppo a ciò che mi ero lasciata alle spalle – rimuginarci mi avrebbe solo fatto ricadere nello sconforto.

Duncan, notando il mio cipiglio, si venne a inginocchiare dinanzi a me, il volto nuovamente triste, dicendomi: “Oggi non faccio altro che commettere un errore dietro l’altro. Ti sto procurando solo pensieri infelici. Finirai col pensare che io sia un orso, più che un uomo.”

Il commento mi fece sorridere e, scrollando le spalle, ghignai.

“Sei anche un orso mannaro, adesso?”

“Proprio no!” esalò Duncan infastidito, prima di accennare un sorrisino e aggiungere: “Che sfacciata che sei.”

“Oh, sì! E vedrai, so fare anche di peggio” assentii con vigore, allargando il mio sorriso sfacciato.

Pensa ad altro, a tutt’altro, ma non a coloro che hai lasciato a casa!, mi dissi poi mentalmente, cercando di cacciare via la tristezza.

“Avrò il tempo di appurarlo” ammise Duncan, prendendo una mia mano tra le sue per poi dichiarare: “Non lascerò che tu affronti questi cambiamenti da sola. Mi hai salvato la vita, e sono in debito con te più di quanto tu non potrai mai immaginare.”

“Ma no, davvero, io…” cominciai col dire, prima di venire zittita da un suo dito premuto sulle mie labbra carnose.

Scosse il capo di riccioli corvini e proseguì serio il suo dire.

“Il destino ha fatto incrociare le nostre strade, e io farò di tutto per aiutarti. Hai la mia parola, e la parola data è vincolante, per un licantropo.”

“Va bene, allora. Una guida, in effetti, mi servirà, visto che non ho idea di come arrivare a Matlock” annuii a quel punto, anche se non intendevo affatto quel tipo di guida.

Duncan lo comprese, limitandosi ad annuire a sua volta dopodiché, tirandomi in piedi con sé, mi chiese: “Riprendiamo il viaggio?”

“Sì. Ne abbiamo ancora, di strada da fare… e tu mi devi dire ancora un sacco di cose” gli ricordai, facendo l’atto di afferrare lo zaino.

Duncan mi precedette, drappeggiandoselo sulla spalla sana.

“Lascia che lo porti io per te, Brianna… e sì, ho ancora un sacco di cose da dirti.”

“Prometti che ci andrai più leggero? Niente esternazioni come oggi. I miei nervi non sono così saldi come pensavo” ridacchiai, cercando di fare dell’ironia.

“Scommetto che dipende solo dal fatto che ti sei svegliata di soprassalto, stamattina…” chiosò, ammiccando divertito. “… e che, in condizioni ottimali, reagiresti diversamente.”

Ero davvero così trasparente?

“Ammetto che i risvegli improvvisi non aiutano il mio cervello a reagire come vorrei” scrollai le spalle con una certa flemma.

Lui sorrise divertito e mormorò impressionato: “Non oso immaginare come saresti al tuo meglio; già così, sei stata prontissima.”

Non ero del tutto sicura che i suoi complimenti fossero un bene, per me.

Abituarmi alla sua gentilezza poteva essere controproducente ma, in quel momento, ne avevo bisogno.

Ero troppo abbattuta per non prendere avidamente dentro di me i suoi elogi, per trasformarli poi in serotonina allo stato puro.

Mi aprii perciò in un sorriso imbarazzato e borbottai: “Se per ‘prontissima’ intendi quasi restarci secca dalla paura, allora sì, direi che ero prontissima.”

Lui tornò serio, di fronte al mio tentativo di sminuirmi, e replicò: “Non conosco molte persone che, messe di fronte a una situazione come è capitata a te, avrebbero reagito allo stesso modo. Non è da tutti aiutare un perfetto sconosciuto in pericolo, mettendo a rischio la propria vita nel farlo e, nel contempo, salvarlo dall’avvelenamento con la prontezza di spirito che hai avuto tu. Oltre a ciò, aggiungi pure quel che ti ho detto io su chi sei in realtà, e avrai un chiaro quadro della situazione.”

“E cioè?”

“Che sei una persona altruista e coraggiosa, che ora sta affrontando una difficile situazione assieme a qualcuno che non conosce, ma di cui è costretta a fidarsi per ovvie ragioni pratiche e che, tra le altre cose, l’ha sconvolta a morte con rivelazioni che, forse, non avrebbe mai voluto sapere” mi spiegò Duncan, senza tralasciare nulla del ritratto maledettamente preciso che si era fatto su di me.

Sbattei le palpebre, confusa, esalando: “Perché non fai lo sceneggiatore?”

“Come, prego?” sbottò, decisamente sorpreso.

“Sto solo cercando di arrabattarmi con quello che ho e che so fare, Duncan. Non sono così indomita come mi dipingi” scrollai le spalle, sminuendomi un’altra volta.

“Permetti che io abbia le mie opinioni?” replicò allora lui, con un sorrisino furbo.

“Prego. Lungi da me è l’idea di farti cambiare parere, anche se ciò che pensi non rispecchia la realtà” ammiccai comicamente.

“Credimi, Brianna, solitamente non si è mai dei bravi critici nei confronti di se stessi…” e nel dirlo, avvertii una nota amara nella sua voce. “…per questo, credo di essere più obiettivo io, guardandoti.”

“Ti lascerò crogiolare nelle tue pie illusioni” sghignazzai, pur apprezzando il fatto che mi vedesse così.

“Grazie” celiò, prima di dirmi: “Pronta?”

“All’idea di farmi mezza Inghilterra a piedi, o a dorso di lupo? Ma certo! Quale ragazza non lo sarebbe?” ironizzai, allargando il mio sorriso fino allo stremo.

Duncan mi fissò con aria aggrottata per un momento, prima di chiedermi: “Lo fai perché sei nervosa, o è un tuo vizio quello di ironizzare su tutto?”

“Lo scoprirai” sentenziai, misteriosa.

“Perché la cosa non mi entusiasma?” si lagnò, cominciando a camminare e scuotere la testa al tempo stesso.

“Perché sei perspicace” ridacchiai, andandogli dietro.





 

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Capitolo 5
*** V. ***


5

 

 

 

 

  La sera calò lesta dietro la coltre di fronde verdeggianti, che ricoprivano il rado sottobosco in cui eravamo immersi da ore.

  Osservando il cielo adombrarsi con un manto cupo, che preludeva una notte priva di stelle, sospirai e sperai che non piovesse.

La tenda era impermeabile, per cui non avremmo avuto problemi a dormire all’asciutto, ma il giorno seguente il nostro viaggio sarebbe risultato davvero poco agevole.

Se il bosco si fosse trasformato in una palude di fango e foglie appiccicose come sanguisughe, avremmo avuto serie difficoltà a muoverci.

Fortunatamente per noi, il mio barometro vivente personale smentì questa ipotesi dopo aver annusato l’aria un paio di volte.

Era curioso vedere un uomo comportarsi a quel modo pur sapendo che, per uno come lui, si trattava di un atteggiamento del tutto normale.

Non riuscivo ancora a fare i conti con l’idea che Duncan non fosse soltanto la persona umana che avevo davanti, ma anche un lupo in carne, ossa e pelo.

Probabilmente, era solo la mancanza di sonno ad aver interrotto i miei processi mentali, solitamente più veloci di come lo erano al momento.

Permettendo al mio cervello iperattivo di elaborare i dati in mio possesso con tutta calma, forse avrei cancellato dalla testa l’onnipresente sensazione di disagio che provavo.

Ogni qual volta il mio pensiero volava alla parola ‘licantropo’, il mio corpo, la mia mente, andavano in tilt.

Speravo ardentemente, per lo meno, che il motivo di tanto affano fosse quello, o davo per scontato un mio prossimo ricovero in pianta stabile presso una clinica psichiatrica.

Tralasciai quei pensieri per la notte, sperando nel contempo che mi portasse buoni consigli.

Mi avvicinai poi lentamente a un bellissimo faggio dalla corteggia grigiastra, punteggiata in più punti da licheni giallognoli.

Sfiorandolo con mano esitante, lanciai uno sguardo verso l’alto, ammirandone la chioma enorme e dalla ramificazione a ombrello.

A giudicare dal tronco, diritto e privo di asperità, doveva aver vissuto per almeno un centinaio d’anni, forse di più, senza essersi mai ammalato o aver subito danni dal gelo invernale o dai parassiti.

Era stupendo.

Mi appoggiai a lui con tutto il corpo, assaporando la fresca umidità del tronco liscio e inspirando i deboli profumi provenienti dal sottobosco rigoglioso di vita.

Duncan, silenzioso e assorto, attendeva immobile a pochi passi da me.

Ero sempre stata così. Non potevo avvicinarmi a una pianta senza toccarla.

Anche questa volta, ristetti accanto a quel meraviglioso miracolo della natura assaporando il sapore stesso della sua vita, che le scorreva in ogni fibra attraverso il lento rifluire della linfa.

Avvertendo un sussurro alle mie spalle dopo un periodo di tempo indefinito, riaprii gli occhi per fissarli su Duncan e, con un mezzo sorriso, lo vidi annuire lieto, quasi orgoglioso.

Evidentemente, ai suoi occhi non sembravo una pazza in preda ai fumi di qualche droga. Tutt’altro.

Si avvicinò a sua volta e accarezzò il tronco della pianta con fare meditabondo, gli occhi fattisi cupi e profondi come il centro stesso della chioma ombreggiata del faggio.

“Le wiccan amano gli alberi… non ti stupire del tuo attaccamento a loro.”

“Quindi vuol dire che non sono pazza da legare?” chiesi sorridendo.

Lui sogghignò per un momento prima di scuotere il capo e io, restando appoggiata all’albero, socchiusi gli occhi con aria sognante, mormorando: “Fin da piccola, ho sempre amato arrampicarmi sugli alberi e, più in generale, trovarmi in mezzo a loro. Mamma non aveva mai nulla da obiettare, e neppure la nonna. Anzi, ne erano fiere. Papà, invece, era terrorizzato all’idea che io potessi farmi male, mentre giocavo tra i rami di questa o quella pianta ma, tendenzialmente, mi lasciava fare. Fino a ora, non avevo mai capito quanto fossi attratta da loro, o perché. E’ bello sapere. Anche se è difficile accettarlo.”

“Non devi per forza farlo da sola, ricorda. E neppure in un colpo solo. Concedi al tuo animo di assimilare poco alla volta i cambiamenti che stanno avvenendo nella tua vita” mi rammentò, lasciando scivolare lo sguardo dalla pianta a me con un lento movimento del capo.

Annuii, prima di staccarmi a malincuore dalla pianta e sentenziare: “Monto la tenda qui, allora. Direi che è un buon posto.”

Duncan annusò ancora l’aria per un istante prima di annuire a sua volta.

“Sì, non c’è odore di umani, nelle vicinanze.”

Io sollevai ironica un sopracciglio, indicandomi con aria comica e lui, facendo schioccare la lingua contro il palato con aria accigliata, replicò: “Tu non c’entri. E poi, hai il mio odore addosso. Se ci fossero licantropi nelle vicinanze, neppure si accorgerebbero di te.”

Mi annusai comicamente – niente di anomalo, a parte un lieve sentore di terra e humus – e lui scoppiò a ridere, scompigliandomi i capelli con una mano prima di dirmi: “Non puoi sentirlo, sciocchina.”

“Oh, va bene… vado d’amore e d’accordo con le piante, ma non sono un cane da trifola. Buono a sapersi” celiai, allargando il sorriso sul mio viso.

Lui mi fissò malissimo. Anzi, malissimo è dire poco.

Per un momento mi chiesi come reagissero i licantropi alle battute di spirito.

E, a pensarci bene, fu un po’ tardi per chiederselo, visto che ormai avevo già parlato.

Davvero acuta.

Fortunatamente, l’apparente furore di Duncan scomparve dai suoi occhi smeraldini per lasciare il posto a un’espressione di totale esasperazione.

Questa, fu accentuata dal suo passarsi le mani tra le onde di morbidi capelli e lunghi fino alle spalle.

In quelle poche ore, lo aveva fatto parecchie volte.

Forse era consuetudine, per lui, scompigliarsi la chioma corvina quando era nervoso per qualcosa.

In ogni caso, sembrò avermi perdonata per quella battutaccia perciò, felice per lo scampato pericolo, sospirai di sollievo e gli chiesi: “Cosa ti va per cena?”

“Cos’hai, dentro quella borsa di Mary Poppins?” si informò, ammiccando in direzione del mio zaino.

Ghignando divertita, posai il mio prezioso McKinley a terra ed estrassi del cibo liofilizzato in scatola, tra cui trovai del gulasch con patate, vari tipi di risotto e un paio di porzioni di minestrone.

Duncan ne fu così sorpreso che non poté esimersi dallo scoppiare a ridere, ed esclamare subito dopo: “Meglio di un ristorante!”

“Saresti più che preparato anche tu, se avessi come compagna di tenda una che mangia cinque volte al giorno” chiosai divertita, pensando alla magrissima Elspeth, che divorava quintali di cibo senza prendere un chilo.

Molte la odiavano per questo, e forse un po’ anche io, un paio di volte, ne ero stata gelosa, lo ammetto.

Ma era troppo simpatica per portarle rancore, e potevo passare sopra con facilità alla sua fortuna sfacciata.

Con un sorriso appena accennato ai lati della bocca, Duncan mi domandò: “Vai spesso in gita per i boschi?”

“Sono una girl-scout da quando avevo sei anni e, fortunatamente, qui ho trovato alcune amiche cui piace il campeggio come a me” gli spiegai, estraendo il fornelletto da campo.

Dopo aver tolto fogliame e rametti secchi di fronte a me, per essere certa di non incendiare nulla anche solo accidentalmente, poggiai a terra il fornello a gas.

Afferrata poi la piccola pentola in teflon che usavo per il campeggio, la poggiai sui quattro bracci del fornello e accesi la fiamma.

Stando ben attenta, lasciai scivolare nel pentolino l’abbondante porzione di gulasch e patate, mormorando subito dopo: “Io e Patrick eravamo giunti a un tacito accordo: io non dicevo nulla sul suo hobby – la caccia – , che io odio, e lui mi permetteva di andare e venire per i boschi come meglio credessi. Era un buon compromesso, … prima di sapere la verità, ovviamente.”

“Già” assentì, adombrandosi in viso. “E tuo fratello, che ne pensa di lui?”

Fu il mio turno di incupirmi in viso.

Sospirando, regolai la fiamma del fornello, che sibilò azzurrognola sotto il pentolino color ocra, prima di mugugnare spiacente: “Credo sperasse in una figura maschile che lo aiutasse a superare gli anni più difficili dell’adolescenza, ma temo abbia subito una grave delusione. Sostanzialmente, Patrick ci ha sempre e solo sopportati. E’ stata Mary B a prendersi cura di noi, non lui.”

“Vedo che la chiami con un nomignolo. Le sei affezionata?” si informò, sorridendomi mentre osservava la nostra cena scaldarsi lentamente.

Il profumo della carne e delle spezie cominciò a raggiungere le mie nari, e un crampo involontario percorse il mio stomaco, mandandomi un chiaro messaggio: fame.

Beh, lo avrei accontentato a breve.

Annuii alla sua domanda, e cercai di spiegargli il curioso rapporto che ci legava alla nostra madre adottiva.

“Mary Beth è buona e, fin dall’inizio, ha messo in chiaro che non avrebbe mai preteso da noi che la chiamassimo mamma. Le sembrava assurdo. Non eravamo più dei bambini. Si è sempre mostrata gentile e premurosa, al contrario di Patrick che, invece, ci ha sempre e solo tollerati. Così, io e Gordon le abbiamo affibbiato quel nomignolo. Ci sembrava carino, e a lei piace.”

“E’ sintomo del legame che si è venuto a creare tra di voi, ed è indice della sua bontà d’animo” convenne Duncan, sorridendomi. “Siete stati fortunati a trovare una persona come lei, che vi ama tanto.”

“Credo di sì. Anche se avrei preferito mille volte che quell’ubriacone non si fosse trovato sulla stessa strada dei miei genitori” sospirai, rigirando il gulasch con un cucchiaio, che eruttò profumi speziati al curry davvero invitanti.

“Lo immagino” sussurrò Duncan, scrutando poi la sacca circolare della tenda con espressione meditabonda. “Vuoi che monti la tenda, mentre aspettiamo? Fino a ora, hai fatto tutto tu… vorrei rendermi utile.”

“Non è necessario” gli sorrisi, scrollando le spalle.

Lui sollevò un sopracciglio corvino con aria davvero curiosa e io, ridacchiando, gli passai il cucchiaio, dicendo: “Bada alla cena, mentre io nutro la tua curiosità.”

“Troppo gentile” celiò, sogghignando.

Lo fissai con aria irriverente, prima di prendere la sacca tonda della tenda e liberare il suo contenuto davanti agli occhi curiosi di Duncan.

Lui seguì ogni mio movimento con scrupolo e attenzione massimi, facendomi ridere per diretta conseguenza.

Accentuando ogni mia mossa con fare teatrale, gli concessi un frivolo inchino prima di lanciare la tenda in aria sotto i suoi occhi increduli.

Sorpreso, la osservò aprirsi come un fiore di fronte al primo sole e sbocciare in tutta la sua perfezione verde oliva.

A quel punto Duncan rise di gusto e, nel mescolare il gulasch, scosse il capo e disse: “Dammi una mano… non mi viene  in mente la marca…”

“E’ una quechua. Una 2 Second Air III, per l’esattezza” sorrisi orgogliosa. “Me la sono comprata con il mio primo stipendio.”

“Complimenti, davvero carina, e niente affatto difficile da montare” dichiarò, sempre sorridendo. Sembrava molto più rilassato, rispetto a quel mattino. “Che lavoro hai fatto per meritarti una tale sciccheria?”

“Ho aiutato una fiorista per due anni, nel periodo estivo. Quest’anno, con la storia degli esami e il resto, ho dovuto saltare, però” gli spiegai, riprendendo il cucchiaio che Duncan mi porse. “Prendi i piatti nello zaino delle meraviglie?”

Lui ridacchiò, assentendo. “Lo è proprio! Ma non ti pesa portarti dietro tutta questa roba?”

“Ci sono abituata… e poi, ammetterai che averle con sé è comodo” replicai, scrollando le spalle.

“Niente da ridire” ammise senza remore, ma non poté esimersi dal farmi notare un particolare.

“Ti verrà un mal di schiena d’inferno, però.”

“Me la cavo. Sono forte, io” ghignai, mostrando i muscoli con fare divertito.

Certo, se paragonati ai suoi, i miei erano grossi quanto spilli, però non ero da buttare, per essere una ragazza.

Lui sorrise per diretta conseguenza e annuì, asserendo: “Sì, direi che sono sviluppati.”

“Adesso non prendermi in giro, sottospecie di Maciste” sogghignai, tornando a controllare la nostra cena. “Direi che è pronto.”

“Se dai del Maciste a me, come la metterai quando vedrai il mio amico Lance?” ghignò a quel punto Duncan, offrendomi i piatti.

Incuriosita, gli chiesi: “A proposito dei tuoi amici… come mi dovrò comportare? Hai parlato di una Lupa Madre e di capi-clan, quindi immagino ci siano delle gerarchie di comando ben precise, all’interno del branco. Cosa dovrò dire al tuo capo? Ci sono delle regole particolari?”

Lui sorrise benevolo prima di dirmi: “Non preoccuparti, Brianna. Nessuno pretende nulla.”

“Ma… paese che vai, usanza che trovi. Mi sembrerebbe più giusto esprimermi in maniera corretta, visto che arriverò lì senza invito” insistetti, ben decisa ad avere la meglio sulle sue reticenze.

Duncan accentuò il sorriso, prima di mormorare: “Perdonami se non ho pensato che potesse farti piacere conoscere le nostre usanze, Brianna. Ti insegnerò ciò che vuoi sapere. Non è facile trovare persone che badino a particolari così sottili.”

“Io ci tengo” annuii con decisione. “Ergo? Come dovrò comportarmi con il tuo alfa? Si chiama così, vero?”

“Come hai fatto finora” mi sorrise ironico, scrollando le spalle.

Strabuzzai gli occhi mentre appoggiavo di botto il piatto sulle mie gambe intrecciate a terra, prima di uscirmene con un ben poco elegante: “Tu? Sul serio?!”

“Già. Io sono Fenrir del clan di Matlock, che comprende il Derbyshire, il Cheshire e lo Steffordshire. Lance è il mio Hati, cioè la mia guardia del corpo personale, mentre mio cugino Jerome è Sköll, ossia il mio capo in seconda” mi spiegò Duncan con aria quasi tronfia, godendo sicuramente della mia espressione basita.

Nel dirlo, continuò tranquillamente a mangiare, neanche avessimo parlato del tempo atmosferico o delle ultime elezioni. Che antipatico!

Impiegai più o meno il tempo di due battiti di ciglia per assorbire, a livello celebrale, quanto dettomi, dopodiché esplosi con un’altra domanda a bruciapelo.

“Fenrir? Tu sei Fenrir? In che senso? Spiegami!”

Duncan allora rise sommessamente, smettendo un momento di mangiare.

Nell’indicarmi il gulasch fumante, mi ordinò: “Mangia, o diventerà freddo.”

“Tu, però, mi spiegherai, vero?” rilanciai speranzosa, ingollando una cucchiaiata di carne bruciante e curry.

“Prometto… ma tu non strozzarti con il cibo, nel frattempo” assentì divertito, annuendo e offrendomi la borraccia dell’acqua quando mi vide un po’ in difficoltà con la respirazione.

Io annuii a più riprese, mentre bevevo per annientare l’arsura che avevo in gola.

Duncan non smise di sorridermi allegro, mangiò più lentamente di me e, subito dopo, mormorò: “E’ buono, per essere un piatto pronto.”

“Scelgo solo la roba migliore. La mia amica Elspeth è di palato fino” ridacchiai, imitandolo, ma a una velocità decisamente sostenuta.

Finii in tempi record, sperando ardentemente che lui facesse lo stesso per assecondare la mia curiosità divorante.

Quando, finalmente, lo vidi posare il piatto di metallo sulle gambe intrecciate, lo fissai con occhi spalancati e un sorriso ansioso stampato sul volto.

Ammiccò, forse divertito dal mio sguardo famelico, e asserì: “Certo che la cosa ti attira parecchio! Sembri un cercatore d’oro di fronte ad un filone particolarmente ricco.”

“Dici? Sei tu che te ne esci con frasi così sconcertanti, pregandomi poi di aspettare spiegazioni!” brontolai, sventolando le mani di fronte al viso con aria ansiosa. “Che ti aspettavi?”

“Non pensavo che la cosa potesse scioccarti a questo modo” ammise Duncan, particolarmente allegro.

Sembrava che, in qualche modo, la mia curiosità lo rendesse… felice.

“Chiariamo un fatto, Duncan. Fino a ieri, non avrei mai pensato di ritrovarmi davanti una creatura mitologica, neanche mi sarebbe venuto in mente, visti i miei piedi più che piantati a terra. Ora, invece, non solo sono in compagnia di uno di loro, ma scopro che pure io non sono la classica ragazza della porta accanto, ma qualcosa di assolutamente fuori dal comune…” dissi con veemenza. “… forse voi siete addirittura dèi, … cosa posso saperne io, visto che tutti i nomi che usi appartengono a divinità norrene?”

La sua risata galleggiò nell’aria, ma riuscì ugualmente a ritrovare un po’ di controllo per chiedermi: “Ti sembra che io possa essere un dio?”

Beh, la mia amica Nancy la ninfomane lo avrebbe di certo ritenuto bello come un dio, di questo ero sicura, ma non pensavo che Duncan si riferisse a quel genere di divinità.

“Non so che dirti… di sicuro alcune cose, di te, sono… soprannaturali” ammisi, dubbiosa.

“Come alcune cose di te” precisò, prima di aggiungere: “Comunque no, non sono un dio. Sono una creatura che la Natura ha scelto tra tante perché sopravvivesse alla selezione tra specie. Anche se credo che l’idea che Fenrir fosse un dio sia nata dal fatto che, effettivamente, lui poteva dare quell’impressione.”

“In che senso?” ansai, sgranando leggermente gli occhi.

Brianna la sognatrice. E chi l’avrebbe mai detto?

Duncan sogghignò e si spiegò meglio. “Lui, Hati e Sköll erano alti tre metri alla spalla, quando erano lupi.”

Sbarrai gli occhi, deglutii un paio di volte e, alla fine, riuscii a gracchiare: “Sì, credo proprio che l’idea sia nata da lì. Ammesso e non concesso che non li fossero veramente.”

Rise di nuovo, e chiosò divertito: “Voi umani siete così creduloni.”

Il ‘voi’ mi incuriosì. In quanto licantropo, non si riteneva almeno in parte uomo?

Non riuscendo a tacere, chiesi spiegazioni.

Si adombrò in viso, a quella domanda e, con un sospiro, mormorò: “Ammetto di essere un po’ prevenuto verso la razza degli umani, e non solo per quello che mi è successo. Essendo Fenrir, so più cose sul nostro passato di quante vorrei sapere, e questo mi angustia più del sopportabile. Ma questo mio risentimento non comprende te, vorrei fosse chiaro. Tu sei wicca, e sei superiore agli umani, oltre a essere nostra amica. Ma, anche se tu fossi solo una semplice ragazza umana, avresti il mio rispetto e la mia gratitudine in ogni caso.”

Cercai di non pensare al fatto che la sua gratitudine – e, soprattutto, il modo in cui i suoi occhi la esprimevano – aveva strani effetti collaterali sul mio corpo.

Concentrandomi unicamente sulla nostra conversazione, gli domandai: “Mi racconterai cosa ti è successo esattamente?”

“Più avanti” mi promise, prima di tornare alla mia domanda originaria. “Ti stavo dicendo di Fenrir…”

“Sì, spara” annuii, lesta.

Il fatto stesso che fosse tornato di sua spontanea volontà alla mia precedente domanda, era chiaro indice del fatto che, dell’incidente che lo aveva portato quasi alla morte, non voleva assolutamente parlare.

Almeno, non con me.

Forse, ciò che lo aveva condotto fin quasi sulle rive dello Stige – esisteva qualcosa di simile nel mito norreno? – era un evento così traumatico da rendergli ancora difficile esprimerlo a parole.

E non solo per se stesso.

Come aveva tenuto a precisare, non era un amante degli umani.

Probabilmente, irritato e furioso com’era, avrebbe detto cose a sproposito, e forse non voleva spaventarmi.

Lo ascoltai perciò assorta, mentre mi parlava delle loro usanze.

“I nomi che usiamo fanno parte della nostra tradizione. Fenrir fu il capostipite della nostra razza, e Hati e Sköll i suoi figli. Quando si formarono i primi clan, i nomi vennero mantenuti per onorare la loro grandezza.”

Al mio assenso, lui aggiunse: “La legge viene fatta rispettare da Fenrir e dalla Prima Lupa, la compagna di Fenrir e, quando il capo-branco non è presente nel clan per un qualsiasi motivo, a badare al mantenimento dell’ordine, pensa Sköll. Da un paio di secoli a questa parte, in molti clan, compreso il mio, è anche presente un Consiglio, che viene coinvolto nelle decisioni di Fenrir. Un po’ come una specie di Parlamento, per intenderci.”

Ascoltai con attenzione, abbeverandomi della sua voce e facendo mie tutte le notizie di cui venivo a conoscenza man mano che la sua spiegazione proseguiva.

Quell’accenno alla Prima Lupa mi incuriosì a tal punto da portarmi  a chiedere: “La Prima Lupa è dunque tua moglie?”

Il suo sguardo si fece accigliato e sardonico, prima di asserire: “Non ho moglie, anche se il Consiglio non è affatto contento del fatto che io non abbia ancora scelto una compagna. Nel mio clan esiste solo una Lupa Madre, che altri non è che la compagna del precedente Fenrir, il quale ha abdicato quattordici anni fa. Ha passato l’incarico a me perché non ritenne di essere più in grado di portarlo avanti con successo.”

Strabuzzai gli occhi, fissandolo senza capire come abbinare quell’informazione ai suoi tratti somatici. Non poteva essere così vecchio!

“Ma scusa… se quattordici anni fa sei diventato Fenrir… quanti anni avevi?” esalai, più che mai confusa.

“Quattordici anni” ammise atono, distogliendo lo sguardo dal mio, che si fece più che mai confuso.

Quattordici anni? Ed era stato messo alla guida di un branco intero? Perché mai?

Notando quanto fosse restio a darmi altre spiegazioni in merito, preferii lasciar perdere, proseguendo con altre domande.

“Come funziona? Come per i lupi? Vi battete per ottenere il grado di alfa?” gli domandai a quel punto, sperando che quel quesito fosse migliore del precedente.

Non volevo angustiarlo in nessun modo, e il mio accenno alla sua giovane età lo aveva infastidito alquanto.

“Non sempre. Il più delle volte, Fenrir comprende quando è il momento di abbandonare lo scettro del comando per lasciarlo al proprio erede legittimo ma, a volte, è capitato che questo… passaggio  di potere avvenisse nel sangue” ammise Duncan, adombrandosi ulteriormente, nonostante i miei migliori auspici. “Fenrir, Hati e Sköll sono tali dalla nascita e, quando avviene la Mutazione per la prima volta, i giovani che portano il Segno vengono affidati ai rispettivi membri del branco già eletti, perché imparino quel che c’è da sapere sul proprio ruolo.”

“E quali sono i segni che distinguono un Fenrir da un lupo comune?” domandai, guardandolo con maggiore attenzione.

Non mi sembrava che avesse strane voglie sulla pelle, o qualcosa di particolare che potesse contraddistinguerlo in qualche modo da un’altra persona.

Ma forse, semplicemente, non sapevo cosa cercare.

“Il pelo” mi spiegò, sorprendendomi. “Bianco per Fenrir, nero per Hati, rossiccio dorato per Sköll. Nessun altro, nel branco, ha questi colori. Da questo, si comprende chi è predestinato a governare il clan, e chi è già in carica si prende cura dei propri eredi perché imparino ciò che è giusto per la propria gente.”

“E non ci sono mai stati … beh… colpi di Stato, o robe simili? Siete così ligi alle regole?” esalai, sorpresa, sbattendo più volte le palpebre.

Sogghignò infastidito prima di distogliere nuovamente lo sguardo, fissarlo sull’ombra scura del faggio sotto cui ci eravamo riparati per la notte e, con voce cupa, mormorare: “No, non siamo sempre ligi alle regole… no davvero.”

Altro argomento spinoso.

I contorni dei suoi occhi tremavano, come pure il muscolo della guancia a me visibile, come se stesse trattenendo a stento parole crudeli.

L’aria sfrigolò intorno a lui, potei vederlo chiaramente e, pur sgomenta di fronte a quella scoperta, continuai a fissarlo senza avere il coraggio di aprire bocca e chiedere spiegazioni.

Ero certa che, in quel momento, ogni mia parola lo avrebbe fatto esplodere.

Attesi paziente che quell’eruzione di potere allo stato puro si calmasse e, non appena vidi scomparire l’alone di energia sfrigolante attorno a lui, mi concessi di mormorare: “Eri davvero furioso, eh?”

Duncan si volse verso di me velocissimo, i riccioli morbidi scompigliati sulla fronte, e la sua voce uscì fiacca, dalla bocca.

“Vecchi ricordi… perdonami.”

Scrollai le spalle, come per non dare peso al suo malumore – pur se ero curiosa di sapere cosa fosse successo di così tremendo da mantenere in lui una simile carica di furore.

Tornai, perciò, all’argomento principale della nostra dissertazione, sperando di migliore un poco la situazione.

“Quindi, avete avuto i vostri golpe?”

“Uno dei motivi per cui mi sono ritrovato nella gabbia di Patrick, è stato per l’appunto un tentato golpe” mi spiegò, spiazzandomi.

“Cioè?” esalai.

Sdraiandosi su un fianco, il braccio ripiegato e la mano aperta a sorreggere il suo volto immerso nella semioscurità, mi fissò cupo prima di decidersi a parlare.

Con un mugugno irritato e lo sguardo percorso da qualcosa di simile al disappunto, sibilò: “Non li abbiamo sentiti arrivare.”

Avendo avuto ampie prove della portata del suo fiuto, la cosa mi stupì parecchio, portandomi ad asserire: “Pensi ci fosse un delatore?”

“Ne sono certo. Ci sono arrivati alle spalle sottovento, senza che ce ne accorgessimo, e sapevano dove fossimo radunati… un po’ troppo, anche per dei Cacciatori” dichiarò sprezzante.

“Se non ne vuoi parlare…” buttai lì, pur avendo un desiderio folle di sapere cosa fosse accaduto.

Duncan allora sogghignò ironico, ridendo sommessamente.

“Te lo si legge in faccia che vuoi saperlo.”

“Lo so, sono una curiosa senza speranza. Ma voglio capire… davvero” lo pregai, imitando la sua postura per guardarlo meglio negli occhi.

Ci fissammo per diversi istanti, lottando silenziosamente per far prevalere le rispettive idee e, alla fine, lui sospirò e disse: “Non si può competere con la cocciutaggine di una donna.”

“Parli per esperienza diretta?” ironizzai.

Mi aveva detto di non avere una moglie – e la cosa mi aveva rallegrata più del lecito consentito – ma, a Matlock, poteva esserci comunque una donna che lo attendeva.

“Purtroppo, sì” storse la bella bocca, e ricominciò il suo racconto. “Eravamo nei dintorni di Glasgow per una riunione con i capi-clan del nord, i Fenrir di Skye, Glasgow e Aberdeen, tutti clan a noi alleati e, durante la cerimonia di accoglienza, sono iniziati gli spari. Alcuni lupi sono caduti a terra feriti, e si è scatenato il caos tra le nostre fila mentre cercavamo di metterci al riparo da quei proiettili vaganti. Visto che la Prima Lupa del clan di Glasgow è incinta, ho proposto al suo compagno di portarla via, e gli altri si sono offerti di fare loro da copertura, mentre io attiravo l’attenzione dei Cacciatori su di me.”

Sgranai gli occhi, sgomenta, ed esalai: “Unirti al gruppo e scappare, no, eh? Era da codardi?”

Rise per un momento, prima di spiegarmi i suoi intenti.

“Volevano una preda, e io gliel’ho data. Erano davvero troppi, e l’unico modo di salvare Becca dai fucili era quello di fornire ai nostri nemici uno specchietto per le allodole… io, per l’appunto.”

“Quindi, cosa successe?” gli chiesi, turbata.

“Lo sai” mormorò, aggrottando la fronte.

Un lampo improvviso passò di fronte ai miei occhi, oscurandoli e, nella mia mente, le immagini dell’incubo che ci aveva fatti incontrare apparvero come le sequenze infernali di un film dell’orrore.

Vidi con chiarezza un lupo enorme, e dal manto di niveo splendore, correre in mezzo a frotte di cacciatori armati di tutto punto.

Lo osservai atterrarne un paio e scappare tra la boscaglia oscurata dalla notte, prima di bloccarsi e crollare a terra, tramortito da un colpo di fucile, mentre un profumo dolciastro ammorbava l’aria.

Scossi il capo per schiarirmi le idee e le immagini svanirono di colpo, neanche avessi spento un interruttore.

Il viso di Duncan era fisso su di me, il suo sguardo accigliato e torvo come se, a sua volta, avesse rivissuto quegli eventi così spiacevoli.

Sospirò nervosamente, le labbra tese e pallide, nel dirmi: “Sapevano dell’aconito, quei maledetti, o non sarebbero mai riusciti a caricarmi su uno dei loro pick-up senza perdere almeno un braccio nel tentativo. Anche se ferito, avrei continuato a combattere, ma il polline di aconito inibisce i nostri centri nervosi come se fosse novocaina.”

Sapevo dell’aconito che era un fiore viola, a forma di campana, utilizzato in fitoterapia e nell’omeopatia come sedativo o antinevralgico.

Ero a conoscenza della sua estrema tossicità e che poteva essere letale, se non utilizzato nel modo corretto.

L’idea dell’argento come potenziale veleno mortale, per i licantropi, mi aveva sconvolta, mentre la faccenda dell’aconito mi sembrò in qualche modo quasi­… accettabile.

In fondo, aveva effetti negativi anche sui comuni umani, anche se noi avremmo dovuto ingerirlo, non solo inalarne il polline.

Evidentemente, quell’esile pianta dall’aspetto così delicato e allegro era, invece, una bestia nera, per i licantropi.

La Natura si era davvero divertita, nel creare dei nemici così singolari per i suoi mannari.

“Quindi, ti hanno anestetizzato, per portarti a casa di Patrick” dichiarai. “E’ stato lui a…”

“No” ringhiò sprezzante e con un sogghigno di spregio. “Ha una mira pessima. Ma è davvero forte, lo ammetto… è stato uno dei due umani che mi ha caricato sul pick-up, e non mi è parso stesse facendo un grande sforzo.”

“Capirai… sarà stato al settimo cielo per quella grande impresa…” sbottai, reclinando il capo.

Non era piacevole venire a sapere certe cose, pur se non provavo vero affetto per Patrick.

La sola idea che avesse tentato di fare del male a Duncan mi infastidì fin quasi a farmi dare di stomaco e, nel contempo, fece montare una rabbia quasi incontrollabile.

Se solo avessi potuto, sarei tornata indietro a suonarle di santa ragione a Patrick e alla sua cricca, per quello che avevano fatto.

O meglio, avrei tentato di farlo.

“Non arrabbiarti, Brianna” mi disse Duncan, pacato. “Non è colpa tua se loro sono così.”

“Non accetto che possano comportarsi così! Insomma, non siete animali da cacciare!” righiai infastidita, di fronte alla sua calma apparente. “Non sopporto quando cacciano la selvaggina, figuriamoci voi!”

Mi sorrise bonario, forse trovando sciocca la mia arringa ma, prima ancora di replicare al suo sguardo compiacente, mi carezzò una guancia, zittendomi di colpo.

Gentile, affondò la mano tra i miei capelli mollemente rilasciati sulle spalle e sussurrò: “Candida fanciulla dal cuore gentile… Brianna, è così da secoli, millenni. Loro sono più che attenti a non commettere omicidi alla luce del sole, come noi cerchiamo di non mostrarci al resto del mondo per ciò che siamo in realtà.”

Ritirò la mano, e proseguì nel dire: “Entrambi giochiamo una partita nascosti tra le falde della verità e della menzogna, e siamo abituati a farlo da tempo immemore, tanto che credo sia addirittura scritto nei nostri geni. La loro è una cricca che prosegue di padre in figlio, e i nostri clan fanno lo stesso. Finché uno dei due gruppi non scomparirà, niente avrà mai fine, perché noi non ci faremo eliminare dalla faccia della Terra senza combattere, e loro proseguiranno in eterno ad odiarci, cercando di sterminarci. E’ un cane che si morde la coda.”

Lo fissai stordita, forse sconvolta dall’ineluttabilità delle sue parole, forse perché il tocco leggero tra i miei capelli era in grado di annullare tutto ciò che mi circondava.

Quando mi aveva sfiorata, ero stata come sbalzata in un limbo in cui ero senza peso, dove il mio essere era impegnato solo a percepire il calore delle sue dita.

Perso in contemplazione del mio viso, Duncan tornò a sfiorarmi i capelli e ne sollevò una ciocca, portandosela al viso.

Vagamente turbata da quel gesto, il cuore in gola che martellava con la forza di un tamburo impazzito, gli chiesi con voce roca: “Perché lo fai?”

“Cosa?” replicò distrattamente, annusando la fragranza della mia chioma prima di lasciarla andare e tornare a guardarmi con occhi vagamente vacui, persi nei miei.

“Ho visto che… beh, che lo hai fatto spesso, in queste ore. Annusare, toccare… ma …” arrossii, e aggiunsi con un sorrisino imbarazzato: “… non mi è sembrato che lo facessi per gli ovvi motivi che una ragazza penserebbe, se si trovasse da sola con un uomo.”

A sorpresa, Duncan arrossì leggermente sotto l’abbronzatura e mormorò contrito, come per scusarsi: “Perdonami, non ci ho neppure riflettuto sopra… sono davvero maleducato, Brianna.”

“Ma no! Vedo che non lo fai con malizia… ma ero… curiosa” replicai, sdraiandomi prona e intrecciando le mani sotto il mento.

Preferii cambiare argomento alla svelta, perché parlare dei Cacciatori e del rapporto che intercorreva tra loro e i licantropi mi spaventava ancora troppo, per poterlo affrontare con serenità.

E avevo altro a cui pensare, in quel momento. Potevo lasciare quei macellai a dopo.

Duncan imitò la mia postura, spiegandomi i motivi del suo strano comportamento.

“Mi serve per conoscerti. La mia parte animale è incuriosita da te,… dal tuo odore, per la precisione, perché trasudi… beh, è inutile girarci intorno, … emani potere, e il lupo dentro di me ne è attratto come le mosche col miele.”

Mi sorrise, come a voler addolcirmi la pillola, e aggiunse: “Noi licantropi ci tocchiamo in continuazione. Non c’è nulla di sensuale in ciò che facciamo, è semplice conoscenza reciproca, o un modo per rinsaldare un rapporto. Come una stretta di mano o una pacca sulla spalla, per intenderci.”

“Capisco” annuii.

Sì, era sensato. Anche i lupi, nelle tane, dormivano gli uni vicini agli altri. Non faceva specie che anche i licantropi avessero le loro stesse abitudini.

“Ti sei sentita… in imbarazzo?” mi domandò a quel punto, curioso.

Ora, il suo sguardo era nuovamente limpido, nonostante potessi vedere ben poco, in quella penombra che ci avvolgeva.

Ben presto, avrei dovuto spegnere il fornelletto a gas, o saremmo rimasti senza propano ben prima del nostro arrivo a Matlock.

Così, saremmo rimasti nell’oscurità più totale, immersi nella notte e nei suoi profumi.

“Beh, non sapevo che pensare, in effetti ma, ogni volta che lo facevi e ti guardavo in faccia, non notavo niente di strano… e poi, beh, insomma…” tentennai, non sapendo come spiegarmi.

“Il tuo potere?” mi aiutò lui.

“Già. La mia arma segreta” ironizzai, pur senza provare reale allegria.

Quello era il boccone più pesante da digerire. Ma ovviamente, riguardava me.

Potevo sopportare tutte le novità che Duncan mi stava propinando poco per volta, perché appartenevano a lui.

Ma la faccenda delle wiccan era affar mio, e il mio stomaco si rifiutava di mandar giù quella storia.

Mi sarebbe servita ben più di una notte di sonno, per accettare quella parte della storia.

Senza dire nulla, Duncan si rimise in piedi dopo avermi sorriso comprensivo e, prese le stoviglie in mano, disse solamente: “Le porto al ruscello per ripulirle… perché tu non ti riposi, nel frattempo?”

“Grazie” mormorai, fissandolo mentre si allontanava nell’oscurità del bosco con passo tranquillo.

Avevo davvero bisogno di dormirci sopra. Un bisogno enorme.


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Capitolo 6
*** VI. ***


6

 

 

 

 

  Stavo correndo, il terreno era sconnesso sotto i miei piedi nudi, ma non me ne curavo.

La paura di essere catturata, e uccisa, era superiore al dolore che provavo nel colpire con forza il terreno durante la mia fuga precipitosa e senza meta.

Il sibilo degli spari dietro di me era minaccioso e ferale, e la pallida falce di luna che sorrideva nel cielo notturno non mi dava alcun conforto.

Ero troppo impegnata a concentrarmi sui miei nemici, per apprezzarla appieno.

Caddi, sbucciandomi le mani e le ginocchia sul terreno accidentato.

Imprecando tra i denti, percepii un dolore cocente a una gamba, quando una pallottola penetrò le mie carni, ferendomi.

Urlai, trattenendo con le mani il sangue che colava dalla ferita mentre i passi pesanti dei cacciatori si facevano sempre più forti.

Si stavano avvicinando a me, pronti a darmi il colpo di grazia.

Fu a quel punto che un enorme lupo bianco balzò di fronte a me, le fauci spalancate e gli occhi iniettati di furore puro.

Attaccò i cacciatori senza lasciarne vivo neppure uno.

Osservai la scena restando a terra ferita e dolorante, e lui tornò da me, il pelo della gorgiera sporco di sangue e le zanne snudate che luccicavano ferali alla luce della luna.

Ma non ebbi paura. Lui era lì per me.

Gli accarezzai il muso appuntito, sporcandomi col sangue dei cacciatori che aveva ucciso per salvarmi e lui, dopo un istante, si chinò a leccarmi la ferita, che subito si rimarginò.

Fu a quel punto che mi risvegliai, il respiro affannoso e gli occhi spalancati.

Non compresi subito dove mi trovavo; la mia mente era ancora troppo confusa da ciò che aveva visto, per essere lucida e attiva.

Le pareti verde oliva della tenda mi disorientarono per un momento ma, nel percepire il peso leggero di una mano sul mio fianco, tutto mi tornò alla mente.

Duncan. La fuga. Le wiccan. Ogni cosa.

Mi volsi lentamente, percorrendo con lo sguardo il braccio di Duncan che, protettivo, mi cingeva la vita.

Sorridendo, mi chiesi se il suo potere avesse fatto intervenire il lupo nel mio sogno per salvarmi. Tutto era possibile, a quel punto.

Un attimo dopo, i suoi occhi smeraldini si posarono sul mio viso e un lento sorriso si dipinse sul suo volto nel sussurrarmi: “Buongiorno… tutto bene?”

Indicando il braccio che ancora riposava sulla mia vita, gli domandai: “Sei stato tu?”

“Ti agitavi nel sonno… è servito?” assentì, guardandomi pensieroso.

Annuii a mia volta, prima di dire: “Mi hai salvata dai cacciatori. Grazie.”

Si adombrò un poco, nel saperlo, e borbottò: “Non era davvero un bel sogno, allora.”

“No” ammisi, mentre il suo braccio abbandonava il mio fianco. “Spero di non averti disturbato. Hai bisogno di riposo, per riprendere le forze.”

Duncan scosse il capo, un sopracciglio leggermente sollevato con ironia, e mi fece notare un particolare, a quanto pare, per lui molto importante.

“Non sono così debole, Brianna… e no, non mi hai disturbato. “Hai iniziato ad agitarti meno di mezz’ora fa.”

“Meno male” sorrisi, tirando un sospiro di sollievo nel mettermi a sedere.

Osservai divertita le pareti di tela arrotondata della tenda e i nostri due corpi ripiegati all’interno, e mi venne voglia di liberare la risata che aleggiava ai lati della mia bocca.

In compagnia di Elspeth, con cui di solito dormivo in campeggio, ero sempre stata solita ridere della mia decisione di comprarmi un affare così grosso e ingombrante.

Ora che lo dividevo con Duncan, non mi parve più così grande.

Anzi, mi stupii che, durante la notte, non ci fossimo presi a gomitate nei fianchi.

Da par mio, sapevo di non agitarmi durante il sonno ma, a quanto pareva, neppure Duncan era una persona dal riposo agitato.

Tanto meglio.

Ero più che certa che, se lui mi avesse centrato con un gomito, avrei collezionato ben più di un livido.

Sorprendentemente, il fatto di aver dormito fianco a fianco con un perfetto sconosciuto, all’interno dello spazio ristretto della tenda, non mi aveva procurato alcun problema.

Ancora una volta, ebbi la sensazione di conoscere Duncan da una vita intera, e non solo da un giorno.

Ma, forse, questo dipendeva dai miei poteri appena risvegliati e dal fatto non indifferente che il mio dono – dono? – mi permetteva di comprendere al volo le intenzioni di Duncan.

A quanto pareva, erano tutto tranne che losche.

Non che il venire a conoscenza di questo fatto mi rendesse felice.

O meglio, ero contenta che Duncan non avesse cattive intenzioni, ma il come fossi riuscita a comprenderlo ancora mi dava parecchia noia.

Non ero abituata a fare i conti con argomenti così fuori dagli schemi.

Se già accettare la licantropia di Duncan era stato un traguardo, il venire a patti con me stessa sarebbe stata un’impresa titanica.

Speravo solo di non impazzire nel tentativo di venire a capo di tutto.

In ogni caso, avrei sicuramente ragionato meglio dopo aver ingerito qualcosa da mangiare, perciò mi mossi per uscire dalla tenda e preparare la colazione

Duncan, però, mi trattenne per un braccio e sussurrò: “Aspetta… non vorrai spaventarlo.”

“Spaventare chi?” esalai, sgranando gli occhi.

“Il cerbiatto che si sta abbeverando al torrente” mi spiegò, come se nulla fosse.

“Che!? Un cerbiatto!?” esclamai a gran voce, tutta eccitata dalla notizia.

Duncan rise sommessamente, mentre lo scalpiccio improvviso di zoccoli sbattuti sulla superficie del torrente mi disse che il cerbiatto mi aveva sentita.

Colpendomi la fronte con una mano per la mia idiozia, feci la linguaccia a Duncan perché stava continuando a ridere con sempre maggiore gusto.

Con gesti rigidi, uscii dalla tenda e ringhiai: “Cosa pretendevi? Potevi anche dirmelo con maggiore tatto.”

“Non sapevo saresti stata così entusiasta della cosa” si discolpò, uscendo carponi dalla tenda, tutto allegro.

Sbuffai, ignorandolo completamente e, stando ben attenta a non scivolare sulle rocce della riva del torrente, mi piegai su un ginocchio e affondai le mani nell’acqua gelida per sciacquarmi il viso.

Lui mi imitò, il lungo e possente corpo ripiegato su se stesso mentre compiva quelle semplici abluzioni.

Solo in quel momento mi accorsi di un particolare che, durante la nostra fuga rocambolesca, non avevo notato.

I suoi piedi nudi poggiavano con disinvoltura sulla roccia fredda.

Fin dai nostri primi passi nel bosco, avevano camminato su terriccio, fogliame, pietre e rami senza che lui accennasse anche solo minimamente a un qualche tipo di fastidio.

“Scusa se non ho pensato alle scarpe, ma temo che quelle di Patrick non ti sarebbero comunque andate bene” mi premurai di dirgli, alzandomi e spazzandomi le mani bagnate sui pantaloni da trekking che indossavo.

Duncan si guardò un momento i piedi prima di alzarsi a sua volta e replicare: “Nessun problema… non mi fanno male. Anzi, ho maggiore sensibilità, così.”

“Non rischi di ferirti con qualcosa?” gli chiesi, tornandomene al campo con lui.

“Non sarebbe un problema, se ben ricordi e poi no, è davvero difficile che possa ferirmi a questo modo” mi rassicurò, osservando poi il cielo ingombro di nubi.

Annusò l’aria dubbioso e, aggrottando la fronte, mi avvertì di un particolare che avrei preferito non sapere.

“Prima di sera, pioverà.”

“Ah, ottimo” sbottai.

Mi sorrise comprensivo, prima di dire: “Impiegheremo più o meno due giorni ad attraversare questo bosco, visto che non possiamo procedere speditamente a causa mia. La pioggia ci rallenterà un poco ma, in compenso, cancellerà qualsiasi nostra traccia, casomai avessero sguinzagliato i cani… o i traditori che hanno cercato di assassinarci.”

Le ultime parole quasi le sputò. Era davvero furioso, anche se faceva di tutto per non lasciar trapelare la sua rabbia.

“Pensi che il capo-clan di Glasgow stia dando la caccia ai golpisti?” mi informai.

“E’ quasi certo… anzi, spero proprio che li abbia già trovati” commentò sprezzante, prima di calmarsi un poco e aggiungere: “Sarebbe un vantaggio anche per noi. Se anche solo uno dei traditori mi avesse riconosciuto, potrebbe condurre i Cacciatori al mio branco, e questo sarebbe davvero un disastro.”

Annuii alle sue parole.

Sì, era un pericolo non indifferente ma purtroppo, almeno per il momento, l’unica cosa che potevamo fare era raggiungere quanto prima Matlock.

E sperare che non ci fosse un comitato di benvenuto, armato di fucili con munizioni in argento.

Aperto lo zaino per estrarre un paio di barrette energetiche, ne passai una a Duncan, asserendo: “Sarà meglio partire in fretta e mettere quanta più strada possibile tra noi e i cattivi, prima che venga giù il diluvio universale.”

Lui annuì, prendendo la barretta dalla mia mano e, dopo averla scartata, mi osservò mentre, con abili gesti, sistemavo la tenda all’interno della sua sacca.

Fatto ciò, allacciai le maniglie allo zaino e lo issai sulle spalle, assaporando segretamente quel peso familiare.

Fare trekking e portare pesi era una cosa normale per me e, almeno quello, non mi avrebbe mandata in confusione.

Lavorare di cervello mentre mi trovavo in un ambiente a me caro, e che aveva sempre contribuito a snebbiarmi la mente, mi avrebbe giovato allo spirito e al corpo. Dovevo venire a patti con la realtà, e prima l’avessi fatto, meglio sarebbe stato per tutti.

Duncan, piegando di lato il capo e scrutandomi dubbioso,  mi domandò: “Non vuoi che lo porti io?”

“Faremo a turno, okay?” gli proposi, incamminandomi con un sorriso sul volto. “Già camminare richiede un certo sforzo, per te. Tenerti leggero ti aiuterà a riprenderti prima… e non mi guardare come se fossi una mamma rompipalle, è chiaro?!”

Duncan scoppiò in una risatina divertita dopo aver finito il suo ultimo pezzo di barretta energetica e, guardandomi malizioso, ghignò: “Ti ho guardato così male, prima?”

“Sì” sogghignai, dando uno strattone alle stringhe dello zaino per allacciarmele in vita.

A quel modo, sarebbe stato più stabile durante la camminata.

“Prometto di non pensare a te come a una madre rompipalle, allora. Anche perché sarebbe materialmente impossibile vederti come tale, credimi” ammiccò, infilandosi in tasca la carta.

“Dovrei averti avuto in un’altra vita, in effetti” ridacchiai per diretta conseguenza, guardandomi intorno per capire da che parte dirigermi.

“Già!” esclamò lui, unendosi alla mia ilarità.

Procedendo lentamente verso sud, raggiungemmo una serie di collinette dai dolci declivi e le verdeggianti sponde, ricoperte di radi boschetti di noci e di carpini dal fusto sottile.

Tutt’intorno a noi la natura riluceva nella sua maestosa bellezza.

Avevo quasi l’impressione di essere immersa in un luogo in cui la mano dell’uomo, e la sua presenza, non fossero mai state viste prima del nostro arrivo.

Ma sapevo perfettamente che nulla, in quelle terre amene, era stato lasciato incontaminato o immutato.

Nel notare a terra i resti di un pic-nic – probabilmente, qualche cacciatore o alcuni escursionisti indisciplinati – mi fece tornare ben presto con i piedi per terra.

Di umani ce n’erano anche troppi, in giro e, ben presto, avremmo dovuto fare i conti anche con loro.

E con la stanchezza di Duncan.

A giudicare dall’affanno che ne piegava le ampie e robuste spalle, anche quei brevi e apparentemente docili pendii stavano esaurendo più velocemente del previsto la sua energia fisica.

Non mi fu difficile comprenderne il motivo.

Di certo, il cibo di cui disponevo non era sufficiente a sopperire l’incredibile dispendio di energie che, il suo corpo, stava richiedendo per ripulire il sangue dagli effetti dell’argento.

Aveva sicuramente bisogno di proteine in gran quantità.

Doveva cacciare ma, debole com’era, non poteva ancora mutare in lupo.

Il suo incedere, perciò, era difficoltoso, anche se la pista che stavamo seguendo non era così difficile da percorrere.

Decisi così di accollarmi le colpe delle numerose soste che mi auto imposi per permettergli di riposare, inventandomi dolori che non avevo o una stanchezza che non provavo.

Verso mezzogiorno, però, quel giochetto gli venne a noia e, fissandomi con espressione esasperata, sibilò rigido: “Non ho davvero bisogno che tu mi faccia da balia, credimi.”

Sogghignai ironica e, puntando le mani sui fianchi, replicai schietta: “Ti saresti mai fermato di tua spontanea volontà, se io non avessi finto di averne bisogno?”

Lui si mise a fissarmi stizzito, le scure sopracciglia aggrottate e l’aria offesa, ma non parlò.

Ringalluzzita dal suo silenzio, proseguii dicendo: “Appunto. Non ammetteresti mai di aver bisogno di riposo, da bravo  homo poco sapiens quale tu sei, per cui deve intervenire l’intelligenza femminile per sopperire a quella maschile, notoriamente ben poco sviluppata.”

Duncan sgranò gli occhi, palesemente sorpreso dalla mia battuta di spirito.

Passandosi una mano tra le onde corvine con un’espressione tra il divertito e l’esasperato, mugugnò: “Va bene, d’accordo… non l’avrei mai ammesso. Ma risparmiami i tuoi commenti da giovane femminista, okay?”

“Non sono una di quelle che dicono che le donne sono uguali, o superiori, agli uomini, tranquillo. Ci hanno fatti diversi per un motivo, e la cosa mi sta bene. Pensa che noia, se fossimo tutti uguali? Non potrei neppure punzecchiarti. Sarebbe una barba incredibile.”

“Potrei anche accettare un po’ di noia, credimi” ma, nel dirlo, ridacchiò a sua volta.

Io sorrisi con lui e, più seriamente, gli spiegai i miei intenti.

“Non importa se ci dobbiamo fermare venti volte in un’ora, Duncan. Hai bisogno di queste pause o il tuo fisico non reggerà, anche se sembri la controfigura di Rambo. Purtroppo, non ho cibo abbastanza energetico da darti. Non ero preparata a questo, ma possiamo sopperire permettendo al tuo corpo di riposarsi più spesso.”

Mi fissò per un momento prima di abbassarsi fino a sfiorare la sua fronte con la mia e, da quella distanza ravvicinata, mi guardò con caldi occhi smeraldini, sussurrando: “Obbedirò alle tue giuste argomentazioni, wicca. Hai ragione nel dire che il mio corpo necessita di riposo. Non sarò più così testardo.”

“Dubito ci riuscirai” riuscii a dire sebbene il mio cervello, in quel momento, fosse un po’ troppo concentrato sul suo profumo muschiato, e ben poco sull’argomento di cui stavamo parlando.

Duncan mi sorrise per un attimo prima di scostarsi, puntando il viso verso sud mentre io lo osservavo con occhi attenti.

Doveva essere difficile, per un uomo così forte e dal temperamento così indomito, dover sopportare una simile limitazione fisica.

E, ancora di più, accettare che una ragazzina gli dicesse cosa fare, o come comportarsi.

Eppure sopportava ogni cosa con stoicismo, senza lamentarsi. Non faceva specie che fosse un leader, all’interno del suo branco.

Sedendomi su un masso coperto di licheni marroni e gialli, lo sguardo sempre puntato su di lui, che sembrava studiare i profumi presenti nell’aria alla ricerca di eventuali pericoli, gli chiesi: “Hai detto che il vecchio Fenrir si è preso cura di te, quando si è saputo che saresti stato il suo erede. Che intendevi, esattamente?”

Duncan tornò a volgere lo sguardo verso di me.

“Le nostre famiglie ci affidano temporaneamente ai nostri mentori per un periodo che varia da uno a tre anni e, durante quel periodo di tempo, veniamo istruiti ai nostri compiti specifici all’interno del branco.”

“E una volta che ottenete il potere, che succede? Siete vincolati a esso?”

Aggrottò un momento la fronte, prima di sospirare e ammettere: “In gran parte sì, anche se è ovvio che ci viene concesso di trovare la nostra strada anche all’interno della società umana. Non ci è più consentito non interagire con loro già da parecchi secoli. Ma, in ogni caso, non possiamo mai operare troppo distanti dal branco.”

“Hai detto che interagite con gli umani, ma in che modo?” gli domandai aggrottando la fronte, pensierosa. “E’ mai capitato che qualcuno al di fuori della cerchia dei Cacciatori scoprisse chi siete in realtà?”

Duncan mi fissò con aria palesemente sorpresa.

Forse, non si aspettava che sviscerassi quell’argomento fino a quel punto, però era una cosa che, fin dall’inizio, mi era parsa strana.

Possibile che i licantropi fossero giunti sino a oggi mantenendo puro il loro sangue, senza alcuno scambio tra la razza umana e quella mannara?

Se la genetica non era un’opinione, quel rimestio di DNA comune avrebbe dovuto portarli all’estinzione secoli addietro. Eppure non era successo.

Appoggiandosi a un giovane faggio dal tronco macchiato di licheni e leggermente ripiegato su un fianco, Duncan mi fissò ironico e sì, ammirato.

Chapeau, Brianna. Hai colto al volo la pecca del nostro sistema.”

“Ebbene?”

Lo incitai a parlare con un gesto leggero della mano.

Lui mi sorrise, chiudendo un momento gli occhi come per concentrarsi meglio dopodiché, con un sospiro, tornò a fissarmi e mi spiegò: “Siamo sempre meno, e gli umani sempre di più; per sopravvivere a questo mondo, dobbiamo adeguarci.”

“Adeguarvi nel senso che penso io?” lo imbeccai perché proseguisse.

Annuendo, Duncan mormorò: “I clan che si dimostrarono più coriacei nel portare avanti la tradizione di non … beh, di non mutare gli umani in licantropi per generare prole con sangue misto, morirono nel corso di pochi secoli così, molti di noi decisero di ovviare, venendo meno al veto di non dire nulla agli umani. E’ già difficile di suo, portare avanti una gravidanza per le nostre femmine, ma senza sangue nuovo non saremmo più neppure riusciti a generare figli.”

“DNA troppo mescolati tra loro?” ipotizzai.

Lui annuì ma aggiunse: “Non solo.”

“In che senso?” volli sapere, vagamente confusa.

Cosa poteva esserci, oltre al problema genetico?

“Dipende dalla luna, oltre che dagli incroci di sangue. Conosci la genetica, immagino” mormorò, sorridendomi appena.

Al mio assenso, continuò dicendo: “In parte, come hai tu stessa accennato, dipende dal fatto che molte famiglie di licantropi si sono incrociate troppo spesso tra loro, creando intere generazioni di femmine sterili, che hanno portato così alla morte interi clan. Ma poi c’è anche il problema della luna. Finché una femmina è giovane, per lei è difficile non sentire il richiamo della bestia durante il plenilunio e, se mutasse in lupa durante la gestazione, il feto morirebbe.”

Quella notizia mi paralizzò.

Potevo capire la faccenda dei geni incrociati troppe volte. Succedeva anche tra gli umani. Ma la luna? Perché?

Rispondendo alla mia espressione chiaramente interrogativa, sussurrò mesto: “Noi non nasciamo licantropi, o meglio, siamo licantropi allo stato passivo. Diventiamo attivi con il … beh, il risveglio sessuale.”

Mi fissò, come per capire se l’argomento fosse troppo personale, ma io scossi la testa e precisai: “Ricordi che ti ho detto che voglio studiare medicina? Capisco cosa vuoi dire; quando le ragazze hanno il primo ciclo mestruale e i maschi diventano fertili, giusto?”

“Esatto” annuì, più tranquillo. “La Mutazione avviene in quel momento. Non prima. Se una femmina mutasse in lupa durante la gravidanza, il feto non potrebbe cambiare con lei, e morirebbe.”

“E quindi?” ansai, timorosa in parte di sapere.

“Il più delle volte, le femmine attendono di raggiungere un’età abbastanza avanzata per avere un figlio, cioè quando sono sufficientemente potenti per resistere al richiamo della luna. Ma questo pregiudica anche la possibilità di avere più di un figlio. Se si tratta di donne umane, invece, tendenzialmente i figli vengono concepiti prima della trasformazione in licantropo. In quel caso, i bambini nascono sicuramente con il nostro genoma, perché ha la supremazia sul vostro.”

Quella seconda ipotesi mi incuriosì parecchio.

Chissà con quale logica queste donne venivano messe al corrente della verità?

 “Come decidete a chi raccontare il vostro segreto? E succede solo per le donne, o vale anche per gli uomini? E come si diventa licantropi?” domandai a quel punto, desiderosa di dare una risposta a tutti i miei dubbi.

“Si diventa licantropi tramite il morso, il ferimento da artiglio o lo scambio di sangue quando un licantropo è in forma animale” mi spiegò Duncan, prima di aggiungere: “Per quel che riguarda i potenziali partner umani, è difficile trovare persone così fidate cui raccontare tutta la verità e, a volte, si impiegano anni per capire se una persona è adatta o meno per essere annoverata tra coloro che possono conoscere la realtà dei fatti. Alcune volte, gli esiti  non sono stati così… eccellenti.

Preferii sorvolare sulle emozioni che percepii, quando Duncan pronunciò quell’ultima parola – sicuramente sintomo di qualche grave incidente avvenuto all’interno dei clan.

Mi concentrai maggiormente su una questione che mi stava particolarmente a cuore.

“I figli interamente umani continuano a far parte del branco?” chiesi preoccupata.

“Ma certo!” esclamò, forse addirittura indignato per la domanda. “Vengono protetti con ancor più fervore degli altri. Sono figli del branco a tutti gli effetti, anche se sono umani.”

“Davvero?” esalai sorpresa. “Ed è mai capitato che, invece, loro vi tradissero?”

Si azzittì di colpo, reclinando lo sguardo a guardarsi i piedi nudi affondati tra il fogliame secco, e io preferii non andare avanti nella mia esplorazione del mondo dei licantropi.

Era evidente che qualcosa, nella loro storia passata, fosse legata un po’ troppo strettamente a quella domanda in particolare.

“Ho soddisfatto la tua curiosità?” mi chiese, dopo alcuni minuti di silenzio imbarazzato.

“Ancora una domanda” sussurrai con un sorrisino di scuse.

“Dimmi” mormorò, scrollando le spalle.

“I figli nati umani, quindi, anche se feriti da un licantropo, non mutano?”

“Non i neutri, o nulli, come li chiamiamo noi. C’è un antigene che li protegge dalla mutazione” scosse il capo Duncan. “Ci provammo, in passato, ma non funzionò mai. Per quelli interamente umani, è invece possibile la mutazione, se lo vogliono.”

Dopo alcuni attimi di silenzio, aggiunse: “E’ tutto?”

“Sì, credo di averti rotto le scatole a sufficienza, per oggi” sorrisi, alzandomi in piedi.

Lui mi imitò, scostandosi dal tronco e muovendosi con la stessa grazia che avrebbe avuto un ballerino.

Guardandolo con un misto tra invidia e ammirazione, ne studiai l’imponente struttura fisica e la linea perfetta dei tratti.

Contemporaneamente, mi chiesi se, anche in forma animale, fosse altrettanto bello e possente. Con tutta probabilità, sì.

***

La pioggia si abbatté su di noi al crepuscolo, colorando di tinte fosche e da inferno dantesco il cielo visibile attraverso le chiome delle piante che ci circondavano.

In pochi minuti, ci inzuppammo come pulcini appena usciti dall’uovo.

Il riparo offerto dagli alberi si rivelò del tutto inutile, a causa della violenza del temporale estivo che ci aveva raggiunti senza scampo.

Montai alla svelta la tenda, nonostante le mani rese scivolose dalla pioggia infernale che stava cadendo a secchiate dal cielo.

Dopo neppure un minuto di quel diabolico lavorio, ci  infilammo al suo interno per evitare di annegare in quel mare d’acqua che Dea-Eventi-Atmosferici aveva deciso di scaricare sulle nostre teste.

Tra brividi violenti e imprecazioni indirizzate a questo o quel politico, poggiai finalmente lo zaino in un angolo del nostro rifugio d’emergenza.

Fatto cio, mi accoccolai a terra, battendo i denti come una vecchia macchina da scrivere, frizionando ripetutamente le braccia per scaldarmi un poco.

La temperatura, da mite che era, crollò drasticamente, dandomi l’impressione di essere appena uscita da una ghiacciaia.

Duncan si avvicinò per aiutarmi, frizionando a sua volta le mie braccia con le sue mani enormi e bollenti mentre la sua pelle, letteralmente, emanava vapor d’acqua, neanche si fosse seduto su una stufetta.

Più che mai sorpresa e curiosa assieme – com’ero solitamente, cioè – gli chiesi a bruciapelo: “Hai un termosifone incorporato?”

Ridacchiò, scuotendo il capo e, ammiccando, asserì: “Il  potere dei licantropi mi consente di aumentare la mia temperatura corporea e potrai farlo anche tu, una volta venuta a conoscenza di quel che c’è da sapere sui tuoi doni.”

“Ah” esalai, continuando a fissare la sua pelle asciugarsi a tempi record.

“Dovresti toglierti i vestiti e cambiarti. Rischi di prendere un raffreddore, se tieni quegli abiti bagnati addosso. Hai un cambio, con te?” mi fece subito notare Duncan, massaggiandomi le mani intirizzite dal freddo.

Dire che il suo tocco fu piacevole, sarebbe stato un insulto. In quel momento ero molto vicina alla beatitudine.

Fuori, l’acqua continuava a cadere con una violenza spaventosa, neanche avessero aperto tutte le cateratte del cielo giusto per renderci la traversata più divertente.

Annuii, prima di sorridere imbarazzata e dire: “So che ti sembrerà sciocco, ma ti dispiacerebbe voltarti, o almeno chiudere gli occhi? Sai com’è.”

“Nessun problema. So che voi umani avete tabù diversi dai nostri” mi sorrise tranquillo, chiudendo gli occhi e coprendoli con le mani per darmi ulteriore prova della sua buona volontà.

Sollevando un sopracciglio con aria interessata, cominciai a curiosare nello zaino, mormorando pensosa: “E’ per quello che non hai battuto ciglio, quando sono entrata nella cantina e ho visto… beh, insomma,… com’eri?”

Io ero quasi morta d’infarto ma lui, probabilmente, non ci aveva neppure fatto caso.

“Infatti” dichiarò lapidario.

Appunto.

“Siamo creature legate alla natura, e in natura non esistono certi tabù. E poi, obiettivamente, sarebbe anche abbastanza assurdo, per noi, badare a certe cose. Durante la mutazione, i vestiti si distruggono e, quando torniamo umani, difficilmente abbiamo il cambio con noi. Non sapremmo dove tenerlo, durante la fase animale. Alcuni di noi, si portano dietro uno zaino con il necessario, che lasciano nel bosco, così da potersi rivestire una volta di ritorno dal nostro luogo di potere. Di solito si tratta dei membri che abitano più lontano ma, per la stragrande maggioranza, nessuno di noi bada a cose simili” mi spiegò in tutta tranquillità, mentre io trafficavo con la camicia inzuppata e i pantaloni incollati alle gambe.

Era difficile cambiarsi in quello spazio ristretto senza correre il rischio di toccarlo anche accidentalmente.

In tutta onestà, non ero del tutto sicura che sarei stata in grado di contenere i battiti del mio cuore, se ciò fosse accaduto.

Da brava diciannovenne sana di mente e di corpo, trovarmi vicino a un uomo come Duncan sortiva in me una certa gamma di emozioni superficiali.

Queste infide portavano il mio cuore a pompare con più energia del necessario, e nei momenti decisamente più sbagliati.

Ero più che certa che lui percepisse tutte quelle variazioni nel mio corpo con fastidiosa precisione.

Quindi, più fossi stata attenta a non toccarlo, meno possibilità avrei avuto di rendermi ridicola.

Perché non potevo farci nulla.

Duncan era davvero troppo bello per non lasciarmi andare a qualche occhiata più del necessario.

E io non ero un pezzo di legno.

Certo, non ero ai livelli di Nancy che, sicuramente, avrebbe fatto di tutto e di più per infrangere l’armatura da rispettoso cavaliere che Duncan aveva indossato fin da quando ci eravamo trovati in quella situazione.

Non potevo comunque neppure definirmi frigida.

Gli occhi ce li avevo, funzionavano benissimo, e quel che vedevano era davvero degno di nota.

A fatica, riuscii a togliermi i pantaloni, finendo tra l’altro per dare un calcio a un ginocchio di Duncan, che ridacchiò e ironizzò dicendo: “Che fai? Scalci come una puledra?”

“Quasi…” sogghignai. “… scusa.”

“Non preoccuparti… non ti ho neppure sentito” scrollò le spalle.

Mi strofinai in fretta le gambe con una salviettina di spugna, dopodiché infilai i pantaloncini di riserva e imprecai tra me per aver messo degli shorts nello zaino.

In quel momento, un secondo paio di brache da trekking sarebbero state un lusso.

Quando venne il turno della camicia, notai con disgusto che il reggiseno era fradicio e, pur non amando stare senza, non potei fare altro che toglierlo.

Sperai davvero che, nei giorni seguenti, vi fosse abbastanza caldo per farlo asciugare assieme al resto degli abiti.

Indossai in fretta anche la camicia, sbirciando a tratti Duncan che però, come promesso, non aprì gli occhi da bravo gentiluomo quale sembrava essere.

Dopo essermi sistemata le falde nei pantaloncini, ripiegai gli abiti bagnati mettendoli di fianco allo zaino e infine dissi: “Puoi riaprirli.”

Duncan obbedì e mi fissò un po’ sorpreso le gambe e i piedi nudi, prima di chiedermi dubbioso: “Non hai freddo, così?”

“Non ho pensato al diluvio universale, quando ho preparato lo zaino.”

Feci la lingua, cercando di ironizzare sulla situazione in cui ci trovavamo.

“Posso?” mi chiese allora lui, indicando i miei piedi arrossati.

L’aria era decisamente umida e fredda e, pur con il riparo offerto dalla tenda, la temperatura era comunque bassa.

Le mie dita erano già rosse come ciliegie mature. e le unghie stavano prendendo un preoccupante colore violaceo.

Nonostante ciò, mi rattrappii su me stessa, non del tutto sicura di voler approfittare oltre dei suoi servigi e, cauta, domandai: “Che intendi fare?”

“Se me lo permettessi, potrei scaldarli… o scaldarti” mi propose, allargando leggermente le braccia come a mostrarmi che non portava armi di alcun genere.

Già, a parte la sua forza spaventosa e le travi che aveva al posto dei bicipiti.

Mi leccai nervosamente le labbra, desiderosa di scaldarmi e, al tempo stesso, intimidita all’idea di lasciarmi abbracciare nuovamente da lui.

Certo, mi ero lasciata consolare da Duncan quando ero scoppiata in lacrime, ma lì la faccenda era completamente diversa.

Sì, lui aveva detto che il fatto di toccarsi, per i licantropi, era del tutto normale, e sapevo perfettamente che i suoi intenti non erano certo quelli di sedurmi o approfittare di me, però il fatto rimaneva.

Lui era un estraneo, gentile e premuroso fino allo sfinimento, ma un estraneo.

“Permetti ti asciughi almeno i capelli? Non è bene che tu li tenga fradici” mi propose a quel punto, notando la mia riluttanza a lasciarlo fare.

Annuii, timorosa di dire qualcosa che potesse offenderlo – o forse lo avevo già fatto, rifiutandomi di lasciarlo avvicinare.

Senza dire nulla, Duncan si portò dietro di me e prese le ciocche bagnate dei miei capelli tra le mani, lasciando che il suo potere facesse il resto.

Potevo percepire perfettamente il calore emanato dalle sue dita lunghe ed eleganti, stese sui miei capelli per trattenere il maggior quantitativo di ciocche per volta.

Quel tepore benefico, mi portò a chiudere gli occhi per poterlo assaporare con ogni poro della pelle.

Il suo potere avvolgente si estese fino a circondarmi completamente, come se Duncan mi avesse coperto con un mantello di velluto morbidissimo.

Senza neppure accorgermene, mi lasciai scivolare addosso al suo petto ampio e villoso.

Come se quel mio gesto lo avesse sbloccato – come aveva sbloccato me – , le sue braccia mi cinsero delicatamente la vita.

La sua guancia andò a poggiarsi sul mio capo, contribuendo a emanare il maggior quantitativo di calore possibile.

Ogni parte del mio corpo era avvolta dalla sua aura.

Protetta da quel bozzolo di pura energia, mi riscaldai gradatamente le membra intirizzite e, nel contempo, cancellai dalla mia mente l’imbarazzo iniziale causato dalla sua vicinanza.

Non c’era nulla, nelle sue carezze come nel suo potere, che suonasse sbagliato.

Stava semplicemente prendendosi cura di un membro del branco.

Io ero per lui come un membro umano del clan, da accudire con molta più sollecitudine degli altri.

Erano i miei tabù umani a crearmi dei problemi, non quello che stava facendo.

Tolti i tabù, restava solo l’atto altruistico di una persona nei confronti di un’altra, bisognosa di aiuto.

“Grazie” sussurrai a occhi chiusi, dopo alcuni minuti di silenzio.

“Di nulla” mi rispose, risollevando la testa e scostandosi un poco da me. “Ora, però, hai bisogno di pettinarli.”

Ridacchiai nel tastarmi i capelli nuovamente asciutti, ora arruffati e pieni di nodi e, annuendo, mi voltai verso di lui, inginocchiandomi tra le sue gambe ripiegate.

Emanava ancora calore, come se la sua energia non potesse semplicemente essere spenta come pigiando un interruttore.

Fissandolo negli occhi, dissi: “Ti sono grata per quello che fai per me, Fenrir di Matlock.”

Lui si fece serio e, con un cenno ossequioso del capo, replicò: “E’ un onore prendermi cura di te, wicca.”

“Sarà difficile imparare a gestire i miei… poteri?” chiesi dopo un momento, mordendomi un labbro con fare pensieroso.

“La Lupa Madre è saggia e potente. Ti aiuterà. Noi tutti ti aiuteremo” mi promise, prima di propormi: “Hai una spazzola? Te li sistemo io.”

“Lo faresti? Adoro quando mi pettinano i capelli” ridacchiai subito, sedendomi nuovamente tra le sue gambe e offrendogli la chioma disordinata.

“Lo faccio con piacere. Dove la trovo?” mi domandò, prendendo in mano il mio zaino.

“Tasca in basso, quella esterna” lo informai, tutta sorridente. “Senti Duncan…”

“Dimmi” sussurrò, armeggiando con lo zaino.

Un attimo dopo, la sua mano sollevò una ciocca dei miei lunghi capelli e io, socchiudendo gli occhi, mormorai: “Ti prenderesti cura di me anche se non fossi una wicca?”

“Certo” mi disse di getto, senza neppure pensarci. “Perché?”

“Così… volevo solo saperlo” scrollai le spalle, fingendo indifferenza.

In realtà, mi interessava parecchio.

Avevo notato subito con quanta devozione parlasse delle wiccan e, sebbene mi facesse sinistramente piacere il fatto che lui fosse così disponibile con me, allo stesso tempo mi dava fastidio.

Non avevo ancora deciso di controllare i motivi di questo fastidio – al momento avevo ben altro di cui occuparmi – ma sapevo che c’era.

Era lì, acciambellato nella mia mente, un gatto sornione e infido che non aspettava altro che di graffiarmi con i suoi lunghi artigli affilati.

Dovevo solo dargli l’imbeccata giusta per farglielo fare.

Beh, per il momento lo avrei ignorato. Non volevo altri grattacapi oltre quelli che già avevo.


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Capitolo 7
*** VII. ***


7

 

 

 

 

  Un lupo dorato stava ululando alla luna pallida nel cielo, un grido disperato e sopraffatto da una tensione che percepivo in maniera palpabile.

Ogni fibra del suo corpo sembrava tesa in direzione di quella goccia di perlaceo splendore, che scintillava solitaria nel cielo.

Quasi quel rilucente astro nel manto cupo della notte potesse, in qualche modo, porre un termine alla sua ansia.

Attorno a lui, distanti e vicini al tempo stesso, altri lupi.

Stesi a terra su erba fresca e umida di rugiada notturna, attendevano pazienti di potersi unire a quel canto accorato e pieno di speranza e timore.

Un secondo lupo, dal manto corvino, si unì al lupo rossiccio.

A quel punto, tutti eruppero in una sentita preghiera in direzione della luna, che si mescolò al vento e al profumo dei gelsomini.

Mi risvegliai con uno sbadiglio e un profumo di fiori nelle narici, la mente già pronta a dare il buongiorno al mio compagno di viaggio.

Quando, però, mi volsi verso Duncan, mi accorsi subito che qualcosa non andava.

Le sue narici erano dilatate, gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate, come se fosse concentrato su qualcosa di estremamente importante.

I riccioli morbidi gli danzavano attorno al viso apparentemente riposato e fresco, ma la sua espressione mi fece capire che qualcosa lo turbava.

Non appena mi vide sveglia, rilassò impercettibilmente i tratti del viso e, roco, mi chiese: “Cos’hai sognato, Brianna?”

“Eh?” esalai, ancora un po’ confusa. Quella domanda mi spiazzò.

“Pensa a cos’hai sognato, per favore” insisté gentilmente Duncan mettendosi a sedere, le narici ancora dilatate e vibranti.

Lo imitai e, a sorpresa, percepii ancora il profumo di gelsomino nell’aria.

Confusa, gli domandai: “Sono fuori di testa, o c’è profumo di gelsomino?”

“Sei tu a emanarlo, Brianna” mormorò distrattamente lui.

Io sgranai gli occhi a palla per diretta conseguenza e Duncan, accorgendosi subito di quel che aveva appena detto, mi sorrise spiacente.

“Non spaventarti; è uno dei tuoi poteri. Solo, mi chiedevo perché proprio il gelsomino.”

Completamente frastornata, la mente appena desta che già chiedeva requie, esalai scioccata: “Cioè, no… aspetta… cos’è questa storia?!”

Passandosi una mano sul viso con l’aria di essersi pentito amaramente di aver aperto bocca, mi sfiorò subito dopo il viso con dita leggere e calde.

Gentilmente, sussurrò suadente: “I sogni delle wiccan, spesso e volentieri, non sono solo parti incoscienti della mente, ma autentici messaggi.”

“E posso anche emettere… profumo?” ansai, ancora abbastanza turbata.

Fico. Potevo fare dei sogni premonitori in 4D?

Ero da ricovero. Sicuramente.

Lui ridacchiò impacciato, notando la mia espressione ai limiti del panico.

Scivolando con le mani a prendere le mie, fredde come ghiaccioli, iniziò a sfiorarmi i polsi con i pollici in lenti e incantevoli massaggi circolari.

Con parole appena sussurrate, mi spiegò ciò che ancora faticavo a digerire.

“Se è importante, sì. E per me lo è, ma vorrei essere certo di non sbagliarmi. Per questo, ti ho chiesto cos’hai sognato.”

“Lupi” riuscii a dire, deglutendo a fatica.

Il suo massaggio era ipnotizzante, e anche rammentare una cosa semplice come il sogno di cui ero stata protagonista, sembrava un’impresa titanica.

“Cioè, no… licantropi. Mi hai detto che Hati e Sköll hanno manti nero e biondo-rossiccio, per cui erano sicuramente loro. C’erano altri lupi che li circondavano, e stavano ululando alla luna. Il vento si è levato a portar via le loro voci, assieme al profumo di gelsomino… non ricordo altro.”

Mi sorrise allegro, persino eccitato e, stringendomi in un rapido abbraccio stritolante, esclamò: “Grazie, Brianna!”

“E di che?” borbottai, parecchio confusa.

Mi scompigliò gaiamente i capelli prima di dirmi, al settimo cielo: “Ora so che Lance è vivo, e mi attende assieme al branco. Il profumo di gelsomino che hai sentito è quello delle piante che si trovano nel giardino di casa mia.”

Rammentai quello che mi aveva detto sull’incidente, che l’aveva diviso dal suo Hati e dal resto degli altri licantropi.

Pur se ancora un po’ sconvolta da quell’ennesima novità, di cui avrei preferito non sapere assolutamente nulla, fui ugualmente felice di essergli stata utile.

Sorrisi impacciata e dissi la prima cosa che mi venne in mente.

“Hai dei gelsomini?”

Lui annuì, spiegandomi: “Sì, gelsomini e rose. Percorrono tutto il perimetro della casa.”

“Parlamene” gli chiesi.

Avevo bisogno di qualcosa di coerente a cui pensare come le mura di una casa, o il suo giardino, o avrei perso il contatto con la realtà e sarei finita a rosicchiare le sbarre di una cella in un manicomio.

E, di certo, non volevo fare quella misera fine.

“Abito poco fuori Matlock, nel paesino di Farley e, dietro la mia casa, si estende un boschetto di mia proprietà dove si trova il nostro luogo di potere. Tutt’intorno a casa, come ti ho detto, ho dei gelsomini e delle rose, mentre un’alta siepe di pini protegge l’intera proprietà” mi spiegò lui con voce tranquilla, un lieve sorriso accennato sul volto.

Le mani erano tornate attorno ai miei polsi, riprendendo il meraviglioso massaggio che, in precedenza, aveva interrotto per abbracciarmi.

“Di fianco a casa ho una piccola stalla, dove si trovano i box dei cavalli. Ne ho tre.”

“Cavalli?” esalai, un po’ sorpresa.

Duncan annuì e aggiunse: “Sono un veterinario, e quei cavalli li ho salvati da proprietari non troppo zelanti. Sai cavalcare?”

“Sì. Con la sella all’americana, però” annuii.

“Ho anche quella” mi sorrise maggiormente lui. “Vedrai, ti piaceranno.”

“Gli animali non sentono che sei un predatore?” domandai, vagamente confusa.

“Sanno che qualcosa non va ma, proprio grazie alle mie doti particolari, sono in grado di curarli meglio di un veterinario umano” mi spiegò con calma Duncan. “E’ comunque un caso anomalo, in effetti.”

“Puoi sicuramente capirli meglio di un umano, anche se dici che è anomalo” dichiarai, divertita mio malgrado.

Se lui si credeva anomalo, io potevo stare tranquilla.

“Ma toglimi una curiosità. Come fai a salvare i gelsomini? Non sono piante molto adatte al nostro clima.”

“Lo so. In inverno, le copro accuratamente con alcune serre posticce, così che non debbano sopportarne i gelidi rigori di quella stagione. Inoltre, una siepe di pini ripara la casa dai venti freddi provenienti da nord, per cui il giardino è adeguatamente riparato” mi spiegò, continuando nel suo massaggio rilassante.

“Mi piace il loro profumo” sussurrai quasi tra me, rammentando l’aroma che avevo percepito al mio risveglio.

Lui si limitò a sorridere nel sentirmelo dire.

Dopo aver preso un grosso respiro – cercando, nel contempo, di non sospirare di piacere a causa del massaggio ai polsi sempre più delicato - lo fissai negli occhi e mormorai: “Quindi, quello che sogno ha sempre un significato?”

“Non sempre… ma alcune volte, sì” asserì, prima di sospirare e aggiungere: “Mi spiace. Vorrei recuperare più in fretta le forze, e portarti dalla nostra Lupa Madre per permetterti di comprendere meglio la situazione. Io posso esserti di così poco aiuto.”

“Ma mi sei di aiuto!” precisai subito, sgranando gli occhi e staccandomi dalle sue mani per stringergli le braccia, così da dar maggiore peso al mio dire.

“Se tu non fossi qui a spiegarmi tutte le follie che mi stanno capitando in queste ore, sarei già impazzita da tempo” aggiunsi con ancor maggior fervore.

“Se io non fossi qui…” replicò lui, torvo. “…tu non avresti mai saputo del tuo dono. I poteri delle wiccan si destano – e diventano attivi – solo se esse si trovano nelle vicinanze di un licantropo, diversamente restano sopiti, anche per tutta la vita. Per questo, non hai mai provato nulla di tutto ciò.”

“Oh, capisco. Quindi, se io non ti avessi mai incontrato…” esalai, lasciando lentamente la presa dalla sua pelle morbida e fresca.

“Esatto. E me ne dispiace” sospirò Duncan, reclinando  un poco il capo.

“Perché?” esalai, turbata.

“Non fraintendermi. Io sono felice di averti conosciuta, e non solo perché mi hai salvato la vita. Per noi licantropi, le wiccan sono importantissime, e il fatto di incontrarne una è per noi fonte di estrema gioia…” mi spiegò con un sorriso triste. “… ma mi rendo perfettamente conto che, con il mio comportamento egoista, ti ho messo in un mare di guai.”

“Beh, se per egoista intendi l’esserti salvato la pelle e avermi trascinato via da un potenziale pericolo, ti permetto di essere ancora più egoista di così” ironizzai, facendolo ridere.

Subito dopo, tornai seria e aggiunsi: “Ammetto che la situazione non è idilliaca, e queste continue novità non mi aiutano ad affrontare come vorrei questo casino, ma credo di potercela fare… se tu mi aiuterai.”

“Su questo puoi contare” mi promise lui.

“Allora, siamo a cavallo” sorrisi. “Solo, una cosa…”

“Cioè?”

“Murati la bocca, appena sveglio, così eviterai di farmi morire di paura” gli consigliai.

A quel punto, Duncan scoppiò in una calda risata di gola che mi confortò.

Il momento di panico era venuto e passato. E sperai davvero di non subire un altro risveglio così traumatico …almeno per i prossimi vent’anni.

Non che ci contassi molto, però.

***

La pioggia del giorno precedente aveva lasciato segni importanti nel sottobosco.

Piccoli avvallamenti si erano formati nelle zone più friabili del terreno, rendendo tutto estremamente scivoloso e sdrucciolevole.

Dopo aver fissato spiacente i piedi di Duncan, immersi nel fango misto a fogliame, accennai un sorriso e mugugnai: “Sicuro che non ti buscherai un raffreddore, così?”

“Tendenzialmente, non ci ammaliamo, Brianna. Il raffreddore potrebbe venirmi se avessi sangue meno puro nelle vene, ma non è il mio caso. E poi, i fanghi fanno bene alla pelle” ironizzò, scrollando la tenda prima di infilarla nel suo sacco di tela e buttarsela su una spalla. “Andiamo pure.”

“D’accordo. In che direzione?” domandai, guardandomi intorno.

“Debbo controllare una cosa, e mi serve un centro abitato, per farlo. Conosci qualche posto, qui vicino?” mi spiegò, cominciando a camminare in quella confusione di fango, sassi e foglie schiacciate che era diventato il sottobosco.

“Non dovremmo essere troppo distanti da Drumclog, secondo me. Dista circa una dozzina di miglia da Eaglesham, il paesino che abbiamo attraversato per raggiungere i bacini di contenimento. Secondo me, a piedi, dobbiamo aver percorso più o meno metà della strada” gli spiegai, meditabonda.

“Bene, dirigiamoci lì, allora. Sai dov’è, di preciso?” mi domandò, annusando l’aria con fare distratto.

“E’ leggermente a sud-est rispetto a Eaglesham… ti basta?” esalai, speranzosa.

“Mi basta. Il resto, lo affiderò al naso. Il fetore dei gas di scarico delle auto mi sarà d’aiuto” sogghignò, ammiccando.

“Oh, bene… lavora, lavora di naso, allora” annuii, ricevendo per diretta conseguenza un’occhiataccia da parte sua.

Ridacchiai e mi accodai a lui, cercando di seguire le sue tracce per non affondare più del necessario nel terreno fangoso e accidentato.

L’aria era tremendamente umida, e i profumi del bosco più intensi del solito.

Il sentore della terra, colma di vita, si fondeva con quello delle foglie secche e del materiale organico in decomposizione.

Tutto sembrava più vivido, quella mattina, grazie alla pioggia caduta.

 Pur disprezzando il fango, apprezzai le tinte accese delle foglie lucide di acqua e i riflessi luminosi della terra baciata dal sole, che scivolava attraverso le fronde degli alberi per giungere fino a noi.

Era in quei momenti, in cui la forza della natura si ritirava placida dopo uno sfogo violento, che riuscivo ad apprezzare ancora di più ciò che mi circondava.

Il fatto che, per poter ammirare quello spettacolo, mi stessi inzuppando in maniera orrenda, poco contava.

Inoltre, osservare gli effetti del ‘lato oscuro’ di Madre Terra mi aiutava a non rimuginare troppo sul perché mi trovassi in un bosco.

Con un licantropo.

Quando raggiungemmo un rio immerso nella boscaglia, rigonfio d’acqua scura e gorgogliante, osservai Duncan muoversi con la sicurezza tipica di un animale.

 Allungandomi una mano, mi aiutò a oltrepassare il torrentello dalle erte rese pericolose dalle piogge.

Elegante e dal passo felpato e leggero, non fece alcun caso al terreno fangoso e scivoloso, conducendomi sulla sponda opposta senza mai rischiare di perdere l’equilibrio.

I suoi muscoli possenti si muovevano con grazia ferina, gonfiandosi e distendendosi a ogni passo.

Nulla sembrava disturbare il suo incedere flessuoso e, per un momento, lo invidiai.

Anche se uomo, conservava innata l’eleganza maestosa e sopraffina della bestia che era acciambellata nel suo animo, pronta al primo invito per balzare fuori dal suo guscio di carne e mostrarsi al mondo.

“Toglimi una curiosità…” esordii, scavalcando un masso adunco e cercando di non pensare più al modo fin troppo sensuale in cui si muoveva.

Lui ridacchiò e, nel voltarsi a mezzo, domandò ironico: “Cos’ha escogitato la tua mente vulcanica, stamattina?”

Gli feci la linguaccia ed esposi il mio quesito.

“Mi chiedevo se non sarebbe stato più facile parlare del vostro segreto al mondo, e chiedere collaborazione contro i Cacciatori.”

Rise con ferocia, sorprendendomi.

“Oh, c’è chi ci ha pensato, a suo tempo, ma siamo onesti, Brianna. Pensi che non si sarebbero coalizzati contro di noi? Ci avrebbero fatti diventare delle cavie da laboratorio, invece di ammazzarci senza troppo ritegno. Non sarebbe stata una gran soluzione.”

“Ma la Convenzione di Ginevra…” cominciai col dire, prima di interrompermi da sola. “… non vi riterrebbero degli esseri umani, e perciò non sareste protetti, giusto? Perché aiutare voi che, come hai detto tu, siete in cima alla catena alimentare? I Cacciatori, invece, conoscono parte dei vostri segreti, e potrebbero essere loro utili per catturarvi e studiarvi. Sì, ha più senso.”

“Non ci teniamo a finire su un tavolo da laboratorio. Preferiamo combattere le nostre guerre private in santa pace, piuttosto che far intervenire terze persone – per quanto potenti – e rischiare che ci si rivoltino contro. Ricorda, la legge è uguale per tutti solo quando conviene a colui che ha scritto quella legge” brontolò Duncan.

“Già, meglio togliersi da soli le castagne dal fuoco” ammisi a bassa voce, ridacchiando nervosamente.

Lui annuì, scuro in volto.

“I Cacciatori ci considerano dei portatori di sventura, oltre che degli esseri indegni di vivere. Se finissimo sulla bocca di tutti, non passerebbe molto tempo prima di veder comparire le gogne nelle piazze, o peggio. Ricordati che l’uomo ha sempre avuto paura di ciò che non conosce, e in particolar modo di noi.”

Rabbrividii leggermente a quelle parole e lui, volgendosi a mezzo per guardarmi, mi chiese: “Sai cosa dice la leggenda?”

“Non ricordo tutto. A che ti riferisci?” replicai, sentendomi un po’ a disagio sotto quello sguardo così carico d’odio e risentimento.

Era evidente quanto, la collaborazione con gli umani, fosse per lui una possibilità talmente assurda da rasentare l’abominio.

Ragnarök. Il Crepuscolo degli Dèi” ringhiò, con un tono più cupo della notte appena passata.

Rabbrividii nuovamente, ma lui proseguì nel suo dire.

“La leggenda narra che Hati e Sköll divoreranno Sol e Mani, che rappresentano rispettivamente il sole e la luna, mentre Fenrir e gli altri dèi oscuri del pantheon norreno attraverseranno il Bifröst per raggiungere l’Asghard e distruggere tutto. I Cacciatori ci braccano da secoli, per evitare tutto ciò. Come se pensassero realmente che le leggende potessero concretizzarsi!”

“Pensano davvero che distruggereste il mondo? Che quel mito ancestrale sia vero?” sussurrai, sconvolta.

“Ne sono assolutamente convinti, come sono convinti che la nostra stessa esistenza sia come una peste nera giunta sulla Terra, e debba essere debellata da loro, gli Eletti. Tra le loro fila si fanno chiamare così,… quei folli” nel dirlo, sogghignò maligno.

Rimase in silenzio per alcuni attimi, scostando un ramo basso perché passassi oltre, prima di continuare.

“Quello di cui non hanno mai tenuto conto, però, è che il finale di quella stupida storia creata dall’uomo sarà differente. Noi ci riapproprieremo della Terra, non la distruggeremo, è un po’ diverso. L’uomo è destinato all’autodistruzione. Noi non faremo altro che raccogliere i cocci della loro stupidità per ricostruire un mondo più sano” nel dirlo, sbuffò infastidito.

Beh, effettivamente, non era difficile credere a questo.

L’uomo si stava davvero impegnando con tutte le sue forze per distruggere quello che, Madre Natura, aveva messo a sua disposizione per sopravvivere.

Non faceva specie che Duncan pensasse che, alla fine, i licantropi sarebbero tornati a dominare sulla Terra.

Da quel poco che avevo compreso, loro erano un tantino più rispettosi nei confronti delle leggi del Creato.

Non ritenevo comunque possibile che si potesse sperare nella fine del mondo. E glielo dissi.

Lui si fermò per guardarmi, gli occhi inondati da una tristezza palpabile e, afferrandomi per le spalle, esclamò con enfasi: “Non desidereresti anche tu che tutto questo avesse una fine? Non vorresti la foresta libera dal giogo degli umani? Non agogneresti a un mondo in cui tutto è in equilibrio?”

“Sì, ma…” tentennai, indecisa su cosa dire. “… ma non desidero la morte di nessuno.”

Duncan sospirò, passandosi una mano tra le onde di riccioli scuri e, con aria affranta, asserì: “Non credermi un insensibile, Brianna. So cosa intendi, e neppure io desidero la morte degli umani. Ci sono persone buone anche tra di loro. Molte. Ma sono loro stessi la causa del declino a cui ci stiamo avvicinando. Non saremo noi a condurli al baratro, come invece i Cacciatori temono – e hanno sempre temuto – fin dai tempi in cui il mito venne creato dalle menti timorose degli uomini. Ci stanno andando da soli, con le loro gambe.”

“Lo so” sussurrai mogia. “Ma non mi piace sentirti parlare della fine del mondo con così tanta rabbia.”

“Ho le mie ragioni, Brianna” mormorò, diventando una maschera di pietra.

Il suo potere mi sfrigolò addosso come lame di ghiaccio e io, rabbrividendo, arretrai di un passo, chiedendomi cosa gli fosse capitato per portarlo a covare un simile livore in corpo.

Certo, i Cacciatori lo avevano quasi ucciso, ma sembrava una rabbia più profonda, la sua, con radici antiche.

Subito, il vento gelido smise di martellare la mia pelle e Duncan, reclinando il capo, disse contrito: “Perdonami. Tu non c’entri con quello che mi angustia.”

“Ma potrei aiutarti a sopportarlo” replicai, riavvicinandomi per prendergli una mano con forza.

Lui fissò per un momento le nostre mani giunte, prima di sorridere mesto.

“Nulla può risolvere il mio problema, ma ti ringrazio per l’interessamento.”

Continuai a tenergli la mano e, accennando un sorriso, gli proposi: “Potrò aiutarti a cambiare idea sugli umani?”

“Non penso male di voi, Brianna, te l’ho detto. Leggo soltanto i segni, e non sono belli, credimi.”

Sorrise tristemente, prima di aggiungere: “Proseguiamo. Voglio scoprire al più presto come stanno le cose.”

“Riguardo a me?” gli chiesi, proseguendo al suo fianco e tenendogli la mano. Lui me lo lasciò fare.

Era poco, ma forse sarebbe bastato a ridargli un minimo di buonumore.

Annuì, e mi spiegò: “Vorrei capire fino a che punto si sono spinte le ricerche della polizia e, ascoltando i dialoghi delle persone di paese, dovrei riuscire a captare qualcosa di interessante.”

“La mia brava parabola satellitare” ridacchiai, ammiccando maliziosa.

Ghignando, lui mi fissò per un momento, prima di chiedermi: “Mi chiedo come tu sia sopravvissuta fino a ora. Non hai mai trovato nessuno che desiderasse farti la pelle per la tua faccia tosta?”

Mi allargai in un sorrisone tutto denti e replicai: “Forse, ma poi mi comportavo in maniera così adorabile da far cadere tutti ai miei piedi.”

“Non stento a crederlo” ammiccò, tornando a guardare dinanzi a sé e spiazzandomi con le sue parole.

Che cosa aveva voluto dire?

***

Drumclog non era altro che un piccolo agglomerato di case, niente più di un puntolino infinitesimale su una cartina ma, per i nostri scopi, fu più che sufficiente.

La notte mascherava le nostre forme, confondendoci con tutto ciò che ci circondava.

Seguendo la sagoma scura del licantropo dinanzi a me, mi accostai guardinga alle case di periferia assieme a lui, sperando che Duncan potesse usare i suoi poteri per scoprire qualcosa.

Accucciatami dietro una bassa siepe di bosso assieme a Duncan, attesi con impazienza che dalla sua bocca uscisse qualche notizia, qualsiasi genere di notizia.

Quando Duncan, infine, mi fece segno di allontanarmi dalla casa a cui ci eravamo avvicinati, erano passati non meno di dieci minuti.

Obbediente, indietreggiai gatton gattoni fino a perdermi nell’oscurità della notte, favorita anche dal cielo coperto di nuvole scuri, pronte a scaricarci addosso altra pioggia fredda e indesiderata.

Un attimo dopo mi raggiunse e, con una smorfia, mormorò: “Sembra proprio che abbiano sguinzagliato la polizia di tutta l’isola. Ne parlavano al telegiornale, poco fa.”

“Ottimo… Mary B avrà chiamato suo cugino Angus” sbuffai infastidita, prima di spiegarmi meglio. “E’ un poliziotto. Immaginavo si sarebbe mossa ma, a quanto pare, ha superato se stessa.”

“Direi di sì” annuì pensieroso, guardandosi intorno e notando, sicuramente, molti più particolari di quanti non ne vedessi io.

Lo osservai scandagliare le sagome scure delle case per alcuni minuti, forse in cerca di segnali sonori a me sconosciuti quando, all’improvviso, sogghignò.

Si alzò in piedi e, intimandomi di restare ferma, se ne andò via correndo con leggerezza sull’erba, agile come una gazzella e altrettanto aggraziato.

Quel paragone mentale mi fece sghignazzare – sì, una gazzella mannara – e, tappandomi la bocca con entrambe le mani, cercai di darmi un contegno per non esplodere in una risata fragorosa.

Avrei attirato fin troppa attenzione, nel silenzio di tomba che regnava nella campagna.

Duncan fu di ritorno in un minuto e, trascinandomi via in silenzio, mi fissò curioso, forse domandandosi perché tenessi le mani premute sulla bocca.

Meglio non dirglielo. Decisamente meglio.

Quando raggiungemmo un lungo filare di piante, che fungeva da spartiacque naturale tra la campagna e il corso di un torrente, ci nascondemmo dietro quel riparo improvvisato.

Lì, con un sorrisino dipinto sul volto, Duncan mi offrì un foglio.

“Mary Beth ha sicuramente sguinzagliato ben più della polizia, pur di ritrovarti.”

Accesa una piccola torcia, fissai a occhi sgranati la mia faccia in bianco e nero, stampigliata sul foglio che Duncan mi aveva appena consegnato.

Era la foto dell’ultimo Capodanno passato con Mary B e famiglia.

Mi ero fatta i boccoli, quella sera, e avevo indossato un dolcevita bianco a trama larga e una lunga gonna dello stesso colore, con eleganti stivaletti neri di pelle ai piedi.

Alle orecchie, avevo messo i pendenti dono dalla nonna mentre al collo, ben evidente sul maglione, splendeva il ciondolo a forma di mezzaluna della mamma.

In quella foto, i miei occhi avevano fissato con chiara ironia quelli del fotografo; Mary B.

“Molto elegante” mi disse Duncan, accennando un sorrisino.

Di sicuro, più di quanto non fossi in quel momento.

Sporca com’ero di terra, con le foglie attaccate agli scarponi e i polpacci e coi capelli in disordine, non dovevo apparire certo al meglio.

Mossi imbarazzata una mano per sistemare una ciocca di capelli, prima di spiegargli: “Era la festa di Capodanno.”

“Occhi nocciola?” lesse Duncan, scorrendo con lo sguardo la didascalia sotto la foto.

“Già. Sulla carta d’identità, sono registrati così. Non esiste il color ambra” gli spiegai distrattamente.

La mia attenzione era tutta incentrata sulla specie di guazzabuglio che avevo in testa e, da quel che sentivo, potevo sembrare senza problemi la Medusa del mito greco.

Che disastro.

“Ci può essere d’aiuto…” ammise Duncan, prima di notare i movimenti secchi della mia mano e bloccarla. “… non preoccuparti, Brianna. Nessuno pretende che tu sia perfetta, in questa situazione. Avremo tempo di andare anche dalla parrucchiera, vedrai. Ho un’amica che farà quel che vorrai.”

“Avrò bisogno di un trattamento completo, temo” ridacchiai, pur sentendomi tremendamente imbarazzata.

“Lo avrai. Non ti farò mancare nulla” mi promise.

Lo ringraziai e tornai a guardare il foglio.

Dio, Mary B aveva davvero messo in campo tutta la sua inventiva.

Forse, aveva addirittura sguinzagliato l’aeronautica, pur di tirarmi fuori dal buco nero in cui mi ero ficcata da sola.

Un caccia della RAF decise di fare il suo intervento rumoroso proprio in quel momento, sfrecciando nel cielo notturno come un angelo vendicatore e procurandomi un mezzo infarto per la paura.

Maledetto lui!

Duncan ne seguì la scia notturna per alcuni attimi, fissandomi poi con sguardo divertito.

“Beh, che c’è?”

“Niente. Stavo pensando a chi potesse avere coinvolto Mary B nella sua caccia personale, quando quell’affare maledetto è spuntato dal nulla… beh, mi ha terrorizzato a morte” sbuffai, accartocciando il foglio e infilandomelo in tasca.

Ridendo piano, Duncan replicò: “Non credo sia arrivata a tanto, ma non temere. Non appena saremo a Matlock, farò un paio di telefonate. Abbiamo parecchi licantropi, nella polizia, e sarà facile depistare le indagini.”

“Ottimo” brontolai.

Duncan tornò serio, a quel mio commento piuttosto acido, e mi chiese turbato: “Brianna, che ti succede?”

Sospirai esasperata e sbottai.

“Niente, Duncan, tu non c’entri nulla. Sono solo paturnie da donna. Penso solo a quante persone siano rimaste coinvolte in questo casino, ecco tutto.”

“Non è colpa tua ma, se vogliamo saltarne fuori interi, dobbiamo accettare qualche disagio.”

“Non lo metto in dubbio, ma…” sospirai nuovamente e mugugnai: “… questo cambierà la mia vita per sempre, vero?”

“Solo se tu lo vuoi. Nessuno ti obbliga a fare nulla, men che meno io. Ma di certo, d’ora in poi, dovrai stare allerta” mi predisse, accigliandosi leggermente.

“Lo immaginavo… e io che speravo di andarmene a Londra a studiare medicina come una qualsiasi altra ragazza” sbuffai, sedendomi a terra con fare scocciato. “Sai che avevo già anche trovato un appartamentino e dato una caparra per i primi tre mesi?!”

Mi fissò spiacente, prima di dire: “Vorrei assicurarti che potrai andare a Londra senza problemi, perché questo guaio si risolverà in fretta, ma temo che sarebbe una clamorosa bugia.”

“E io posso sentire le tue menzogne meglio di un radar… che sfortuna colossale” brontolai sconsolata, coprendomi il viso con le mani e portandomelo alle ginocchia.

“Vuoi che monti la tenda? Ti vuoi riposare?” mi chiese premuroso.

“Vorrei soltanto che il mondo andasse per il verso giusto, per una volta” mugugnai incavolata, pur sapendo di essere sciocca ed egoista, a dirlo.

Duncan era del tutto incolpevole, non aveva senso sfogare il mio risentimento contro di lui.

Io mi ero voluta sobbarcare quell’impegno, io l’avevo tirato fuori dalla cantina, io l’avevo seguito.

Non potevo incolpare che me stessa, se ora mi sentivo così giù di morale.

Lui non mi disse niente, limitandosi ad aprire la tenda su uno spiazzo erboso nelle vicinanze del torrente, che serpeggiava a poca distanza da noi.

Con gentilezza, mi tolse lo zaino dalle spalle e vi frugò dentro per estrarre il necessario per la cena.

Io me ne ristetti seduta su un masso per tutto il tempo in religioso e uggioso silenzio, osservandolo muoversi con la scioltezza di chi è abituato a cavarsela da solo.

Non mi aveva mai parlato della sua famiglia.

Forse, i genitori non vivevano con lui. O, forse, erano in rotta. Chissà.

Imbronciata, e ben decisa a non cambiare quello stato di cose, fissai la fiamma azzurrognola prodotta dal fornellino da campo desiderando, per un momento, di essere in tutt’altro posto fuorché lì.

Che mi aveva detto, il cervello, la mattina in cui ero sgattaiolata fuori dalla mia stanza? Era fuori uso, per caso?

Avevo temuto fin dall’inizio che, prima o poi, la grandezza disumana della situazione in cui mi ero cacciata, mi sarebbe crollata addosso con tutto il suo peso titanico.

Non avrei mai pensato, però, di non riuscire a sopportarla.

Da brava idiota, avevo creduto di essere abbastanza forte per sopportare tutto stoicamente.

Ora che sbattevo il naso contro la cruda realtà dei fatti, invece, mi rendevo conto di non essere in grado di affrontare la cosa.

Centinaia di persone erano in pena per me e mi cercavano per mezza Inghilterra, convinti che fossi in pericolo, o chissà che.

Gordon e Mary B sicuramente erano in ansia, mentre Patrick e la sua cricca stavano certamente portando avanti le loro ricerche in separata sede.

Erano anche loro ansiosi di trovarmi, ma per tutt’altro motivo.

Loro erano gli unici a non essere preoccupati per la sottoscritta. Tutt’altro.

Come se ciò non fosse bastato, stavo forse dicendo addio al mio futuro, imprigionata in quella situazione caotica di cui non vedevo una fine.

Inoltre, cigliegina sulla torta, stavo per mettere in subbuglio un’intera comunità con il mio arrivo a sorpresa.

Insomma, con una sola mossa, avevo scompaginato il gigantesco scacchiere della mia vita, dove miriadi di pezzi ora erano sparpagliati ogni dove, senza nessuno a governarli.

Lacrime amare scesero sulle mie gote rosse di rabbia e Duncan, scorgendole, corse subito al mio fianco, sussurrando ansioso: “Tutto bene?”

“Ho fatto un casino” singhiozzai, portandomi le mani al viso per nascondermi al suo sguardo preoccupato.

“No! Hai salvato una persona dalla morte. Mi sembra un buon motivo per essere felici, ti pare?” replicò, scostando le mie mani intirizzite per asciugarmi le lacrime con le sue dita ruvide.

“Già, e ho aperto un vaso di Pandora gigantesco” sbuffai contrariata, cercando di allontanare le sue mani dal mio volto.

“Sì, forse… ma non devi recuperare i mali del mondo da sola. E non ti sognare nemmeno di sentirti in colpa per questo!” sentenziò lapidario.

Con un movimento veloce dei polsi, schivò la mia presa per tornare a posare le mani sul mio viso dopodiché, avvicinandosi a me, mi fissò a meno di un centimetro dal mio naso.

“Il fato compie le sue scelte. Il tuo era quello di salvarmi, il mio è quello di aiutarti. Prima lo accetterai, prima smetterai di angustiarti.”

“Non sono abituata a farmi aiutare, né a dare tante preoccupazioni agli altri” ammisi, cercando di non singhiozzare o, peggio, di mettermi a urlare.

Mamma e papà ci avevano sempre insegnato a non aspettare la cavalleria, a usare le nostre sole forze per non dipendere dagli altri.

Non avevamo mai pianto per un ginocchio sbucciato o per una febbre alta.

Non perché avessimo paura di mostrare le nostre debolezze, ma perché avevamo sempre confidato nelle nostre capacità.

La fiducia in noi stessi, e nei nostri mezzi, era la lezione più importante che i nostri genitori ci avessero lasciato in eredità, ma ora sapevo che essa non sarebbe bastata a tirarmi fuori dai guai.

O dalla depressione che sentivo sulle spalle.

Mi serviva aiuto, ma non sapevo come chiederlo.

Fino a quel momento, mi ero fidata di lui come guida per i boschi o come spalla su cui piangere in un momento di panico, ma non avevo mai realmente chiesto aiuto per qualcosa.

Forse, era giunto il momento di farlo, ma non sapevo da che parte cominciare.

Lui venne incontro al mio bisogno di aiuto, mormorando con un mezzo sorriso: “Orgogliosa e testarda ragazzina, quando capirai che devi solo aprire la tua boccuccia e dirmi quello che vuoi?”

Ridacchiai nervosamente, lasciando andare fuori dal mio corpo un po’ dell’ansia che tenevo dentro.

Più tranquillo, Duncan aggiunse: “Nessuno potrebbe mettere in dubbio la tua forza d’animo e le tue capacità di adattamento, Brianna, ma anche l’umano più forte di questa terra ha bisogno di aiuto.”

“Anche un licantropo, può aver bisogno di aiuto?” chiesi allora, la voce un po’ arrochita dal pianto che covava dietro le mie parole.

“Anche un licantropo” annuì. “E se io ho chiesto aiuto a te, Brianna, tu puoi chiedere aiuto a me, per qualsiasi cosa.”

“Anche se ti sembrerò una sciocca?” mugugnai in risposta, arrossendo al pensiero di quel che volevo da lui  in quel momento.

“Non potresti mai sembrarmi sciocca” precisò, aprendosi in un sorriso.

“Allora… potresti… abbracciarmi?”

L’ultima parola la sussurrai, tanto mi vergognavo di aver bisogno di un appoggio morale cui aggrapparmi.

Lui non mi rispose neppure, limitandosi a stringermi a sé e massaggiarmi la schiena con lenti passaggi delle ampie mani.

“Tutto qui? Avevi paura di chiedermi un abbraccio?” mi irrise benevolo.

“Mi sento un’idiota. Di solito, non ho bisogno di queste smancerie, eppure, adesso…” mugugnai, apprezzando la duplice carezza delle sue mani e del suo potere. “… mi è piaciuto, l’altra notte, quando ti sei preso cura di me, e ….”

“… e volevi sentirti protetta un’altra volta. Non c’è nulla di male, specialmente visto quello che stai passando in questo momento” asserì lui, continuando il suo massaggio. “Non è sbagliato chiedere protezione, e non vuol dire essere deboli, Brianna, ricordalo.”

“Ma è da bambini” brontolai, pur apprezzando il fatto di trovarmi tra le sue braccia.

“Affatto. Mi rinfranca averti vicina. Fare questo viaggio da solo mi avrebbe angustiato parecchio, credimi” replicò Duncan, scostandosi un momento per guardarmi negli occhi e dare maggiore enfasi alle sue parole.

Pur sapendo che diceva la verità, leggerla nei suoi occhi mi confortò molto più del suo dire.

Un poco più tranquilla, riuscii a chiedergli: “Quindi, non mi giudichi una poppante, vero?”

“Hai così tanta paura che io ti giudichi tale. Perché?” mi domandò, più che curioso di conoscere la mia risposta.

“Perché tu sei tanto più grande di me che ho pensato…” brontolai, indecisa su cosa dire.

“Ho ventotto anni, Brianna, non ottanta. E tu ne hai…”

“Diciannove. Ne farò venti il due gennaio.”

“Bene… non c’è poi così tanta differenza… pensavi che ti giudicassi piccola?” sogghignò, ammiccando comicamente.

“A volte, gli adulti lo fanno.” Feci la lingua. “Ci sottovalutano.”

“Io non lo farò… mai” mi promise, tornando ad abbracciarmi. “E poi, non credere di essere l’unica a volere conforto. Piace anche a me, quando ti prendi cura del sottoscritto, anche se faccio la parte dell’offeso.”

Ridacchiai, l’animo un poco più leggero.

“Voi uomini amate offendervi, quando le donne cercano di evitare che vi facciate del male con le vostre mani.”

“Verissimo” annuì.

Il profumo del minestrone raggiunse le mie nari, facendo contrarre il mio stomaco per la fame.

Sentendolo brontolare, mi ritrovai a ridacchiare contro la spalla di Duncan che, ironico, dichiarò: “Il generale chiama.”

“Sì… sarà meglio sfamarlo” assentii, scostandomi da lui prima di asserire con sicurezza: “Vada come vada… raccoglierò quello che ho seminato.”

“E io sono sicuro che sarà un grande raccolto” mi promise Duncan, aiutandomi ad alzarmi per accompagnarmi al campo.

Lo speravo. Speravo davvero che lui avesse ragione.


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Capitolo 8
*** VIII. ***


8

 

Il viaggio verso sud divenne più difficoltoso, quando il bosco lasciò il posto a vaste e sconfinate distese di terreni coltivati.

Questo ci rese quasi impossibile nasconderci, impedendoci di proseguire la nostra marcia durante il giorno.

Di comune accordo, quindi, variammo la nostra strategia decidendo di procedere solo di notte.

Avremmo sfruttato le carreggiate utilizzate dai contadini, per godere di un tracciato più agevole di quello offerto dai campi a maggese, o ricoperti di grano saraceno pronto per la mietitura.

La luna divenne il sole, per noi e, durante il giorno, increspature nel terreno, ruscelli e piccoli anfratti tra le rocce divennero i nostri nascondigli.

Il ricordo di ciò che mi aveva preoccupato nelle prime ore di quel viaggio venne presto a sparire, sostituito dalla necessità di concentrare tutte le mie forze in quello che stavo facendo.

Gordon, Mary B, Elspeth, Nancy, Maggie, ... tutti vennero messi in secondo piano per lasciare spazio a quel viaggio che, ormai, riempiva ogni attimo della mia giornata.

Mentre la nostra discesa verso Matlock proseguiva, la consapevolezza che qualcosa, dentro di me, fosse mutato per sempre, si fece sempre più forte.

Sapere di essere una wicca non solo mi aveva scombussolato, ma aveva cambiato il mio modo di vedere le cose.

Compresi molti piccoli particolari di me stessa che, in precedenza, mi erano risultati oscuri solo perché non ero stata a conoscenza della mia vera natura.

Mentre percorrevo, spesso senza parlare, quei lunghi tratti di campagna assieme a Duncan, mi chiesi più volte il perché dei silenzi da parte di mia madre e di mia nonna.

Loro, sicuramente, erano state a conoscenza di quest'eredità – bella o brutta, dovevo ancora deciderlo.

Di una cosa, però, ero sicura; il motivo per cui ci eravamo allontanati dall'Inghilterra era dipeso da questo.

Aver saputo cosa aspettarmi, specialmente dopo ciò che era successo, mi sarebbe davvero piaciuto.

Avrei evitato degli inutili mal di testa, oltre ad attacchi di panico del tutto fuori luogo.

Forse, avrei potuto reagire diversamente a quegli eventi davvero fuori dal comune.

Invece, come un bambino appena nato e strappato alle cure della madre, mi ero ritrovata sperduta in una landa sconosciuta, come unica guida una creatura che mai prima di allora avrei immaginato potesse esistere.

Con la sua semplice presenza, Duncan aveva rivoltato la mia vita come un calzino, stravolgendola completamente.

***

La notte era ormai nostra compagna da giorni quando, attraversando le campagne nei pressi della riserva di Glengavel, riemersi dal mio stato di pensieroso silenzio per chiedere a Duncan: "Quando scopristi di essere il futuro Fenrir, come ti sentisti? Eri confuso?"

I suoi tratti si fecero tesi per un momento, prima di tornare a rilassarsi forzatamente.

Sentii vibrare il suo potere sotto pelle, come se i suoi pensieri fossero troppi, e troppo potenti, per essere ammansiti con il semplice autocontrollo e, turbata, me ne chiesi il motivo.

Senza voltarsi, mormorò roco: "Ne avevo paura, anche se immaginavo già da tempo che sarei stato ... beh,... il prescelto."

"E perché?" gli chiesi, forse ingenuamente.

"Provengo da una linea ininterrotta di licantropi dal sangue puro... una cosa estremamente rara, oggigiorno. E' quasi scontato che un Fenrir nasca in una famiglia con un patrimonio genetico simile" si limitò a dire, la voce piana e forzatamente neutra.

Il suo tono conteneva molto di più di quanto non avesse in realtà detto.

La sua postura rigida, e il modo in cui le sue sopracciglia scure si erano arricciate sugli occhi socchiusi, mi spinsero però a tacitare le mie domande per rivolgere i miei interessi altrove.

In lontananza, nella semioscurità di quella placida notte, si intravedevano i riflessi dell'acqua di un lago.

Affiancato Duncan, proseguii in silenzio senza più disturbarlo, i nostri respiri gli unici rumori udibili in quel vasto territorio collinare dai bassi declivi.

Lì, lontani dalla civiltà e da tutto ciò che ricordava la presenza dell'uomo, sembravamo le due uniche creature ancora in vita, anche se sapevo bene che non era così.

La foresta poco lontana brulicava di vita, e i primi agglomerati urbani non erano poi così distanti.

L'apparenza, però, era tutto, in certi casi.

Un fresco venticello spirava da sud, solleticandomi il collo umido di sudore per il lungo camminare.

Me lo tersi con un fazzoletto prima di saltellare qualche passo più avanti rispetto a Duncan che, dal primo giorno di viaggio, aveva recuperato le forze con una velocità quasi disumana.

Guardandolo con un sorriso da sopra una spalla, gli domandai sorniona: "Fai a gara con me a chi arriva prima al lago?"

Lui accennò un sorriso, che però non raggiunse gli occhi ma io, testardamente, lo presi per le mani, insistendo. "Dai... scommetto che ti batto. Sai che sono bravissima, nella corsa?"

"Ti farai male. Non vedi le asperità del terreno come me" brontolò per contro, lasciando che le sue mani dondolassero molli tra le mie.

"Non fare lo scocciatore, Duncan. Voglio solo sgranchirmi le gambe" cercai di ironizzare, scrollando quelle mani inerti.

Non sembrava propenso ad abbandonare la strana apatia che lo aveva avvolto tra le sue spire, dopo la mia apparentemente innocua domanda.

"Non mi va" replicò cocciuto, ritirando le mani con un gesto nervoso.

"E va bene. Me ne starò qui ad annoiarmi a morte con te" sbuffai con eccessiva enfasi, rimettendomi al suo fianco e chiedendomi, silenziosamente, perché fosse diventato così ombroso nell'arco di pochi attimi.

Non erano le donne a essere lunatiche? O forse, i licantropi, in quanto sudditi della luna, ne subivano gli influssi anche dal punto di vista umorale?

Lui mi fissò malissimo per alcuni istanti, istanti in cui pensai seriamente mi avesse letto nel pensiero - e forse era davvero così!

Temetti che mi avrebbe mandata a quel paese quando all'improvviso, con un lampo negli occhi e un sorriso birichino stampato sul volto, mi afferrò proditoriamente per la vita, spaventandomi.

Senza fatica, mi issò su una spalla e si mise a correre sul prato che stavamo percorrendo, ignorando di fatto la sua ferita e il carico che aveva su di sé.

Mi tappai la bocca per non urlare – ormai ero diventata paranoica e trasalivo a qualsiasi rumore, anche solo accennato – e sibilai tra i denti: "Smettila di fare lo scemo! Ti farai male!"

"Eri tu che volevi correre!" ghignò Duncan per contro, accelerando il passo.

Non sembrava minimamente risentire della mia presenza come se, a conti fatti, io non pesassi nulla.

Era fluido come il vento e dalla falcata potente, come un lupo lanciato nella corsa durante la caccia.

Tutto in lui lasciava intravedere la bestia che era sopita sotto la sua pelle di uomo, come se essa non attendesse altro che di uscire allo scoperto.

Raggiungemmo il lago in pochi minuti, quando avremmo impiegato almeno venti minuti, a un'andatura normale.

Sopraffatta dall'ansia per le sue condizioni di salute, esclamai: "Ti prego, basta, Duncan... ho paura per la tua spalla!"

"Sto bene, Brianna, non temere" replicò con candore, sollevando il viso per lanciarmi un breve sorriso.

"E allora perché prima facevi il muso, se ora ti senti così bene?" sbuffai a quel punto, fissandolo bieca.

"Lascia perdere" borbottò, prima di farmi scendere e chiedermi: "Ti va un tuffo nel lago?"

"Neanche morta! L'acqua è gelata!"

Rabbrividii al solo pensiero.

Lui mi lanciò un'occhiata carica di ironia, a cui risposi con una linguaccia.

Senza badare a me, cominciò a slacciarsi i pantaloni della tuta e io, a quel punto, mi voltai a velocità record esalando sconvolta: "Ma che fai?!"

"Mi lavo... e darò una ripassatina anche ai pantaloni, già che ci sono" mi spiegò, come se fosse la cosa più naturale del mondo. "Sono stanco di sentirmi sudicio."

Preferii non appurare di persona quel che stava realmente facendo ma, quando sentii lo sciabordio delle acque del lago, mi fu chiaro che non scherzava affatto.

Gettai un'occhiata timida oltre la spalla e, come guidata da fili invisibili, mi volsi a osservare Duncan immerso nell'acqua fino alla cintola, la pelle scintillante e pallida sotto la luce dello spicchio di luna alto in cielo.

Con un gesto lento delle mani, sfiorò la superficie cupa del lago come se stesse toccando del morbido velluto.

Affondò in acqua un attimo dopo e, con fluidità di movimenti, si mise a nuotare.

Non indossava più la tuta, lasciata a riposare - interamente bagnata - su un masso vicino alla riva.

Sospirai, distogliendo inutilmente lo sguardo per concedergli un po' di privacy.

Non che servisse a molto, comunque.

Ogni centimetro del suo corpo – o quasi – era ben sedimentato nella mia mente, dal giorno in cui lo avevo scorto nel garage di casa.

Il fatto di saperlo nudo nel lago, squisitamente affascinante e misteriosamente intrigante come lui sapeva essere, non mi aiutò di certo a mantenere saldo il controllo sul mio cuore iperattivo.

Sempre a testa bassa e rivolta verso il bosco, lo sentii uscire dalle acque e, tremando di sorpresa, gli sentii dire: "Brianna... vorrei provare a trasformarmi."

Mi morsi un labbro, indecisa su cosa dirgli, indecisa se essere pronta o meno per un simile spettacolo contro natura, indecisa se il mio cuore e la mia testa fossero in grado di resistere anche a quello.

Alla fine, però, annuii e sussurrai: "Prova, se te la senti."

"Brianna..."

"Sì?" alitai, sempre mostrandogli le spalle.

"Vorrei che mi guardassi" mi pregò lui, con voce appena sussurrata.

"E' davvero necessario? Non potremmo rimandare gli esami a un altro giorno?" cercai di ironizzare, sentendo il cuore martellarmi dolorosamente nel petto.

"Più rimando, meno sarai convinta. Lo stress causato da questo viaggio ti sta deteriorando i nervi, non credere che non lo sappia per cui, prima agiamo, meglio sarà per tutti" replicò, con una logica ferrea.

"Ho paura" ammisi a quel punto, in un sussurro.

Il vento spirò nuovamente, portandomi il suo profumo muschiato e umido.

Tremando maggiormente, mi strinsi le braccia al petto e aggiunsi: "Ho paura di non essere capace di..."

"... di guardarmi senza scappare?" finì lui per me.

Annuii, giocherellando nervosamente con le mani, afflitta dalla mia stessa codardia.

Duncan, però, replicò: "Brianna, molti di noi si spaventano, la prima volta che vedono un licantropo mutare. E' una cosa davvero anomala a vedersi. Non credere che mi stupirebbe vederti scappare a gambe levate, ma devi essere preparata a ciò cui stai andando incontro."

"E cioè?" riuscii a chiedere, accucciandomi su una pietra levigata e ricoperta di licheni.

Era fredda come il peccato, ma sarebbe andata bene per sostenermi, visto che le gambe avevano iniziato a tremare come budini molli.

Lui mi si avvicinò e, dopo essersi inginocchiato al mio fianco, posò una mano sul mio ginocchio e sussurrò: "A un mondo popolato di lupi. Non voglio che tu ti spaventi, voglio che tu sia pronta."

"Voglio, voglio... e quello che voglio io non conta?" replicai piccata, ignorando la sua mano sulla mia pelle nuda, lo sguardo testardamente fisso dinanzi a me.

"Certo che conta, ma quello che sto cercando di fare è solo aiutarti. Non si assiste a un'autopsia, come primo esame di medicina, per rendersi conto se si è in grado di vedere un corpo morto e, soprattutto, le sue interiora stese su un tavolo operatorio?" cercò di ironizzare lui.

"Spero tu non voglia sventrarti per far piacere a me!" sbottai, voltandomi di scatto per fissarlo negli occhi.

Se ne stava ancora accucciato vicino a me, e io ero concentrata unicamente sul suo viso, illuminato dai raggi candidi dello spicchio di luna che ci sovrastava.

La sua mano strinse maggiormente il mio ginocchio, nel sussurrarmi: "Voglio... desidero solo che tu mi veda mutare. Se avessi qui con me qualcun altro, sarebbe più facile, ma così non è."

"Quindi, dovrei tirare fuori le unghie, per non dire qualcos'altro, e affrontare la cosa di petto?" esalai con voce tremante.

"Sì."

Solo sì. Non una spiegazione interminabile e sibillina, a tratti machiavellica. Solo sì.

E forse fu la semplicità di quella risposta a darmi il coraggio di accettare la sua offerta.

Annuii e lo vidi sorridere orgoglioso, gli occhi scintillanti e l'aria di chi avrebbe potuto ballare per la gioia, se non si fosse trattato di una persona controllata come Duncan.

Fissai la sua figura allontanarsi di qualche metro da me mentre la sua voce, con tono suadente e calmo, mormorava: "Niente di quello che vedrai mi farà male, Brianna, quindi non essere in ansia per me, d'accordo?"

"Vedrò di non strillare, promesso" promisi, deglutendo mentre lo osservavo poggiare un ginocchio a terra.

La sua nudità, in quel momento, non mi turbò.

Ero troppo sconvolta all'idea di quel che stava per fare, per pensare al gioco dei suoi muscoli sotto la luce della luna. Il che era tutto dire.

Lui accennò un sorriso da sopra la spalla, prima di concentrarsi e chiudere gli occhi.

Un pugno puntato a terra, ripiegò il capo verso il basso nascondendolo in parte dietro la curva muscolosa della spalla e, a quel punto, avvenne l'imprevedibile.

Vidi la sua schiena arcuarsi e le sue costole prendere pieghe impossibili prima di ... sì, prima di spezzarsi con un sonoro crack .

Quel suono mi fece accapponare la pelle, e mi fece portare le mani alla bocca per frenare l'impulso di urlare e lanciarmi su di lui per fermare quell'atrocità.

Altre parti del suo corpo cominciarono quel balletto di ossa e carne mentre i suoi capelli, da neri che erano, divennero bianchi come il latte e presero a ricoprire ogni lembo visibile di pelle.

Un liquido denso fuoriuscì assieme al pelo niveo, come se si fosse trattato di una sorta di olio ammorbidente per la pelle, o di un lubrificante per facilitare la mutazione.

Paralizzata, continuai a osservare le sue membra mutare, allungarsi, prendere connotati totalmente animali, mentre una lunga coda bianca dondolava tra le sue gambe, no, zampe posteriori, come dando il tempo a una danza che io non potevo udire.

Il suo volto perfetto e bellissimo si allungò, si ricoprì di peluria sottile e lucida e, con un movimento sinuoso, Duncan piegò all'indietro il collo ricoperto da una gorgiera quasi argentea alla luce della luna, e ululò.

Quel suono mi fece crollare a terra in ginocchio, gli occhi sempre spalancati e fissi su di lui che, di umano, non conservava più nulla, solo un'intelligenza fuori dal comune negli occhi ambrati.

Quegli occhi ambrati che mi avevano fissata con astio, la prima volta che ci eravamo incontrati.

Gli occhi del lupo continuarono a tenermi avvinghiata a sé mentre, con gesti lenti e calcolati, si sdraiava a terra, dondolando la coda sul terreno soffice che circondava il lago.

Piano, un passo alla volta, si avvicinò a me, standosene acquattato sul terreno, il muso basso e gli occhi sempre fissi su di me, forse timoroso di vedermi fuggire da un momento all'altro.

E non aveva tutti i torti.

Solo i miei arti intorpiditi mi impedirono di scappare a gambe levate.

Eppure, di quegli occhi, io non avevo paura.

Furono loro a impedirmi di scegliere la via più facile e dettata dall'istinto.

Quegli occhi mi dissero che Duncan era ancora lì; sotto quel folto pelo chiaro e quelle sembianze apparentemente selvagge, c'era ancora lui.

La sua fiera e indomita bellezza animale riuscì a scardinare anche l'ultimo brandello di paura e, senza muovermi, lasciai che si avvicinasse a me quel tanto da permettermi di posare una mano sul suo capo.

Tremante, affondai le dita nel suo pelo, solleticando le orecchie candide per poi scendere più in basso e accarezzare la peluria foltissima della gorgiera.

Duncan-lupo restò immobile.

I nostri occhi non si erano mai lasciati, così simili tra loro eppure appartenenti a due razze tanto diverse.

La mano continuò la sua perlustrazione raggiungendo il naso, che risultò umido e freddo sotto le mie dita dubbiose.

Lui lo storse appena, infastidito e io, sorpresa da quel gesto così umano, scoppiai in una bassa e nervosa risata di gola.

Quel suono così assurdo, vista la situazione che stavo vivendo, mi portò a riprendermi dal leggero stordimento in cui ero caduta da quando avevo visto Duncan iniziare la mutazione.

Lentamente quanto inesorabilmente, mi piegai su me stessa per avvolgere il capo del lupo con le mie braccia.

Piangendo senza neppure essermene accorta, poggiai la guancia sul suo muso e sussurrai: "Duncan...oh, Dio, Duncan..."

Lui uggiolò e, come un'ondata di cioccolato liquido e caldo, il suo potere fluì in me con ancora più forza del solito.

Inondò ogni cellula del mio corpo, permettendomi di accettare con più facilità quel che i miei occhi avevano visto, ma la mia mente ancora stentava a credere.

Lentamente, quasi senza farmi notare le sue mosse, spostò il muso per avermi a portata di lingua e, con un unico, umido gesto, mi lasciò sulla faccia il chiaro segno della sua gioia.

A quel punto, risi e lo allontanai da me con un cenno della mano, mentre la sua lingua penzolava in mezzo a fauci che avrebbero dovuto terrorizzarmi a morte ma che, su di lui, erano solo splendide e perfette.

Sempre continuando a ridere, gli scompigliai la gorgiera con le mani, che era ruvida all'esterno, ma morbidissima e calda, vicino al suo corpo vibrante di muscoli.

Duncan-lupo socchiuse gli occhi ambrati ed emise un basso ringhio di gola, portandomi ad ampliare il sorriso ebete che avevo sul viso.

Proseguii nelle carezze, del tutto incurante del fatto che mi trovavo a portata di fauci di quell'enorme predatore, grande come un puledro.

Il suo potere, il suo sguardo, la sua immobilità, tutto parlava per lui, dicendo a chiare lettere quanto poco fosse pericoloso per me.

Neppure se fossi stata ferita e in punto di morte, lui mi avrebbe torto un capello.

Non si sarebbe mai cibato di me. Ero la sua wicca, dopotutto.

Lentamente si alzò, tirandomi in piedi con sé e, quando me lo ritrovai dinanzi in tutta la sua eccezionale altezza, gli carezzai la schiena e dissi: "Più che un pony, sembri un piccolo cavallo."

Lui scrollò la testa e io ridacchiai di nuovo, asciugandomi il viso dalle lacrime e dalla sua saliva, aggiungendo: "Bene, direi di aver... superato l'esame. Non sono morta stecchita per un infarto."

Duncan si abbassò appena e puntò il naso sul mio stomaco, sospingendomi appena e facendomi crollare a terra, dandomi così la riprova che le mie gambe non la pensavano allo stesso modo.

Dopo averlo fatto, snudò le zanne e tremò leggermente, come se stesse sogghignando.

Trovandolo più assurdo di qualsiasi altra cosa avessi mai visto, ghignai in risposta. "D'accordo, non riesco a stare ancora in piedi, ma almeno non sono scappata."

Lui annuì con il muso e tornò a sdraiarsi in terra, poggiando l'enorme testa sulle mie ginocchia e guardandomi con espressione interrogativa.

Lo carezzai meditabonda per diretta conseguenza, e gli chiesi: "Ti stai domandando perché non sono scappata a gambe levate, magari strillando come un'aquila?"

La coda scodinzolò allegra. Era un sì.

Scrollando le spalle, mormorai pensierosa: "I tuoi occhi. Ti vedevo, o meglio, vedevo che eri ancora lì, da qualche parte, mentre il tuo corpo si ricomponeva. Non sono scappata per questo. Eri lì. Eri tu."

Il suo corpo parve quasi sgonfiarsi e i suoi occhi si chiusero rilassati, cosa davvero inusuale per un animale selvatico.

Nessun predatore si sarebbe mai permesso di perdere di vista il proprio campo d'azione, permettendo a chicchessia di prenderlo di sorpresa.

Ma lì non c'erano nemici, e c'ero io a vigilare su di lui.

Nessun altro gesto avrebbe potuto rendermi più onore di quello. S

i fidava così ciecamente di me da permettere al suo corpo di rilassarsi e chiudere addirittura gli occhi, lasciando che fossi io a prendermi cura di lui.

Le mie labbra tremarono e, nuovamente, le lacrime salirono agli occhi, stavolta non per il nervosismo ma per un'emozione più profonda e subdola.

Continuai ad accarezzarlo per minuti interi, mentre la notte ci faceva scudo contro gli sguardi dei curiosi.

Le mie mani percorsero il suo muso e il suo corpo decine e decine di volte mentre una piccola, debole fiammella si accendeva nel mio animo stranamente in pace con se stesso.

***

Procedevo nel fitto bosco, tenendo una mano sulla schiena ampia di Duncan - dopo essermi strenuamente rifiutata di montargli in groppa -, ben decisa a permettergli di riabituarsi alla sua forma animale, e scoprire se il suo fisico fosse in grado di reggere sforzi maggiori.

Era stato difficile capire un lupo mugolante e brontolone ma, alla fine, mi ero chiarita con lui e, dopo essermi caricata sullo zaino i suoi abiti, avevamo ripreso il cammino verso sud.

Se tutto fosse andato come Duncan sperava, da quel momento in poi il viaggio sarebbe stato più veloce e agevole, vista la sua rinnovata capacità di mutare in lupo.

Cinque giorni. Erano passati cinque giorni da quando eravamo fuggiti dalla cantina di Patrick, ed era davvero successo di tutto.

La mia mente aveva fagocitato decine, centinaia di notizie tra le più sconcertanti che mi fossero mai state dette in vita mia, eppure non ero impazzita, il che mi faceva ben sperare per il futuro.

Se avevo resistito a tutte quelle sollecitazioni, ormai più nulla poteva turbarmi.

Ma non avevo osato proferire ad alta voce quella mia convinzione, perché ero sempre più certa che qualcuno fosse in ascolto e non vedesse l'ora di smentirmi.

Non si poteva mai dire, con la iattura.

Duncan-lupo, al mio fianco, sembrava più sereno e tranquillo che mai – forse, il fatto di essere di nuovo in forma animale, lo rendeva felice.

Dopo l'iniziale confusione, non potevo certo dire di trovare la situazione spiacevole.

Averlo al mio fianco in quella forma, in qualche modo, mi tranquillizzava, il che era di per sé una contraddizione in termini, ma era effettivamente ciò che sentivo in quel momento.

Pur sapendo che, come lupo, i suoi istinti animali erano decisamente predominanti sul resto, e io potevo essere vista come carne da macello, non mi sentivo né intimidita, né in pericolo.

Il punto era un altro. Non volevo ammettere con me stessa i motivi di quella tranquillità tanto assurda.

Non volevo neppure aver a che fare con quella risposta che, come una zanzara, mi stava ronzando attorno all'orecchio nella speranza che prima o poi, per la noia di sentirla sussurrare, l'avrei ascoltata con attenzione.

Speranza vana. Ero decisa a ignorarla con tutta me stessa. Quella risposta non aveva davvero capito con chi aveva a che fare.

La lasciai ronzare inutilmente e, con un sorriso, mi dedicai al mio compagno a quattro zampe che, tutto contento, camminava nel bosco come se ogni pensiero negativo si fosse cancellato dalla sua mente.

Non era facile capire le sue espressioni, ma il potere caldo e vibrante che percepivo sulla pelle parlava per lui e diceva a chiare lettere quanto fosse allegro e soddisfatto.

Forse, non era stato convinto fino alla fine del buon esito della mutazione e, solo quando si era ritrovato a poggiare le zampe sul terreno soffice, si era sentito al sicuro dalla sconfitta.

In ogni caso, ero lieta di vederlo così, soprattutto con il ricordo ancora fresco nella mente della sua improvvisa reticenza a parlarmi, avvenuta solo poche ore prima.

Non avevo voluto chiedergli altro, ma era evidente che qualcosa, molti qualcosa per la verità, nel suo passato, lo turbavano più di quanto fosse possibile comprendere, almeno per me, e questo mi preoccupava.

Sentivo di volerlo aiutare, ma c'erano momenti in cui Duncan diventava ermetico come una camera stagna e, quelle volte, era impossibile tirar fuori anche un solo ragno dal buco.

Avrei dovuto attendere un momento più propizio e tornare sull'argomento con più gentilezza e, forse, avrei ottenuto maggiore fortuna.

Forse.

Per il momento, il nostro compito più importante – e l'unico che potessimo svolgere, a dir la verità – era raggiungere Matlock il prima possibile e scoprire a che punto fossero le ricerche della polizia.

Se qualcuno avesse collegato Duncan al branco che lui guidava, portando quindi i Cacciatori troppo vicini al clan, sarebbero stati davvero guai.



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N.d.A: eccomi di ritorno! Pensavo fosse ormai giunto il momento di presentarvi l'altra faccia di Duncan. Spero che la trasformazione sia stata di vostro gradimento :))

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Capitolo 9
*** IX. ***


Guai in vista, per i nostri eroi...:)




9

 

 

 

 

  Ci fermammo all’alba, il chiarore del mattino che inondava il cielo punteggiato di bianche nubi, simili a ciuffi di panna montata.

  L’aria era frizzante, leggermente umida e profumata di terra, muschio e foglie in decomposizione.

Tutt’intorno, gli uccelli cominciarono a cantare allegramente, dando il benvenuto al nuovo giorno, giorno che io avrei passato a sonnecchiare quasi sicuramente.

Dopo la prima notte concessa a Duncan per recuperare confidenza con il suo corpo di lupo, io ero finalmente salita in groppa all’enorme licantropo che avevo come compagno di viaggio.

Per la prima volta nella mia vita, avevo compreso cosa volesse dire correre veloci.

Certo, l’avevo visto correre verso il lago in forma umana, ma la velocità e grazia che aveva toccato erano state nulla, se paragonate alle movenze sinuose della sua forma animale.

Il vento mi aveva schiaffeggiato il viso, mentre un sorriso trionfante si era allargato sul mio volto estasiato.

Sotto di me, i muscoli guizzanti del suo corpo possente avevano danzato con velocità e grazia, scatenando potenza pura.

In un battito di ciglia, ci eravamo lasciati alle spalle miglia e miglia di terreno, schiacciato dalle zampe possenti di Duncan-lupo.

Tenermi stretta alla sua gorgiera, e cercare di non pesargli in modo scorretto, però, aveva esaurito i miei nervi e le mie forze.

Pur non avendo fatto un passo sulle mie gambe, il mio corpo aveva comunque risentito di quella cavalcata prolungata.

Guagagnai perciò con piacere il terrero e, senza attendere oltre, mi guardai intorno per cercare un posto dove far crollare le mie stanche membra.

Mi sedetti di buon grado sotto la chioma a ombrello di una possente quercia secolare, le cui foglie scintillavano come smeraldi sotto i raggi del sole mattutino.

Un lieve venticello, che spirava da una collina vicina, solleticava il mio viso stanco e i piccoli rami adunchi della pianta che mi aveva accordato riparo.

A occhi chiusi, ascoltai la linfa vitale scorrere all’interno dell’enorme tronco della pianta mentre, con fluida leggiadria, raggiungeva le sue protuberanze più lontane.

 

Duncan, in piedi accanto a me, rimase in silenzio, probabilmente osservandomi assorto, mentre io prendevo coscienza di quanto mi circondava.

Era buffo pensare che, fino a quel momento, avevo sempre e solo immaginato, ma mai sperato realmente di scoprire, ciò che ora sapevo della Madre Terra.

Avevo sempre scorto, nei miei sogni, il respiro segreto delle piante, il rimescolio della linfa nei loro corpi maestosi.

Da bambina quale ero stata, avevo spesso desiderato di diventare parte di esse, per poter vivere in armonia con loro.

Ora, comprendevo che quei sogni erano solo le risposte del mio inconscio a ciò che realmente ero.

La me stessa nascosta e tacitata al mondo, sapeva da sempre.

A quel punto, dovevo solo imparare a parlare con il mio Io silenzioso, che non avevo saputo di avere fino a pochi giorni prima.

Riaprii gli occhi scrutando Duncan che, inginocchiandosi dinanzi a me, mormorò: “Sembri pensierosa, ma non infelice.”

“Ascoltavo” dissi semplicemente.

Si era ritrasformato in umano poco prima dell’alba, forse desideroso di non lasciarmi troppo tempo da sola con i miei pensieri errabondi.

Doveva aver ormai compreso che la mia mente, lasciata a se stessa, poteva prendere qualsiasi direzione possibile e questo, forse, l’aveva preoccupato.

Dopo essersi nascosto dietro una pianta, era ricomparso con addosso la sua tuta ormai logora e mi aveva assicurato che ci saremmo fermati entro breve.

Da bravo cavaliere, poi, mi aveva tolto lo zaino dalle spalle e avevamo proseguito fino a raggiungere la quercia dove avevamo trovato riparo e conforto.

Duncan assentì meditabondo, sedendosi al mio fianco sul fogliame secco e, guardandomi curioso, chiese: “Percepisci la quercia?”

“Sì. Da bambina, sognavo di poterlo fare” gli spiegai, appoggiandomi al tronco ricurvo e ruvido della pianta.

“A volte, la nostra mente ci dice le cose giuste senza che noi ce ne accorgiamo… ma, prima o poi, giungiamo alla verità” asserì con voce quieta.

Annuii distrattamente, troppo presa dal lento progredire della linfa attraverso l’albero, che mi sovrastava con la sua imponente maestosità.

La ascoltai scivolare avanti e indietro, attraversando ogni particella della quercia come un fiume lento e inarrestabile.

Cullata dal suo andirivieni progressivo e senza fine, finii con l’addormentarmi senza neppure accorgermene.

Mi risvegliai molto più tardi, stesa all’interno della tenda e con una delle mie camice sotto il capo a farmi da cuscino.

Fuori la tenda, apparentemente impegnato a preparare da mangiare, sentii Duncan muoversi sul fogliame secco.

Alzatami a fatica appoggiandomi su un gomito, domandai con voce impastata: “Che ore sono?”

Lui ridacchiò un attimo prima di dirmi: “Mezzogiorno passato, direi.”

“Dio, ormai ho l’orologio biologico completamente sfasato…” mi lagnai, prima di annusare gli abiti logori e aggiungere disgustata: “… e l’odore di un bagno pubblico.”

Duncan rise a quell’accenno.

Uscita che fui dalla tenda, replicai infastidita: “Tu  il bagno nel lago te lo sei fatto. Io no.”

“Nessuno ti vietava di farlo” ribatté serafico, ammiccando comicamente.

Arrossii per diretta conseguenza, nella mente ancora ben presenti le immagini di ciò che era successo sulle rive del lago.

Spento il fornello, Duncan mi sorrise con maggiore candore, aggiungendo: “Però, posso sempre trovarti un’alternativa, visto che il tuo naso pare lamentarsi alla grande.”

“Il tuo, no?” mugugnai, pur sorridendogli.

“Riesco a distrarmi facilmente, se voglio” scrollò le spalle, facendo l’indifferente.

Poco convinta, tornai ad annusarmi e, lapidaria, dichiarai: “Ho bisogno di lavarmi. Subito.”

***

Se avessi indossato un solo giorno di più i miei abiti, e in quello stato, mi dava sui nervi nella misura tale che avrei potuto uccidere a mani nude la prima creatura vivente che mi fossi trovata davanti.

Nel chiedere a Duncan di trovarmi immediatamente un luogo dove potermi lavare, notai un leggero divertimento sul suo volto.

Come ovvio per lui, tornò a nascondersi subito  dietro la sua consueta maschera di gentile condiscendenza, non appena lo fissai malissimo.

Due settimane senza mai lavarsi avrebbero fatto inacidire persino un santo.

Pregandomi di attendere al nascondiglio che avevamo trovato quel giorno, si allontanò guardingo, mantenendosi su uno dei fianchi del fiume Annan.

Con il sole che declinava verso il primo pomeriggio, io me ne stetti seduta su un masso a braccia intrecciate e gambe accavallate, in attesa.

Un piede ballonzolava nervosamente avanti e indietro per l’ansia.

Impiegò quasi tre quarti d’ora per rientrare al campo base e, quando vidi un sorriso stampato a caratteri cubitali sul suo viso, mi rizzai in piedi con allegria ed esclamai: “Ebbene? L’hai trovato?”

“Un angolino di paradiso per la mia compagna di viaggio” annuì soddisfatto. “E’ una piccola ansa dell’Annan… ha formato un gomito poco più avanti, rispetto a dove siamo ora, nascosto alla vista dei curiosi grazie a una distesa quasi interminabile di giovani carpini. Perfetta per i tuoi scopi.”

“Grazie, grazie, grazie!” esclamai, prima di prenderlo per mano e urlare: “Accompagnami là, forza!”

Duncan rise, di fronte al mio entusiasmo, ma non seppi contenermi in alcun modo.

Non vedevo l’ora di togliermi quegli abiti puzzolenti di dosso, e di eliminare più che potevo quello strato di sudiciume che sentivo addosso come una coperta appiccicosa.

Acconsentendo di buon grado ad accompagnarmi nel luogo da lui scoperto, Duncan mi aiutò ad attraversare i punti più pericolosi.

Scivolosi massi grigiastri e ricoperti di viscidume rischiarono di farmi rovinare a terra ma, dopo poco meno di mezz’ora di cammino, mi ritrovai a fissare un perfetto angolo di mondo.

Ogni cosa, per i miei gusti, si trovava al posto giusto.

Come Duncan mi aveva descritto, un filare di piccoli carpini nascondeva per buona parte la piccola ansa del fiume.

L’acqua risultò essere abbastanza profonda per permettermi di fare un bagno vero e proprio.

Sulla sponda a sud, una spiaggia di ghiaia finissima mi consentì di trovare un comodo appoggio per abiti e zaino. Non mi mancava nulla.

Fissai un momento Duncan prima di ringraziarlo poi, scrollando una mano con fare petulante per mandarlo via, gli intimai: “Guai a te se sbirci.”

Lui ghignò e si allontanò, risalendo la china, informandomi sulle sue future azioni.

“Muterò in lupo per fare la guardia… e non sbircerò.”

“Grazie” ghignai in risposta, portandomi vicino alla polla per spogliarmi del tutto, lavare i miei abiti e me stessa.

L’acqua era drammaticamente fredda ma vi badai ben poco, più desiderosa di lavarmi di dosso la sporcizia, che di badare al gelo che mi fece accapponare la pelle.

Poteva anche essere la fine di luglio, ma le acque dell’Annan forse non erano state avvisate di questo dato di fatto.

Dopo aver strofinato energicamente la pelle, passai agli abiti - lisi in più punti - e affondai con essi nell’acqua per fare forza su una roccia sommersa.

Non riuscii neppure a cominciare, però, perché il cinguettio spaventato di alcune allodole di bosco mi fece rizzare i capelli sulla nuca per il terrore.

Mi inginocchiai frettolosamente, immergendomi fino al collo dopodiché, proteggendomi i seni con le braccia, ringhiai: “Duncan, se sei tu, non sei affatto divertente.”

Ma, oltre il bordo del terrapieno, non comparve Duncan. Tutt’altro.

Due occhi color cannella, attorniati da lucido pelo castano scuro, mi fissarono dubbiosi e increduli per alcuni istanti in cui tutto parve fermarsi.

Io ricambiai lo sguardo, il cuore iperattivo e la salivazione quasi azzerata, indecisa se urlare o esordire con un saluto.

Perché sapevo perfettamente che, il lupo che mi stava guardando da quella netta posizione di vantaggio, era un licantropo.

Non era grosso o robusto come Duncan, ma era decisamente troppo grande per essere un comune canide.

Dietro di me, sul terrapieno opposto a quello del nuovo arrivato, giunse infine Duncan, le zanne completamente snudate.

Un basso ringhio di gola faceva vibrare l’aria attorno a sé.

Anche l’altro lupo ringhiò e, sopra la mia testa, venne a formarsi qualcosa di simile a una tempesta magnetica visibile a occhio nudo; le loro auree a confronto.

Stavano sforderando le rispettive forze, o qualcosa di simile perché, sulla mia pelle, avvertii un formicolio ben più che fastidioso.

Lascia perciò perdere il pudore il pudore per passarmi le mani sulle braccia, infastidita a morte da quella battaglia silenziosa di potere.

Il lupo estraneo uggiolò sorpreso nel notare la mia reazione e, subito, il suo potere svanì dall’aria come se avesse chiuso una porta, sigillando completamente l’aura.

Anche Duncan smise subito il confronto, e annuì col muso alla muta domanda del lupo sconosciuto.

Lupo che, dopo un attimo di comprensibile smarrimento, chinò il capo nella mia direzione, come ossequiandomi e, subito dopo, scomparve come era venuto.

Confusa e allibita da quello strano comportamento, mi volsi a mezzo per guardare Duncan da sopra la spalla e, scocciata, brontolai: “Te ne vai, ora che hai fatto la parte del maschio dominante?”

Lui scosse il muso con ostinazione – come osava! – e si limitò a voltarmi le spalle, sedendosi sull’erba, in attesa.

Subito inferocita, lasciai però da parte la mia rabbia dopo alcuni secondi, comprendendo il perché di quel comportamento.

Ovvio che non volesse andarsene.

Chi poteva sapere quanti altri lupi ci fossero, in quel boschetto?

O meglio, lui lo sapeva di sicuro, e forse fu proprio per questo che rifiutò di allontanarsi da me.

Repressi un sorrisino di soddisfazione per la sua sollecitudine, e finii di pulire i panni sporchi prima di risalire e stendere tutto al sole.

Dopo aver sistemato tutto, presi ad asciugarmi per indossare i miei indumenti intimi.

Lasciato il tutto sulle rocce scaldate dal sole, mi inerpicai sul terrapieno opposto a quello di Duncan – e da cui era sbucato il misterioso lupo – e mi sdraiai sull’erba.

Tutt’intorno a me potevo ancora avvertire le tracce residue del potere del licantropo che, fino a pochi minuti prima, si era trovato in quel posto.

Ero incuriosita dal fatto che potessi ancora percepirlo.

Forse, i licantropi emanavano energia come i metalli radioattivi.

Avrei dovuto chiederlo a Duncan, una volta che avesse ripreso forma umana.

Ristetti seduta al sole mentre i miei abiti si asciugavano, ma non riuscii a rilassarmi a sufficienza per fare un riposino.

L’idea che quella zona, con tutta probabilità, brulicasse di licantropi, non mi solleticava per niente.

Di Duncan mi fidavo, ma ero del tutto certa che vi fossero anche licantropi cattivi, e non potevo sapere se ve ne fosse uno proprio nelle vicinanze.

Continuai per tutto il tempo a guardarmi alle spalle, tornando poi per diretta conseguenza a osservare Duncan.

Lui se ne stava sull’altra sponda in tutta la sua maestosità di lupo niveo, le orecchie ritte in ascolto e il naso perennemente in fermento.

Stava fiutando qualcosa.

Si trattasse di preda, o predatore, non avrei saputo dirlo.

Due ore dopo quel mio strano interludio, i miei abiti erano asciutti.

Indossai subito il mio completo da trekking, e ritirai il resto infilando il tutto nello zaino.

Balzata su un paio di massi arrotondati, raggiunsi infine Duncan sull’altro lato del fiume.

Gli grattai le orecchie d’istinto, senza neanche pensarci e lui, socchiudendo gli occhi, mugolò qualcosa di molto simile alle fusa di un gatto.

Ovviamente non glielo feci notare, visto soprattutto che mi concesse di coccolarlo per un po’.

Trovavo paradossale il fatto di stare facendo i complimenti a un lupo grosso quanto un piccolo cavallo, ma a me pareva del tutto normale.

Per me, era giusto prendermi cura di lui a quel modo.

Doveva dipendere dal fatto che, come wicca, mi sentivo naturalmente ben disposta verso i licantropi.

Eppure, avevo avuto paura di quel lupo estraneo.

Guardando Duncan negli occhi dorati, gli chiesi: “Perché, con te mi sono sentita al sicuro fin da quando ti ho conosciuto, mentre il tipo di prima mi ha messo ansia all’istante?”

Lui scosse il muso, come se non lo sapesse.

Comprensivo, mi leccò una mano un paio di volte prima di poggiare il naso contro un mio ginocchio e spingere leggermente. Voleva proseguire.

“Sì, è il caso che ci incamminiamo” annuii, prima di vederlo strattonare i pantaloni della sua tuta.

Glieli consegnai, immaginando volesse dirmi qualcosa di importante.

In un minuto fu di ritorno, lo sguardo cupo e pensieroso, le sopracciglia corrugate e l’aria di uno che avrebbe preferito di gran lunga essere in un altro posto.

La cosa mi preoccupò immediatamente.

Se uno come lui, praticamente indistruttibile e dalla forza difficilmente quantificabile, era in pensiero per qualcosa, io potevo anche cominciare a urlare di paura.

Mi fissò per un momento, forse indeciso se parlarmi o meno delle sue paure ma, alla fine, sospirò e disse: “E’ inutile menare il can per l’aia… la lupa di prima era una vedetta.”

“Era una lupa?” ripetei, sorpresa.

Chissà perché, mi ero fatta l’idea che fosse un maschio.

Duncan annuì, aiutandomi a scendere dal terrapieno per oltrepassare l’Annan e proseguire verso sud.

“Non ha gradito molto la mia presenza qui, ma non ha attaccato perché c’eri tu. E’ rimasta gradevolmente sorpresa nel vederti. Non se l’aspettava di certo.”

Gradevolmente sorpresa?” ripetei ancora, sempre più confusa. “E perché?”

“Le wiccan sono più  rare dell’oro, oggigiorno, Brianna. Kate Alexander era l’unica wicca di tutta la Gran Bretagna, prima che comparissi tu. Fai un po’ tu i conti” mi spiegò, proseguendo a passo abbastanza spedito.

Scostò il ramo basso di un noce, e aggiunse: “Comunque, la lupa in questione mi ha fatto capire chiaramente che la mia presenza, qui, è del tutto sgradita, e che avvertirà il suo Fenrir del mio comportamento. Ma riferirà anche che sono in compagnia di una wicca.”

“Ebbene? Che comportamento disdicevole avresti tenuto, per meritare di essere trattato come un ladro? E come potrebbe migliorare la cosa, il fatto che tu sei con me?” gli domandai perplessa, indecisa se essere arrabbiata o preoccupata.

Perché tanta acredine tra licantropi?

Duncan mi sorrise per un momento, prima di ammettere la spiacevole verità.

“Vedi, non andiamo tutti d’amore e d’accordo, Brianna. Esistono delle alleanze, come ci sono tra umani. Ovvio, noi ci limitiamo semplicemente a non parlarci e a non invadere i rispettivi territori ma, stavolta, io ho violato questa regola non scritta e non credo che Alec, il capoclan di questo territorio, ne sarà molto felice.”

“Oh, e perché?” gli chiesi, debitamente curiosa.

Scrollò le spalle e sospirò esasperato, borbottando: “Uno dei miei lupi si è innamorato di sua sorella… e sono scappati assieme quattro anni fa. Lui non ha per niente gradito la cosa, e ha incolpato me di non saper tenere a freno i… come disse? Ah, sì… i bollori sfrenati dei miei randagi.”

“Randagi?!” esalai sgomenta.

Avevo impiegato pochissimo tempo a capire che la parola randagio, per loro, era più di un insulto. Era una vera e propria onta.

“Già. C’è mancato poco che gli staccassi la testa, quando me l’ha detto, ma ho preferito tacere per mantenere la pace tra i branchi” sospirò Duncan, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

Era evidente che l’offesa gli pesava ancora, e parecchio.

“Mi sono limitato a dirgli che non eravamo più nel diciassettesimo secolo e che, se loro due si amavano, potevano fare come meglio credevano.”

“Quindi?” mi interessai, ben decisa a sapere come fosse finita quella storia.

“Abitano a Dublino da tre anni e hanno un figlio di due anni di nome Phillip” mi spiegò succintamente, come volendo chiudere l’argomento.

“Un… figlio? Wow! Ma allora, quella ragazza deve essere davvero forte!” esalai, rammentando perfettamente ciò che mi aveva detto sulle gravidanze dei mannari.

“Già” sospirò, incuriosendomi ancor di più.

Sollevai immediatamente un sopracciglio, subodorando qualche segreto non confessato e Duncan, fissandomi con espressione bieca, esalò: “Ma non ti si può nascondere proprio nulla?!”

“Quando imparerai a essere più ermetico nelle tue espressioni facciali, sì” ridacchiai, dandogli di gomito.

Duncan mi scompigliò un attimo i capelli, prima di spiegarmi tutto.

“E’ presto detto. Alec mi offrì di sposare sua sorella, Patricia, per cementare un’alleanza col mio branco, ma io rifiutai… sapevo già che Patricia e il mio lupo, Andrew, si amavano da tempo.”

“Oh. Il fratello cattivo non sopporta che la sua sorellina abbia sposato un lupo di grado inferiore?” ipotizzai, storcendo il naso.

“Esatto. Ho proposto altro, per l’alleanza, ma Alec si è rifiutato di accettare qualsiasi cosa. Era fuori di sé dalla rabbia e, quando in seguito seppe della tresca tra i due giovani, scoppiò del tutto. Da allora, siamo ai ferri corti.”

Sorrise a mezzo, aggiungendo: “Meglio di una soap opera, no?”

“Di certo, è bella incasinata. Ma non mi spiego ancora cosa c’entro io con Alec” scrollai le spalle, dubbiosa.

“Beh, forse tu potrai intercedere per me perché non mi stacchi la testa a morsi” bofonchiò senza mezzi termini.

Bloccai immediatamente i miei passi, fissandolo a occhi  sgranati e bocca aperta per lo stupore e la paura.

Desideravo fin nel midollo che giungesse a solleticarmi la pelle l’ormai  familiare formicolio della menzogna, ma nulla giunse ai miei sensi suscettibili al potere.

Nulla.

Quello che mi aveva detto, era la pura verità.

C’era la morte, per chi trasgrediva le leggi, specialmente se a infrangerle era un alfa.

Mi aggrappai a un suo braccio, lo sguardo sempre più preoccupato mentre lui, sospirando, mormorava indeciso: “Non so davvero come comportarmi, a questo punto. Speravo di evitarli ma, evidentemente, Alec fa perlustrare i suoi boschi da licantropi in forma umana. In questo modo, l’odore è più lieve e si può passare inosservati, se si è a una discreta distanza, o sopravento. Maledetto lui!”

“Duncan, non possiamo scappare da qualche parte?” gli chiesi, guardandomi intorno con espressione febbrile.

“Non credo, Brianna. A giudicare dagli odori che sento, stanno arrivando a gran velocità, e sono almeno in sei” mi spiegò, carezzandomi con lo sguardo prima di dire: “Ma non temere per te stessa, nessuno ti toccherà.”

“E chi se ne frega!” sbottai, strattonandolo a un braccio perché non proseguisse. “Pensi davvero che scambierei la mia salvezza con la tua?! Non ci penso minimamente!”

“Brianna, cerca di ragionare…” replicò, prendendomi per le spalle e scuotendomi leggermente. “… non ha senso che tu rischi ulteriormente per me. Ti ringrazio per quello che hai fatto in quella cantina, ma non ritengo necessario che tu metta a repentaglio la tua sicurezza per una cosa che, in definitiva, non puoi risolvere. Ho trasgredito le leggi, e pagherò per questo.”

“Beh, al diavolo la legge del branco!” ringhiai. “Non si abbandona un compagno in difficoltà!”

Ridendo sommessamente, ribatté: “Non sei mica un marine.”

“Beh, sarò anche solo una girl-scout, ma la sostanza è la stessa” bofonchiai, intrecciando le braccia sul petto.

“Come Fenrir, non ti permetterò di mettere a repentaglio la tua vita. Farai quello che ti dirò” sentenziò a quel punto, mettendo dell’acciaio nella sua voce.

Lo fissai negli occhi, che ora avevano la stessa consistenza della giada e, mordendomi un labbro, sussurrai: “Non esiteresti di fronte a nulla per difendere un membro del tuo branco, vero?”

Lui si limitò ad annuire, gli occhi sempre fissi nei miei e io, deglutendo a fatica, aggiunsi: “Moriresti… per loro? Per me?”

Non occorse una risposta. Gliela leggevo negli occhi.

Un Fenrir come lui avrebbe dato molto più della vita per il proprio branco, e io ero parte del suo branco, ormai.

Fece per dirmi qualcosa ma si azzittì subito, aggrottando la fronte e fissando torvo il rado boschetto che ci circondava.

In pochi attimi, cinque uomini e una donna comparvero dinanzi a noi, gli sguardi attenti e le movenze rigide di chi si aspetta un attacco da un momento all’altro.

Tutti fissarono Duncan, che si mosse per porsi dinanzi a me nonostante le mie proteste.

Il più robusto tra loro, avanzando di un passo, esordì dicendo: “Mal ritrovato, McKalister.”

“Alec” disse solo Duncan.

L’altro Fenrir.

Lo fissai attenta, scrutando quel viso ruvido di barba scura, dai cortissimi capelli bruni, gli occhi grigi e una smorfia dovuta a una profonda cicatrice che gli solcava la guancia sinistra.

Evidentemente, una ferita inferta da un’arma ad argento, o forse, quando ancora non aveva mutato in lupo per la prima volta. Difficile dirlo.

Alec, come lo aveva chiamato Duncan, era robusto non meno del mio alfa preferito, anche se non altrettanto alto.

La maglietta che indossava sembrava lì lì per esplodere, per la troppa tensione muscolare che stava tentando di imbrigliare senza grosso successo.

Tensione che pervadeva il suo corpo, espandendosi in vibranti onde cremisi.

“E’ furibondo” sussurrai.

Alec mi fissò per la prima volta e, quasi per magia, il suo viso si addolcì e il suo capo, con estrema cortesia, reclinò nella mia direzione.

La sua voce, prima aspra, si ammorbidì, dicendomi: “E’ un onore incontrarti, wicca… sistemo la faccenda con questo traditore delle leggi, e sono subito da te.”

“Aspetta un dannatissimo momento!” sbottai, svicolando dalla stretta di Duncan per pararmi dinanzi a lui.

“Brianna, smettila!” sibilò furioso.

Lo sguardo di Alec si fece dubbioso e la donna che era con loro, avvicinandosi di un passo, mormorò al suo alfa: “Te l’avevo detto, Alec, che loro erano uniti. Non ucciderai lui senza inimicarti lei.”

Alec parve evidentemente contrariato da quella notizia, perché chiese alla donna: “E’ questo che ti  hanno detto i tuoi sensi, Beverly?”

“Sì, Fenrir. La ragazza è legata a lui. E lui non la lascerà andare senza lottare” poi, guardando me e Duncan, aggiunse: “Non avrai i suoi poteri, se è questo che vuoi, perché la wicca si rifiuterà di collaborare con te.”

“Questo è sicuro” ringhiai ribelle.

Duncan fu lesto a tapparmi la bocca con una mano, e niente di quel che feci mi permise di liberarmi.

La sua presa era ferrea, il suo convincimento a tenermi fuori da quella storia, totale.

Da bravo Fenrir, si stava prendendo sulle spalle l’onere di ciò che stava accadendo, interferendo di fatto con la mia intenzione di aiutarlo.

Avrebbe capito prestissimo con chi aveva a che fare.

Alec mi fissò per diversi minuti senza sapere bene come comportarsi – in lui, era evidente l’indecisione.

La donna che aveva chiamato Beverly, invece, osservò me e Duncan con aria spiacente, scrutando poi il suo Fenrir in speranzosa attesa di un suo gesto di umanità.

Forse, Beverly si era pentita di aver detto tutto al suo Fenrir ma, da brava vedetta, aveva dovuto compiere il suo dovere ed esporre ciò che aveva visto.

Forse, addirittura, non aveva potuto farne a meno.

Ma non potevo certo prendere la parola per chiedere spiegazioni. Non era il momento per domandare. Era il momento di agire.

Avrei chiesto spiegazioni in un secondo tempo. Se mai ci fosse stato un secondo tempo.

Alla fine, Alec decise di toglierci dall’impasse, facendo un cenno con il capo a uno dei suoi lupi che, per tutto il tempo, erano rimasti a qualche passo di distanza da lui.

Il lupo in questione mi guardò con un mezzo sorriso mentre Alec, ghignando in direzione di entrambi, dichiarò: “Bene, wicca, poiché la tua decisione è quella di rimanere accanto al tuo Fenrir, non mi opporrò, né ti obbligherò a scegliere di venire con noi. Ma devi permettermi di punire quest’uomo perché, col suo agire, è venuto meno a patti vecchi di secoli, per non dire di millenni. E sono certo che tu comprenderai che non vi è alcun istinto vendicativo, in me.”

No, vendicativo no. Rabbioso, sì.

E glielo dissi senza mezzi termini.

Alec non parve esserne molto contento, e neppure Duncan, che mi fulminò con lo sguardo prima di dire ad Alec: “Non badare a quel che dice, Alec…. è puntigliosa per natura. Verrà con te senza più protestare.”

“Non mettermi in bocca cose che non penso!” ringhiai, fissando malissimo Duncan.

I suoi occhi mi pregarono di smettere, ma io non cedetti; fu più forte di me.

La sola idea di abbandonarlo mi faceva accapponare la pelle, per cui non avrei mai lasciato il suo fianco.

Scossi il capo e Alec, sospirando leggermente, si rivolse al suo sottoposto.

“Sei pronto, mio Freki?”

Duncan aggrottò immediatamente la fronte, mentre Beverly ansimava per la sorpresa e lo sgomento.

Del tutto inconsapevole di cosa volesse dire quel nome, né di cosa comportasse per noi, li guardai senza capire da cosa dipendessero quegli sguardi così ansiosi.

A bassa voce, le braccia tese e i pugni stretti, Duncan mi spiegò l’arcano.

“Freki era uno dei lupi di Odino, secondo il mito… con lui c’era anche Geri.”

“E, nella realtà, chi erano? Chi sono?” gli chiesi, mentre il licantropo chiamato Freki ci osservava con aria sorniona.

Fu Alec a rispondermi.

“Freki e Geri erano due fratelli. Il primo, licantropo, il secondo, umano. Furono i cacciatori più spietati che i clan ricordino. Eseguirono così tante esecuzioni, al di fuori del territorio del loro Fenrir, che se ne perse il conto. E, sebbene Geri fosse nato umano, la sua ferocia non fu certo inferiore a quella di suo fratello Freki. Le loro gesta furono di rilevanza così imponente che divennero leggenda e, per onorare il loro ricordo, i sicari del branco vengono chiamati così ancora oggi.”

Nel dire la parola sicari, sogghignò.

Mi volsi a guardare Duncan, sinceramente allibita, e lui mormorò torvo: “Un Fenrir non può avere le mani ovunque, Brianna, … Geri e Freki esistono per questo.”

Preferii sorvolare sulle possibili implicazioni delle sue parole, badando solo al presente, e cioè al Freki che ci stava guardando come se fossimo due ottime porzioni di manzo.

“Qual è, dunque, il verdetto?” chiesi, volendo apparire più tranquilla di quanto non mi sentissi.

“E’ semplice, wicca. Poiché hai deciso di rimanere con il tuo Fenrir, ritenendomi nel torto, subirai la sua stessa sorte… ma voglio essere magnanimo, e vi permetterò di fuggire. Freki vi inseguirà e, se riuscirete a uscire dal mio territorio, riterrò la faida conclusa” ci disse Alec, stringendo le braccia nerborute sul petto robusto.

“Ah, un vero affare” brontolai a mezza voce prima di voltarmi verso Duncan. “Ebbene?”

“Sempre convinta di non voler restare con loro?” mi chiese con un mezzo sorriso.

“Come Beverly ha detto saggiamente, se uccidono te, io di certo non mi dimostrerò molto collaborativa” sogghignai, stringendogli una mano.

Beverly ci guardò ancora con profondo dolore negli occhi, quasi che quelle parole la facessero soffrire più di una ferita ricoperta di sale.

Chiedendomene il motivo, provai a sfiorare la sua aura.

Non sapevo bene come fare ma, in qualche modo, percepii il suo disagio, la sua rabbia a stento trattenuta e… sì, il rammarico nel vedere l’uomo che amava comportarsi da autentico criminale.

Doveva essere un bel peso, per lei, dover sopportare tutto quel dolore, quel patimento verso un uomo che neppure la vedeva.

Provai compassione per Beverly, pur sapendo che era stata lei a cacciarci in quel guaio.

Abbandonai la sua aura, notando sul suo volto un lieve sorriso.

Si era accorta del mio tocco, e mi aveva lasciato fare, forse per scusarsi di aver dovuto smascherare la nostra presenza.

Ancora, mi abbandonai allo sconforto, pensando a quel che stava patendo sotto il comando di quel Fenrir senza scrupoli.

Duncan mi riportò coi piedi per terra, asserendo: “Dovrai seguire ogni mio movimento e starmi aggrappata il più possibile, d’accordo?”

“Sì, capo” annuii, togliendomi di dosso lo zaino. “Di questo posso fare anche a meno.”

Tolsi solo il mio portafogli con i documenti, che infilai in tasca, dopodiché guardai Duncan e sentenziai: “Fai pure. Sono pronta.”

Alec ridacchiò di fronte alla mia faccia seria ma io non battei ciglio, ignorandolo completamente e dedicando il mio sguardo solo a Duncan.

Lui mi carezzò il viso con una mano, si piegò su un ginocchio e mutò forma.

Alla luce del sole, quel mutamento così violento e repentino non mi aiutò a calmare i nervi.

Vedere le sue ossa spezzarsi e ricomporsi in qualcosa di ben più grande, e di non umano, mi fece raggelare il sangue.

Mentre pelliccia e liquido biancastro scivolarono sulla sua pelle bronzea, presi un gran respiro per non svenire dalla paura e rendermi ridicola di fronte a tutti.

In poco meno di un minuto fu un lupo dal candido pelo morbido e, nel salirvi  in groppa, mi rivolsi ad Alec.

“Bene, spero ti divertirai, ma sappi che ti sei giocato la mia simpatia, con questa tirata.”

Alec si inchinò ironicamente nella mia direzione, spiazzandomi con il suo dire.

“Se tu fossi stata una wicca esperta, avresti potuto mettermi comodamente al tappeto, impedendo così al tuo Fenrir di correre il rischio di morire… e di far morire anche te. Ma così non è, quindi…”

Quella frase non mi piacque per nulla, e meno ancora a Duncan che, ringhiando, snudò i denti e mosse un passo verso Alec, minacciando ben più di un morso, se non avesse smesso di ingiuriarmi a parole.

Alec, del tutto indifferente, scoppiò a ridere prima di dirci con tono sardonico: “Scappate pure. Freki attenderà un minuto prima di corrervi dietro. Usate questo tempo per dirvi addio.”

Duncan lo fissò ancora per un attimo con livore, prima di mettersi a correre.

Ligia al mio dovere, mi aggrappai fermamente alla sua gorgiera con le mani.

Con le gambe, nel frattempo, mi strinsi a sufficienza intorno al suo corpo per non dondolare come il pendolo di un orologio a cucù.

Se, in precedenza, avevo pensato di aver compreso cosa volesse dire correre in groppa a un licantropo, dovetti ricredermi in fretta.

Duncan mi aveva solo fatto assaggiare la sua potenza.

Spinto dall’urgenza di allontanarsi da Freki, le sue falcate si fecero lunghe e possenti.

Mi parve di volare attraverso quel rado boschetto, che ci riparava agli occhi degli umani.

Ben poco avrebbero potuto vedere, comunque, se non un’indistinta macchia bianca sull’orizzonte verdeggiante del bosco.

Niente più che uno spettro illusorio e privo di forma solida.

Perché neppure io ero più in grado di scorgere ciò che mi circondava, tanta era la velocità che stava tenendo Duncan per salvarci la vita.

Non avevo voluto domandare quante miglia fosse esteso il territorio di Alec, ma avevo idea che fosse molto ampio, o non avrebbe proposto un simile patto.

Sfiorammo alberi con precisione millimetrica, saltando oltre piccoli ruscelli o spiccando balzi per oltrepassare pesanti rocce grigiastre.

Duncan sembrava inarrestabile nella sua corsa, e i suoi muscoli si gonfiavano e distendevano sotto di me a una velocità disumana.

Sapevo che il mio peso, però, la mia sola presenza, lo frenava, e questo mi fece infuriare.

Alec aveva detto che, se fossi stata in grado di padroneggiare i miei poteri, avrei potuto risparmiare a entrambi quel supplizio.

Io, però, non avevo idea di come gestire quel dono che sapevo di possedere, e che la mia mente non era ancora in grado di governare.

Mi strinsi maggiormente al collo di Duncan, sussurrandogli: “Mi spiace, Duncan… è tutta colpa mia.”

Ovviamente lui non poté rispondermi, ma abbaiò una volta, come a voler smentire le mie parole.

Con il suo potere, mi avvolse in una bolla di energia calda e soffice, chiaro segno che non mi riteneva responsabile per ciò che stava succedendo.

Quando, però, avvertii dietro di noi le zampate feroci di Freki, non riuscii più a godermi il tepore che Duncan aveva steso attorno a me per chetare le mie paure.

Volgendo leggermente il capo – per quanto mi fu possibile – per capire dove fosse, gridai: “Ce l’abbiamo addosso, Duncan!”

Balzammo oltre la sponda dell’Annan proprio quando i suoi denti spaventosamente lunghi si snudarono per colpirci, mancando di un soffio il bersaglio.

Sobbalzai, quando atterrammo dalla parte opposta, sempre stretta fermamente al corpo di Duncan mentre, con gli occhi, seguivo le movenze di Freki alle nostre spalle.

Quando lo vidi lanciarsi verso di noi per un secondo attacco, non potei far altro che scalciare all’indietro con un piede per colpirlo a casaccio.

Nel farlo, persi inevitabilmente la presa da Duncan, finendo per ruzzolare malamente a terra.

Il colpo andò a buon segno, perché Freki non riuscì ad azzannare Duncan.

Cadendo, lo obbligai però a fermarsi per recuperarmi, mettendolo di fatto di fronte al nostro nemico mortale.

Dolorante per la caduta, portai una mano sulla caviglia slogata dal colpo inferto a Freki e, guardando il licantropo nei suoi occhi rosso sangue, sibilai aspramente: “Perché non cominci da me, bastardo?!”

Duncan si frappose tra me e lui per impedirgli di mettere in pratica quella minaccia ma, a sorpresa, Freki rilassò i muscoli e si sedette a terra, la lingua ciondoloni.

Lo sguardo era nuovamente calmo, quasi tronfio.

Confusa, guardai Duncan e poi Freki per cercare di capire cosa stesse succedendo, ma ero del tutto all’oscuro di ciò che si stavano dicendo i due, in quel momento.

Non dovette essere nulla di buono, però, perché il pelo di Duncan si rizzò sulla schiena, mentre denti affilati vennero snudati di fronte all’espressione candida di Freki.

Il sicario, per contro, continuò a guardarmi con l’aria di uno che si stava divertendo un mondo.

Quello sguardo e, soprattutto, il tocco viscido del suo potere, mi fecero accapponare la pelle e, di colpo, capii cosa si fossero detti.

Ma, soprattutto, chi fosse stato l’argomento della loro conversazione mentale.

Mi rialzai a fatica, tenendomi aggrappata alla spalla di Duncan e, fissando malissimo Freki, gli sputai contro: “Non mi farei toccare da te neppure se fossi l’ultimo uomo sulla terra, maledetta bestia pelosa dei miei stivali!”

Freki se ne uscì con una risata sputata tra le fauci e io, arrabbiata come non mai, feci l’unica cosa che, in quel momento, avrebbe potuto salvarci, pur sapendo a cosa avrebbe portato quel gesto.

Mi strappai dal collo la collana d’argento di mia madre e, senza alcun tentennamento, gliela gettai addosso.

Come avevo sperato, il monile gli finì in gola e, in un attimo, la sua risata si spense per essere sostituita da rantoli tremendi e uggiolii di dolore.

Duncan fu lesto a farmi segno di rimontare in groppa mentre Freki crollava a terra, travolto da spasmi incontrollati e conati di vomito e sangue.

L’argento fece effetto con un’immediatezza che non avrei mai immaginato possibile.

Pur non pentendomi di quello che avevo fatto, rabbrividii al pensiero che, con il mio gesto, lo avevo condannato sicuramente a morte.

Soprattutto, a una morte lenta e atroce.

Mi tenni aggrappata a Duncan per tutto il resto del giorno e dell’intera notte finché, alle prime luci dell’alba, non ci fermammo in un bosco a nord-est di Lockerbie.

Lì, Duncan mi fece scendere a terra e, con delicatezza, mi spinse a sedermi ai piedi di una piccola quercia nodosa, dove mi rannicchiai per piangere.

Vedendomi in quello stato, si accoccolò in fretta accanto a me, permettendomi di aggrapparmi al suo corpo enorme e morbido per sfogare tutto il mio dolore.

Come se avessi dovuto piangere tutte le lacrime del mondo, non smisi finché non sentii di non poter più proseguire.

Gli occhi pesti, il naso colante e la gola riarsa e secca, mi lasciai scivolare del tutto a terra per sdraiarmi accanto a Duncan-lupo che, gentilmente, mi avvolse la vita con la coda.

Con piccoli colpetti della lingua, mi ripulì il viso dal sale delle mie lacrime.

Come una coperta, il suo potere mi avvolse teneramente, consentendo a Morfeo di condurmi per mano nella terra dei sogni, dove riposai profondamente.

Grazie a Dio, ai santi o a qualche altra entità, non scorsi gli occhi diabolici di Freki o la sua fine tremenda.

Avrei avuto tempo al mio risveglio per le domande e per le risposte.

Ora, volevo solo mettere a tacere quel dolore sordo che sentivo nel mio animo.


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Capitolo 10
*** X. ***


 X.



 

 

  Avevo ucciso un uomo.

In qualunque modo volessimo vederla, la sostanza non cambiava.

Per difendere me stessa e Duncan dalla morte, avevo deliberatamente usato ciò che sapevo sui licantropi, e ne avevo ucciso uno.

Pur sentendomi sgomenta per ciò che avevo fatto, non riuscii però a provare vero dispiacere.

E questo mi fece sentire ancora peggio.

L’idea di non trovare alcuna traccia di rammarico nel mio cuore per avere spento una vita, mi fece sentire uno straccio.

Forse, era la normale reazione di una persona che vede la morte dinanzi agli occhi.

 In ogni caso, ero convinta che quel comportamento fosse disumano.

Me ne stetti per gran parte della mattina aggrappata a Duncan, mentre un sospiro si avvicendava all’altro in una processione interminabile di dolore, sconforto, rabbia, delusione e rammarico.

Dolore per la morte di una creatura vivente.

Sconforto per non aver saputo trovare altri modi per evitare ciò che era successo.

Rabbia per quello che avrebbe voluto farci Freki.

Delusione per aver scoperto il male anche laddove avevo sperato non ve ne fosse.

Rammarico per essere stata io a infliggere quella condanna.

Tutto ciò si arrovellava dentro di me come un serpente dalle mille spire, pronto a divorarmi dall’interno non appena mi fossi lasciata andare.

Duncan dovette avvertire questa mia battaglia interiore, perché si scostò da me e, andandosi a nascondere dietro un cespuglio, mutò in uomo e mi fissò da sopra una spalla.

“E’ inutile che rimugini a quel modo, su quanto è successo. O noi, o lui. Non c’era molta scelta. Freki è senza freni inibitori. Uccide su ordine di Fenrir.”

“Non avremmo potuto...” ansai con voce roca.

Lui bloccò le mie parole con un gesto della mano, precisando: “No, forse non mi sono spiegato. Ciò che dice Fenrir, è legge. Non può essere sindacata in alcun modo, se Fenrir usa un certo tipo di comando vocale.”

Sbattei le palpebre, confusa, e lui proseguì dicendo: “Fenrir è una sorta di despota illuminato, Brianna. Anche se molti clan hanno istituito un Consiglio per rendere questo potere meno… dittatoriale, la faccenda rimane. Se Fenrir è una persona come Alec, hai ben poche scelte… ben poche frecce al tuo arco, per poterti difendere.”

Rammentai gli sguardi di Beverly, e compresi.

Vagamente più calma, chiesi: “E’ come un’imposizione fisica?”

“Qualcosa del genere” annuì Duncan, sospirando. “Io ho cercato di non usare mai questo sistema di comando, ma Alec lo adora. Viene da una famiglia piuttosto particolare… avrai notato la cicatrice sul suo volto.”

Assentii, e lui proseguì nel suo racconto.

“Beh, gliel’ha fatta suo padre, quando Alec aveva all’incirca quattordici anni. Non ne conosco i motivi, ma suo padre non fu mai una persona molto… gentile. Guidò il branco con pugno di ferro, e Alec ne ha seguito le orme.”

Deglutendo a fatica, esalai: “Era… era Fenrir prima del figlio?”

“Sì” mormorò Duncan, lasciando che io traessi le mie conclusioni.

Lo sguardo di Duncan, ovviamente, non fece che confermare i miei sospetti.

“Alec lo uccise poco tempo dopo aver scoperto di esserne l’erede. Il che ti dice quale sia la sua forza di alfa. Prese il potere, imponendo la sua volontà su tutto il branco. Avendo al suo fianco due dei più potenti alleati che abbia mai conosciuto, non faticherai a comprendere quanto sia stato facile per lui. Il suo Hati e il suo Sköll sono forse peggio di Alec, quanto a ferocia, e rispondono a lui in tutto e per tutto. Sono fedeli anima e corpo.”

Sospirò nell’osservarmi, forse indeciso su quanto dirmi, ma non si bloccò.

“Detiene il potere sul clan come se dovesse andare in guerra ogni giorno, e forse è questo che pensa. Non ha una sola alleanza, è sempre in lite con tutti, e l’unica cosa che concepisce è il profitto. Per questo voleva vendermi sua sorella. Forse pensava che, sposandomi con lei, avrebbe potuto rivendicare dei diritti sul mio branco” mi spiegò Duncan, grattandosi distrattamente il capo.

“E così… non dovrei… pensare a quel che ho fatto?” riuscii a dire, dopo alcuni minuti di silenzio.

“Esatto. Non lo avresti convinto a cambiare idea neppure sotto tortura. C’è un unico modo per fermare un Geri, o un Freki, ed è esattamente quello che hai scelto di usare tu. Non disperarti, né pensare di aver commesso quale atroce delitto. E’ la legge del branco. Chi sconfigge un Freki, o un Geri, è libero dalla condanna che lo ha scatenato” mi spiegò prima di sorridermi mestamente e aggiungere: “Quel pendente… era molto importante per te?”

Mi portai istintivamente la mano al collo dove, per quattro anni, avevo indossato il ciondolo a forma di luna che era appartenuto a mia madre.

Sospirando, annuii. “Era un ricordo di mia madre.”

Duncan continuò a guardarmi, forse per spingermi a proseguire nel racconto.

 Sfiorandomi nuovamente il collo, ormai scevro di quel ciondolo a cui avevo tanto tenuto, ma che avevo usato senza remore per salvarmi la vita, mormorai: “Era solita portarlo tutte le volte che andava via di casa, per il suo lavoro di giornalista. Diceva che le ricordava noi… erano due spicchi di luna sovrapposti.”

“Mancava spesso?” si informò, interessato, la voce ridotta a un dolce sussurro.

Sapevo cosa stava tentando di fare, ma lasciai che provasse a scuotermi dal dolore in cui stavo annegando attimo dopo attimo.

Sperai davvero che, ricordare mia madre, potesse liberarmi dalla visione della morte di Freki.

“I primi tempi, sì. Ma era ciò che amava, e nessuno di noi si sarebbe mai sognato di farglielo pesare. Noi l’amavamo anche per la passione che era implicita nei suoi articoli di giornale… si capiva quanto ardore vi mettesse, per rendere il suo lavoro il migliore possibile.”

“Doveva essere una donna davvero notevole.”

“Sì” annuii, lanciandogli un sorriso triste. “Ho sempre desiderato essere come lei.”

“Lo sei” sussurrò a quel punto, scrollando le ampie spalle come se fosse un dato di fatto.

Quella frase, detta con il massimo della naturalezza, e impregnata di tutta la sincerità di cui era in grado Duncan, mi spiazzò.

Si limitò a sorridermi misteriosamente, prima di aggiungere: “Vado a caccia. Abbiamo entrambi bisogno di mangiare. Sai come accendere un fuoco senza l’accendino?”

Quel brusco ritorno alla realtà mi fece quasi sobbalzare e, fissandolo male, esclamai: “Sono una girl-scout, Duncan… per chi mi hai presa?!”

Lui sogghignò divertito per un momento.

L’attimo seguente, tornando serio, mormorò orgoglioso: “Sei stata maledettamente coraggiosa, ieri notte, ma non ti sognare mai più di metterti tra un Freki e me. Neppure per salvarmi. Mai più. Non sopporterei che ti succedesse qualcosa.”

“Vedrò di contenermi… non farò più Wonder Woman” ammiccai, prima di vederlo piegarsi e mutare in lupo.

Lo osservai trotterellare lontano, silenzioso come uno spettro e altrettanto evanescente.

Le ombre cupe del fitto bosco lo avvolsero in pochi attimi, lasciandomi sola a crogiolarmi accanto alla piccola quercia che mi aveva concesso ristoro.

Radi raggi di sole filtravano attraverso la coltre scura delle fronde degli alberi, raggruppati gli uni vicini agli altri come in un abbraccio collettivo.

Osservando pensierosa il gioco di luci e ombre sulle foglie morte del sottobosco, rigoglioso di creature viventi, ripensai alla morte di Freki e a ciò che era accaduto.

In quel momento di rabbia e scoramento mi era parso saggio, persino giusto, agire come avevo fatto.

Pur con tutte le rassicurazioni da parte di Duncan sul mio buon operato, mi parve comunque corretto dire una preghiera in memoria di quel lupo.

Solo a causa del suo Fenrir, si era ritrovato prematuramente a bussare alle porte della dea Morte.

Issai perciò un piccolo tumulo di pietre ai piedi della quercia, e lanciai il mio silenzioso messaggio a un non ben specificato dio.

Sperai davvero che qualcuno, o qualcosa, ascoltasse il mio dire e proteggesse l’anima immortale di quel licantropo caduto in battaglia.

Fatto ciò, mi alzai in piedi per spazzolarmi i pantaloni e, di buona lena, raccolsi sterpi e legni per accendere un fuoco.

Non impiegai molto, viste le miriadi di volte in cui il mio istruttore ci aveva testardamente imposto di far ardere una brace senza l’ausilio di attrezzi moderni.

Quando tornò Duncan, mi trovò pronta e attrezzata.

E, sperai, libera da incubi.

Pensare a mia madre mi aveva aiutato almeno in parte a sentirmi meglio.

Mi sarei impegnata anch’io a portare a termine ciò che avevo cominciato, possibilmente nel migliore dei modi.

Glielo dovevo visto che, in qualche modo, mi aveva, ci aveva salvato la vita.

Sorrisi debolmente a Duncan, quando lo vidi deporre a terra le due lepri che aveva catturato.

Incurante del sangue, lo osservai mentre, con l’ausilio di un artiglio, Duncan squartava i due piccoli animali che ci avrebbero offerto sostentamento.

Quando lui ebbe terminato, io presi un bastoncino affilato e completai l’opera, liberandoli dalla pelliccia e sporcandomi di sangue più di quanto avrei voluto.

Non amavo quel genere di operazione, ma sapevo perfettamente che era un compito che spettava a me.

Non potevo certo pretendere che Duncan mutasse in uomo ogni cinque minuti, per venire in mio soccorso.

Ora che non avevo più con me tutto il necessario per il campeggio, avrei dovuto rimboccarmi le maniche e mandare giù qualche rospo più del previsto.

Senza stare troppo a pensarci, eviscerai le prede e le misi su un trespolo - che avevo costruito per l’occasione - dopo essermi debitamente lavata le mani.

Duncan, nel frattempo, procedette a eliminare il superfluo, mangiandoselo.

Dovetti concentrarmi parecchio, per accettare quella vista.

Sapevo che era un lupo, sapevo che era del tutto normale che lui mangiasse carne cruda, interiora e pelle senza che vi fosse nulla di abominevole, in questo.

Ugualmente, però, la cosa mi risultò quasi… inconcepibile.

Cercai di fare finta di niente, pensando solo a quello che stavo facendo per dare un minimo di intimità a Duncan.

Duncan che, dopo quel banchetto, andò al fiume per ripulirsi la gorgiera e il muso dalle tracce di sangue rimastegli addosso.

Forse, un piccolo gesto di cortesia nei confronti del mio cuore in subbuglio.

Quando tornò si accoccolò al mio fianco, il muso a terra e le orecchie incollate alla testa, come se si aspettasse di ricevere un rimprovero.

Lo guardai sorridente, pur non sentendomi realmente felice, e mormorai: “E’ solo il mio stomaco a essere sensibile, Duncan. Non tu ad aver fatto qualcosa di male. Mi ci abituerò, come mi sono abituata al resto.”

Lui mi leccò una mano prima di tornare a poggiare il muso a terra mentre io, ridacchiando, gli grattai le orecchie con fare distratto.

“Se non sono morta di paura fino a ora, resisterò a tutto, tranquillo.”

Sperai ardentemente di aver detto la verità.

***

Gli occhi rossi del Freki mi fissavano da una distanza più che ravvicinata, ma non erano attorniati da pelo folto, bensì da pelle umana.

Quegli occhi sanguigni appartenevano all’uomo, non al lupo, ed erano le sue mani a tenermi schiacciata a terra.

I miei polsi erano bloccati, affondati nella terra umida che mi bagnava la schiena e le gambe.

Cercai di gridare, ma la voce non sgorgò dalla mia bocca spalancata, quasi mi avessero strappato a morsi le corde vocali.

Mi divincolai inutilmente, il panico pronto a divorare ogni centimetro della mia anima, mentre lui mi sussurrava all’orecchio tutto ciò che avrebbe fatto con il mio corpo.

Cercai ancora di gridare, ma neppure una più piccola parte di me volle collaborare.

Fu a quel punto che Duncan apparve, niveo nel suo splendore di lupo e con le zanne snudate per afferrare il collo di Freki.

Me lo tolse di dosso, permettendomi di liberarmi dalla sua stretta mentre lui lo atterrava, tenendolo fermo sotto le zampe possenti.

I suoi denti erano bianchissimi, sotto la luce della luna alta in cielo e il suo sguardo, ferale. Omicida. Non l’avrebbe lasciato vivere.

E così fece.

Con un ansito, mi risvegliai, le braccia strette attorno alla gorgiera di Duncan, mentre i suoi occhi gialli mi studiavano apprensivi.

Ancora una volta, era entrato in uno dei miei incubi per salvarmi da essi.

Ansante e spaventata, affondai il viso nel suo pelo e rabbrividii, sussurrando con un alito di voce: “Era questo che voleva da me, giusto?”

Lui si limitò ad annuire, leccandomi il viso un paio di volte.

Ridacchiai nervosamente, prima di esalare: “Non sono mai stata così vicina a un’aggressione sessuale come ieri… se non ci fossi stato tu, non so come sarebbe andata a finire.”

Duncan si scostò quel tanto che bastò per potermi guardare più agevolmente poi, con estrema cautela, si avvicinò col muso e lo posò sulla mia spalla.

Un attimo dopo, premette il muso contro il mio collo, in quello che somigliò molto a  un abbraccio umano.

Io lo ricambiai, scossa dai singhiozzi, e gracchiai in preda alla disperazione: “Volevo ucciderlo, in quel momento. Dio solo sa quanto lo volessi. E l’ho fatto… ma ora mi sento così male! So che mi hai detto che non avrebbe potuto essere fermato che in questo modo, però… però… mi sembra di essermi comportata come un mostro.”

Lui scosse il muso e si sfregò nuovamente contro il mio collo, accarezzandomi come soleva fare quando era in forma umana.

Sorridendo appena, nonostante mi sentissi a pezzi, gli chiesi speranzosa: “Passerà? Questa sensazione di vuoto se ne andrà?”

Duncan annuì appena prima di carezzarmi il collo con il naso e risalire su, fino al mio viso pallido e smunto.

Lì, proseguì la carezza fino a raggiungere le mie labbra e, a quel punto, le sfiorò debolmente prima di staccarsi da me e fissarmi con i suoi profondi occhi ambrati.

Ero così scioccata che non riuscii a dire nulla.

Era la prima volta in assoluto che mi toccava a quel modo, e non sapevo come interpretare quel suo gesto.

Seppi solo che, con quella carezza, riuscì a strapparmi dal dolore, sostituendo quel sentimento con uno ben diverso di cui, però, non seppi se essergliene grata. No davvero.

Anzi, supponevo che quel nuovo sentimento, che sentivo sfrigolare dentro di me, mi avrebbe cacciata in guai ben più seri.

***

Proseguimmo il nostro viaggio notturno percorrendo verso sud la dorsale centrale dell’isola, fiancheggiando i monti Pennini e oltrepassando quasi volando il sito megalitico di Long Meg and her daughters1.

Diedi solo una fuggevole occhiata a quelle protuberanze rocciose, pallide e diafane come la luna che, alta in cielo, illuminava il nostro cammino frettoloso.

Con il suo sorriso argentato, sembrò guardarci benevola.

Quando, però, ci ritrovammo all’interno del cerchio di pietre, una sensazione di sfrigolio sulla pelle mi percorse da capo a piedi per un istante lunghissimo.

Esso terminò solo quando anche l’ultimo masso grigiastro fu alle nostre spalle.

Sorpresa, mi volsi a mezzo per osservare il sito svanire nella coltre oscura della notte.

Come una serie di piccoli fantasmi evanescenti, scomparirono alla mia vista in pochi attimi.

Fui certa, in quel momento, di essere stata testimone inconsapevole di qualcosa di speciale, entro quel sito megalitico.

 Dubbiosa, mi chiesi se, effettivamente, i cerchi di pietre non fossero qualcosa di più che luoghi sacri adibiti allo studio degli astri in cielo.

Avrei tanto voluto chiedere spiegazioni a Duncan, ma era più che evidente che voleva allontanarsi dal territorio di Alec alla velocità maggiore possibile.

Sapeva dell’annullamento della faida, in caso di morte del sicario preposto a portare a termine il compito ma, evidentemente, Duncan non si fidava.

E come dargli torto, visto ciò che era avvenuto a causa di Alec?

Mi erano bastati pochi minuti per trovarlo terrificante.

Fu così che, nell’arco di un paio di giorni, volteggiando sui prati verdi dello Yorkshire, valicando i monti dai profili ruvidi che circondavano la vallata che conduceva a Skipton.

Fu così che ci ritrovammo a fiancheggiare pericolosamente l’hinterland della città di Bradford, ufficialmente quasi al di fuori del territorio di Alec.

La civiltà, e tutto ciò che ne conseguiva, non era mai stata più vicina di così.

Attraversare quel territorio così ricco di agglomerati urbani, e di occhi che avrebbero potuto vederci, sarebbe stata un’autentica faticaccia.

Purtroppo per noi, però, era anche il percorso più breve per raggiungere Matlock.

Avremmo dovuto tenerci a debita distanza da Manchester e Bradford e, nel contempo, attraversare l’autostrada che collegava le due città, il tutto senza farci vedere.

Vista la quantità mostruosa di persone che transitavano ogni giorno, sarebbe stata un’impresa titanica.

 Attendemmo quindi impazienti che la notte fosse nostra alleata e, dopo quasi un giorno passato a nasconderci, ci muovemmo non appena la luna venne velata da una pesante coltre di nubi temporalesche.

A giudicare dall’umidità nell’aria, ci sarebbe stata pioggia.

Pur sapendo quanto, una cosa del genere, fosse all’ordine del giorno, in Inghilterra, non potei fare a meno di imprecare tra i denti.

Ero già abbastanza stanca e indolenzita dalle privazioni del viaggio, senza dover percorrere le ultime miglia che ci separavano dalla meta, bagnata come un pulcino.

Nel sentirmi parlare con un gergo da scaricatore di porto, Duncan abbaiò un paio di volte, prima di darmi una spintarella con la spalla; voleva salissi in groppa.

Ormai ero così brava a comprendere ciò che voleva, da non ritenere più un disagio il fatto che non potesse parlarmi.

Lo accontentai, muovendomi con naturalezza, come se avessi passato la vita a cavalcare licantropi.

Non appena lui si mosse per uscire dal nascondiglio, le prime gocce di pioggia cominciarono a scendere su di noi.

Sbuffai, borbottando aspra: “Se non mi prendo una polmonite, sarò fortunata.”

Lui annuì col muso prima di mettersi a correre e, automaticamente, mi aggrappai alla sua morbida gorgiera.

Mi strinsi al suo corpo per essere meno visibile e, nel contempo, rendere lui più aerodinamico.

Zigzagò per un po’, passando da un cespuglio all’altro come un saltimbanco e, nel contempo, tenne sotto controllo le auto che sfrecciavano lungo l’autostrada.

A poca distanza, si potevano scorgere alcuni agglomerati urbani, oltre alle finestre ben illuminate e ai lampioni delle vie.

Che diavolo di giorno era? Ormai avevo perso il conto.

Forse era sabato, e le persone presenti in quelle case avrebbero fatto bisboccia fino a tarda ora.

“Che facciamo? Ti lanci lungo il prato sperando che nessuno guardi fuori e ti scambi per un fantasma?” sussurrai al suo orecchio.

Lui parve pensarci un attimo prima di annuire mentre io, guardandomi intorno con aria dubbiosa, dissi: “Guarda, c’è un buco… potresti passare ora.”

Non feci neppure in tempo a dirlo, che Duncan si lanciò verso l’autostrada, costringendomi a lanciare uno strillo di sorpresa e aggrapparmi alla meno peggio.

Le sue zampe frustarono il terreno bagnato sollevando schizzi di terra, fango ed erba, che finirono addosso ai miei abiti e al suo pelo candido.

Tenendo gli occhi socchiusi e la bocca serrata, per evitare che la melma mi colpisse in posti che non volevo, mi accucciai contro di lui.

 La sua falcata si fece sempre più lunga e possente e, con sguardo attento, tenni d’occhio i fasci dei fari delle auto in lontananza, calcolando mentalmente chi sarebbe arrivato prima.

Se ci avessero visti oltrepassare l’autostrada, avrebbero dato l’allarme, scatenando una curiosità morbosa di cui non avevamo certo bisogno.

Questo, inoltre, avrebbe attirato l’attenzione di chi avrebbe invece potuto capire al volo cosa potesse essere successo in quell’angolo d’Inghilterra.

Con un agile balzo, Duncan scavalcò il guard-rail dell’autostrada e da lì, in due rapide falcate, si portò sul lato opposto, trenta secondi prima che l’auto più vicina illuminasse la strada.

Un balzo, e l’oscurità tornò a sommergerci con il suo mantello protettivo, impedendo agli automobilisti di scorgere alcunché, oltre alle reti di protezione dell’autostrada.

Non contento, Duncan non si fermò finché non trovò un avvallamento nel terreno, tale da poterlo nascondere a sufficienza.

Lì, tossì quella sua risata che ormai conoscevo a menadito, tanto da portarmi a unirmi a lui ed esclamare, tra lacrime di ilarità: “Dillo che te la sei goduta un sacco!”

Lui continuò a ridere con quel suo uggiolare strano e io, nel dargli delle affettuose pacche sulla spalla, lo abbracciai attorno al collo, esalando: “Sei stato un mito, Duncan!”

Non solo ci aveva condotti oltre quell’ultimo ostacolo ma, da quel poco che sapevo di geografia, eravamo finalmente al sicuro nel Derbyshire.




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1: Long Meg and her daughters: è un cerchio di pietre dell’Età del Bronzo nei pressi di Penrith in Cumbria, Inghilterra nord-occidentale.

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Capitolo 11
*** XI. ***


XI.




 

 

 

Il passo di Duncan si fece più tranquillo, consapevole di essere finalmente nelle sue terre, ove la sua voce era legge e il suo incedere incontrastato.

Nonostante la pioggia, la stanchezza, la voglia di raggiungere la meta, Duncan procedeva come un re di ritorno da una battaglia.

L’andatura era serena, era l’incedere di chi sa di essere al sicuro e ben voluto.

La pioggia non lo turbava per nulla, e io ero troppo stanca per protestare e chiedergli di aumentare il ritmo.

Inoltre, capivo come potesse sentirsi, perciò lo lasciai fare.

Il ritorno a casa ha sempre qualcosa di dolce, ed è bello poterlo gustare appieno, senza intoppi di alcun genere.

A ripararci dagli sguardi indiscreti, ora, badavano le lande frastagliate e rigogliose del Peak National Park.

Dopo un lungo girovagare, trovammo infine un nascondiglio adatto in un anfratto naturale.

Rocce scoscese scivolavano intorno a noi, in direzione di una piccola vallata dalle irte sponde ricoperte di erba sottile.

Era il luogo ideale per non ricevere visite sgradite.

Lì, discesi dalla sua schiena e mi sedetti contro il muro di roccia che ci avrebbe garantito un riparo per le ore successive.

Duncan, dopo essersi scrollato di dosso l’acqua, si avvicinò a me col pelo fumante e mi sfiorò un poco il viso col naso umido.

Io sorrisi sonnacchiosa, mormorando: “Asciugati pure, io aspetterò il mio turno. Nel frattempo, schiaccerò un pisolino.”

Le tensioni di quelle ultime settimane, sembrarono essersi accumulate in quell’ultima ora di riacquistata libertà.

Con la consapevolezza di essere finalmente giunti al capolinea, il mio corpo cedette, facendomi crollare in un sonno privo di sogni.

 Per una volta, mi sentii libera dallo sguardo scarlatto del mannaro che aveva desiderato ucciderci.

Non mi accorsi neppure di Duncan, quando si incuneò sotto un mio braccio per accoccolarsi accanto a me, scaldandomi col suo corpo e il suo potere.

Mi ritrovai semplicemente abbracciata a lui, la mattina seguente, intenta a crogiolarmi nel suo abbraccio di lupo.

Godevo del tepore che sprigionava come una stufetta elettrica, senza sentirmi per nulla in colpa.

Ero stordita dalla fatica, dalla fame e dalla certezza di non essere più in pericolo a causa di Alec e di Freki.

Fu per questo che impiegai un minuto buono, prima di rendermi conto che due occhi neri ci stavano fissando dalla bocca della grotta dove ci eravamo rifugiati.

Quando me ne resi conto, la rigidità del mio corpo fece destare Duncan.

Il mannaro si resse sulle zampe anteriori, fissò in fretta l’apertura dell’anfratto prima di rilassarsi, abbaiare un paio di volte e mettersi in piedi con fare disinvolto.

Il ricordo di Freki, unito alla stanchezza, mi avevano messo giustamente in allarme, ma l’atteggiamento composto di Duncan mi rassicurò immediatamente.

Doveva trattarsi di un amico.

Osservai quindi curiosa il lupo grigio che ci aveva colti a riposare, mentre si avvicinava a noi con passo leggero e flessuoso.

In silenzio, ne ammirai le movenze così simili a quelle di un ballerino.

Le migliori étoiles del mondo avrebbero pagato oro, per potersi muovere come un licantropo.

In loro, c’era l’eleganza innata dell’animale selvatico che era parte integrante del loro essere e, nel contempo, una forza a stento trattenuta che dava un tocco di grazia in più al loro incedere.

Avevano la bellezza selvaggia di un tifone o di un uragano, una sorta di fascino ferino da cui era impossibile distogliere lo sguardo.

Quando il lupo si fermò, mi omaggiò con un profondo cenno del muso e io, guardando sorniona Duncan, sorrisi e gli chiesi: “Hai già spifferato tutto?”

Duncan annuì, prima di dirigersi verso l’uscita assieme al nuovo arrivato, probabilmente una sentinella del suo branco.

Non avendo altro da fare, mi accodai a loro.

I due lupi parvero confabulare tra loro con l’utilizzo del potere – potevo sentirlo sfrigolare intorno ai loro corpi come la scarica di un piccolo arco fotovoltaico.

Duncan, voltandosi all’improvviso verso di me, mi fece cenno di avvicinarmi alla vedetta.

Incuriosita, domandai: “Che c’è? Devo salire in groppa a lui, ora?”

Duncan assentì col muso bianco latte.

Sempre più confusa, esalai: “Perché?”

Lui mi fissò esasperato.

Di sicuro, la mia non era una domanda a cui lui potesse rispondere con semplici gesti, e non era il caso che lui si trasformasse solo per dar voce alla mia curiosità.

Ridacchiando, levai le mani per scusarmi e provai a ipotizzare i motivi di una simile decisione.

“Devi… avvisare qualcuno?”

Scosse il capo. Negativo.

Ritentai, dicendo: “Devi… ah, devi aprire casa, per caso?”

Annuì, portandomi a celiare: “D’aaaccordo. Non sia mai che io entri in casa tua senza un degno comitato di benvenuto, e il pranzo già in tavola. Scommetto che ti sentiresti mortalmente a disagio, se io non fossi accolta con tutti gli onori.”

Duncan mi mostrò i denti, infastidito, mentre il lupo grigio sghignazzava, divertito dal mio dire.

Fissai complice la sentinella, e sentenziai: “Bene, noi possiamo proseguire anche senza di te, Duncan. Vai pure e occupati di quello che devi, visto che ci tieni tanto ad apparire un perfetto padrone di casa.”

Sbuffò, ne fui assolutamente certa e, prima di andarsene, mi guardò con aria a dir poco esacerbata, dopodiché trotterellò via a passo piuttosto sostenuto.

Quella novità mi permise finalmente di vederlo in tutto il suo splendore di lupo.

Potevano esserci ben poche altre cose al mondo, più belle del suo volteggiare sull’erba, del modo in cui le sue zampe si limitavano a solleticare il terreno.

Appariva come un’evanescente creatura, niente affatto reale, nonostante sapessi che era fatto di carne, ossa e sangue.

Il fluire agile e possente dei suoi muscoli, contrastava di netto con la sua possanza.

Una qualsiasi altra creatura non avrebbe potuto muoversi in modo così sinuoso e coordinato.

Prima di quanto volessi, scomparve alla nostra vista, lasciandomi sola con un languore alla bocca dello stomaco, e la consapevolezza di aver appena assistito a uno spettacolo raro.

Era stata autentica magia.

Con un sospiro, mi volsi a osservare il lupo che attendeva solo una mia mossa.

Ammiccai, mormorando: “Beh, io sono Brianna. Tanto piacere.”

Il lupo abbaiò una volta, prima di picchiettare la zampa in terra per attirare la mia attenzione.

Con un artiglio, incise una roccia vicina con il proprio nome; Jessie.

Sorrisi deliziata.

“Tanto piacere, Jessie. Spero solo di non essere troppo pesante.”

Lui tossì la classica risata da lupo che tanto sapeva divertirmi e, senza più attendere, mi issai sulla sua schiena, mi strinsi alla sua gorgiera e sentenziai: “Bene, possiamo pure andare, Jessie. Fammi strada.”

Jessie trotterellò tranquillo per alcune centinaia di iarde, prima di cominciare a correre realmente.

Con mio sommo gaudio, percorse il Peak a una velocità tale da far quasi impallidire le più rinomate auto sportive europee.

Dopo aver intuito quanto fossi abituata a stare a cavalcioni di un licantropo, non si curò più di percorrere tratti agevoli o lineari.

Quasi avesse notato il mio divertimento, cominciò a deviare lungo le dorsali dei monti, balzando da spuntoni di roccia, o risalendo irti pendii scivolosi.

Il tutto con l’unico scopo di compiacermi.

La stanchezza che avevo avvertito la notte precedente si sciolse, in quelle brevi ore passate a cavalcioni di Jessie.

Nel contempo, la mia mente si abbeverò dello splendido territorio che il licantropo mi mostrò, durante la nostra spericolata gita turistica attraverso il parco nazionale.

Ogni valle, ogni più piccolo anfratto, o macchia boschiva, mi penetrò nella mente e nel cuore.

Sensazioni piacevoli mi riempirono l’animo e, solo a stento, mi accorsi delle miglia che ci lasciammo alle spalle, nel nostro incedere verso sud.

Il verde dei boschi e dei prati, che scivolarono dietro di noi lungo i pendii, si confusero con i marroni cupi e i grigi sbiaditi delle rocce.

L’aria profumava di erica, brugo e di miriadi di altri fiori che non riuscii a riconoscere, tanta era la varietà di aromi che investì le mie nari.

Non me ne lamentai.

Era tutto troppo inebriante, per lagnarsene.

Mi limitai a godere del tepore della terra e del sole, degli odori che ammorbavano l’aria e dei suoni quieti della brughiera, che contribuirono a rendere quel viaggio unico e irripetibile.

Quando all’imbrunire raggiungemmo finalmente Arbor Low1, rallentammo fino a bloccare i nostri passi.

Lì, restammo per almeno un’ora, attendendo che la sera calasse e i turisti nelle vicinanze del sito archeologico si allontanassero per concederci il via libera.

Il mio stomaco ormai vuoto – e non più distratto dalla bellezza del viaggio – stava reclamando da tempo un po’ di ristoro.

Lo sguardo spiacente di Jessie mi portò ad accarezzargli il capo.

“Non è colpa tua e scommetto che, non appena saremo a casa di Duncan, potrò sfamarmi più che bene.”

Lui annuì e mi leccò una mano, prima di annusare l’aria e alzarsi dal riparo fornito dal canale ove ci eravamo infilati.

Forse, le persone si erano allontanate dal sito.

Dopo un attimo di tentennamento, mi fece cenno di uscire e, da lì, proseguimmo svoltando leggermente verso est, in direzione di Farley.

Il borgo dove abitava Dunca si trovava poco più a nord, rispetto alla città di Matlock.

Quando il cielo assunse i toni di un bel color zaffiro, punteggiato di diamanti scintillanti, giungemmo infine alla nostra meta: Farley.

Al limitare sud-est del paesino, Jessie si fermò e indicò col muso una casa circondata da un’alta siepe di pini, contigua a un interminabile boschetto di faggi dall’alto fusto.

Scesi perciò dalla sua groppa, comprendendo chiaramente quanto fosse rischioso, per Jessie, inoltrarsi da lupo lungo la via che conduceva all’abitazione.

Indicai lo spicchio di casa visibile attraverso l’alto cancello di ferro battuto, distante qualche centinaio di iarde, e gli chiesi: “La casa di Duncan?”

Lui annuì prima di trotterellare via nella notte, lasciandomi sola ai confini del centro abitato.

Sapevo con certezza che Jessie si era semplicemente limitato ad allontanarsi dalla via, per evitare eventuali sguardi indiscreti.

Potevo percepire la sua aura ancora piuttosto chiaramente ma, ugualmente, mi mossi alla svelta per avvicinarmi alla casa di Duncan.

Non mi piaceva camminare da sola, al buio, in un luogo che non conoscevo, pur sapendo che Jessie e Duncan erano vicini e a portata di urlo.

Con passo spedito, perciò, mi avvicinai alla casa di Duncan, scivolando all’interno della proprietà dopo aver aperto il cancelletto pedonale.

Non appena mi ritrovai al sicuro nella tenuta di Duncan, osservai l’enorme casa a due piani dalle pareti intonacate di un caldo color pesca, e dalle imposte in legno scuro.

Dabbasso, proprio come mi aveva raccontato Duncan, bei cespugli di rose multicolori si intervallavano a profumatissimi gelsomini rampicanti.

Essendo in piena fioritura, tinteggiavano i muri del pian terreno con i loro boccioli bianco latte, sprigionando un profumo inebriante.

Poco distante dall’abitazione, una piccola dependance fungeva da studio veterinario.

Sul limitare della proprietà, un’enorme stalla si estendeva fino alle recinzioni che costeggiavano il bosco, dove sapevo trovarsi il luogo di potere del branco di Matlock.

Distratta da tutte quelle novità, sobbalzai leggermente quando udii la porta d’ingresso aprirsi.

Avvolta dalla calda luce proveniente dall’interno, riuscii a scorgere perfettamente il padrone di casa in tutta la sua fiera bellezza.

Abbigliato con un camicia bianca a righe azzurre e un paio di jeans schiariti, mi ritrovai a fissare senza parole Duncan che, con un sorriso e una mano allungata verso di me, mormorò: “Ben arrivata, Brianna. Prego, entra.”

Vedere Duncan con i suoi abiti, sbarbato, i capelli curati e diligentemente stretti in una coda dietro la nuca, mi fece quasi sentire a disagio.

Ora, il contorno volitivo del suo viso era più che evidente, gli alti zigomi si fondevano perfettamente con la linea della mascella e il mento leggermente squadrato.

I suoi capelli morbidi, e mossi come spuma marina, non nascondevano più la sua fiera bellezza.

Ero talmente abituata alla sua versione ‘selvaggia’ che, per poco, non lo riconobbi.

Esitai un attimo prima di accennare un sorriso e accettare la sua mano, ridacchiando imbarazzata: “Posso farmi una doccia? Mi sento più sporca di una latrina.”

Lui rise sommessamente, un suono basso e profondo che in quei giorni, nonostante tutto, mi era mancato e, annuendo, mi accolse in casa.

Percorremmo insieme il lungo corridoio che conduceva a una bella scala in legno di noce, ricoperta da una serie di piccoli tappeti damascati.

Dopo essere saliti al primo piano, mi indicò le porte che si affacciavano sul corridoio e, a mo’ di spiegazione, disse: “La prima a sinistra, è il mio studio. Questa sarà la tua stanza e, quella dopo, è la mia. Laggiù in fondo c’è un piccolo ripostiglio mentre, la porta dinanzi a te, alla fine del corridoio, è il bagno.”

Sorrise impacciato per un attimo, prima di aggiungere: “Dentro, ho già messo degli asciugamani puliti e un po’ dei miei abiti. Ti staranno sicuramente abbondanti, ma è sempre meglio di niente. Comunque, ho già chiamato mio cugino Jerome e sua sorella Erika, che ha più o meno la tua taglia,  e si è offerta di darti i suoi abiti. Saranno qui tra un’ora circa.”

Sorpresa che, in così poco tempo, fosse riuscito a organizzarsi a quel modo, lo fissai a occhi sgranati ed esalai: “Più efficiente di un’agenzia di viaggi… wow.”

Duncan rise, mi diede un buffetto sul naso e mi sospinse gentilmente verso il bagno, mormorando: “Coraggio, lavati mentre io faccio scaldare della pizza.”

Al solo sentir nominare la parola pizza, il mio stomaco brontolò come un orso al suo risveglio invernale.

Arrossendo copiosamente, risi e me la svignai in direzione del bagno, ben decisa a togliermi di dosso tutto il sudiciume che avevo sulla pelle, per poi dedicarmi a sfamare il mio appetito smodato.

Non appena entrai, avvertii tracce residue di calore e vapor d’acqua.

Nella stanzetta linda e dalle pareti color acqua marina, si poteva ancora notare il passaggio di Duncan.

Il suo profumo muschiato indugiava tra quelle mura, nonostante la finestra fosse stata lasciata aperta per lasciar fuoriuscire il vapore.

Guardandomi intorno per essere certa di non dover uscire dal box doccia alla ricerca di qualcosa, misi tutto ciò che mi serviva su un mobiletto a portata di mano.

Con non poca gioia, infine, mi tolsi di dosso gli abiti logori e sporchi di terriccio per poi tuffarmi con un sorriso sotto il getto dell’acqua bollente.

Il contatto con il mio corpo fu elettrizzante.

Dopo un viaggio così disagevole e pieno di pericoli, quel breve interludio mi parve la cosa più bella del mondo.

Rimasi per dieci minuti buoni a crogiolarmi sotto l’acqua, solo per gustarmi quel vellutato calore scivolarmi sul corpo martoriato e stanco.

Ora che potevo controllare con maggiore attenzione, notai non pochi lividi, parecchi graffi un po’ ovunque e la necessità impellente di un’estetista.

Ridendo, mi appuntai mentalmente di chiedere alla sorella di Jerome da chi potessi andare.

Ero del tutto sicura che, se avessi domandato a Duncan, sarebbe caduto dalle nuvole.

Quando ritenni di essere sufficientemente pulita, uscii dalla doccia e mi asciugai, sfregandomi energicamente con una salvietta.

Il profumo dell’origano fresco e del pomodoro raggiunsero anche il bagno, facendomi freme d’impazienza.

Quell’aroma delizioso fece nuovamente brontolare il mio stomaco.

Ben decisa a non attendere un minuto di più, afferrai i pantaloni della tuta di Duncan e li indossai rivoltandoli parecchie volte sulle caviglie.

Dopo aver stretto ben bene la fettuccia di corda in vita, presi una delle sue camicie e me la misi al volo, uscendo quasi di corsa dal bagno.

Stavo ancora sistemandomi la seconda manica sul gomito, quando Duncan sbucò da dietro una porta.

Vedendomi arrivare dalle scale, mi sorrise e mi informò che la cena era pronta.

“Ottimo!” esclamai, bramosa di mangiare.

Entrai in cucina, seguendolo affamata.

Lì, fui costretta a bloccarmi, sorpresa di fronte a ciò che vidi.

L’ambiente era interamente sui toni del giallo chiaro e del bronzo e la cucina, in tipico stile country inglese, era in legno color ciliegio.

Le vetrinette, abbellite da leggere tendine di pizzo, contenevano piatti e bicchieri in discreta quantità.

Molteplici mensole, appese ai muri di mattoni, sostenevano il peso di diversi barattoli di spezie, profumi ed erbe officinali.

Ai lati dell’unica, ampia finestra rivolta verso la stalla, una vasta collezione di pentole in rame faceva bella mostra di sé assieme a un’enorme affettatrice Berkel.

Una consolle centrale in marmo bianco e grigio fungeva da tavolo, e quattro alti sgabelli di legno chiaro attendevano pazienti di essere occupati.

Sul lucido ripiano marmoreo, due enormi piatti ricolmi di pizza fumante erano pronti per essere divorati.

La sola vista del cibo distolse la mia attenzione dalla bella e fornitissima cucina.

Senza neppure guardare Duncan, che si avvicinò con due bicchieri stracolmi di Coca-Cola, mi misi a sedere e dichiarai allegramente: “Pancia mia fatti capanna!”

Duncan rise nel consegnarmi uno dei bicchieri.

Sorridendogli grata, addentai il primo pezzo, ingoiandolo quasi intero per la foga di far tacitare il mio stomaco impaziente.

Non mi sembrava vero di poter mangiare a un tavolo, con un tetto sopra la testa a proteggerci, in una casa accogliente e con tutte le comodità possibili.

Quando ingollai anche il secondo pezzo di pizza, sempre cercando di non ustionarmi, mi volsi a guardare Duncan con un sorriso estasiato ed esalai: “Non posso davvero crederci… dimmi che non sto sognando. Siamo veramente arrivati a destinazione?”

“Sì, Brianna. Siamo a casa” mi sorrise lui.

Il modo in cui lo disse mi scaldò più della doccia appena fatta.

A casa.

Quella parola mi era parsa scontata, fino a poco tempo prima ma, dopo quello che avevo vissuto in quel mese così pieno di novità e di pericoli, mi fece piacere sentirla. 

Certo, ero ben lontana dalla mia, di casa, eppure sentivo che quelle pareti amene avrebbero protetto anche me, e non solo il loro proprietario.

Continuando a mangiare in silenzio, sentii finalmente tornarmi le forze.

Con questa consapevolezza, anche l’ansia per Gordon tornò a farsi sentire, a premere forte contro le pareti del mio cervello.

Come avendo subodorato il mio stato, Duncan allungò un portatile verso di me, domandandomi: “Sicura di volerlo usare adesso?”

Per contro, replicai: “Che giorno è oggi?”

“Martedì, perché?” mi rispose lui, curioso.

“Il martedì sera, Gordon va sempre a calcetto. Potrà parlare agevolmente o, perlomeno, non ci sarà Patrick a origliare” gli spiegai succintamente, lanciando occhiate alternate a Duncan e al telefono.

“In ogni caso, sarebbe meglio gli parlassi io, prima. Non vorrei che, udendo la tua voce, si lasciasse andare a esclamazioni tali da attirare troppa attenzione” mi propose Duncan, pensieroso.

Annuendo, dissi controvoglia: “Vero… se lo conosco bene, mi insulterà a spron battuto, quindi è meglio se prima lo avverti di non farlo.”

Duncan sorrise nel mettere il portatile sulla sua base, azionando poi il comando vivavoce.

Dopo un attimo di tentennamento, digitai il numero di Gordon prima di mettermi in attesa, le mani sulla bocca per non lasciarmi sfuggire neppure un lamento.

Al quarto squillo, Gordon rispose con tono dubbioso.

“Chi è?”

“Gordon Smithson?” chiese Duncan, formale.

“Sì, perché? Non ti conosco… chi sei?” replicò Gordon, facendosi sospettoso.

Degno di lui.

Duncan sogghignò, fissandomi divertito, e proseguì: “Non importa chi sono io… ho alcune informazioni da darti, ma richiedono la tua discrezione più assoluta, quindi niente schiamazzi, o metto giù subito.”

“Il tuo tono non mi piace, amico” brontolò Gordon, facendosi teso.

Ridacchiai sotto i baffi.

Ecco che entrava in scena il lato più burbero di Gordon.

Anche Duncan parve divertito dal tono minaccioso di Gordon ma, cercando di restare serio, aggiunse: “Non ti deve necessariamente piacere, ma ho bisogno di sapere che sarai in grado di mantenerti impassibile qualsiasi cosa ti dirò.”

Un attimo di silenzio e, alla fine, Gordon chiese nervosamente: “Sai qualcosa di Brie?”

Il suo tono mi commosse.

Anche se Gordon non era un fratello smanceroso – neppure io, lo ero – ci volevamo bene davvero, e la sua voce tesa e ansiosa insieme me ne diede un’ulteriore conferma.

Sorrisi a Duncan, mentre lui mormorava: “Sì, ne so qualcosa, ma deve rimanere tra te e me.”

“E perché dovrei starmene zitto?! Mi basterà…” ringhiò Gordon, prima di sbottare: “ … merda, non si vede il numero… insomma, che cavolo vuoi?”

Cercai di non ridere e Duncan, serioso, asserì: “Non voglio nulla, solo che mi ascolti. Ora ti passerò Brianna, ma vorrei che chi è con te non se ne rendesse conto. Ne va della sua sicurezza.”

“Se provi soltanto….” iniziò lui, subito zittito da Duncan.

“Per favore, non farti notare. Ti spiegherà tutto Brianna” gli ricordò in fretta Duncan, prima di indicarmi il portatile. “Tuo fratello ha la lingua lunga come te.”

“Lo so” ridacchiai, prima di esordire dicendo: “Ehi, Gordon… ciao.”

Ehi, Gordon, ciao?!?” ringhiò lui, scimmiottando la mia voce. “Certo che hai un bel coraggio… Annie.”

Strizzai un occhio a Duncan, spiegandogli succintamente: “Mi chiama Annie solo quando è furioso, perché sa bene quanto io non sopporti di essere chiamata così. Nessuno si ricorda mai che il mio secondo nome è Ann, per cui…”

“Vuoi spiegarmi che diavolo sta succedendo?” mi interruppe Gordon, riuscendo a mantenere un tono di voce piuttosto calmo, nonostante l’ansia di fondo.

“Te la faccio brevissima, così ti calmi. Sono scappata perché Patrick avrebbe potuto farmi a fettine, o usarmi al prossimo barbecue in giardino come spuntino per i cani” gli gettai lì in tutta fretta.

Come avevo previsto, la mia sparata colse nel segno, azzittendo per un momento Gordon e la sua sfuriata, permettendomi così di parlare con più calma.

Spiegare cosa fosse successo non era semplice, ma volevo che capisse cosa vi fosse stato di così grave da spingermi ad allontanarmi da casa.

“Posso dirgli di te?” chiesi piano a Duncan, guardandolo dubbiosa.

Annuendo, Duncan asserì: “Sì, se pensi che possa sopportare lo shock… e rimanere zitto.”

Assentii, tornando a rivolgermi a mio fratello.

“A quanto vedo ti ho messo a tacere… bene… sai del vizio della caccia di Patrick, vero?”

“A-ha” asserì, cauto.

“E del fatto che non possiamo andare in cantina, pena punzioni esemplari…” continuai, lanciandogli una notizia alla volta come per attirarlo nella mia rete.

“Sì” continuò lui, sempre più cauto.

“Beh, ho infranto le regole” borbottai scrollando le spalle, nonostante sapessi che non poteva vedermi.

“E pensavi che per questo ti avrebbe fritto il cervello?” ghignò con ironia, Gordon.

Il rumore di fondo era sparito. Forse si era spostato in un luogo più appartato.

“E’ quello che ho trovato in cantina, che sarebbe valso la mia condanna alla graticola” specificai. “Gordon, tenevano prigioniero un licantropo.”

Altro silenzio. D’accordo, forse ero stata un po’ troppo diretta, ma in che altro modo potevo spiegare quel che era successo?

“Sei ubriaca? O ti stanno costringendo con la forza a… quello che ha parlato prima, chi cavolo è? E’ lui che ti tiene prigioniera?!” sbottò Gordon, alterandosi.

Correndo ai ripari, esclamai in fretta: “Gordon, zitto! Non alzare la voce e, soprattutto, non offendere persone che non conosci! Nessuno mi tiene prigioniera! La persona con cui hai parlato prima si chiama Duncan, e l’ho liberato dalla gabbia che lo teneva prigioniero nella cantina di Patrick. E’ per questo che siamo scappati. Volevano farlo fuori!”

“Farlo… fuori? Okay, dai, se è uno scherzo per mascherare il fatto che sei scappata con il tuo ragazzo…” cominciò col dire Gordon.

Io lo bloccai sul nascere, il viso vermiglio per l’imbarazzo, e sibilai stizzita: “Ma che vai a pensare?! E con chi sarei dovuta scappare, scusa?!”

“Con Leon, no?” chiosò mio fratello, come se fosse la cosa più ovvia al mondo.

Duncan mi fissò con autentica sorpresa e un sopracciglio scuro gli si levò ironico, come se si aspettasse da me qualche confessione con il cuore in mano.

Lo mandai al diavolo con un gesto della mano e ringhiai subito dopo: “Senti un po’, ma chi è che va in giro a dire che io starei con Leon? Ci siamo mollati un anno fa!”

“Ah… lui dice di no. Dice che tu fai la reticente.”

“Reticente?” esalai sconvolta. E da quando Leon usava termini simili?

Gordon ridacchiò, vagamente più calmo, e precisò: “La parola l’ho messa io. Lui dice che fai la difficile, anche se sembra veramente che tu gli manchi.”

“Ah, ecco, ora sì che lo riconosco” brontolai. “Beh, comunque, tu che sei mio fratello, dovresti credere a me, non a lui.”

“Scusa ma, visto che lui non c’entra, che succede?” mi domandò Gordon, con una risatina.

“Senti, lo so che ti sembrerà tutto assurdo, e che le mie parole ti faranno ricredere sulla mia salute mentale…” borbottai, cercando di pensare a come meglio spiegare la cosa. “… ma i licantropi esistono sul serio, sono allergici all’argento e tutto il resto… e Patrick si da alla caccia grossa per predare loro, non i cervi o i germani reali.”

Altro silenzio.

D’accordo, neppure messa così era credibile, ma come potevo fare per spiegargli  una cosa che pure io, nelle prime ore della nostra fuga, avevo stentato ad accettare?

Gordon mi lasciò nel dubbio di un rifiuto totale per un minuto buono, prima di chiedermi dubbioso: “E’… dunque era d’argento, il proiettile che ho trovato in cortile? Vuoi dirmi questo, Brie?”

“Un proiettile d’argento?” ripetei, sorpresa non meno di Duncan.

“Quando mi sono svegliato e non ti ho trovata in camera, sono sceso in cortile per vedere se la tua auto era ancora lì e, in mezzo alla ghiaia, ho trovato un proiettile. Aveva un’ogiva stranissima, conteneva del liquido simile al mercurio, e il corpo era interamente d’argento. L’ho trovata una cosa talmente assurda, che me la sono tenuta per me. Quando, poi, ho visto arrivare Patrick assieme ai suoi amici, mi sono infilato in casa e ho fatto finta di dormire” spiegò Gordon, con voce roca.

“Hai fatto bene” borbottai, scura in volto.

“Forse, lo hanno perso mentre mi portavano in cantina. Alcuni di loro avevano le cartucciere appese alle spalle. Uno può essere scivolato a terra” mi spiegò Duncan, pensieroso.

“Ehi, Brie…” intervenne Gordon, la voce sempre dubbiosa e roca.

“Sì, dimmi.”

“Sei sicura di essere a posto? Sì, insomma… nessuno ti farà del male o che, lì?”

Sorrisi, e mormorai convinta: “Tranquillo. Ho salvato niente meno che il capo clan, quindi mi saranno tutti più che debitori. E poi, mille volte meglio stare qui, piuttosto che vicino a Patrick.”

“Era più che furibondo, quando ha scoperto che non eri a casa. E, da quel che dici, penso che non fosse preoccupato per la tua mancanza, ma per quella del tuo… amico” brontolò Gordon, con voce tesa. “Avrebbe scoperchiato l’intera contea, se gli fosse stato possibile. E Mary B era fuori di sé dalla paura.”

“Lo immagino ma, per il momento, non dirle niente. Andrebbe a dirlo a Patrick, ed è meglio di no” gli consigliai, pur spiacendomi per il dolore causato a Mary B.

“D’accordo, non dirò nulla” mi promise, prima di aggiungere: “Quindi, siamo sicuri che non sei ricoverata in manicomio, giusto? E’ tutto vero, quello che mi hai detto?”

Ridacchiai – Gordon aveva più fantasia di me, visto che il suo sogno era diventare un fumettista di professione – e dissi: “Ho faticato anch’io a crederci, Gordon. Ma è una cosa che abbiamo nel sangue, e finirai col capirlo anche tu.”

“Che intendi dire?” mi domandò, sospettoso.

“Ricordi i racconti della nonna? Quelli sulla sua famiglia?” gli ricordai.

“Quali? Quelli sulle streghe?” ridacchiò nervosamente mio fratello.

“Sì, quelli. Non erano affatto favole della buonanotte, Gordon.”

Era giusto che sapesse, anche se mi sentivo in colpa per il modo barbaro in cui gli stavo esponendo i fatti.

“Che intendi dire?”

“Cerca la parola wicca su internet, se non sai cos’è. Solo il significato più antico, però. Così, ti farai un’idea di chi sono, e di chi erano la mamma e la nonna… e del perché ci hanno educato a quel modo” mormorai, lanciando la mia ultima bomba.

Lo sentii deglutire – doveva essere parecchio fuori di sé, al momento – ma riuscì a dirmi in qualche modo: “Beh, sì, okay… wow,… va bene… guarderò… su internet. Tu chiama, però.”

“Lo farò, Capitano” gli promisi.

“E piantala, scema” brontolò lui, riattaccando.

Sorrisi, sentendomi davvero sollevata all’idea di aver parlato con mio fratello e, rivolta a Duncan, asserii: “Lo chiamo ‘Capitano’ perché Gordon è sempre stato un fanatico di Capitan Harlock.”

Ma lui non mi prestò affatto ascolto, e la sua domanda arrivò lapidaria.

“Leon?”

Avvampando nuovamente, scesi dallo sgabello per sparecchiare e, con gesti nervosi, borbottai: “E’ solo una sciocchezza. Ci siamo frequentati per un po’, prima che il mio cervello tornasse a funzionare e mi facesse capire che non era il ragazzo adatto a me. O che io non ero adatta a lui. Fai un po’ tu.”

“E come mai?” mi domandò, ridacchiando mentre mi aiutava a riempire la lavastoviglie.

Lo fissai malissimo, ma ugualmente risposi.

“E’ semplice. Pensava un po’ troppo alle mie tette, e poco alla mia testa.”

Quel commento gli fece perdere immediatamente il sorriso e, torvo, mi chiese: “Ha osato… toccarti?”

“Non nel senso tremendo a cui stai pensando tu in questo momento” tenni a specificare, sorridendo per tranquillizzarlo.

Con un sorriso perso in ricordi agrodolci, mormorai: “Una palpeggiata di troppo, e si è preso una sberla. Niente che non potessi gestire. Lui, semplicemente, andava a una velocità doppia rispetto alla mia, e io non volevo… beh, insomma…”

“Arrivare al traguardo prima del tempo” terminò per me Duncan, chiudendo la lavastoviglie prima di accompagnarmi fuori dalla cucina.

Annuii, grata per l’aiuto, e ammisi: “Era carino, davvero carino con me, però non volevamo le stesse cose, se capisci che intendo.”

“Come tutti gli adolescenti” esalò sconsolato Duncan.

Risi, nel notare il suo tono di voce e, dopo averlo seguito all’interno di una stanza attigua alla cucina, gli domandai: “Perché dici così?”

Subito dopo avergli chiesto spiegazioni, la mia bocca si spalancò nuovamente per la sorpresa, quando mi ritrovai a fissare il meraviglioso salottino in cui Duncan mi aveva portata.

Come per la cucina, anche quella stanza sembrava uscita dal vecchio west.

I divanetti avevano il telaio in legno a vista, ed erano ricoperti da morbidi cuscini a fantasie fiorate.

A ricoprire parte del parquet di rovere, un bellissimo tappeto a fantasie damascate, color rosso cupo e marrone, si estendeva sul pavimento a circondare i divani.

Sfiorai con lo sguardo il tavolino in noce, che si ergeva sulle sue piccole zampe tra i due divanetti.

Poco più in là, un bel camino in sasso riempiva l’angolo più lontano del salotto.

Poco distante, una stupenda cassettiera di legno decorato conteneva sicuramente i ceppi necessari per accenderlo.

Continuando ad ammirare la stanza graziosamente arredata, mi sorpresi nel vedere un LCD a 40 pollici, sistemato su un mobile in legno di noce.

L’impianto era affiancato da un bellissimo - quanto moderno - impianto stereo, corredato di lettore blue-ray e impianto home theatre.

Le pareti, interamente ricoperte di pannelli di legno scuro e lucido, erano abbellite da quadri di scene campestri, scorci del luogo e una serie di ferri di cavallo dall’aria piuttosto antiquata.

“Devo supporre che ti piaccia” mi disse, sorridendo divertito di fronte al mio stupore.

“Sì… è davvero accogliente” annuii, osservandolo mentre apriva uno stipetto della cassettiera per estrarre un CD, che subito dopo inserì all’interno dell’impianto stereo.

Una dolce sinfonia di flauti e archi inondò l’ambiente, rimbalzando sulle pareti come acqua di un ruscello.

Rapita da quei suoni così belli, mi sedetti su uno dei divani, chiedendogli: “I pannelli di legno servono a far riverberare i suoni, giusto?”

“Sì, li ho fatti installare così di proposito” assentì compiaciuto, sedendosi dinanzi a me.

Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da quella melodia che non conoscevo, la mente rilassata e il corpo sprofondato in quei morbidi cuscini che sembravano avvolgere il mio corpo stanco.

“Pensi che Gordon abbia creduto alle tue parole?”

La voce di Duncan mi giunse quasi sussurrata, come se non volesse disturbarmi.

Annuii debolmente, gli occhi ancora chiusi per godere al massimo di quei momenti di pace assoluta.

“Gordon ha una mente meno analitica della mia, si affida molto più di me alla fantasia, per cui assorbirà quel che gli ho detto senza troppo danno. E poi, quel proiettile gli ha messo abbastanza dubbi addosso da credermi sulla parola.”

“E, come dici tu, buon sangue non mente.”

Riaprii gli occhi per un momento, annuendo nuovamente.

“Credo che percepirà la verità nelle mie parole, una volta passato il momento di stordimento. È sempre stato così, tra noi due.”

“Dovete avere un bel rapporto” ipotizzò, distogliendo lo sguardo per poi lasciarlo scivolare nel vuoto, come se i suoi pensieri stessero vagando verso un passato che lo faceva soffrire.

“Sì” mi limitai a dire, sperando che mi parlasse di ciò che lo angustiava.

Speranza vana.

Non seppi dire per quanto tempo rimasi ad attendere, invano, che lui esponesse i suoi tormenti.

Quando udii suonare il campanello di casa, non potei esimermi dal sobbalzare per la sorpresa.

Riscuotendosi dal torpore in cui anche Duncan era caduto, mi avvertì con un mezzo sorriso: “E’ Jerome.”

“Capisco” assentii, osservandolo uscire dalla stanza col suo passo felpato ed elegante. Era un incanto stare a guardarlo.

Pochi secondi dopo, simile a un tornado, entrò un giovane alto e dalle ampie spalle, neri riccioli a incorniciare un viso solare, e un sorriso che avrebbe potuto illuminare l’intera stanza.

Occhi color del cielo azzurro mi scrutarono curiosi.

Senza neppure starci a pensare, sorrisi e sentenziai: “Sei Jerome, vero?”

“Esatto” annuì lieto, allargando il sorriso e allungando una mano verso di me. “Tanto piacere di conoscerti, Brianna. Io sono Jerome Rowley e sono il cugino di Duncan, oltre che il suo Sköll.”

Stringendo la sua mano, avvertii nuovamente quella strana sensazione di pace e tranquillità che avevo avvertito la prima volta che Duncan mi aveva toccata.

Era come se lui mi fosse familiare da sempre.

Anche Jerome dovette avvertire la stessa cosa, perché mi fissò curioso prima di dire a Duncan, dietro di lui: “E’ davvero una wicca… sento il suo potere che vibra come le corde di un’arpa. E deve essere davvero potente.”

“E’ quello che scopriremo, ma non stasera. Hai portato le cose che ti ho chiesto?” asserì Duncan, invitandolo a sedersi.

Annuendo, Jerome mi consegnò una borsa di carta ricolma di abiti e mi spiegò: “Erika ti manda questi, sperando ti vadano bene. E’ spiacente di non essere potuta venire di persona a salutarti, ma aveva già un impegno con le sue amiche, e così…”

“Oh, non c’è alcun problema!” mi affrettai a dire. “E’ stata anche troppo gentile a mandarmi tutta questa roba.”

“Erika ha un armadio pieno di abiti, e neppure si accorgerà della loro mancanza” ghignò Jerome, ammiccando perfido. “Allora, com’è accaduto che una ragazza umana, pur se wicca, ha salvato il nostro Fenrir? Duncan è stato sintetico come al solito, mentre mi parlava mentalmente.”

Avevo già ipotizzato qualcosa di simile, specialmente quando avevo visto Duncan in compagnia di Jessie, quella mattina.

Sentirlo confermare da Jerome non fece che avvalorare la mia ipotesi, secondo cui i licantropi si parlavano tramite la telepatia.

In fondo, cosa avrei potuto aspettarmi, da creature mitiche come loro? Ugualmente, sospirai esasperata e scossi il capo.

Prima o poi mi sarebbe scoppiato il cervello, a causa di tutte quelle informazioni; ne ero sicura.

Duncan, forse esacerbato dall’indelicatezza del cugino, fissò malissimo Jerome – che ridacchiò imbarazzato – prima di spiegarmi l’arcano.

“Quando siamo abbastanza vicini, possiamo parlarci mentalmente, evitando così che l’uomo senta i nostri ululati. Il branco sa che sono tornato, e che domani ti presenterò al Consiglio.”

“Eh?! E questo non potevi dirlo anche a me?!” esalai, improvvisamente terrorizzata.

Il Consiglio? E che avrei detto? O fatto? Sarebbero stati lieti o infuriati, sapendomi qui?

Allungandosi per prendere nella sua mano una delle mie, Jerome mi sorrise comprensivo e mormorò: “Nessuno oserebbe farti del male, Brianna, visto che hai salvato il nostro Fenrir da morte certa ma, anche nel caso in cui qualcuno avesse delle rimostranze, hai la mia parola d’onore che non ti verrà torto un capello. Io mi impegno a proteggerti dal branco, e lo farà anche Lance, l’Hati di Duncan. Nessuno di noi si tirerà indietro, di fronte a un potenziale pericolo.”

Annuii, ringraziandolo per la gentilezza ma lui, scuotendo il capo, replicò bonariamente: “Nessun disturbo, Brianna. Tengo molto alla testa calda che siede lì vicino a te, e i suoi amici sono miei amici. Tanto più quando sono carini come te.”

Risi divertita – al contrario di Duncan, che sbuffò indispettito – prima di esalare: “Okay, adesso so che hai bisogno di occhiali, Jerome.”

“Oh, no, mia cara. Ci vedo benissimo” sogghignò per contro lui, prima di vedersi fulminare da un paio di occhi verdi e taglienti come spade.

Tornai a ridere delle loro baruffe silenzio e, alzatami dalla poltrona, dichiarai: “Se mi permettete, penso mi cambierò. Mi sento un po’ ridicola, così vestita.”

“Vai pure, Brianna” mi sorrise Duncan, tornando poi a fissare malissimo il cugino.

Ammiccando in direzione di Jerome, che mi strizzò l’occhio con fare complice, salii in fretta le scale per cambiarmi.

Seguendo le indicazioni datemi in precedenza da Duncan, entrai in quella che sarebbe stata la mia stanza per un po’.

Lì, trovai ad attendermi un letto dal telaio in ferro dalle linee squadrate e molto semplici, tipicamente maschili.

Un mobile a tre ante color ciliegio, un alto specchio a muro, una cassettiera dal taglio minimalista e un piccolo comodino, completavano l’arredamento della stanza.

Ferma sulla soglia, notai delle sottili tacche nell’intelaiatura.

 e, sfiorandole

Le sfiorai delicatamente con un dito, e sorrisi spontaneamente.

Quando io e Gordon eravamo piccoli, avevamo inciso tacche simili nelle nostre camere, per comprendere i progressi nella nostra crescita.

Possibile che quella fosse stata la stanza di Duncan, quando era stato solo un bambino? Sembrava plausibile.

Entrata che fui, appoggiai la borsa sul copriletto in stile patchwork, ne estrassi un paio di jeans elasticizzati e una maglietta dei Metallica, con tanto di cantante urlante nel mezzo.

Ridendo di fronte a quella faccia, sorrisi sorpresa quando notai anche due paia di indumenti intimi nuovi di zecca.

Scrutandoli grata, mi ripromisi di ringraziare calorosamente Erika per il bel gesto.

Dopo aver indossato slip e reggiseno, passai alla maglietta, che mi stava a pennello – forse troppo – e ai jeans elasticizzati a vita bassa.

Nel complesso, mi stava tutto perfettamente. Anche troppo.

Il che, mi diede parecchio da pensare. Quanto mi aveva guardata, Duncan, per essere certo che Erika avesse la mia stessa taglia?

Scuotendo il capo e preferendo non stare a pensarci troppo, tornai dabbasso e, con un sorriso, esclamai allegra: “Allora? Come sto?”

Jerome fischiò compiaciuto, asserendo: “Quella maglietta sta decisamente meglio a te, che a Erika.”

Risi, mentre Duncan scuoteva il capo disgustato e Jerome si accodava a me in un’esplosione di ilarità.

“Sei davvero spudorato. Non hai minimamente pensato che Brianna potrebbe sentirsi in imbarazzo, sentendoti parlare così?” brontolò Duncan, lanciandomi brevi sguardi da sotto le lunghe ciglia scure.

“Non mi sembra per nulla in imbarazzo. E una wicca sa per certo, se la sto prendendo in giro o meno” replicò serafico Jerome.

Un attimo dopo, si fece serio, e aggiunse: “Lasciatelo dire, cugino, tu non le dai una mano facendo lo scontroso a questo modo. Anche se so che è il tuo carattere, potresti pure dirle che sta bene, vestita così. E’ la verità, quindi che male c’è?”

Sorridendo comprensiva all’accigliato Fenrir, mi sedetti vicino a Duncan e, dopo avergli dato una pacca sulla mano, mi rivolsi a Jerome.

“Come hai detto tu, Jerome, lui è fatto così. E poi, non ho bisogno dei complimenti di un ragazzo, per sentirmi a mio agio dentro un vestito. Ho abbastanza fiducia in me stessa per sapere se sto bene, o meno, con qualcosa addosso.”

Jerome rise nuovamente, prima di convenire. “E brava! Ci sono poche ragazze con queste certezze, ora come ora. Erika, prima di uscire, si rimira allo specchio per ore, e non è mai soddisfatta di quel che vede… e dire che è una ragazza carina non meno di te.”

“Ho imparato da tempo a non far caso a quel che dicono i ragazzi” scrollai le spalle, guardando poi Duncan, ancora visibilmente irritato dalla goliardia del cugino. “E tu non fare quel muso lungo! Jerome si sta solo comportando da bravo ospite, intrattenendomi.”

“Sicuro… è un asso, in questo” sbuffò Duncan.

Io storsi il naso, di fronte al suo fiero cipiglio e lui, per diretta conseguenza, si sciolse in un mezzo sorriso, mormorando: “Ma ha ragione; sono stato scortese con te, prima. I vestiti ti stanno bene.”

Detto da lui, quel complimento così semplice mi mandò in deliquio.

Orrendo da dire, ma fu così.

Se i complimenti di Jerome mi facevano ridere spensierata – come se, a dirli, fosse stato Gordon – quelli di Duncan mi facevano uno strano effetto.

Tutto il mio corpo reagiva alle sue parole e al suo sguardo, come se il suo potere mi accarezzasse a ogni parola, quando sapevo perfettamente che, invece, non era affatto così.

La sua voce aveva un potere dirompente su di me, potere che non ero più in grado di contrastare, mio malgrado.

Purtroppo, sapevo bene mi avrebbe cacciata in un guaio colossale, se già non mi ci trovavo invischiata.

Presi un breve respiro, rispondendo al suo sorriso con uno altrettanto sincero e, con voce tranquilla, dissi: “Come ti dicevo, non ho bisogno di complimenti, ma grazie. Ora, però, se mi scuserete, andrò a riposare. Sono davvero a pezzi, e l’idea di dormire in un letto vero, dopo un mese di scorribande per i boschi, mi alletta più di tutto l’oro del mondo.”

Sorrisi al cugino di Duncan, che assentì alla mia richiesta, e aggiunsi: “Se non ti spiace, Jerome, ti racconterò del nostro incontro un’altra volta. Sono sicura che adesso cadrei dal sonno prima di finire, visto che la storia è parecchio lunga, ma ho voluto scendere per ringraziarti dei vestiti, almeno.”

“No problem. So pazientare, quando so che ne vale la pena” mi promise Jerome, ammiccando.

“Non te l’ho chiesto prima, però… ti sta bene rimanere a dormire qui, o preferisci andare a casa con Jerome, dove potresti essere vicino a un’altra ragazza?” intervenne a quel punto Duncan, guardandomi dubbioso.

Ammiccai, chiosando: “Sono abituata a stare in tua compagnia. Un tetto sulla testa non farà che rendere le cose più comode e basta.”

“Bene” si limitò a dire, anche se i suoi occhi espressero ben altro. Era soddisfatto.

Preferii non chiedermi perché e, dopo aver dato loro la buonanotte, risalii le scale e mi buttai sul letto.

Mi coprii alla bell’è meglio con il copriletto, ben decisa a dormire con i vestiti addosso.

Primo, non avevo più un pigiama – il mio, era rimasto nello zaino, abbandonato ai piedi di Alec.

Secondo, l’idea di dormire in mutande, dentro un letto non mio, mi disturbava sempre, pur sapendo che nessuno sarebbe sgattaiolato tra le mie lenzuola per giocarmi un brutto scherzo.

Osservai stanca la luna alta in cielo, attraverso la finestra della mia nuova stanza, e finii con l’addormentarmi prona, malamente sdraiata.

Accompagnata tra le braccia di Morfeo dal profumo di fiori delle lenzuola pulite, e dal senso di sicurezza che quel luogo sapeva emanare, lasciai che il sonno prendesse pieno possesso della mia mente.

Avrei pensato in seguito a tutto ciò che, l’essere giunta lì, voleva dire per me.




___________________
1: Arbor Low:è un cerchio di pietre nel Derbyshire, situato vicino al Hartington e Youlgrave.



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Capitolo 12
*** XII. ***


XII.


 

  Strizzai gli occhi, quando un raggio di sole ramingo scivolò sul mio volto assonnato.

  Sollevai cauta le palpebre, non sapendo bene cosa aspettarmi, prima di fissare la mussolina azzurro cielo delle tende, che velavano parzialmente una finestra che non conoscevo.

  Neppure la stanza dove mi trovavo, mi era famigliare.

Sollevandomi di scatto, sorpresa e confusa al tempo stesso, mi ritrovai a scrutare pareti ricoperte di fine carta da parati e uno stupendo specchio a muro, che mi rifletteva per intero… in compagnia di Duncan.

Sconvolta, mi volsi a fissare il bianco lupo sdraiato sul letto accanto a me, ancora addormentato e del tutto tranquillo.

Confusa come non mai, lo guardai a occhi sgranati, chiedendomi il perché della sua presenza nella mia camera.

Come se il mio risveglio avesse destato i suoi sensi, Duncan sollevò le palpebre per fissarmi con quegli splendidi occhi ambrati che avevo imparato a conoscere.

Dubbiosa, esalai: “Ciao… ma che ci fai qui?”

Lui, per nulla turbato, smontò dal letto e trotterellò fuori per poi tornare, un paio di minuti dopo, in vesti umane e con un leggero filo di barba sulle gote.

Come diavolo faceva a essere così perfetto, appena desto?

Lo invidiai senza alcun pudore.

Poggiato contro lo stipite della porta, sorrise debolmente prima di dirmi: “Buongiorno.”

“Ebbene?”

Sollevate le mani in aria, mi alzai da letto e passai una mano tra i folti e lunghi capelli castani.

Come al solito, sembravano un covone di fieno. Altro motivo per cui invidiare Duncan.

Perché i suoi riccioli erano ordinati e lucenti?

“Hai avuto un incubo, stanotte, così ho pensato di venire a vedere cos’avevi. Visto che mi sembrava più… corretto entrare come lupo, sono venuto a controllare in questa forma” mi spiegò, facendo spallucce.

Assentii, non ricordando assolutamente nulla di quell’incubo. Tanto meglio.

“Visto che mi sembravi particolarmente agitata, ho preferito rimanere, casomai avessi avuto bisogno di aiuto ma, alla fine, mi sono addormentato anch’io. Spero di non averti turbata” terminò di raccontare, scrutandomi ansioso.

E da quando era ansioso?

Mi affrettai a tranquillizzarlo – con tutta probabilità, l’incubo riguardava per l’ennesima volta Freki, anche se in quel momento non lo ricordavo.

“Oh, no, hai fatto bene. Mi stavo solo chiedendo cosa fosse successo, tutto qui. Ora, però, è meglio se rimetto in ordine quella specie di caos che ho in testa.”

Lasciandomi passare sotto l’arco del suo braccio, lui replicò: “Non sono così in disordine.”

Ridacchiai, precisando: “Oh, li sono eccome. Aspettati di sentirmi imprecare, quando cercherò di sciogliere tutti i nodi.”

Fu sul punto di dire qualcosa ma, alla fine, rinunciò e scosse il capo, limitandosi a dire: “Vado a scaldare la colazione. Se te la vedi brutta, chiamami.”

“D’accordo” annuii, avviandomi verso il bagno.

Chissà cosa avrebbe voluto dirmi?

Come avevo immaginato, lottare con i miei capelli risultò essere un evento catastrofico al pari di un milione di altre volte.

Considerando, soprattutto, che ero andata a letto con la chioma ribelle ancora umida, non vi trovai nulla di strano.

Imprecai in diverse lingue – lo facevo spesso, anche per allentare la tensione che mi prendeva tutte le volte che dovevo occuparmi della mia testa.

Fu solo molto tempo dopo che riuscii, finalmente, ad avere la meglio.

Alla fine, già stanca e con la mano dolorante per il troppo spazzolare, scesi le scale ed entrai in cucina.

Sospirai deliziata, quando il mio naso inspirò il profumo delizioso di caffè appena fatto e pancake freschi.

Sorridendo a Duncan, chiosai: “Potrei anche abituarmi, sai? Chi ti ha insegnato a essere così efficiente? Tua madre?”

Quel commento innocente sortì un effetto davvero strano.

Il suo corpo si irrigidì di colpo, mentre gli occhi si assottigliarono come se avesse visto qualcosa di brutto, o disgustoso.

Come era venuto, però, quel momento di malumore passò come un lampo nel cielo e, con voce innaturalmente casuale, Duncan mormorò: “Solo l’abitudine a vivere da solo. Tutto qui.”

Ancora una volta, quell’argomento parve rattristarlo o peggio, innervosirlo.

 Cosa c’era di così brutto, nel suo passato, da non poter accennare ai suoi genitori senza sconvolgerlo tanto?

Avevo dato per scontato che, una volta giunti a Farley, sarebbero come minimo venuti a trovare il figlio, invece non era giunto nessuno.

Che fossero morti in una circostanza simile a quella che  aveva portato via i miei genitori? O c’era ben altro?

Cosa nascondevano le profondità dei suoi occhi di smeraldo?

Preferii lasciar nuovamente perdere e, mangiando in silenzio il morbido pancake, osservai di straforo Duncan fare lo stesso.

Era più che ovvio che qualcosa lo tormentava, e non solo la mia domanda inopportuna, perciò alla fine aprii bocca e diedi voce al mio timore.

“Cosa c’è che non va, Duncan?”

Lui mi sorrise appena – ma il suo sorriso non arrivò neppure a lambire gli occhi – e ammise: “Sono un po’ in pensiero per oggi.”

“Perché?” chiesi senza capire.

“Pur avendomi salvato da morte certa, ci sono alcuni lupi del clan che ritengono la tua presenza qui pericolosa per tutti noi, e vorrebbero che io non ti avessi portato entro i confini del nostro territorio” mi spiegò mestamente.

Nostro. Non suo.

Era più che evidente che Duncan non governava come un despota, come invece sembrava fare Alec.

“Capisco” annuii pensierosa. “Ma, come ha detto Jerome, ci sarete voi a difendermi.”

Lui storse appena la bella bocca, replicando accigliato: “Ti fidi così tanto di lui, da consegnare nelle sue mani la tua vita?”

Sorrisi dolcemente e mi limitai a dire: “Mi sembra che, a suo tempo, mi sia fidata ciecamente anche di qualcun altro, pur non avendolo mai visto prima.”

“Già… e ancora non capisco bene perché” mormorò Duncan, con un tono di voce per nulla divertito.

Anzi, sembrava che il nostro strano rapporto gli causasse parecchi pensieri.

Tornando seria, gli strinsi un momento la mano, ben decisa a tirargli su il morale.

“Posso solo dirti quello che sento, Duncan. Mi sono fidata di te perché ho percepito di poterlo fare. E la stessa cosa mi è successa con Jerome, non appena ci siamo stretti la mano.”

Mi guardò con aria combattuta, non sapendo bene cosa dire.

Affondando nel suo sguardo smeraldino, dubbioso come mai lo era stato prima di allora, mi chiesi cosa sarebbe successo se mi fossi avvicinata ulteriormente a lui.

Scuotendosi da quel torpore, Duncan si alzò, allontanandosi da me e, portandosi vicino alla porta, mi informò senza voltarsi a guardarmi: “Stamattina ti accompagnerò a fare un po’ di spese ma, nel pomeriggio, sarò impegnato in clinica, quindi non potrò stare qui con te.”

“Non è un problema. Me la so cavare” replicai, sorridendo appena.

Lui assentì, ben deciso a non voltarsi verso di me e, senza più dire nulla, uscì dalla stanza, lasciandomi sola.

Il suo potere era sigillato.

Non riuscii a percepire niente, neppure un briciolo di ciò che lo tormentava, e questo mi diede da pensare.

Cosa lo arrovellava tanto da spingerlo a chiudersi così in se stesso?

Sospirando, sistemai in lavastoviglie i piatti e le posate, rassettai un po’ la cucina, dopodiché me ne tornai in camera per infilarmi gli scarponi da trekking.

L’acqua della doccia, in bagno, scrosciava feroce su Duncan, forse nel vano tentativo di cancellare le ansie che lo stavano consumando.

***

Matlock non era meno caotica di Glasgow, quanto a traffico.

Le auto sfrecciavano in tutte le direzioni suonando clacson, esibendosi in manovre azzardate e passando attraverso pertugi impossibili.

Tutto, pur di non perdere un nanosecondo di tempo sulla tabella di marcia dei pressanti automobilisti, che circolavano nervosi in quel momento.

Un’Aston Martin lucida come uno specchio evitò per un soffio di finire su un marciapiede, a causa di un ciclista fuori di senno.

Io fissai la scena a occhi sgranati, mentre Duncan procedeva con mano ferma attraverso il traffico cittadino.

Guidava la sua Volvo V50 con assoluta naturalezza, neanche fosse la continuazione stessa del suo braccio.

Ogni sua manovra era ponderata al millimetro, come se percepisse in anticipo le manovre degli altri autisti. E forse era davvero così.

Giungemmo su Bank Road senza che neppure io me ne accorgessi.

Aveva attraversato quasi tutta la città in un batter d’occhio, nonostante la confusione di auto, tram e mezzi autoarticolati.

Beh, era decisamente più bravo di me, nella guida.

Guardandomi intorno incuriosita – non avendo nient’altro da fare – ammirai il bellissimo viale che abbelliva la via in tutta la sua lunghezza.

Gli alberi verdeggianti lambivano case, banche, negozi, cappelle e muriccioli di pietra.

Sui marciapiedi che costeggiavano la strada, una folta schiera di persone era a passeggio per la via.

Chi per lavoro, chi in vacanza, ma tutti sembravano animati dalla stessa frenesia che sembrava essersi impadronita degli automobilisti.

O forse, ero solo io a voler andare al rallentatore, perché l’ansia di Duncan si era infine insinuata anche nel mio cuore.

Da quando aveva accennato alla mia visita al Consiglio, la paura per ciò che sarebbe successo quel pomeriggio si era diffusa dentro di me come un tarlo nel legno.

Lo sentivo rosicchiare le fondamenta delle mie certezze, centimetro dopo centimetro, e non ero in grado di fermare quell’inarrestabile lavorio all’interno del mio animo.

Il mio autista personale non pareva essere più allegro di me e, a dirla tutta, non potei certo biasimarlo.

Da quando eravamo partiti da Farley per raggiungere la città, il suo cellulare non aveva mai smesso di vibrare.

Parlava in continuazione al suo auricolare bluetooth, mentre gli occhi non si staccavano mai dalla strada trafficata.

Le sue mani, sicure e precise, tenevano il volante con fermezza ma, a volte, qualcosa lo disturbava a tal punto da far sbiancare le nocche, tanta era la rabbia a stento trattenuta.

Non compresi gran che delle sue chiamate ma, di certo, dovevano essersi accumulati parecchi problemi, nel mese in cui era mancato.

Ora, sembrava pagarne le conseguenze con gli interessi.

Quando giungemmo a destinazione, sospirò esasperato, estrasse dalla tasca dei pantaloni il portafogli e, con espressione spiacente, mi consegnò il bancomat.

“Scusami, ma devo scappare. Ho un impegno urgentissimo e … insomma, non posso…”

Presi il suo bancomat con un sorriso e chiosai: “L’ho capito dal tono delle chiamate. Vai pure, so comprarmi gli abiti anche da sola. Anzi, intanto che ci sono, farò un salto al market che c’è poco più in là, okay?”

“D’accordo” annuì, prima di darmi il codice del bancomat e scusarsi ancora.

Sospirando contrariata, mi avvicinai al negozio di abbigliamento davanti a cui mi aveva lasciata.

Era un bello stabile in stile Tudor dalle bianche mura, e travi di legno fresche di pittura.

Al primo piano, alcuni vasi colmi di gerani fioriti sporgevano dalle finestre, e graziosi tendaggi di pizzo si intravedevano oltre i vetri baciati dal sole.

Entrai dopo un’ultima breve occhiata alla vetrina del negozio, e sorrisi alla commessa che si materializzò allegramente accanto a me.

 

“Buongiorno, signorina… in cosa posso esserle utile?”

“Buongiorno. Dovrei rifarmi il guardaroba. Purtroppo, la British Airways si è persa i miei bagagli, e ora mio cugino deve rimediare” sorrisi gaia, mentendo spudoratamente e sventolando ghignante il bancomat che Duncan mi aveva dato.

Sorridendo comprensiva, la commessa mi guidò verso il reparto donna, dichiarando con tono consolatorio: “E’ davvero fortunata ad avere un cugino così generoso. E’ americana, per caso?”

E io che pensavo di non avere più il mio bell’accento di Chicago. Pensai divertita.

“Sì, di Albany” mentii ancora.

Non credevo proprio che la ragazza avrebbe percepito la differenza di slang.

“Ho sempre voluto andare a New York… lei c’è stata?” mi chiese la ragazza, prima di mostrarmi un intero scaffale ricolmo di jeans di ogni genere e marca. “Che genere preferisce?”

“Sì, ci sono stata un paio di volte e, tutt’e due le volte, sono stata al Rockfeller Center a vedere delle mostre…” le spiegai distrattamente, guardandomi intorno prima di dire: “…mah, pensavo di stare su un genere molto sportivo. Sa, mio cugino ha dei cavalli, quindi penso ne approfitterò per fare qualche passeggiata in campagna.”

“Molto bene, allora ci vorrà qualche paio di jeans, direi almeno quattro o cinque magliette con relative felpe… oh, sì, questi pantaloni andranno benissimo per una gita fuori porta” cominciò col dire la commessa, estraendo da cassettoni e ripiani tutto ciò di cui avrei avuto bisogno.

Ghignando – di solito, prendevo la prima cosa che mi capitava – mi misi di buona lena per provare tutto ciò che la solerte commessa trovò per me.

Alla fine, mi ritrovai con quattro paia di jeans, cinque magliette dai toni del verde scuro e del viola, felpe in tinta, un paio di pantaloni da trekking e due camicette fiorate.

Nel reparto intimo, presi il minimo indispensabile, niente di elaborato o infiocchettato – non avevo certo intenzione di colpire l’attenzione di qualcuno.

Quando infine arrivai al reparto calzature, presi solo un paio di Nike scure e delle comode ballerine nere dalla punta arrotondata.

Caricai il mio nuovo guardaroba sulla Volvo – Duncan mi aveva lasciato le chiavi – dopodiché mi diressi al minimarket.

All’interno, era tutto un vociare di massaie all’opera e di bambini che scorrazzavano ogni dove, inseguiti da madri ansiose o sorelle inferocite.

Quello spettacolo mi ricordò molto quando anch’io inseguivo per i negozi il mio scapestrato fratello.

Sperai davvero che le notizie che gli avevo sciorinato senza troppa delicatezza, la sera precedente, non lo avessero sconvolto più del necessario.

Di certo, con tutto quello che gli avevo detto, dubitai fortemente che fosse riuscito a dormire.

Sospirando, tornai a concentrarmi sulla mia missione e, inforcato un cestino, cercai uno spazzolino da denti, una spazzola e alcuni cosmetici per la pelle.

Dopo la mia gitarella per i boschi, era tremendamente screpolata, e le mani erano più simili a carta vetrata, che a pelle umana.

Stetti sempre ben attenta a tenere il viso basso – avevo stretto i capelli in una treccia e indossato pesanti occhiali da sole, ma era meglio non rischiare.

Raccolsi tutto ciò di cui avevo bisogno prima di sbirciare in direzione delle casse, accertandomi che non vi fossero volantini con la mia faccia stampigliata sopra.

Nulla trovando, mi avvicinai silenziosa e poggiai tutto sul nastro trasportatore, prima di allungare il bancomat di Duncan.

Avevo idea che gli sarebbe venuto un mezzo collasso, una volta ricevuto l’estratto conto mensile.

Non appena uscii dal market, guardai speranzosa in direzione dell’auto ma, di Duncan, nemmeno l’ombra.

I suoi impegni dovevano essere davvero parecchi, visto che mancava da più di un’ora.

Sconsolata, proseguii nel mio giro e acquistai tutto ciò che poteva occorrermi durante il mio soggiorno a Farley.

Non sapevo quanto sarei rimasta, perciò volevo essere preparata praticamente a tutto. O quasi.

***

Finii il mio tramezzino quando l’orologio della chiesa, nei pressi del parco pubblico dove mi ero rifugiata, segnò le due del pomeriggio.

Di Duncan, nessuna traccia.

Non avevo voluto restare troppo vicina all’auto per non destare sospetti, o l’attenzione dei poliziotti di zona.

Dopo aver chiuso la Volvo, ed essermi allontanata di poco, mi ero infilata in un piccolo parco giochi e lì, appropriatami di una panchina, mi ero messa a pranzare.

Sbadigliai annoiata nel gettare la carta del panino e la bottiglia di acqua, ormai vuota, in un cestino vicino.

Con aria sbattuta, mi volsi a scrutare l’entrata del parco, da cui potevo scorgere la sagoma dell’auto di Duncan.

Ero stata così stupida da non chiedergli quanto, i suoi appuntamenti, lo avrebbero tenuto impegnato.

Al tempo stesso, non avevo neppure pensato di comprare un libro per ingannare l’attesa.

Non ero poi così brava a programmare le cose come mi ero immaginata.

Chiusi gli occhi per un momento e sbadigliai nuovamente, prima di provare a lanciarmi in un esperimento che non avevo ancora tentato di fare, da quando eravamo arrivati.

Lasciai che il respiro si calmasse e tentai di concentrarmi sui rumori che mi circondavano, e su ciò che galleggiava nell’aria assieme ai suoni e agli odori.

Forse, e solo forse, avrei potuto trovare la traccia di potere di Duncan, e capire quanto fosse distante.

Non avevo ancora compreso il meccanismo esatto, ma sapevo riconoscere la sua aura, per cui avrei cercato quella.

Ciò che non mi aspettai di certo fu di percepirne un’altra, e molto vicina.

Sgranando gli occhi, li fissai dinanzi a me e, sul lato opposto della strada, fermo vicino alle strisce pedonali in attesa di passare, vidi un giovanotto sui vent’anni.

Era sbarbato e abbigliato con larghi pantaloni neri a vita bassa, una maglietta scura dei Linkin Park e dei pesanti anfibi ai piedi.

Ammiccò nella mia direzione mentre un’ondata di potere frizzante e caldo si addensò attorno al mio corpo, confermandomi ciò che avevo solo ipotizzato.

Appoggiata allo schienale di ferro della panchina, osservai quel giovane dai capelli neri e tagliati a spazzola avvicinarsi a me con passo dinoccolato.

Prima ancora di sentirlo parlare per presentarsi, seppi che si trattava di Jessie, la sentinella che avevamo incontrato nel bosco.

Lui mi sorrise impacciato, accennando un saluto con il capo.

“Beh, ciao Brianna…”

“Jessie” mormorai, sorridendo di rimando.

Al sentirsi nominare, si illuminò in viso, chiaramente lieto che lo avessi riconosciuto solo attraverso lo sfoggio del suo potere, oltre che del mio.

Allungai perciò una mano e aggiunsi: “Tanto piacere di conoscerti in questa forma.”

“Piacere mio, Brianna” replicò Jessie, stringendo la mia mano prima di sedesi accando a me sulla panchina. “Ti porto un messaggio da parte di Fenrir.”

“Duncan?” esalai un po’ sorpresa.

Lui annuì, tutto serio in viso. Era davvero conscio del proprio compito, e deciso a portarlo a termine nel migliore dei modi.

“E’ spiacente di averti fatta aspettare tanto a lungo, ma entro mezz’ora al massimo ti raggiungerà qui.”

“Cosa è successo, Jessie?” chiesi, turbata.

“Beh, non mi è concesso parlare di cose del branco con gli estranei, anche se tu sei una wicca” mugugnò, chiaramente in imbarazzo.

Scuotendo una mano, replicai tranquilla: “E di certo io non ti obbligherò a cacciarti nei guai, e solo per avermi spifferato qualcosa… fa niente. Aspetterò Duncan.”

“Grazie” mi sorrise allora Jessie, chiaramente tranquillizzato dal mio dire.

Sollevando un sopracciglio con evidente interesse, gli chiesi: “Pensavi ti avrei punito in qualche modo, per non avermi detto quello che ti ho chiesto?”

“Beh, ecco… la Lupa Madre è molto severa, quando… insomma…” tentennò nuovamente, prima di azzittirsi del tutto.

“Tiro a indovinare. Non vuole che il suo ruolo sia sminuito, e se la prende a morte con chi non le porta rispetto?” buttai lì, ammiccando complice. “Specialmente con i giovani lupi?”

Jessie fece l’atto di murarsi la bocca ma, strizzandomi l’occhio, annuì più volte.

“Sì, sì, tu non mi hai detto nulla, tranquillo” ridacchiai, prima di chiedergli speranzosa: “Sarai anche tu nella sala con il Consiglio, più tardi?”

“Oh, no. Io non ho questo onore” esalò, sgranando gli occhi grigi per la sorpresa.

“Ah. Peccato, sarebbe stato meno avvilente, se ci fosse stata un’altra faccia nota, oltre a quelle di Duncan e di Jerome” sospirai sconsolata.

Jessie si guardò intorno per un momento, prima di annusare piano l’aria e sussurrarmi all’orecchio: “Fossi in te, starei attenta a Marjorie Scott. Duncan non l’ha voluta come Prima Lupa, quando il Consiglio gliel’ha proposta, e lei non l’ha presa benissimo. Sapere che tu abiti con il nostro Fenrir, potrebbe mandarla su tutte le furie.”

“Immagino che lei, invece, sia abbastanza potente per essere nel Consiglio” borbottai aspra.

“Già” ammise Jessie, storcendo il naso.

Evidentemente, non doveva stargli molto simpatica.

“Ricevuto, Jessie. Farò in modo di starle alla larga” annuii, levando tre dita come per suggellare un patto tra scout.

Lui sorrise, ma colsi ugualmente l’ansia nei suoi occhi.

La cosa si faceva pericolosa, a quanto pareva.

Quante altre donne avrebbero avuto da ridire, sulla mia sistemazione in casa McKalister?

Se erano in una quantità direttamente proporzionale alla bellezza del soggetto in questione, ero davvero nei guai e senza alcun motivo, visto che non esisteva nulla di cui essere gelose.

Duncan non mi guardava affatto come una donna, ma solo come una ragazzina bisognosa di protezione e, quando gli capitava, come una wicca.

Insomma, sempre l’esemplare di femmina sbagliato.

Sospirando, lasciai perdere quei pensieri assurdi e gli chiesi: “Come la riconoscerò?”

“Tranquilla. Si farà riconoscere lei” mormorò aspramente Jessie. “Ora devo scappare, scusami. Ho un appuntamento con il mio insegnante di musica.”

Ammiccai nel salutarlo, prima di tornarmene a guardare i bambini impegnati a giocare sulle altalene, o nella cassetta della sabbia.

Mezz’ora.

Avevo aspettato per ore, quindi non avrebbe fatto granché differenza attendere ancora un po’.

E così, la Lupa Madre amava essere trattata con ogni riguardo, mentre questa Marjorie Scott si sentiva tradita dal rifiuto di Duncan.

A quanto pareva, le femmine del branco non erano dissimili da tante altre donne che avevo conosciuto.

Non seppi se esserne felice, o delusa.

Come promesso, Duncan si presentò venticinque minuti dopo, il viso tirato e l’espressione torva, come se l’appuntamento cui aveva presenziato avesse peggiorato di molto il suo umore.

Lo salutai con un cenno, e mi alzai dalla panchina per tornarmene con lui all’auto.

In silenzio, lo guardai salire sulla Volvo con aria turbata, mettendo in moto senza neppure dirmi ciao.

Che ne era stato del brillante ed educato lupastro che avevo conosciuto durante il viaggio fino a Matlock?

Lo fissai accigliata, mentre lui si inerpicava lungo la lieve salita di Bank Road per tornare a Farley.

Senza dire nulla, intrecciai le braccia sul petto e attesi impaziente che lui aprisse bocca.

Sarebbe morto d’inedia, prima di sentirmi fare qualche domanda.

Non avevo nessuna intenzione di diventare il capro espiatorio dei suoi malumori!

Insensibile al mio sguardo accigliato e alla mia espressione inferocita, Duncan rimase in silenzio per tutto il viaggio di ritorno.

Lo sguardo era fisso sulla strada, e l’umore sempre più nero.

Le sue sopracciglia aggrottate non facevano ben sperare, e neppure la sua bocca tesa in una smorfia di disappunto.

Cosa mai gli avevano detto?

Quando finalmente entrò nel cortile di casa, parcheggiò l’auto di fianco alla piccola costruzione in vetro e cemento che fungeva da clinica veterinaria.

Lì, sbuffò e continuò a stringere nervosamente il volante, prima di esclamare con voce resa roca dall’ansia: “Sono tutti pazzi!”

“In che senso? Spiegati” esalai un po’ preoccupata, la rabbia in parte disciolta da quell’uscita imprevista.

Con un sospiro, lasciò andare il volante e, volgendo lo sguardo per fissarmi, mormorò serio e cupo in volto: “Vogliono che tu ti apra al potere della nostra quercia sacra durante il novilunio.”

Sgranai gli occhi turbata e confusa assieme e, deglutendo a fatica, esalai: “Cosa vorrebbero, scusa?”

I suoi occhi si incatenarono ai miei ed io, perdendomi nelle sue profondità smeraldine, scorsi una sordida paura crescere dentro di lui.

Incapace di trattenere oltre quella paura, essa si riversò in me come un’onda di piena, rischiando di farmi annegare nel terrore.

Non appena mi ebbe in suo completo potere, il panico strinse con ferocia per ridurmi a brandelli.

Mi sentii soffocare, la gola stritolata dall’ansia che sentivo montare come marea.

Duncan però fu lesto a chiudere le porte del suo potere, non appena si rese conto di ciò che la sua mente mi aveva trasmesso.

Prendendo un gran respiro a pieni polmoni, lo fissai ai limiti della crisi isterica ed esclamai nervosamente: “Spiegami che vuoi dire, o impazzirò sul serio!”

Duncan prese il mio viso tra le mani come per bloccare le mie paure e, sempre tenendomi incatenata al suo sguardo, mormorò con voce il più possibile controllata: “Te l’ho detto. Non lascerò che ti facciano del male. Ma è il Consiglio a chiederlo, e io non posso oppormi, perché è così che prevede la legge, nel mio branco. Se la maggioranza decide una cosa, io non posso contestare quella decisione.”

“Ma tu… sei Fenrir” sussurrai confusa, afferrando le sue mani per impedire che esse si allontanassero dal mio viso.

Ero certa che, se lui si fosse scostato in quel momento, sarei sprofondata in un oceano di terrore da cui non sarei riemersa mai più.

“Lo so, e vorrei che questo potesse contare qualcosa, in questo momento, ma la legge parla chiaro. Nei branchi ove presiede un Consiglio, anche Fenrir deve cedere, se la maggioranza vota contro di lui” sospirò Duncan, scuotendo mestamente il capo, come se quel particolare lo angustiasse tremendamente.

“E… e Marjorie, allora?” gli chiesi, cercando di capire qualcosa in quel caos turbinante.

Mi fissò sorpreso per alcuni attimi, forse chiedendosi come conoscessi quel nome.

Funereo in viso, disse roco: “Quella è una cosa diversa. Il Consiglio ha potere di voto solo su questioni del branco, ma non sulla mia vita personale. E la Prima Lupa, prima di essere parte del branco è, innanzitutto, una parte di me.”

Lo disse con veemenza, come se quella frase l’avesse già ripetuta infinite volte, e a un numero indefinito di persone.

C’era una sofferenza a stento trattenuta, in ogni sua parola, un dolore così intenso che il mio cuore giunse quasi a spezzarsi in due per il tormento.

Sconsolata, mi chiesi come avessero anche solo potuto pensare di imporgli una moglie che lui non voleva.

Questo, del branco, non lo comprendevo affatto.

Lentamente, Duncan scivolò via dalle mie guance per stringere gentilmente tra le sue dita lunghe e aggraziate le mie mani gelide.

Il tutto, senza mai interrompere il contatto con il mio corpo e i miei occhi, ormai ai limiti del pianto.

“Il Consiglio chiede che tu dimostri di essere la wicca dai grandi poteri che io ho sostenuto tu possa essere, e vogliono che tu lo faccia durante il novilunio, perché è il momento in cui la tua energia è più debole, a causa del ciclo avverso della luna” mi spiegò meglio Duncan.

Sollevò lo sguardo, quasi cercasse l’ispirazione, o le parole giuste per spiegarmi.

“Scusami, avrei dovuto tacere sul tuo dono, non essere così specifico, ma non ho saputo resistere quando Sheoban, la Lupa Madre, ti ha insultata.”

“Mi ha… insultata?” esalai, sempre più confusa.

Neppure mi conosceva, e già mi si rivoltava contro?

“Non un insulto che potresti capire, Brianna… ti ha definita  Ginnungagap1” nel dirlo, storse la bocca.

“Già il suono non mi piace, figuriamoci il significato” sbuffai, sbattendo freneticamente le palpebre per trattenere le lacrime.

“E’ così che definiamo una persona insignificante, che non ha nulla da dire, e non ha ragione di essere ascoltata” mormorò infastidito, scrollando le spalle come se non valesse la pena restare oltre su quell’argomento.

“Ah, ottimo… e questa grandiosa presa di posizione, si basa su cosa?” replicai vagamente piccata, la paura sostituita da una ben più salutare rabbia.

“Dalla tua ignoranza in materia, per così dire” ammise, sorridendomi mestamente, come per scusarsi. “Le ho detto che era una sciocchezza, ma lei si è intestardita, dicendo che non avrebbe mai accondisceso a educarti al potere, visto che la tua famiglia avrebbe dovuto provvedere in tal senso, e che non avrebbe perso tempo con una diciannovenne dal sangue caldo.”

“Pensava fossi un rettile?” ironizzai acida, prima di sospirare e ripensare alle parole di Jessie.

A quanto pareva, la Lupa Madre non aveva una grossa opinione dei giovani, oppure le piaceva fare la voce grossa con chi non poteva replicare.

Insomma, una bulla.

“Non è cattiva, vorrei che questo tu lo credessi…” la difese debolmente Duncan. “…solo che è anziana, e difficilmente…”

“Manipolabile?” ipotizzai, sollevando ironica un sopracciglio.

Annuendo, Duncan mi lasciò le mani quasi con riluttanza, esitando un momento sui miei polpastrelli prima di scostarsi del tutto.

Lappandosi nervosamente le labbra, asserì: “Già. Quindi debbo trovare qualcun altro che ti educhi al potere, visto che io non ne sono in grado.”

“E chi sarà il mio maestro Yoda, quindi?” mi informai a quel punto, stringendo le mani a pugno per non permettere loro di tremare in maniera troppo evidente.

Lui accennò un sorrisino nel sentirmi fare dell’ironia nonostante tutto, e disse sommessamente: “Ti insegnerà Lance, il mio Hati. Sei d’accordo?”

“Potrei non esserlo?” ammiccai. “Quando sarà il novilunio?”

“Il venti agosto. Abbiamo due settimane per prepararti degnamente.”

“Basteranno?” chiesi titubante.

Devono.”

Quel devono non mi rincuorò per nulla.

Fino a quel momento, però, mi ero fidata di Duncan.

Avrei continuato a farlo, nonostante tutto.

 

 
 
_______________________________
1: Nella mitologia norrena il Ginnungagap (letteralmente "varco spalancato") era l'abisso cosmico che esisteva prima della creazione. Ho utilizzato questo vocabolo per indicare quanto la persona definita “ginnungagap” sia vuota – e perciò inutile per i licantropi –  come può essere, metaforicamente, un abisso cosmico.

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Capitolo 13
*** XIII. ***


XIII.




 

 

 

  Il luogo scelto dal Consiglio per quella riunione eccezionale, non era altro che una comunissima sala conferenze.

  Non un misterioso maniero immerso nella brughiera, o un sotterraneo disperso nelle campagne.

  Una semplice, anonima saletta senza alcun fronzolo.

  In qualche modo, la cosa mi deluse.

La palazzina dove si sarebbe svolta la riunione, risaliva agli anni Sessanta.

Era costruita con larghi mattoni rosso scuro, aveva alte imposte tinte di nero e una stretta entrata laterale, che conduceva a una breve scalinata di pietra grigia.

All’interno, la struttura era rimasta intrappolata nel tempo al momento della costruzione.

I muri, pur rinfrescati da una mano di vernice, recavano ancora gli stucchi originali e le cornici dell’epoca.

In silenzio, salimmo fino al terzo piano, dove si trovava la sala adibita a conferenze che avevano prenotato per quella sera.

La stanza, in cui si trovavano già alcuni membri Anziani, aveva una pianta rettangolare, strette finestre – lasciate socchiuse per lasciar correre un po’ d’aria fresca – ed era ricolma di sedie in legno dai cuscini di paglia.

Un piccolo palco, ricoperto di moquette, dava le spalle alle finestre e ospitava una scrivania munita di microfono e proiettore.

Le pareti, spoglie e in materiale fonoassorbente, erano di un neutro color panna mentre il pavimento in parquet, – ormai consunto dal tempo – era quasi sicuramente di rovere.

Insomma, quel luogo aveva gli elementi standard di una classica sala riunioni.

Niente di ancestrale o mistico.

Nel complesso, mi sarei aspettata qualcosa di più, da un Consiglio di licantropi.

Come tenne però a specificare Duncan, le apparenze contavano più di qualsiasi altra cosa e, proprio per questo, non avevano mai acquistato uno stabile per farne il loro quartier generale.

Un acquisto simile, da parte di un privato cittadino, avrebbe destato troppa curiosità.

Di volta in volta, perciò, affittavano una sala sempre differente.

Poco prima di oltrepassare la soglia su cui ci eravamo soffermati, chiesi piano a Duncan: “Lance ci aspetta dentro assieme a Jerome?”

“Sì, Brianna. Non dovrai fare altro che presentarti, e ascoltare ciò che il Consiglio avrà da dirti. Io ho già perorato la tua causa stamattina, ma potresti comunque aver qualcosa da dire anche tu, caso mai te lo chiedessero.”

Mi sorrise convincente, sospingendomi verso la porta.

Deglutendo a fatica, entrai finalmente nella sala e notai subito, in fondo a essa, raggruppati in un crocchio di persone di tutti i generi e le età, almeno una ventina di licantropi.

Sgomenta, sussurrai: “Sono davvero furibondi.”

“Immaginavo li avresti percepiti” sbuffò Duncan, facendo poi un cenno in direzione di un uomo alto e biondo.

Distogliendo la mia attenzione dalla massa di licantropi in fondo alla stanza, la spostai sull’uomo a cui Duncan si era rivolto con lo sguardo.

Basita, mi limitai a fissarlo da vera idiota, strabiliata dalla sua straordinaria altezza e imponenza.

Se avevo creduto Duncan alto e robusto, dovetti ricredermi perché, quel licantropo dal passo ferino e potente, era un autentico gigante di muscoli.

Aveva capelli biondissimi tagliati a spazzola, e occhi azzurro ghiaccio come quelli di un husky.

Sembrava in tutto e per tutto un guerriero vichingo, sbarcato sulle coste inglesi per fare razzia nei villaggi.

Il suo sorriso appena accennato, però, addolciva, e di molto, i suoi tratti duri e apparentemente freddi.

Allungò una mano enorme, esordendo sommessamente: “Tanto piacere di conoscerti, Brianna. Io sono Lance Rothshield, Hati del qui presente Duncan.”

Strinsi quella mano gigantesca come meglio potei, e avvertii ancora una volta quella sorta di strano riconoscimento, come di un ricongiungersi di anime.

Preferendo non soffermarmi troppo su quel particolare, mi limitai a sorridere a mia volta. Avevo già anche troppe cose a cui pensare.

“Il piacere è tutto mio, Lance. Allora, mi insegnerai tu a capire cos’ho nella testa?”

“E’ quello che mi riprometto di fare” annuì, prima di aggrottare la fronte e borbottare: “Jerome non sta ottenendo gran che, a quanto sento.”

“Non ne dubitavo” sbottò Duncan guardando in fondo alla sala, in direzione del capannello di persone.

Oh, quindi Jerome era in mezzo a quel branco di menti inferocite!

La rabbia e il risentimento non avevano ancora smesso di sfrigolare per la stanza e io, ormai, non ne potevo davvero più.

Quell’aggressione mentale era quasi insopportabile.

Passandomi una mano sul viso con aria stanca, sussurraii a Duncan: “Non credo che potrò resistere ancora molto, se continuano così.”

Lance fissò un momento Duncan, che annuì forse a una sua muta domanda, prima di avvolgermi le spalle con il suo braccio possente.

Come se avessero spento un interruttore, l’aggressione mentale terminò di colpo, liberandomi la testa da quelle mille voci, e permettendomi di respirare più agevolmente.

Sorridendo complice a Lance, mormorai: “Grazie.”

“Di nulla” replicò lui, accompagnandomi dietro la scrivania e sedendosi al mio fianco, tenendomi poi per mano per mantenere il contatto fisico con me.

Duncan si schiarì la voce, declamando a gran voce: “So benissimo che non avete nessuna intenzione di facilitarmi le cose ma, almeno, dimostrate quel po’ della cortesia che si addice quando un ospite è in visita!”

Il crocchio di persone si volse all’unisono, terminando temporaneamente il borbottio.

Con uno sciamare composto, si andò ad accomodare in silenzio sulle sedie prima di lanciare sguardi dubbiosi su una giovane seduta in prima fila, proprio dinanzi a Duncan.

La donna, alta e slanciata, dal corpo più affascinante che avessi mai visto – se non in Angelina Jolie, ovviamente – assottigliò le sue iridi di fuoco e fulminò con uno sguardo assassino Duncan.

Stizzita, la ragazza in questione replicò: “Non quando l’ospite è sgradito!”

Duncan si appoggiò alla scrivania, mentre Jerome ci raggiungeva con passo rigido e ferocemente aggressivo.

Continuando ad ammirare quella bellezza bruna dai lunghi e fluenti capelli lisci, esalai: “Non mi dire che è Marjorie!”

“Colpita e affondata” mugugnò Lance, storcendo la bella bocca.

E Duncan aveva rifiutato una… come lei?!

Stentai a capire.

“Modera i toni, Marjorie. Nonostante la faccenda non piaccia a nessuno, un ospite va sempre onorato” disse per contro una donna anziana, seduta a sua volta in prima fila.

Detto ciò, la matrona mi puntò addosso due occhi grigi capaci di uccidere al primo sguardo, sguardo a cui io tentai di resistere, rischiando il tutto e per tutto.

Non sapevo quanto fosse saggio accettare quella muta sfida, ma non volevo cedere alla prima difficoltà.

 Lei continuò ancora per un minuto buono a guardarmi senza più parlare, le labbra esili strette in un sorriso tirato.

La pelle del suo viso, diafana e piena di rughe, sembrò rifulgere debolmente sotto la luce dei neon.

Il suo potere, ovviamente.

Non riuscii però a capire cosa stesse facendo, o perché.

Alla fine, distolse lo sguardo, annuendo tra sé e sorridendo soddisfatta – di cosa, non avrei saputo dirlo – prima di guardare il resto dei presenti e tornare seria e inflessibile.

A quel punto capii. Era la Lupa Madre. Sheoban.

Accanto a lei, un uomo tarchiato, dal volto duro e segnato da una ferita netta e trasversale, che gli solcava la guancia dall’orecchio al labbro inferiore.

Mi fissò serio e ombroso, prima di guardare Duncan e scuotere la testa con aria contrariata.

Le cose, di certo, non stavano andando benissimo.

La Lupa Madre prese nuovamente la parola e proseguì nel suo monologo.

“Ha certamente un grande potenziale, lo ammetto, ma è inesperta, e una possibile fonte di pericolo per tutti noi. E, anche senza considerare il suo potere del tutto fuori controllo – potrebbe percepirne l’odore persino un umano! – , il fatto che la polizia la cerchi non può che peggiorare le cose.”

Innervosendosi, e accentuando la ruga verticale comparsa tra le sopracciglia, Duncan sbatté una mano sulla scrivania, replicando feroce: “Il fatto che mi abbia salvato, mettendo a rischio la sua vita, non conta niente, per voi? Avreste preferito che quei Cacciatori mi dilaniassero con le loro armi?!”

“Non ho detto questo, Duncan. Ma il fatto rimane. Ci hai portato una potenziale bomba innescata, e questo deve essere chiaro a tutti. Non metto in dubbio che avere una wicca tra noi sarebbe cosa degna di nota, oltre che un onore raro ma, stando così le cose, è inutile, niente più che carne da macello” sentenziò senza pietà Sheoban, ben decisa a non risparmiarmi nulla.

“Ha ucciso un Freki di sua mano. Non credo sia proprio carne da macello” ribatté  astioso Duncan, facendo sospirare di sorpresa tutti gli astanti, Marjorie compresa.

Evidentemente, quella perla se l’era tenuta proprio per impressionare tutti.

Aggrottando la fronte, l’uomo al fianco di Sheoban borbottò sprezzante: “Com’è possibile che quella piccola umana abbia ucciso un Freki? Tu menti!”

Sospirando esasperato, Duncan sibilò: “Connor, apprezzo la tua sincerità, ma non mento. Brianna ha ucciso il Freki inviatoci contro da Alec, utilizzando nient’altro che l’astuzia. Se vuoi sincerartene, guardami pure in testa, non ho nulla da nascondere.

Connor aggrottò la fronte, a quelle parole, e io non ne compresi il motivo.

Duncan lo aveva forse sfidato a fare qualcosa che, tra licantropi, non doveva essere fatto?

Desiderai con tutta me stessa chiederglielo, ma Marjorie rubò tutta la scena a suo favore.

Quest’ultima rise divertita e, accavallando le lunghe gambe abbracciate da fuseaux neri e lucidi, si rivolse a me e domandò querula: “E come avresti fatto, scricciolo?”

D’accordo che non ero alta come lei visto che, senza problemi, Marjorie sovrastava il metro e ottanta, ma addirittura darmi dello scricciolo!?

Presi un gran respiro per calmarmi – il solo parlarne mi faceva rabbrividire di paura e dolore – , e dichiarai: “Si è messo a ridere di fronte al rifiuto di Duncan di concedermi come sua preda per un tète-à-tète nell’erba, e io ne ho approfittato per fargli ingoiare una collana d’argento. Non vi dico il resto per rispetto verso gli stomaci più deboli.”

La parola argento fece impallidire parecchi, e rabbrividire i restanti.

Persino Duncan si tastò la spalla, in corrispondenza della piccola cicatrice che il proiettile aveva lasciato sulla sua carne.

Quel segno sarebbe rimasto a imperitura memoria di ciò che aveva rischiato, pur di difendere un alleato e amico.

Scossi le spalle con un aplomb impeccabile – pur rabbrividendo dentro di me al ricordo del sangue che era gorgogliato dalla bocca di Freki.

Marjorie, fissandomi duramente, si levò in piedi per accentuare il suo dire, ed esplose urlando: “Non ci credo! Tu menti!”

Un attimo dopo, vidi tutto rosso.

E non perché mi fece incendiare di rabbia ma proprio perché, dinanzi ai miei occhi, colò una sostanza rossastra e appiccicosa che mi annebbiò la vista.

Sogghignando soddisfatta, Marjorie mi scrutò mentre io portavo sorpresa le mani alla testa, tastando la fronte dove, a sorpresa, trovai un taglio da cui stava scivolando copiosamente del sangue.

Non riuscii a trovare nessun valido motivo per cui, sulla mia pelle, si fosse aperto uno squarcio simile.

Che diavolo era successo?

Duncan ringhiò furioso per diretta conseguenza, e solo la presenza di Jerome al suo fianco gli impedì di affrontare direttamente Marjorie.

Una simile delicatezza non balenò neppure per la mente di Lance che, alzatosi in piedi, si diresse verso la ragazza e le rifilò un manrovescio così forte da farla crollare a terra con un labbro spaccato.

Le onde di potere, che ora potevo avverire chiaramente, senza la protezione concessa da Lance,  cessarono di colpo.

Fissando allibita Marjorie che, ai piedi di Lance, lo osservava come se avesse voluto scotennarlo con le sue stesse mani, sentii ringhiare Hati con tono lapidario: “Non osare mai più usare il tuo potere su un umano e, soprattutto, durante una sessione di Consiglio. E’ vietato dalla legge del branco. Non costringermi a vederti come una minaccia per il mio Fenrir, Marjorie, o sarò molto più incisivo di così, la prossima volta.”

Potere? Mi aveva colpita… col suo potere?!

Quelle parole mi rimbalzarono nella testa più e più volte, incomprensibili, prima di farmi capire esattamente cosa avessi rischiato pochi attimi prima.

Impallidendo visibilmente, strinsi i denti e, alzatami a mia volta in piedi – la mano premuta sulla ferita – sibilai inferocita: “Sei davvero una bella stronza, ad approfittare dei tuoi poteri per scatenarli contro chi non può difendersi. Pensavo che voi licantropi foste un poco più evoluti di così, ma vedo che non c’è molta differenza tra voi e un branco di teppistelli umani. Sfruttate la vostra forza contro i più deboli!”

Ancora trattenuto da Jerome, Duncan ringhiò con voce ruvida: “Scordati di rimettere piede nel Consiglio per un po’, Marjorie. Questo è un ordine!

Quelle ultime parole riverberarono nella sala come un colpo di cannone e, all’improvviso, seppi cosa aveva voluto dire Duncan parlando di Voce del Comando.

Anche i licantropi se ne resero conto, stupendosi non poco di quell’uscita a sorpresa.

Cauti, però, non dissero nulla per non far inferocire ulteriormente il loro Fenrir i cui occhi, in quel momento, brillavano come ambre cangianti.

Mi avvicinai lesta a lui e, poggiata la mano libera sul suo braccio, mormorai pacata: “Non mi fa male, tranquillo. Mi sono tagliata in modo peggiore facendomi la ceretta.”

Lui rise nervosamente, a quel commento del tutto fuori luogo, e rilassò gradatamente i tratti del viso, permettendo così a Jerome di lasciarlo andare.

Lentamente, le sue iridi tornarono a essere di un caldo color smeraldo.

Solo dopo essermi assicurata che Duncan fosse calmo, mi resi conto dello sguardo di Sheoban, fisso su di me.

Non era infuriata, o contrariata dalle reazioni di Lance e Duncan ma, anzi, sembrava impressionata.

E curiosa.

Voltandosi verso gli altri membri del Consiglio che, in silenzio, avevano osservato lo svolgersi di quell’ordalia senza osare muoversi, Sheoban esclamò seriamente: “Fenrir ha parlato. E noi dobbiamo considerarci equamente colpevoli, per averlo costretto a usare la Voce per bloccare Marjorie. Non ci siamo soffermati a pensare alle regole basilari del clan che, prima di tutto, prevedono il rispetto nei confronti di tutti.”

Le ultime parole, furono sottolineate da uno sguardo glaciale, che fece reclinare il capo a diversi licantropi.

“Per quanto la situazione possa essere spiacevole, noi dobbiamo innanzitutto ospitalità a coloro che bussano alla nostra porta e questo non è stato fatto, lo ammetto candidamente” terminò di dire Sheoban, tornando a fissarmi con espressione apparentemente contrita.

Sbruffona. Prima mi da dell’essere inutile, e poi fa la moralista, pensai irritata.

Jerome mi passò un fazzoletto per tamponare la ferita, mentre Lance tornò a sedersi al mio fianco, saldo come una montagna invalicabile.

Era pronto a difendermi da altri assalti, simili o meno che fossero.

Duncan parve non apprezzare in egual modo il monologo tronfio e saccente della lupa e, guardandomi spiacente, sussurrò: “Ora ti riporto subito a casa, così Lance potrà prendersi cura di te.”

Rivolgendosi ancora a me, Sheoban aggiunse: “Hai ragione ad averci definito scortesi, giovane fanciulla, poiché il trattamento riservatoti da Marjorie, e anche da noi tutti, non è degno di un buon licantropo, ma ricorda… noi non siamo come gli umani.”

“Non lo sarete ma, per il momento, non ne ho ricevuto ampie prove, Lupa Madre” mormorai sommessamente, rammentando ciò che mi aveva detto Duncan sul suo ruolo.

Non dubitai neppure per un attimo che, a suo tempo, fosse stata una Prima Lupa di tutto rispetto, visto quanto ancora era tenuta in considerazione nel branco.

Quell’accenno al suo titolo onorifico, comunque, le fece sorgere un sorriso spontaneo sul viso, subito sostituito dalla stessa maschera impassibile riservatami in precedenza.

Questo mi diede l’imbeccata per testare una teoria che, già da un po’, mi ronzava nella testa.

Sorridendo contrita e reclinando compita il capo, mi alzai lentamente dalla sedia e la raggiunsi, poggiando ossequiosa un ginocchio.

Sotto gli sguardi attenti di Duncan, Jerome e Lance, chinai ancor di più il capo, mormorando umilmente: “Giuro che vi dimostrerò di non essere una bomba inesplosa. Saprò rendermi degna del vostro clan, Lupa Madre. Capisco i motivi che vi hanno spinto a non volermi come vostra allieva per il mio apprendistato, poiché giustamente la mia famiglia avrebbe dovuto provvedere in tal senso, e non l’ha fatto.”

Sbirciai oltre le ciglia, e la vidi annuire soddisfatta.

“Vi prego di credere che mi impegnerò per sopperire alle mie lacune, e ristabilire il controllo sul mio potere. Vi chiedo solo di benedire il mio apprendistato poiché sono convinta che, a questo modo, esso andrà a buon fine” la pregai gentilmente, quasi sfiorando il ginocchio con la fronte.

Ancora un po’, e avrei perso le staffe – non mi piaceva arrufianarmi le persone, ma Sheoban sembrava apprezzare – ma mi trattenni il tempo necessario.

Non ero del tutto sicura che avrebbe funzionato, ma valeva la pena provare.

Ero stata sufficientemente smielata nell’espormi, perciò…

Un attimo dopo, la sua mano si posò sul mio capo piegato in avanti e, dietro un coro di sospiri di sorpresa e brontolii di dissenso, Sheoban asserì sonoramente: “Hai la mia benedizione, fanciulla della luna. Sappi che ripongo in te la mia fiducia ma, se non sarai in grado di rispondere a tale onore, ne pagherai serie conseguenze. Non potremo mai accettarti nel branco, se non supererai la prova. Questo lo capisci, vero?”

“Ne sono consapevole” sussurrai, sempre fissando il pavimento. Approfittatrice che non sei altro!

Duncan mi raggiunse in pochi, rapidi passi e, dopo avermi aiutato a rialzarmi, sibilò: “Ora andiamo. Per stasera, avete già fatto abbastanza danni.”

Alle parole, seguì uno sguardo assassino rivolto ai suoi licantropi che, per evitare guai, preferirono non aprire bocca.

Solo Sheban si permise – e con che altezzosità! – di guardare Duncan in viso, studiandolo con aperto interesse.

Lui sostenne lo sguardo, e questo incuriosì ancora di più la donna.

Mi fu del tutto chiaro. La sorpresa era evidente, in quegli occhi di falco, pur se ne non ne compresi i motivi.

Comunque, annuii, seguita dallo sguardo calcolatore di Sheoban e da quello dubbioso di tutti gli altri membri del Consiglio.

Ancora ammutoliti dalla presa di posizione della Lupa Madre, e dalla rabbia del loro Fenrir, non sapevano più cosa pensare di me.

E neppure io.

Aggrottando la fronte nello scendere le scale, il fazzoletto premuto sul taglio in fronte, mi chiesi cosa  stesse macchinando Sheoban.

Perché era chiaro che, con il suo potere, aveva percepito qualcosa che l’aveva colpita, facendole cambiare idea su di me.

Cosa voleva?

***

Non appena Lance finì di sistemarmi la ferita, Jerome mi passò una lattina di Coca-Cola, borbottando: “Certo che Marjorie, stavolta, ha davvero esagerato. D’accordo essere gelose, ma qui si rasenta l’assurdo.”

“Puoi dirlo” brontolò Lance, sistemandosi su uno degli sgabelli liberi della cucina.

“Se ne starà buona per un po’, adesso” sospirò Duncan, ingollando una dose generosa di birra dalla sua bottiglia di vetro verdognolo.

“Ehi, cugino! Era da un  po’ che non ti sentivo usare la Voce. Mi hai fatto venire i brividi, quando le hai imposto quel comando. Per poco, non mi ritrovavo incatenato anch’io all’imposizione” ridacchiò Jerome, dandogli una pacca sulla spalla.

“Come funziona, esattamente, la Voce?” chiesi, curiosa.

Duncan sogghignò al mio indirizzo e commentò sarcastico: “Ora sì che ti riconosco.”

Ammiccai e lui, allungandosi per prendere un sandwich al pollo da un piatto di porcellana bianca, mi spiegò con tono neutro: “E’ come avere le catene ai polsi. Un blocco mentale. Insomma, quando un Fenrir usa la Voce, può imporre ciò che vuole. Per questo, va usata con parsimonia, o si corre il rischio di diventare dei dittatori senza scrupoli.”

“E come si fa a liberarsi dell’imposizione?” replicai, cercando di ignorare il prurito provocato dal taglio fresco.

“Non si può” mi spiegò Lance. “Neppure una lupa forte come Marjorie, può liberarsi. Dovrà attendere che a Duncan sbollisca la rabbia, prima di rimettere piede in Consiglio.”

Fissai Duncan con un sorrisino, e gli domandai: “E quanto pensi che durerà la tua rabbia?”

Lui mi guardò torvo, sfiorando con lo sguardo la benda appena applicata da Lance e, truce, ringhiò: “Parecchio.”

Jerome sghignazzò, subito infilzato dagli occhi gelidi del cugino, che lo zittirono di colpo e io, fissandoli confusa, esalai: “Beh, che vi prende, a voi due?”

“Nulla, nulla” ghignò Jerome, scuotendo il capo prima di afferrare il quarto sandwich della serata. “Adoro mia madre… questi sandwich sono ottimi.”

Sorpresa delle sorprese, una volta giunti a casa di Duncan, avevamo trovato ad attenderci la madre di Jerome.

Con un sorriso di benvenuto e un caloroso abbraccio, mi aveva consegnato un paio di piatti colmi di sandwich, con cui avremmo potuto cenare.

Dopo avermi invitata a pranzo per il giorno seguente, mi aveva dato un bacio sulla guancia e si era dileguata nella notte con la sua Ford Focus.

Era bello sapere di avere un’altra alleata nel branco, vista la serata appena trascorsa.

Annuendo, assentii: “Sì, confermo e sottoscrivo… sono spettacolari.”

“Tu saresti capace di mangiare anche una rana viva” celiò Lance, guardando ironicamente Jerome.

“Addirittura!” rise quest’ultimo, dandosi un colpetto sull’addome liscio e perfetto. “Non sono così di bocca buona!”

“Neppure Duncan, a quanto pare” sogghignai, ritrovandomi addosso i suoi occhi indagatori.

Capì subito che non mi riferivo al cibo.

Aggrottando la fronte, mise una mano sul fianco e mi minacciò, burbero: “Non dire quello che stai pensando.”

Facendo l’innocentina, mormorai: “E a cosa starei pensando, scusa?”

Sbuffando, scosse il capo con aria esasperata e, scrollando dinanzi a sé una mano come a lasciarmi campo libero, borbottò: “Chiedi pure. Non vorrei mai che la tua testa esplodesse per i troppi ragionamenti contorti.”

Ghignai, facendogli la lingua, e chiesi sorniona: “Cos’ha di tanto deprecabile, Marjorie, per non essere annoverata tra le tue papabili mogliettine?”

“E me lo chiedi anche?! Ma non hai visto che razza di carattere ha?!” sbottò lui, sfiorandomi con un dito la fronte ferita. “Pensi che potrei anche solo sopportare una femmina del genere nel mio letto?!”

“Dici che sarebbe pericolosa?” lo aizzai perfidamente, trattenendo a stento una risata.

Mi fissò malissimo e, ingoiando un altro sandwich, ringhiò: “Non intavolerò questa discussione con te. Scordatelo.

“Benissimo” ammiccai, rivolgendo la mia attenzione a Jerome. “Tu che ne pensi?”

Lance e Jerome esplosero in una calda risata di gola.

Mi abbeverai del loro buon umore, sentendo scomparire tutto il nervosismo che, quella strana riunione del Consiglio, aveva lasciato dentro di me.

Certo, non avevo affatto gradito quel primo approccio – avevo sperato davvero in un’accoglienza un po’ più calorosa – ma non era stato quello a innervosirmi.

Era stato scoprire quanto bella fosse Marjorie. Quello, mi aveva quasi uccisa.

La reazione di Duncan di fronte a lei, però, mi aveva più che sorpreso.

Non uno sguardo interessato, neppure un sorriso di circostanza.

La detestava proprio. E una parte oscura dentro di me, sedimentata nei recessi della mia mente, si era compiaciuta di questo.

Quando il mio cervello me l’aveva fatto notare, l’avevo ridotto al silenzio con tutta la mia forza, cercando di non dare peso a quel dolce compiacimento.

Nonostante tutto, però, la mia mente stava ancora galleggiando in quella placida sensazione di vittoria, disinteressata a tutto il resto, anche se io tentavo in ogni modo di badare alle chiacchiere degli uomini accanto a me.  

Non era il momento di pensare a faccende di cuore, visto soprattutto quello che avrei dovuto affrontare di lì a poco.

Dovevo badare innanzitutto al mio addestramento e fidarmi di Lance e Jerome, come mi ero fidata al primo sguardo di Duncan.

Il mio istinto mi diceva di porre me stessa nelle loro mani e, fino a ora, la cosa aveva funzionato più o meno bene.

Sperai continuasse così, nonostante il mio interesse sempre crescente per il padrone di casa, stesse complicando non poco la situazione.

Prendendo un altro sandwich, fissai di straforo Duncan, in quel momento impegnato a zittire il cugino, e borbottai: “Sai, mi chiedevo una cosa, Duncan…”

“Che cosa?” esalò lui, quasi terrorizzato all’idea che la mia mente avesse partorito l’ennesima trovata.

Ridacchiai e chiesi: “Ma voi licantropi avete i letti rinforzati? Sai, vista la forza che avete…”

Duncan mi guardò basito per alcuni attimi, prima di passarsi una mano sul viso e borbottare acido: “Non sono cose di cui discuterò con te, Brianna Ann Smithson.”

Jerome scoppiò a ridere di gusto e Lance, strizzandomi l’occhio, si rivolse a Duncan e celiò: “Ti è capitata proprio una bella gatta da pelare, eh?”

“A chi lo dici” sospirò lui, scuotendo il capo.

Io mi limitai a ridacchiare sorniona.

Gli avrei dimostrato che ero ben più di una gatta.




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Capitolo 14
*** XIV. ***


XIV.



 

 

  Come promesso da Duncan, la mattina seguente, di buon’ora, mi accompagnò da una fidata licantropa per un taglio di capelli.

  Questo, avrebbe contribuito a rendermi meno riconoscibile agli occhi della polizia.

  Eccitata mio malgrado, entrai nel salone con un sorriso stampato sul volto e un’energia dirompente in corpo.

  Era infantile, lo sapevo, ma l’idea di giocare a guardie e ladri mi divertiva.

Avvolta subito da un buon profumo di creme per i capelli, e il classico rumore di phon e di chiacchiericcio femminile, sorrisi di fronte alla donna minuta e grassottella che mi si parò dinanzi.

Ammiccando nella sua direzione, Duncan mormorò: “Ciao, Claire… ti prenderai cura di Brianna, mentre io mi occupo della clinica?”

“Ma certo, Duncan. Per te, questo e altro. La riaccompagnerà una delle mie ragazze, non ti preoccupare” asserì Claire, dando una pacca amichevole a Duncan.

“Grazie” soggiunse lui, prima di guardarmi e aggiungere: “Di lei ti puoi fidare… non ti succederà nulla.”

“Mi fido” annuii, prima di salutarlo con un cenno allegro della mano.

Come sempre, se ne andò di corsa.

Mi chiesi cosa ci stesse a fare Jerome, se lui non delegava mai i suoi impegni al suo vice.

“Coraggio, tesorino, vediamo di dare un taglio netto a questa chioma fluente” sentenziò Claire, accompagnandomi dalle sue ragazze perché mi lavassero i capelli.

Il solo pensiero di tagliarli mi fece sorgere un sospiro di disappunto, soprattutto pensando a quanto ci era voluto per avere una chioma così lunga e ordinata.

Ma non potevo rischiare di essere riconosciuta, e quel taglio era d’obbligo.

Dopo avermi strofinato i capelli con shampoo e balsamo e averli risciacquati adeguatamente, una delle ragazze del negozio, Sophie, mi accompagnò alle poltroncine.

“Hai già in mente che tipo di acconciatura vuoi fare?”

“Di sicuro, tingerli biondi, del colore delle sopracciglia” la informai, indicandogliele. “Poi, li vorrei corti e scalati… un po’ come Joan Jett, per intenderci.”

“Con un viso come il tuo, ti staranno benissimo” annuì Sophie, lasciando spazio alla sua titolare mentre lei cercava la lozione adatta per farmi il colore.

Pettinandomi i capelli lunghi e bagnati, Claire mi scrutò nel riflesso dello specchio, sorridendomi dolcemente per alcuni attimi prima di constatare: “Eh, sì… un vero peccato, ma è meglio se li facciamo sparire, che dici?”

“Decisamente. Voglio essere irriconoscibile” annuii.

Un attimo dopo, però, aggiunsi: “Non sono tutte… come lei…vero?”

“No, mia cara” scosse il capo la donna, sorridendomi con aria vagamente sorpresa.

Forse, non si era aspettata che potessi percepire così bene i licantropi. O la loro assenza.

“Ma puoi parlare agevolmente, se ti va. Quando lavoro, non voglio essere disturbata dalle mie dipendenti, per cui dimmi pure quel che vuoi sapere, perché nessuno interferirà con la nostra chiacchierata” mi sorrise benevola.

Ridacchiando, esalai: “Era così evidente?”

“Abbastanza” scrollò le spalle Claire.

“Beh, volevo sapere se lei ne sa qualcosa di wiccan. E poi, come mai si fida di Duncan, pur sapendo che il Consiglio è incerto su di me e la mia presenza qui” le chiesi di getto.

Picchiettandosi la spazzola sul mento con fare pensoso, Claire disse dopo un momento: “Beh, per quel che riguarda le wiccan, so solo quello che sanno tutti, per cui ti posso essere di ben poco aiuto. Quanto alla tua seconda domanda, ovvio che io segua lui. Non ho mai gradito la presenza del Consiglio. Per me, in un branco, deve esserci una sola persona a decidere, e quella persona è  Fenrir. E a me piace come ragiona Duncan.”

“Capisco” annuii.

In effetti, anch’io trovavo assurdo che Duncan condividesse il potere, visto soprattutto il tipo di gerarchia vigente al’interno del branco.

Era come se il Consiglio sminuisse la sua carica.

Ma, ovviamente, non potevo farmi portavoce di un movimento anti-consigliare.

Non avrebbe avuto alcun senso visto che io, lì, ero solo un’ospite e l’ultima arrivata.

“Duncan è fin troppo buono e generoso. Capisco perché voglia esserlo, però credo che si sia punito anche troppo, e per cose che non ha commesso” brontolò sovrappensiero Claire.

Rizzando le orecchie, chiesi subito: “In che senso?”

Ridacchiando imbarazzata, Claire diede una sforbiciata precisa ai miei capelli.

“Non badare alle sciocchezze che dico, ormai sono vecchia e sragiono.”

“Vecchia? Avrà sì e no cinquant’anni” replicai, sorridendo generosa.

E così, c’era qualcosa dietro al suo comportamento così altruistico nei confronti del branco!

Claire mi diede un buffetto sul naso, prima di tornare al lavoro e proseguire nella sua spiegazione.

“Gli unici ad aver conosciuto una wicca degna di tale nome sono Sheoban e suo marito Connor oltre, ovviamente, a tutti i membri più anziani del branco.”

“Davvero?” mormorai, curiosa.

Annuendo, Claire mi spiegò meglio.

“Si chiamava Lyonors Vaughan, e visse insieme al branco durante… aspetta… ah, sì, da poco prima della seconda guerra mondiale, se non ricordo male. Doveva essere attorno alla fine degli anni trenta, più o meno. Connor guidava il branco con pugno fermo e deciso, ma l’arrivo di Lyonors lo aiutò a consolidare maggiormente il potere sul clan, specie in un periodo di tumulti come quello.”

“Quindi… Sheoban e Connor hanno all’incirca novant’anni?” dichiarai un po’ sorpresa.

“Li portano bene, eh?” ridacchiò Claire. “Sono di antico ceppo, loro. Come il nostro Duncan. C’è talmente tanto sangue puro, in lui, da far invidia persino alla nostra cara, vecchia Lupa Madre.”

“Perché ho la netta impressione che questa cosa infastidisca Sheoban?” ghignai divertita.

“Perché è così, mia cara” ammise lei, socchiudendo gli occhi mentre mi tagliava la frangia sulla fronte. “Il potere è importante, per noi licantropi, non puoi neppure sapere quanto.”

“E avere il sangue più puro significa avere maggior potere?” chiesi allora io.

“Sì. E’ per questo che anche Marjorie è così potente, pur essendo tanto giovane. I suoi antenati fanno parte dei clan più antichi dell’Inghilterra. Esattamente come per Duncan, le loro famiglie hanno saputo intrecciarsi con rami sempre diversi e sempre nuovi per non indebolire la stirpe, in modo tale da avere sangue puro, anche a distanza di secoli e secoli.”

Scrutandomi con attenzione, sollevò una ciocca e la tagliò con precisione millimetrica, dopodiché proseguì.

“A differenza di Duncan, che è generoso e altruista, Marjorie sfrutta il suo potere per non avere rivali nel branco” mi spiegò Claire, con una punta di sarcasmo. “Se i genitori sapessero come si comporta la figlia, la Madre Terra li abbia in gloria, probabilmente risorgerebbero dalle loro tombe per massacrarla di botte.”

“Ne ho qualche idea” borbottai io.

“Può sognare a occhi aperti fin che vuole, quella gallinella pretenziosa… in ogni caso, Duncan non la degnerà mai di uno sguardo” sogghignò Claire, divertita.

“E come mai?” Il modo di pensare di Claire mi piaceva sempre di più.

“Non si conquista così il cuore del nostro Fenrir. La sua vanagloria la allontana dal traguardo, invece di avvicinarla. E’ troppo cinica ed egoista, per poter piacere a Duncan” ridacchiò Claire, ammiccando complice.

“E’ divertita dalla cosa…come mai?” le domandai interessata.

“Un po’ per ripicca, lo ammetto” scrollò le spalle Claire. “Avevo proposto a Duncan di sposare la mia Cecille, ma lui ha declinato gentilmente, dicendo di non sentirsi ancora pronto per un passo simile.”

“E lei non se l’è presa?” esalai, sorpresa.

“E perché dovrei? E’ suo diritto rifiutare le profferte delle lupe del branco” scrollò le spalle Claire, come se nulla fosse.

“Insomma… ma quante donne gli si sono offerte?” sbottai a quel punto, curiosa più che mai.

“Tutte le donne nubili e in età da marito del branco” asserì senza mezzi termini Claire. “Dovrebbero essere circa… centotrenta, lupa più, lupa meno.”

“Che?!” esclamai, prima di tapparmi la bocca e contenere la mia sorpresa.

Tutto mi sarei aspettata, tranne una cifra del genere. Ma quanti erano, nel branco di Duncan?!

Claire mi sorrise sorniona, spiegandomi: “Siamo qualche migliaio, se vuoi saperlo. Siamo uno dei branchi più numerosi d’Inghilterra. Quello di Skye, per esempio, conta solo un centinaio di esemplari. Mentre quello londinese ci supera di parecchie centinaia.”

“Ah… capisco” esalai, sgranando due occhi a bottone.

Non faceva specie che, fin dal loro arrivo a Matlock, Duncan fosse stato perennemente al telefono.

Chissà quante diatribe si erano accumulate, nelle settimane che noi avevamo impiegato per raggiungere il branco?

Chissà di quante cose si era dovuto occupare subito, senza avere tempo per se stesso?

Ancora una volta, mi chiesi il perché non delegasse parte dei suoi impegni a Jerome e, girata la domanda a Claire, ottenni come risposta un sospiro.

“Quel ragazzo si vuole punire per crimini che non ha commesso.”

  Ancora una frase senza senso. Chissà cosa voleva dire?

***

Dopo aver ringraziato Sophie per avermi riaccompagnata a casa, notai alcune macchine di fronte alla clinica veterinaria dove lavorava Duncan.

Colta dalla curiosità, mi intrufolai all’interno per dare un’occhiata.

Ciò che vidi non mi sorprese per nulla.

Come in casa, anche l’interno della clinica era in ordine e pulito, e  ogni cosa era perfettamente disposta su belle scaffalature di legno chiaro.

Curiosai tra i vari prodotti di toelettatura per animali, passando poi nel reparto giochi – dove trovai ogni genere e forma di oggetto più o meno colorato.

Finii poi in quello alimentare, in cui si trovava qualsiasi genere possibile e inimmaginabile di crocchetta, adatta a ogni tipo di taglia e di specie di animale da compagnia.

Sul fondo del negozio, proprio sotto le alte finestre, una collezione di gabbiette, acquari e portantini per gatti e animali di piccola taglia si intervallavano a rastrelliere colme di guinzagli, di ogni colore e forma possibili.

Sorrisi, nel notare con quanta cura tutto era esposto con precisione quasi maniacale.

Volgendo lo sguardo, notai accanto al bancone – in posa attenta e apprensiva –  una signora dall’aria distinta.

Stava osservando con fare spaventato le mani di Duncan, impegnate accanto a un chow-chow il quale, apparentemente tranquillo, si stava facendo manipolare una zampa come se nulla fosse.

Non vista – Duncan era troppo preso dal suo lavoro, per accorgersi di me – saggiai sulla lingua il sapore del suo potere.

Era steso intorno al cagnolino, in modo tale da mantenerlo tranquillo e pacifico.

Sorridendo maggiormente, mi resi conto che quel tocco delicato e soffice rilassava anche me.

Da quel che mi aveva detto lui, la sua bravura con gli animali era un anacronismo, una cosa che non capitava quasi mai.

A prevalere sull’animale, era sempre l’istinto di sopravvivenza che, di fronte a un predatore come un licantropo, scattava in automatico.

La sua aura, invece, aveva la capacità di ammansire come una carezza amorevole.

Me ne abbeverai perciò come una spugna, protesa verso di lui come un predatore e, nel contempo, attratta come una falena con la fiamma.

Ero entrambe le cose, preda e cacciatrice.

Mi appoggiai pensosa a uno degli scaffali, ammirando la bravura con cui Duncan estrasse una lunga spina ricurva dal cuscinetto della zampa del cane.

Divertita dall’espressione sollevata della donna, mi immaginai le innumerevoli volte in cui i clienti di Duncan si erano complimentati con lui per la sua maestria nell’agire con tanta naturalezza.

Fu a quel punto che mi vide, del tutto preda dell’onda del suo potere, steso come un mantello tutt’intorno a lui.

Sapevo di avere gli occhi intorpiditi dal piacere, e un sorriso appena accennato sul volto.

 Mi sorrise di rimando per un momento, prima di rivolgere la sua attenzione alla donna di fronte a sé e sentenziare: “Ecco, miss Clark… la sua Betsy sta benissimo, adesso.”

“Oh, Mr McKalister, la ringrazio tanto! Non sapevo più come fare. Non si lasciava toccare da nessuno” ammise concitata la donna, accarezzando la cagnolina, che latrò soddisfatta.

“Posso immaginarlo” annuì, aiutando il cagnolino a scendere dal bancone. “Fortunatamente, non ha intaccato la carne né procurato ferite, per cui non ha bisogno di nessun medicinale. Si assicuri che non finisca di nuovo tra le rose, però… è preferibile.”

“Sì, grazie… grazie…” assentì più volte la donna, oltrepassandomi e sorridendomi brevemente prima di uscire dalla clinica.

Sull’altro lato del negozio, due ragazzi stavano decidendo che gabbietta prendere e, a giudicare dai loro sguardi, la spesa sarebbe stata di certo sostanziosa.

Vista la loro attenzione, interamente proiettata sugli oggetti più grossi esposti nel reparto, non avrebbe potuto che essere così.

Oltrepassato il bancone, Duncan diede loro solo una fuggevole occhiata prima di avvicinarsi a me e chiosare: “Quasi non ti riconoscevo, con questi capelli così corti e biondi. Sembri tutt’altra persona.”

“Ed è un bene, o un male?” chiesi, vagamente ansiosa.

Scrollando le spalle, lui si schernì bonariamente.

“Il mio parere conta poco. Non me ne intendo molto di acconciature, ma ti stanno bene. Anche se sei… diversa. Mi ero abituato alla tua chioma sparsa dal vento, e ora…”

“Ora si arrufferà solo un po’ e basta” ammisi, toccandomi i corti capelli con aria imbarazzata.

Davvero non capivo Duncan. A volte sapeva essere così dolce, con me, mentre altre volte era scostante, scorbutico, come se la mia presenza lo disturbasse.

Non sapevo come prenderlo. Era diverso dal Duncan che avevo conosciuto nel bosco.

Sfiorandomi i capelli con una mano, Duncan si portò le dita al naso e annusò, mormorando subito dopo con un sorriso: “Hanno comunque lo stesso profumo, nonostante la tinta.”

“Meno male” ammiccai, sorridendo compiaciuta.

Guardandosi intorno, Duncan sospirò.

“Ora non posso stare qui a chiacchierare con te, anche se vorrei. Perché non vai a conoscere i miei cavalli? Sono docili, e non ti daranno problemi.”

“D’accordo. Come si chiamano?” gli chiesi, incuriosita dalla sua proposta.

“Il baio è Rafael, l’arabo grigio è Michael, mentre lo stallone nero è Gabriel” mi informò distrattamente, dando un’altra occhiata alla coppietta di ragazzi in fondo al negozio.

Sollevando un sopracciglio con aria evidentemente sorpresa, esalai: “Sono i nomi degli Arcangeli.”

“Già. Ho sempre avuto una segreta passione per gli angeli” rise sommessamente, quasi imbarazzato da quella confessione.

Duncan e gli angeli? Quella sì che era una cosa curiosa.

Sorrisi e chiosai: “E’ una passione come un’altra. Io vado matta per i licantropi, sai?”

Ridendo roco, e facendomi fremere per diretta conseguenza, mi diede un buffetto sul naso prima di mormorare: “Coraggio, vai… saranno felici di ricevere visite.”

“Hai detto che Gabriel è uno stallone… devo preoccuparmi?” gli chiesi dubbiosa, fermandomi sulla soglia della porta d’ingresso.

“Non credo che cercherà di farti delle avances troppo esplicite, almeno al primo incontro. Tu, ignoralo” sentenziò, assolutamente serio in viso.

Sgranai gli occhi – non era assolutamente da lui lanciarsi in simili battute – e lo fissai basita per alcuni attimi, prima di scoppiare in un’allegra risata.

“Tu sei tutto matto.”

Con passo saltellante e gaio – l’ilarità di Duncan si era impadronita anche di me – me ne andai in direzione della stalla di fianco a casa.

Dopo aver costeggiato i bellissimi cespugli di rose e di gelsomino bianco, mi ritrovai a fissare un’enorme struttura di legno dal largo portone aperto per metà.

Dall’interno, provenivano gli sbuffi annoiati dei cavalli.

Oltrepassando la porta con aria curiosa, notai esasperata l’onnipresente ordine maniacale che, a quanto pareva, contraddistingueva ogni cosa fosse anche solo sfiorata da Duncan.

Che fosse la reincarnazione di una governante?

Ridacchiando di quel pensiero, mi avvicinai cauta ai box, dove si potevano scorgere i cavalli a riposo.

Lì, una bella testa bruna sbucò curiosa oltre il parapetto di legno, guardandomi con profondi occhi neri.

Mi fermai subito, fissandolo a mia volta, e sussurrai a bassa voce: “Ciao Rafael.”

Il baio scosse la testa enorme, facendo dondolare la bella criniera ondulata – che Duncan perdesse anche del tempo per intrecciargliela?

Sentendomi abbastanza sicura per avvicinarmi a lui, mossi lentamente una mano nella sua direzione, esalando timorosa: “Non mi morderai, vero?”

Perfettamente immobile, Rafael si lasciò accarezzare sul muso, e fu a quel punto che mi resi conto della profonda cicatrice – ormai rimarginata da tempo – che gli partiva dall’occhio sinistro.

Impallidendo, esalai: “Chi ti ha mai fatto questo?”

Una lieve onda di potere mi sfiorò il corpo, avvertendomi dell’approssimarsi di un licantropo che non era Duncan.

Voltandomi a mezzo, scorsi sulla porta una ragazza magra come un giunco, e abbigliata con brache militari e una maglia dei Guns and Roses.

Ai piedi, portava delle infradito nere.

Sorrisi e domandai: “Ciao. Sei Erika, vero?”

Lei si avvicinò trotterellando, tutta allegra e sorridente e, fermandosi a due passi da me, annuì.

“Ciao. Sì, sono io. Tanto piacere di conoscerti, Brianna” poi, come se si fosse ricordata di una cosa solo in quel momento, arrossì imbarazzata e aggiunse: “Posso chiamarti per nome?”

La sua gentilezza e spontaneità mi portarono a sorridere maggiormente e, annuendo con foga, esclamai: “Ma certo! Mi offenderei, se non lo facessi.”

Tranquillizzata dal mio dire, Erika si avvicinò per carezzare il fianco di Rafael – permettendomi così di scorgere la lunga treccia di capelli neri che le superava ampiamente la vita.

“Il vecchio padrone di Rafael era solito divertirsi ferendolo con un pungolo. Quando Duncan lo acquistò, era quasi morto.”

Non osai immaginare quali altre cicatrici nascondesse il box che teneva al sicuro Rafael e, deglutendo, chiesi tubata: “Come ha saputo di Rafael?”

“Alcuni animalisti” mi spiegò Erika, prendendo un pugno di avena da un vicino sacco di juta per darlo da mangiare a Rafael.

Il cavallo le sbuffò contro, ma accettò.

“Lo dissero a lui, così Duncan si precipitò alla stalla di quel disgraziato per comprare il cavallo” mormorò Erika, ghignando all’indirizzo del cavallo.

Era chiaro quanto, l’animale, percepisse il licantropo che era in lei ma, evidentemente, si conoscevano da tempo, e c’era una sorta di accordo tra di loro.

“Capisco” sussurrai. Era decisamente un’azione da Duncan.

Voltandosi a guardarmi – avevo ancora indosso i suoi abiti – mi sorrise e commentò: “Certo che quella maglietta sta davvero meglio a te, che a me!”

Ridacchiando, le dissi: “Te la renderò appena l’avrò lavata e stirata.”

“E’ tua” precisò Erika, sorprendendomi. “Su di me non starebbe altrettanto bene, per cui prendila. Te la regalo.”

“Beh… grazie” esalai, sorpresa.

Erika si limitò a scrollare le spalle. “Ho saputo da Jerome che ti addestrerai con Lance. Non sai quanto sei fortunata.”

“Dici?”

“Oh, sì… sarai una delle poche donne del branco a poter stare in sua compagnia per più di dieci minuti alla volta. Potresti suscitare parecchie gelosie” mi avvertì, facendomi l’occhiolino.

“Ecco… mi mancava solo questa!” sbottai. “Già non mi bastava il nutrito gruppo di lupe che volevano convolare a nozze con Duncan. No, ora avrò anche quelle di Lance, a darmi la caccia!”

Ridendo divertita, Erika mi tranquillizzò subito.

“Oh, Lance le ha scoraggiate tutte anni addietro. Nessuna si prende più il disturbo di avvicinarlo in quel senso. Ora, si limitano a fissarlo smaniose, ma da lontano, attendendo che lui le prenda in considerazione. Hanno troppa paura di avvicinarsi.”

“Oh… e perché?” chiesi curiosa.

“Se lo vorrà, te lo racconterà lui. Io non me la sento di dirtelo, visto che è una cosa piuttosto privata” soggiunse Erika, con un leggero sospiro.

Oh, oh. Un altro mistero da risolvere.

Quel branco era l’eccezione, o tutti i clan erano così incasinati?

Passando a Michael, notai con un certo divertimento che, contrariamente a Rafael – che si era mostrato curioso – lui mi voltò deliberatamente le spalle, mostrando il suo didietro importante e la sua coda svolazzante.

Nitrì come se fosse divertito e si mise a mangiare un po’ di fieno, facendo di tutto per non degnarmi di uno sguardo.

I suoi occhi, però, si mossero parecchie volte per cercare di tenere sotto controllo la mia figura.

“Tu devi essere un comico nato, amico” commentai, guardandolo con un sopracciglio sollevato.

Erika annuì subito, divertita non meno di me.

“Sì, Michael adora fare scherzi di ogni genere. Non diresti che è un semplice cavallo. Sembra quasi che sia posseduto da uno spirito ultraterreno.”

“Un cavallo mannaro?” ironizzai, facendola ridere.

“Direi di no. Non penso proprio che esistano” ridacchiò Erika prima di fissarmi curiosa e chiedermi: “E’ vero che sei una wicca?”

“Lo chiedi alla persona sbagliata” ironizzai. “Ne so poco o nulla… ma, sì, percepisco alcune cose.”

“Che cosa? Cioè, sento che hai del potere latente davvero forte, e che somiglia a quello di un licantropo, ma non ho idea di come funzioni” mi spiegò Erika, scrollando le spalle.

“Percepisco l’aura del tuo potere, per esempio, e ora avverto che sei contenta. E’ come se mi stessi avvolgendo con una coperta calda, o qualcosa di simile” la informai, non del tutto certa di esprimermi al meglio.

Sinceramente sorpresa e tutta sorridente, Erika sussurrò ammirata: “Sai, io non ho mai conosciuto nessuna wicca… di Kate, ho solo sentito parlare. Quando viene qui, è solo per eventi ufficiali, a cui noi lupi inferiori non possiamo partecipare. Solo il Consiglio e gli alfa possono andare al luogo di potere, quando ci sono dei Fenrir di altri clan in visita.”

“Lupi… inferiori?” Quella frase mi lasciò davvero con l’amaro in bocca.

Lei sgranò gli occhi, asserendo subito dopo: “Oddio, non pensar male! E’ solo che non siamo ancora passati di livello, per così dire. Non ha nessun connotato negativo.”

“Sicura?” chiesi dubbiosa.

“Oh, sì, ne sono sicurissima” annuì con vigore Erika. “Il branco si basa sulle gerarchie, per cui non c’è nulla di male se io dico di essere in quella più bassa, perché è vero.”

“E per risalire le gerarchie, che bisogna fare?” le domandai,  cercando di attirare l’attenzione di Michael con un po’ di avena.

Niente di niente. Quel cavallo aveva deciso di farmi arrabbiare.

“Combattere” asserì Erika, come se nulla fosse.

La fissai basita, la bocca spalancata e gli occhi rotondi come bottoni, mentre quelle parole penetravano nella mia corteccia prefrontale, espandendosi poi in tutto il cervello.

Combattere. Oh. Mio. Dio.

“In che senso?” esalai, continuando a fissarla come se avesse avuto le corna e la coda biforcuta.

“Nell’unico senso possibile. Si combatte al primo sangue per risalire la gerarchia, a meno che non si nasca già con un ruolo designato, come è capitato a Duncan, Lance o Jerome. Ma, in quel caso la faccenda è un po’ diversa” mi spiegò Erika, ridendo dei miei tentativi infruttuosi di attirare l’attenzione di Michael. “Pare che ci sia una connessione tra il fatto di nascere come uno dei tre Gerarchi, e il fatto di essere forti fisicamente.”

A ben pensare, Duncan, Lance e Jerome erano tutti piuttosto robusti.

Lance, poi, era addirittura mastodontico, ma forse dipendeva dal fatto che era la guardia del corpo designata di Duncan.

“E tu? Hai già combattuto?”mi informai.

“No. Duncan vieta categoricamente che ci siano combattimenti prima dei diciotto anni. Io potrò cominciare entro breve tempo” mugugnò, come se il fatto di aspettare le pesasse.

“Non mi dire che hai già pensato contro chi combattere” esalai, sempre più sorpresa.

“Due settimane, e qualcuno di mia conoscenza dovrà sputare sangue per quel che ha fatto…” ridacchiò Erika, prima di spiegarmi: “… ho un conto in sospeso con una lupa e, se vincerò, non sarò più chiamata inferiore. Prenderò ufficialmente il titolo di Mánagarmr, vincendo il mio primo scontro da lupo adulto. Significa cane della luna e tutti i lupi che passano, per così dire, di livello, prendono quel nome.”

“E fin dove puoi elevarti, se è il termine giusto?” mi informai, sempre più curiosa.

Non avevo davvero idea che succedessero cose del genere, all’interno del branco.

“Per la verità, non si può aspirare a nessun altro titolo che quello. Cambia la gerarchia solo in base al numero di duelli vinti. Tutto qui. I lupi più forti vengono definiti anche alfa, per indicare quanto, la loro forza, sia simile a quella di Fenrir. Naturalmente, sono tutte lotte finalizzate a scoprire chi sia il più bravo, non certo a uccidere. Nessuno di noi vorrebbe questo” ci tenne a precisare Erika.

“Ma è mai capitato che qualcuno… esagerasse?” la incalzai, dubbiosa.

Qualcosa, nel suo sguardo, la diceva lunga.

Erika si adombrò, reclinando il capo e, mordendosi un labbro, mormorò turbata: “Sono cose di cui non posso parlare con te.”

“Non c’è problema” mi affrettai a dire.

Aveva avuto la stessa reazione di Jessie. Cos’era successo, di così grave, da rendere tutti tanto reticenti?

Risollevato il capo per guardarmi, Erika mi prese sottobraccio per condurmi da Gabriel e, con un sorriso, ammiccò all’indirizzo dell’ultimo box.

“Scommetto che lui conquisterà il tuo amore imperituro.”

“Dici?” ridacchiai.

Non avrei posto altre domande. Era chiaro che non voleva parlarne.

Mi voltai quindi a scrutare all’interno del box di Gabriel e, come predetto da Erika, il mio cuore fece un balzo, quando vidi lo splendido stallone che mi si presentò innanzi.

Il suo manto, nero come la notte e lucido come ossidiana, rifletteva la rada luce che penetrava all’interno della stalla dalle alte finestre poste vicino al soffitto.

La criniera, morbida alla vista e leggermente ondulata, era lunga e folta al pari della coda, che penzolava tranquilla fin quasi a sfiorare la paglia sul cemento.

I suoi occhi, scuri come ebano, mi fissarono per alcuni attimi prima che Gabriel decidesse di nitrire e avvicinarsi a me.

Imbrigliata dal suo sguardo, lasciai che avvicinasse il muso per annusarmi, e solo a quel punto che mi permisi di sfiorargli la criniera con mano esitante.

Fu come immergere le dita nel velluto.

Inspirai il suo odore penetrante e affondai maggiormente la mano nella criniera, raggiungendo il pelo lucido che ricopriva le sue carni, che risultò essere altrettanto morbido e folto.

Carezzando il suo collo muscoloso con entrambe le mani, mentre il muso di Gabriel restava appoggiato alla mia guancia, immobile come una statua, sussurrai roca: “Sei davvero uno splendore, lo sai, vero?”

Erika rise piano e io, del tutto presa dal cavallo, chiusi gli occhi e mi appoggiai a lui, invasa da una strana frenesia.

Senza sapere bene come, sfiorai la mente dell’animale, percependo la sua sorpresa e il suo interesse nei confronti della strana umana che aveva vicino.

“Sì, sono strana davvero.”

“Puoi percepirlo?” mi chiese a bassa voce Erika.

Annuii e le spiegai confusa: “Faccio tutto istintivamente, quindi non so bene come questo avvenga, però, sì. Lo sento. Sembra contento.”

“I suoi occhi sono quieti, nonostante io sia presente. Di solito, è sempre nervoso se vengo da sola, senza Duncan a fare da cuscinetto” mormorò Erika, prima di ridacchiare. “Ah… mi sembrava strano che non si fosse ancora presentata per conoscerti.”

“Chi?” esalai sorpresa, staccandomi un momento dal contatto mentale con il cavallo.

“Beh, la donna di Duncan, ovviamente” sogghignò Erika, ammiccando al mio indirizzo.

Quelle parole mi gelarono sul posto, facendomi impallidire.

La donna di Duncan?, pensai sconvolta.

Non me ne aveva affatto parlato. Da dove diavolo saltava fuori?

“Come… hai detto?” gracchiai, deglutendo a fatica.

“Parlo di lei” disse Erika, indicando oltre le mie spalle.

Ai limiti del panico – stavo dormendo nella sua stanza, forse? Dio non volesse! – mi voltai per affrontare la cruda e tremenda realtà.

Quando, però, mi ritrovai a fissare solo un enorme soriano dal pelo rosso, sbattei le palpebre confusa ed esalai: “Erika, sei forse impazzita? Lì c’è solo un gatto.”

Una gatta, per l’esattezza. E si chiama Jasmine. E’ la gatta di Duncan. Non chiedermi come facciano ad andare d’accordo, perché non ne ho idea. Notoriamente, cani e gatti non si amano di certo, fatto sta che questi due si piacciono parecchio, invece” mormorò Erika, stando a debita distanza dalla gattona che, sorniona, si avvicinò con la coda sollevata e l’aria di sfida negli occhi azzurri.

Mi sentivo come se avessi appena schivato un proiettile mortale, ma lo sguardo di Jasmine non mi permise di godere appieno della sensazione di sollievo che riverberò dentro di me.

Era come se la gatta mi stesse passando sotto una lente di ingrandimento.

Si avvicinò ancora, lo sguardo di Gabriel puntato sulla gatta, quasi a volermi difendere da lei.

Aggrappandomi al collo del cavallo, sussurrai: “Mi graffierà?”

“Io sono già stata vittima dei suoi artigli, per cui passo” mi informò Erika, scostandosi di qualche passo. “Ciao, Jasmine. Bella giornata, eh?”

La gatta sbuffò nella sua direzione, prima di puntare gli occhi verso di me.

Fissandola preoccupata, mi chiesi se sarebbe stato puerile scavalcare il box e rifugiarmi all’interno assieme a Gabriel.

Lui sembrava decisamente più ben disposto verso di me, rispetto a quella gattona rossa.

Quando arrivò ad annusarmi le scarpe da ginnastica nuove di zecca, quasi tremai di paura.

Nel sentirla ronfare contenta, però, sorrisi sollevata e mi chinai per grattarle le orecchie, mentre lei mi sommergeva con i suoi ron-ron.

Erika rise di gusto, quando me la presi in braccio per farle le coccole – incrementando così le sue fusa, che quasi mi assordarono.

Avvicinandosi un poco, sentenziò allegramente: “Bene, mia cara. Sei stata ufficialmente accettata da tutta la famiglia McKalister.”

Risi di gusto, a quel commento, condividendo il suo entusiasmo.

“Beh, è una buona cosa, direi.”

“Più che buona. Ottima. Sei la prima a riuscirci” ammiccò Erika. “Quando Marjorie ha provato ad avvicinarsi a Gabriel, si è quasi fatta staccare una mano, e meno male che Duncan era presente, o lei l’avrebbe divorato!”

Quella notizia mi riempì il cuore di un sordido piacere e, se avessi potuto, probabilmente anch’io mi sarei messa a fare le fusa per la contentezza.

Amai ancora di più Gabriel, per questo.

Erika provò ad avvicinare una mano a Jasmine che, fissandola dubbiosa, sollevò appena il pelo della schiena.

Continuai ad accarezzarla, mormorandole convincente: “Stai buona, Jasmine… ti vuole solo accarezzare… buona….”

Riuscendo dopo vari tentativi a carezzare la gatta sul capo, Erika sorrise soddisfatta, dicendomi: “Beh, è la prima volta che non mi becco una graffiata… grazie.”

“Di nulla.”

Sollevando leggermente polso e gatta per controllare l’orario, esalai: “Mmhh, sarà il caso che vada a ricordare a Duncan che oggi siamo a pranzo da voi… non vorrei se lo fosse già scordato.”

Sospirando esasperata, Erika mugugnò: “Sono passata proprio per questo. Mamma sa di che pasta è fatto il nipote, quindi è partita prevenuta.”

“Lo immaginavo. Lo andiamo a cercare? Dovrebbe essere ancora in clinica” le proposi, prima di voltarmi a salutare i tre cavalli che, all’unisono, nitrirono.

“Ti adorano già” sogghignò Erika, uscendo con me dalla stalla.

“Che cos’ha Gabriel, che non va?” le chiesi, mentre ci incamminavamo verso la clinica.

“Uno spavenio1 a una zampa. Il suo addestratore lo stava massacrando per farlo correre con quell’infiammazione già molto evidente e, quando Duncan se n’è accorto – fa parte dei veterinari che controllano i cavalli da corsa locali – lo ha denunciatoper molestie. Si è preso il cavallo dopo averglielo pagato profumatamente” mi spiegò Erika. “Ormai è quasi a posto, ma Duncan non perde mai l’occasione per controllare accuratamente il garretto. Sai, lo ha operato lui stesso.”

“Oh” esclamai  sorpresa.

“Duncan ci sa proprio fare con gli animali… è un caso più unico che raro, visto quello che siamo” mormorò, abbassando la voce quando ci avvicinammo alla clinica. “In teoria, nessun animale si fida di noi, visto che siamo dei predatori in cima alla catena alimentare, ma lui sembra essere l’eccezione che conferma la regola.”

“E come gli è venuta in mente l’idea di fare il veterinario?”

“Quando ha scoperto di poter interagire con gli altri animali, senza che essi  scappassero al suo solo apparire” ammiccò Erika. “Jerome, per prenderlo in giro, lo chiama San Francesco.”

“Buono a sapersi” ridacchiai, aprendo la porta della clinica per entrare.

Erika mi seguì all’interno e, insieme, ci dirigemmo al bancone, dove si trovavano un paio di persone sulla cinquantina, in attesa del ritorno di Duncan.

Ci guardarono per un momento prima di riconoscere Erika e, sorridendole, la donna esordì dicendo: “Ciao, Erika… hai poi deciso che a università iscriverti alla fine del liceo?”

“Buongiorno Mrs Edwards. Penso andrò a Londra per studiare musica, o teatro” scrollò le spalle Erika. “Direi che sono più propensa per quello, piuttosto che per altro.”

“Scommetto che rimarranno tutti a bocca aperta, sentendoti suonare il sassofono. Il tuo ultimo spettacolo, a scuola, è stato splendido!” si complimentò con lei la donna. “Ah, Beatrix ti manda i suoi saluti, e spera di rivederti alla festa che ha organizzato per il suo compleanno.”

“Non mancherei per nulla al mondo” annuì Erika, prima di spiegarmi: “E’ una mia compagna di classe.”

“Capisco”

“Una tua amica in visita?” chiese gentilmente Mrs Edwards.

“Sono una lontana cugina di Duncan, e vengo da Albany. Mi chiamo Ann, tanto piacere” le spiegai, prendendo l’iniziativa per evitare che Erika fosse costretta a inventarsi qualcosa su due piedi.

“Piacere mio, cara” disse la donna, stringendo la mia mano protesa. “Non ti avevo mai vista, qui.”

“E’ il primo anno che i miei genitori mi permettono di venire da Duncan da sola” ammiccai, mentendo alla grande. “Di solito, è sempre lui a venire da noi. Sa, mia madre non può spostarsi da casa per via della sua malattia, e così…”

Finsi un pizzico di dispiacere, sufficiente per impensierire Mrs Edwards che, preoccupata, esalò: “Oh, mi dispiace tanto, cara… spero che ti troverai bene, qui da noi, e che ti divertirai.”

“Ne sono sicura… grazie tante.” Sorrisi allegra, compiaciuta di me stessa.

Mentire mi veniva più naturale a ogni minuto che passava. Non sapevo se esserne lieta, o se dovevo cominciare a preoccuparmi.

L’uomo accanto a Mrs Edwards, sfiorando la moglie su un braccio, la ammonì gentilmente: “Non disturbare queste povere ragazze con le tue mille domande, cara.”

Io ed Erika ridemmo spensierate, negando che la signora ci stesse disturbando.

Fu in quel momento che comparveDuncan dal retro bottega, tenendo in mano una gabbietta.

Al suo interno si trovava uno splendido esemplare di parrocchetto di Lesson, dal piumaggio verde brillante a striature azzurre.

Vedendo i suoi padroni, cominciò a cantare allegramente e Duncan, posata la gabbia sul ripiano di vinile, sorrise e disse loro: “Come vedete, si è ripreso perfettamente. L’ala non era spezzata, fortunatamente, ma solo contusa. Può già riprendere a svolazzare per la voliera.”

“Perfetto” esalò sollevato Mr Edwards, pagando il conto. “Se non fosse riuscito a volare, Beatrix mi avrebbe ucciso. Dopotutto, sono stato io a lasciare che Robin entrasse nella gabbia.”

Ridacchiando, Duncan chiosò: “Un cocker e un parrocchetto, di solito, non sono una bella accoppiata, in uno spazio chiuso.”

“Ho notato” rise allegro Mr Edwards, prima di salutarci e uscire con moglie e parrocchetto al seguito.

Voltandosi per osservarci curioso, Duncan si illuminò in viso nel vedermi con Jasmine in braccio.

Oltrepassato il bancone, si piegò per fare i complimenti alla sua gatta, sussurrando: “Immaginavo che saresti uscita dal tuo palazzo per conoscere la tua nuova pupilla… allora, ti piace?”

Risi nel sentirlo parlare a quel modo. Era un lato di Duncan che non mi sarei mai aspettata di vedere.

Sapevo della sua gentilezza e benevolenza, ma quello che lo legava a Jasmine era qualcosa di molto simile all’amore incondizionato.

Forse, per lui, era naturale amare spontaneamente quella gatta, perché poteva essere sincero, e venire ricambiato con altrettanta sincerità.

Tra le donne del branco, invece, non avrebbe potuto avere questa certezza.

Il fatto di diventare Prima Lupa costituiva, di per sé, motivo più che valido per cedere a qualsiasi compromesso.

Questo non gli dava così la possibilità di fidarsi di nessuna di loro.

Sollevando le sue iridi smeraldine per incontrare i miei occhi, mi sorrise, asserendo: “Le piaci davvero molto, sai?”

“Già… non ha ancora smesso di fare le fusa. Pensi che potrebbe dormire sul mio letto?” gli domandai, carezzando dolcemente Jasmine.

“Se lei te lo permetterà, sì” annuì Duncan, prima di risollevarsi e guardarci dubbioso. “Sbaglio, o mi sono dimenticato qualcosa?”

Erika sospirò esasperata e mugugnò: “Sì, il pranzo a casa nostra.”

“Giusto!” esclamò, battendosi una mano sulla fronte. “Tu vai pure avanti, Erika. Io e Brianna arriviamo subito. Il tempo di cambiarmi.”

“D’accordo” sbuffò Erika, sussurrandomi per contro: “Ci vediamo dopo… voglio mostrarti la mia collezione di CD.”

“Va bene” annuii, vedendola inforcare il motorino e schiacciarsi sulla testa un casco jet color amaranto.

Avviandomi verso casa assieme a Duncan, mi tenni Jasmine in braccio e ammisi senza remore: “Mi piacciono molto i tuoi cavalli, e mi sono innamorata perdutamente di Gabriel. Oltretutto, credo che la cosa sia reciproca.”

Lui si voltò a mezzo, esalando: “Di già? E io che speravo vi sareste dati un po’ di tempo per conoscervi. Non si può stare mai tranquilli, a questo mondo. Spero solo che ora non venga sotto la tua finestra a cantarti la serenata, perché è stonato come una campana.”

Risi di gusto e lo spinsi su per le scale con una mano, replicando: “Piantala di dire fesserie e vatti a cambiare, o arriveremo tardi da Sarah.”

Lui ammiccò da sopra una spalla e mi punzecchiò con tono allegro.

“Ammettilo, che vuoi solo rivedere Jerome.”

Avvampando in viso, ringhiai: “Ti risparmio solo perché ho Jasmine in braccio. Fila via veloce come un razzo, razza di cane pulcioso, prima che mi arrabbi sul serio.”

Del tutto indifferente al mio insulto, Duncan rise nel salire le scale.

Sempre ghignando di gusto, si chiuse dentro la sua stanza, lasciandomi al pian terreno con un sorriso stampato sul viso e un piacevole calore nel petto.

Era adorabile, quando rideva.

Avrei solo voluto sentirlo ridere così più spesso.


 
 
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1: Spavenio:Tumefazione ossea all'interno del garretto sulla parte inferiore del tarso e superiore al metatarso.
 

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Capitolo 15
*** XV. ***


 XV.

 
 

 

 

Come mi ero immaginata, i genitori di Jerome ed Erika risultarono essere una coppia gioviale e allegra.

Furono molto cordiali, e ben disposti ad accettarmi in casa senza farsi troppe domande.

Era evidente quanto si fidassero ciecamente delle decisioni del nipote, e questo mi rincuorò non poco.

Sapere che Duncan poteva contare su persone così fidate, mi tolse un peso dal cuore.

L’essermi resa conto di quanto fosse forte il Consiglio, e ben poco disposto a lasciare a Duncan le redini del comando, mi aveva angustiato parecchio.

Soprattutto, dopo aver constatato quale potere avesse la Lupa Madre sugli altri membri consiliari.

Tutti guardavano a lei con timore e rispetto, mentre Duncan era visto come un capo, sì, ma non di polso.

Niente più che una figura da seguire, finché le cose fossero andate come loro meglio credevano.

Questo, mi aveva portato a chiedermi cosa avesse spinto Duncan a consegnare una così larga fetta di potere al Consiglio.

Mi era più che chiaro, ormai, che lui aveva doti e capacità per governare anche senza il loro aiuto.

Naturalmente, non potei mettere a parole i miei pensieri – sapevo perfettamente che nessuno di loro mi avrebbe risposto, per correttezza nei confronti di Duncan.

Il dubbio, comunque, rimase lì, a covare dentro di me come un tarlo instancabile, deciso a divorare le pareti del mio cervello fino a farmi impazzire.

Feci perciò del mio meglio per non arrovellarmi proprio in compagnia di persone così care, decidendo di distrarmi il più possibile per non far notare a nessuno la mia ansia.

Con dovizia di particolari, così, raccontai alla famiglia di Duncan del nostro incontro, mettendo fine alla curiosità di Jerome e permettendo a me stessa di pensare ad altro.

Il racconto suscitò diversi commenti entusiastici, e parecchie pacche sulle spalle da parte di Jerome ed Erika.

Sarah e Johnathan, il padre di Erika e Jerome, si complimentavano invece con me per la mia presenza di spirito e il mio coraggio.

Duncan si limitò a lanciarmi il suo consueto sorriso ambiguo, a metà tra l’orgoglioso e il divertito.

Fu decisamente un momento pacifico e tranquillo, specialmente se paragonato alla vita incasinata che stavo vivendo in quel periodo.

Non pensare a quello che mi sarebbe spettato fare, di lì a poco, mi servì per non avere una crisi di nervi in piena regola.

Fin troppo presto, però, dovemmo tornare a casa McKalister.

Duncan era troppo oberato di appuntamenti, per potersi concedere ulteriori spazi per se stesso e la sua famiglia.

Io, invece, ero in attesa dell’arrivo di Lance, che mi avrebbe spiegato ciò che significava usare il potere latente dentro di me.

Dopo essere tornati, e aver lasciato Duncan ai suoi impegni con la clinica, attesi con impazienza che giungesse Hati per la nostra prima lezione sull’uso del potere.

Era parte di me, dopotutto, e che io avrei dovuto imparare a imbrigliarlo in vista del novilunio.

Mentre aspettavo, preparai qualche sandwich di tonno e lattuga, quasi sicura che ce ne sarebbe stato bisogno.

Pur se in quel momento avevo la pancia piena dei meravigliosi cannelloni di Sarah, avevo idea che avrei avuto una fame indiavolata, di lì a poco.

Non avevo la minima idea di quel che Lance avrebbe fatto per risvegliare il mio dono ma, di qualunque cosa si trattasse, sapevo già che mi avrebbe lasciata basita.

Non mi ero ancora abituata a percepire le auree dei licantropi e le loro sensazioni superficiali, figurarsi il resto.

Un ‘resto’ di cui non sapevo un accidente di niente.

Quando trillò il campanello, per poco non imprecai dalla paura.

Spazzandomi in fretta le mani in un canovaccio, mi affrettai ad andare ad aprire.

Bello come una mattina d’inverno, si presentò dinanzi a me Lance in tutta la sua altezza spropositata, fissandomi con i suoi stranissimi occhi da husky.

Lasciatolo entrare dopo esserci salutati, gli domandai: “Allora, cosa mi devo aspettare?”

“Di tutto un po’, credo” ammise, seguendomi in cucina. In una mano, teneva una borsa di pelle nera.

Sorrise, quando vide i sandwich appena fatti e, sedendosi su uno degli alti sgabelli nei pressi dell’isola centrale della cucina, celiò: “Hai pensato alla merenda, a quanto vedo.”

“Avevo come la netta sensazione che ce ne sarebbe stato bisogno” scrollai le spalle, accomodandomi vicino a lui.

“E hai ragione” ammiccò Lance, poggiando la sua borsa da medico sul ripiano di marmo grigio. “Duncan mi ha accennato al fatto che vorresti diventare medico. Con quale specializzazione?”

“Immunologia. Mi ha sempre attirato” ammisi con un risolino. “Anche se, con Duncan, ho aperto le porte anche alla medicina d’urgenza… chissà?”

Con un mezzo sorriso, Lance mi fissò con orgoglio, asserendo: “Quel che hai fatto per il nostro Fenrir è stato qualcosa di eccezionale, Brianna. Presto, anche il Consiglio se ne renderà conto, e la smetterà di pensare alla polizia che ti sta cercando. In seno al branco, sarai al sicuro.”

“Sempre che riesca a carpire i segreti nella mia testa” brontolai, agitandomi nervosamente sullo scranno.

Era molto peggio che trovarsi dinanzi a un professore per un’interrogazione.

“Sono qui proprio per questo, ma vorrei tenerti monitorata, mentre proviamo. Sto andando un po’ a tentoni, con te, quindi vorrei avere i tuoi parametri di base per essere certo delle tue reazioni fisiche” mi spiegò, estraendo uno sfigmomanometro dalla borsa di pelle.

“Okay. Mi sembra giusto. Hai bisogno di un’anamnesi completa, prima di cominciare?” gli chiesi, dubbiosa.

“Non direi. Non devo iniettarti nulla, per cui non ho bisogno di sapere se sei allergica a qualcosa. Piuttosto, hai problemi di qualche genere?” mi chiese lui, infilando il mio braccio nel bracciale dello sfigmomanometro.

“Tutto regolare… perché?”

“Sei nervosa” mi spiegò, toccandosi un orecchio con un risolino.

“Oh, già… le vostre parabole satellitari” commentai, facendolo ridacchiare.

“Hai fatto battute del genere per tutta la durata del viaggio?” mi domandò divertito, provandomi la pressione.

“Sì, direi anche di peggio… perché?”chiesi curiosa, lanciando occhiate alternate a lui e al mio braccio.

La vibrazione dello sfigmomanometro riverberò nella carne del mio braccio, facendomi il solletico.

“Duncan non è famoso per essere un tipo da accettare le battute di spirito. E’ sempre stato molto serioso, fin da giovane” mi spiegò, facendomi impallidire non appena udii le sue parole.

“Vuoi dire che…?” esalai sconvolta, temendo di aver sfinito Duncan a forza di battutacce e freddure.

Lance mi sorrise, tranquillizandomi, e mi confessò: “Era divertito, quando ha accennato alla cosa. Quindi, direi che non lo hai affatto irritato.”

Sospirai di sollievo, sentendomi enormemente meglio alla notizia… forse un po’ troppo.

Storcendo il naso, cercai di scacciare quella dubbia sensazione di languore e chiesi, rivolta a Lance: “Allora, come vado?”

“Centoventidue su ottanta. Direi che va benissimo. Bene, ora possiamo cominciare e, quando finiremo, ti riproverò la pressione” sentenziò Lance, rimettendo a posto il suo sfigmomanometro.

Annuii, prima di chiedergli: “Cosa dovrei fare, esattamente?”

“Per ora faccio io… dimmi quello che percepisci” mi spiegò a quel punto Lance, fissandomi negli occhi con aria nuovamente concentrata.

Subito, allacciai lo sguardo al suo, lasciandomi scivolare lentamente all’interno di quelle profondità azzurro ghiaccio.

Con mia somma sorpresa, trovai curiosità nei miei confronti, aspettativa e un misto di confusione e attrazione.

Ripetei esattamente tutto quello che percepii, e vidi Lance annuire soddisfatto.

Evidentemente, non mi ero sbagliata.

Tornando a concentrarsi, Lance mormorò: “Riprova.”

Intrecciando le mani in grembo per trattenere la tensione che stavo accumulando, tentai di penetrare nuovamente dentro di lui ma, questa volta, fallii miseramente.

Fu come andare a sbattere contro un muro di cemento armato.

Aggrottando la fronte, mi concentrai maggiormente nel tentativo di sfondare quelle difese ma Lance, sogghignando, asserì roco: “Non ci sei ancora. Devi immaginare di sbriciolarlo, non solo tentare di farlo.”

“E come?” brontolai, percependo una goccia di sudore scivolare lungo la mia schiena contratta.

“Con qualsiasi cosa, ma devi dare azione al pensiero” mi spiegò, aggrottando la fronte e stringendo i denti.

Forse, per mantenere alte le barriere, stava faticando più di quanto non mi rendessi conto.

Annuii, pensando a un martello pneumatico e, come d’incanto, mi ritrovai a fissare il muro di cinta eretto da Lance, come se realmente lo avessi avuto dinanzi a me.

Era alto a dismisura, incurvato come una diga a doppio arco, del tutto privo di scalfitture e maledettamente robusto a vedersi.

Armata com’ero del mio martello pneumatico, avrei provato quantomeno a cercare di creare una falla in quella difesa apparentemente impenetrabile.

Grugnendo, strinsi i denti per scagliare il mio attacco alle difese di Lance, agendo mentalmente come se stessi davvero tenendo in mano il martello.

Vidi la me stessa mentale gettarsi contro il muro per fare pressione contro di esso, ma tutto fu vano. Neppure un graffio.

Il respiro mi si fece pesante, mentre la pelle cominciava a ricoprirsi di un sottile strato di sudore.

Sentivo nelle orecchie il battere furioso del mio cuore, neanche avessi corso per chilometri senza mai concedermi una pausa.

Confusa, mi chiesi cosa sarebbe successo, se quell’allenamento mentale si fosse protratto a lungo.

Sarei svenuta? O peggio?

Lance, dinanzi a me, non era messo meglio.

Evidentemente, quel processo di difesa lo sfiancava più di quanto avessi immaginato.

“E’ difficile. Non so come convogliare l’energia. Mi vedo compiere l’azione, ma non succede niente” riuscii a dire, gli occhi sempre fissi nei suoi, la mente concentrata sull’immagine mentale del suo muro di cinta.

“Stai andando bene… ti viene naturale…” mi sorrise lui, la voce un po’ ansante e fiacca “… ma devi crederci di più. Sei troppo scettica.”

Mollai la presa dall’immagine mentale per tornare alla realtà e, fissandolo bieca, sbottai: “Perché, ti pare normale quello che stiamo tentando di fare?”

Lui scoppiò a ridere e, annuendo, si passò una mano sul collo come per massaggiarsi i nervi tesi.

“Sì, scusa… lo so che ti sembra tutto assurdo, ma pensavo che ormai ti fossi abituata alle stranezze.”

Sospirando, mi spiegai.

“Se si tratta di voi, mi sta più o meno bene tutto ma, quando sono io a fare le cose, mi sento… strana.”

Lance, a sorpresa, mi sfiorò il viso con una mano e asserì, sollevandomi il mento per guardarmi negli occhi: “Tutti ci sentiamo strani, le prime volte. Non devi avere paura di te stessa, né di quello che sei. L’essere wicca non significa avere una malattia, è un dono come saper dipingere, o avere l’orecchio assoluto.”

“E’ un po’ di più” celiai, facendo una smorfia ironica.

Lance scrollò le spalle e, nel ritirare la mano, replicò: “Non pensi che Mozart fosse un autentico genio? Creare simili componimenti, e a un’età così precoce! Probabilmente, tutti lo ritenevano uno strambo, ma non lo era. Allo stesso modo, tu non sei uno scherzo della natura, ma un suo emissario. Sei una Figlia della Luna, Brianna, un’accolita della Madre Terra e una portavoce dei misteri di Colei cui tutti noi siamo sottomessi.”

“Cosa intendi, quando dici questo?” gli chiesi, turbata.

“Puoi…, potrai parlare con la Madre Terra attraverso la quercia sacra che, da sempre, è il portale degli spiriti terreni. Essendo tu wicca, inoltre, sei depositaria dei poteri connessi alla luna. Il tuo dono è strettamente legato a Lei, perciò il Consiglio ti vuole mettere alla prova durante il novilunio. Solo le wiccan più potenti possono parlare con la quercia sacra durante il novilunio, poiché riescono a sfruttare il potere della Madre Terra senza dover ricorrere a quello della luna, per farlo. Così, almeno, dice la leggenda” mi spiegò Lance, continuando a guardarmi negli occhi.

“E’ tutto così difficile…” sospirai afflitta. “… dimmi, tu come sai tutte queste cose?”

“Mia madre era una Völva, una veggente. Mi disse che non sarebbe vissuta a sufficienza per vedermi diventare dottore e mi spiegò che, per il mio bene e per quello di tutto il branco, avrei dovuto conoscere i segreti del potere, poiché un giorno quella conoscenza mi sarebbe tornata utile” mi spiegò, un quieto sorriso sulle labbra.

Sgranai gli occhi e, d’istinto, mi gettai tra le sue braccia, mormorando contro il suo petto: “Dio, mi dispiace tanto, Lance!”

Subito sorpreso, Lance accettò e ricambiò l’abbraccio, sussurrando contro i miei capelli: “Grazie, Brianna. Sai, sei la prima persona a cui lo dico.”

“Neppure Duncan, o Jerome, sapevano?” gli domandai, continuando a stringerlo a me.

Percepivo dentro la mia anima  i sentimenti di Lance, una miscellanea di sorpresa e compiacimento.

“No. Per un qualche motivo a me sconosciuto, non volli mai dire cosa predisse mia madre, prima della mia partenza per l’università ma ora, con te…” di colpo si fece silenzioso, limitandosi a carezzarmi la schiena con dolci carezze circolari che rilassarono i miei muscoli tesi.

Mi fissò per diversi secontdi senza dire nulla, limitandosi a lasciare che il suo sguardo sprofondasse nel mio.

Alla fine, però, mormorò: “E’ come se ti conoscessi da sempre, come se fossi un pezzo di me stesso che ho ritrovato solo ora, e questo sì che è strano.”

Risi divertita e, sciogliendomi dall’abbraccio, ammisi: “E’ successo anche con Duncan e Jerome. Con voi tre, percepisco questa strana connessione. Come se vi avessi già conosciuto anni addietro, e ora non ci fossimo che ritrovati per stare finalmente assieme.”

Facendosi pensieroso, Lance tornò a poggiare una mano sulla mia guancia, sussurrando: “Sento il bisogno insopprimibile di toccarti, di proteggerti, di tenerti vicino a me perché tu sia al sicuro, e credimi, non sono proprio un tipo smanceroso con le donne, almeno ultimamente.”

Cercando di sopprimere la curiosità che mi divorava, mi limitai a sorridere, celiando: “Erika mi aveva avvisato della tua avversione nei confronti del gentil sesso. Dimmi se devo armarmi, prima di uscire, perché vorrei essere certa non mi facessero fuori alla mia prima passeggiata.”

Scoppiando in una risata vagamente risentita, Lance mi lasciò andare e sbottò aspramente: “Non ti paragonerei mai alle femmine del branco. E’ facile leggere l’onestà nel tuo sguardo, Brianna, com’è altrettanto facile leggere calcolo e interesse negli sguardi delle lupe che mi si sono offerte.”

“Suona così… medievale…” borbottai, sgranando leggermente gli occhi.

“Un po’, in effetti” ammise Lance, chetandosi. “Comunque no, non devi girare armata per causa mia. Ho già espresso da tempo il mio desiderio di non essere oppresso da loro, perciò ti gireranno alla larga. Quanto alle lupe interessate a Duncan, non saprei, però. Forse, chiederei a Erika o Jessie di accompagnarti in giro, casomai ti venisse voglia di fare un giro per Farley.”

Lo disse con una certa ironia, ma avvertii una punta di preoccupazione nel suo tono, perciò persi del tutto la voglia di fare battute.

“D’accordo, messaggio ricevuto.”

Lance mi batté affettuosamente una mano sulla spalla, confortante.

“Non arriveranno a darti fastidio, credimi. Dopo quello che è successo in seduta di Consiglio, la voce sulla cacciata di Marjorie si sarà sparsa per tutto il branco e le lupe ci penseranno due volte, prima di trattarti male.”

“Lo spero. Un assalto basta e avanza” mugugnai, tastandomi distrattamente il cerotto che avevo sulla fronte.

“Penso parlerò con Kate in merito alle nostre sensazioni. Chissà che non sia qualcosa connesso al tuo ruolo di wicca. Più tardi, la chiamerò per chiedere a lei. In fondo, è lei l’esperta” chiosò Lance, tornando al discorso originario.

“Già, lei è l’unica a cui possiamo appoggiarci per avere delle dritte” annuii, prima di dire: “Okay, riproviamo?”

“Sì. E mettici tutta la forza che hai” mi spronò, sorridendomi complice.

“L’hai voluta tu” lo minacciai bonariamente, concentrandomi nuovamente sui suoi occhi.

Penetrare nel suo subconscio superficiale fu più facile – sapevo già come fare –  ma, questa volta, non mi armai di martello pneumatico.

Mi ritrovai abbigliata con un’armatura di stampo medievale e un maglio da guerra - lungo quanto il mio braccio - stretto nella mia mano, pronto solo per essere usato.

Non avevo mai saputo di poter concepire idee così fantasiose.

Forse, non ero così dissimile da mio fratello Gordon, dopotutto.

Stringendo i denti e assottigliando le palpebre, mi lanciai nuovamente contro il muro, attingendo stavolta a tutta la mia forza di volontà, al fuoco interiore che sentivo dentro di  me.

Quando finalmente colpii la superficie di cemento, fu come veder esplodere una bomba.

Tutt’intorno a me, un bagliore accecante avvolse ogni cosa, impedendomi di scorgere alcunché.

All’improvviso, i miei piedi persero aderenza su ciò che mi aveva permesso di sostenermi fino a quell’istante.

Con un grido strozzato, cominciai a cadere nel vuoto, inghiottita dalla mente di Lance, ormai spalancata dinanzi a me.

Durante la caduta, scorsi il volto di una donna bellissima, dai fini capelli color dell’ebano e splendidi occhi nocciola.

Sorrideva a un Lance più giovane e dalla barba leggera, e si stringeva al suo braccio durante una passeggiata in un parco.

Mi aggrappai a quelle immagini, perdendo velocità durante la caduta.

Quando, però, li scorsi assieme in un letto, chiusi ermeticamente gli occhi per non vedere.

Fu tutto inutile.

Quelle immagini penetrarono ugualmente nella mia mente, facendomi scorgere il piacere negli occhi di Lance e… Dio, no!

Mentre il mio grido mentale si espandeva tutt’intorno come un’onda d’urto, un pugnale d’argento calò sulla schiena di Lance.

E proprio per mano della donna che lui stava amando con tutto se stesso.

Quel colpo lo paralizzò, permettendo alla donna di scavalcarlo per approfittare di quel momento di debolezza per dargli il colpo di grazia.

Poco prima che una seconda lama gli dilaniasse il cuore, la porta della stanza dove si trovavano si spalancò di botto, facendo entrare di corsa Duncan.

Duncan che, senza attendere un attimo, buttò a terra la donna, togliendole di mano il pugnale e ringhiandole ferocemente contro per tenerla immobilizzata a terra.

Lei lo fissò tremante, e con gli occhi spiritati.

Un istante dopo, pur ferito nel corpo e nell’onore, Lance mutò in lupo e la attaccò, squarciandole la gola con le zanne snudate.

Duncan, ansante e con l’odio negli occhi, osservò la scena senza neppure accennare a fermarlo.

Quando la donna si ritrovò riversa a terra con la gola sanguinante e il cuore immoto, Lance tornò umano.

Con le lacrime agli occhi, si sedette angosciato sul letto, invano consolato da Duncan che, il viso impietrito, gli promise vendetta.

Dietro di loro, Sarah entrò nella stanza, il viso una maschera di ghiaccio e lo sguardo tranquillo e feroce al tempo stesso.

Duncan, sollevando quasi di peso Lance, le disse: “Lascio tutto nelle tue mani, Freki.”

“Sì, Fenrir. Me ne occuperò io” mormorò pacata Sarah, guardandoli andarsene con passo claudicante.

L’ultima immagine, registrata nei ricordi di Lance, fu la stanza in cui aveva conosciuto l’odio più puro, sgretolarsi sotto le sue lacrime copiose.

“Brianna… Brianna mi senti?!”

Quel richiamo accorato giunse alle mie orecchie come un’ancora di salvezza.

Aggrappatami a quella voce, riuscii a fuoriuscire dal gorgo oscuro che mi stava fagocitando, ritrovandomi a fissare a occhi sgranati Lance.

Preoccupato a morte, teneva le mie mani strette nelle proprie, mentre il suo viso pallidissimo era chiaro specchio di quello che avevamo appena vissuto assieme.

Cercai invano di parlare, la bocca rinsecchita come il deserto in agosto, ma Lance scosse il capo ed esalò turbato: “Non dire nulla. Non ce la faresti, adesso. Pensa solo a calmarti, respira. Respira con calma.”

Sbattei un paio di volte le palpebre prima di scivolare dallo sgabello, accompagnata a terra da Lance che, tenendomi stretta a sè, mi fece sedere sul pavimento.

“Brianna… mi senti? Stringi le mie mani, se ci riesci.”

Scossi il capo, incapace di farlo e, con un ultimo disperato tentativo, gracchiai: “Lance… lei… tu…”

Mi strinse più forte a sé, cullandomi come una bambina piccola e, baciandomi i capelli più e più volte, sussurrò: “Sstt, non pensarci… è acqua passata. Neppure immaginavo saresti riuscita a penetrare tanto a fondo nel mio animo. Hai dei poteri formidabili.”

“Scusa… scusa…” singhiozzai, cominciando a piangere a dirotto, prima di affondare il viso nel suo torace possente.

“E di cosa?” esalò, sorpreso e confuso.

“Non volevo… intromettermi… Dio, cosa ti ha fatto….” sussurrai, la voce ridotta a un flebile sospiro.

Dio! Sarah; la dolce, tenera Sarah, era Freki.

Forse, più ancora del tentato omicidio di Lance, la scoperta della vera identità di Sarah mi aveva maggiormente scioccato a morte.

“Mi ha solo aperto gli occhi su una verità incontestabile…” mormorò Lance, sardonico. “…e cioè, che non avrei dovuto fidarmi così ciecamente dei miei sentimenti. Sono solo dei maledetti traditori.”

“Era… un … Cacciatore?” riuscii a chiedere, tossendo tra una parola e l’altra.

Era come se avessi ingoiato fuoco e sabbia, e che quest’ultima si fosse cristallizzata attorno alla mia gola a causa di un calore dirompente di cui non conoscevo la provenienza.

Lui annuì senza mai smettere di cullarmi, i nostri due corpi seduti a terra e poggiati contro la consolle della cucina.

Sollevando a fatica il capo per guardarlo in quegli occhi apparentemente così freddi, replicai: “L’amavi davvero.”

“Sì. Era una mia collega all’ospedale, durante l’internato” mi spiegò, la voce piatta e lineare.

Il suo potere sfrigolava, smentendo l’apparente calma, ma io non vi badai.

“Aveva una risata contagiosa, e sapeva riempirti le giornate con la sua voce suadente e calda. E io ci sono cascato come uno sciocco credulone” mormorò roco.

“Come… come sapeva… chi eri?” gli chiesi dopo un momento.

“Purtroppo per noi, i Cacciatori più abili sanno come riconoscerci. E lei era veramente brava” ammise con rammarico. “Sarah ripulì la mia stanza a dovere e, in seguito, si occupò del resto del suo gruppo, che sapeva cosa lei stesse seguendo.”

Chi” precisai con un mesto sorriso.

Lui sorrise di rimando, asserendo dolorosamente: “Loro non ci reputano affatto persone, Brianna.”

Io sì. E tu devi credere a me, non a quegli idioti dal grilletto facile” sbottai con convinzione.

La gola sembrava andare meglio. Il fuoco si era chetato.

Aiutandomi a rimettermi in piedi, Lance mi rassettò la maglia con gesti fraterni, chiedendomi ironico: “Perché dovrei dare retta a una donna?”

“Perché io non sono come lei” dissi semplicemente. “Non pensare che tutte tradirebbero la tua fiducia come ha fatto quella disgraziata.”

“E’ difficile crederlo, anche se con te le mie convinzioni sembrano non valere molto” sottolineò Lance, lo sguardo tagliente come ghiaccio.

“Come hai detto tu, sai che non ti farei mai del male, perché l’hai visto nei miei occhi” gli ricordai con un sorriso.

“A volte, vorrei avere i poteri delle wiccan per essere in grado di riconoscere la menzogna nelle persone” sospirò mesto, tornando a sedersi sullo sgabello.

Fissò lo sguardo oltre la finestra aperta sul cortile, e mormorò: “Essere uno dei Gerarchi, non è facile. Per nessuno di noi è facile. E’ come vivere con una Spada di Damocle sul collo.”

Nessuno di loro vedeva le reciproche investiture come doni, piuttosto come disgrazie.

Chi per un motivo, chi per un altro, nessuno di loro era soddisfatto, neppure il tanto gioviale Jerome.

Proprio a causa della chiusura di Duncan, si vedeva precluso la possibilità di aiutare il cugino, rimanendo ai margini della Triade di Potere senza poter far nulla per alleviare le pene del suo Fenrir.

Sospirai, e dissi: “Non perdere la fiducia nel prossimo, Lance, perché sarebbe davvero un peccato. Sei una così brava persona! Meriti di avere una compagna che ti stimi e ti voglia bene.”

Lance mi sorrise cordiale e, carezzandomi il viso, ammise: “Forse, se ti avessi conosciuta qualche anno fa, mi sarebbe stato più facile darti retta.”

“Io non demordo. Ti farò cambiare idea” scrollai le spalle, tenace nel mio intento.

“Perché?” mi chiese allora Lance, fissandomi con occhi che, sul viso di un’altra persona, sarebbero apparsi spauriti.

“Perché voglio tu sia felice” asserii con semplicità.

Lui rise, divertito dalla mia risposta e, con fare professionale, mi richiamò all’ordine, sentenziando: “Forza, siediti e proviamo la pressione. Mi sa che l’avrai sotto i piedi.”

“Dici?” ammiccai, cercando di apparire serena quando, invece, non mi ci sentivo per nulla.

Quanti e quali demoni avevano nel cuore, quei giovani alfa?

Sperai ardentemente che Duncan e Jerome non avessero sofferto come Lance ma, almeno a giudicare dalle reazioni di Duncan, non potei proprio giurarci.

Era successo qualcosa di tremendo, in questo branco, ormai ne ero certa. Temevo solo di scoprire cosa

***

Poggiato il viso sul ripiano di marmo della cucina in disperata attesa del ritorno di Duncan, fissai con aria sonnacchiosa il piatto di spaghetti al sugo ormai gelidi che avevo preparato.

Sicuramente, sarebbero finiti nel cestino dell’immondizia di lì a poco.

Il fatto che lo avessero chiamato per un intervento urgente, mitigava solo in parte il mio dispiacere per lui.

Sapevo che Duncan prendeva sul serio il suo lavoro, ma mi spiaceva che non potesse godersi neppure un pasto in santa pace.

La pendola appesa al muro segnò le dieci e mezza.

Distrutta per il massacrante lavorio mentale di quel pomeriggio, non riuscivo più a tenere gli occhi aperti per il troppo sonno.

Ma non volevo crollare prima del ritorno di Duncan. Volevo sincerarmi con i miei occhi che stesse bene.

Dopo quello che avevo visto nella mente di Lance, ora avevo il terrore che qualcosa di altrettanto violento potesse sconvolgere anche Duncan.

Era sciocco pensarlo, lo sapevo perfettamente, ma era una paura che non riuscivo a togliermi dalla testa.

Quando udii la porta d’entrata aprirsi, mi rizzai di colpo sullo sgabello.

Quel movimento improvviso, però, mi fece tremare per la reazione nervosa e, passandomi una mano sulla fronte, esalai: “Ahia, che male…”

Un principio di mal di testa. Perfetto.

Jasmine entrò per prima, subito seguita dal suo padrone che, trovandomi ancora sveglia e con la cena pronta sul tavolo, mi sorrise spiacente e mormorò: “Dio, scusa! Avrei dovuto chiamarti. Sono imperdonabile.”

Scossi piano il capo, replicando: “Sei abituato a non avere nessuno in casa, è diverso.”

Prendendo il piatto di spaghetti, lo infilò nel microonde, chiedendomi: “Perché non sei andata a dormire? Stai crollando.”

“Volevo… essere sicura… che stessi bene” borbottai, tra uno sbadiglio e l’altro.

“Cosa mai mi sarebbe potuto succedere, scusa?” mi irrise bonariamente lui, posando la sua ventiquattrore sul ripiano di marmo. “Com’è andata, oggi, con Lance? Non ho avuto il tempo di chiedergli niente.”

“Ho distrutto le sue barriere con un maglio da guerra…” sussurrai, reclinando il capo a fissarmi i piedi “… e sono finita nel bel mezzo dei suoi ricordi più brutti.”

Duncan impallidì leggermente, bloccandosi a metà di un passo prima di esclamare: “Quali ricordi!?”

“Quelli che ti hanno fatto impallidire” ammisi, indicandogli il viso. “E’ stato orribile. Dio, non avrei mai immaginato che i Cacciatori si potessero spingere a tanto.”

Sospirando mentre il campanello del microonde trillava, Duncan recuperò la sua cena e, fiacco, ammise: “Avevo il terrore che Lance non si riprendesse più. Aveva amato Diane alla follia, e quello shock avrebbe potuto distruggerlo per sempre.”

“Un po’ lo ha distrutto” replicai spiacente, appoggiando il capo sul ripiano. “Non si fida più di nessuna donna.”

“Lo trovi assurdo?” chiese Duncan, con aspra ironia.

“No, lo trovo uno spreco. Lance ha tanto da dare, ma nessuna se ne accorge. Da quel poco che ho capito, erano tutte così impegnate a mostrarsi come delle cavalle al mercato del bestiame, che nessuna ha pensato a capire cosa volesse veramente lui” sospirai, passandomi una mano sugli occhi stanchi.

Sbadigliando, proseguii dicendo: “Ho visto quelle oche nella sua mente, tanto prese a mostrare le loro grazie senza badare a quello che, invece, lui avrebbe voluto vedere.”

Non mi accorsi che lo sguardo di Duncan si fece più attento. Ero troppo insonnolita per notarlo.

“E lui, cos’avrebbe voluto vedere?” mi chiese, avvicinandosi a me.

“Amore. Devozione. Sentimento. Purezza” sussurrai, prima di addormentarmi del tutto.

***

“… e stamattina l’ho trovata così.”

Quelle furono le prime parole che sentii al mio risveglio. Se chiamarlo risveglio era la parola giusta.

Disastro, esplosione atomica, cefalea a grappolo di proporzioni bibliche. Ecco, queste cose erano più simili alla realtà.

Mi lamentai, portando una mano alla testa, che martellava come se fosse all’interno di un tamburo di una band heavy-metal.

Subito, due mani fresche si accostarono al mio viso, carezzandomi.

“Non ti muovere, Brianna, o potresti…” esordì Lance, premuroso.

Troppo tardi.

Un conato di vomito risalì dallo stomaco fino a raggiungere la mia bocca, arida e amara.

Spalancando di colpo gli occhi, sollevai la testa dal cuscino e la gettai verso il bordo del letto, incurante del dolore atroce che, quel movimento, provocò al mio sistema nervoso.

Una scossa tremenda fece vibrare il mio corpo come una corda di violino, mentre lo stomaco rifiutava quel poco di acido e acqua che aveva al suo interno.

Per fortuna, Lance aveva agito per tempo, ponendo sotto di me una bacinella di plastica perché, diversamente, il bel tappeto di Duncan avrebbe fatto una brutta fine.

Una mano di Lance mi massaggiò incessante la schiena, mentre continuavo a rimettere acidi.

Non comprendevo cosa stesse succedendo, ma speravo che qualsiasi cosa mi fosse accaduta, smettesse presto.

Fermo sulla porta, le mani contratte come artigli d’aquila e il viso terreo, Duncan mi osservava senza saper bene cosa fare, o dire.

Non vi feci caso più di quel tanto.

Ero troppo indaffarata  a non lasciarci le penne.

Dopo un quarto d’ora di quel supplizio, finalmente il mio stomaco decise di darmi una tregua e così, gli occhi pesti e la gola bruciata, gracchiai a Lance: “Ma che cavolo ho?”

“E’ il potere, Brianna” sospirò, scuotendo il capo. “Avrei dovuto capire da come ti sei introdotta nella mia testa, che avresti avuto una reazione di rigetto di questo tipo.”

“Rigetto?” esalai, sgranando gli occhi fino a farmi male.

“Il cervello sta lavorando in un modo per lui inconsueto e si ribella, facendoti stare male. E, visto quanto sei potente, avrei almeno dovuto darti un antidolorifico da prendere prima di dormire” asserì Lance, fissandomi spiacente.

“Sarebbe stato meglio una dose di quella roba che Duncan dà ai cavalli” brontolai, facendo sorridere entrambi.

Fico. Se riuscivo a fare dell’ironia, dovevo stare decisamente meglio.

Ultime parole famose.

Dopo il secondo round, reso traumatico dalle contrazioni dolorosissime del mio stomaco ormai più che vuoto, tornai a sdraiarmi sul letto.

Il mio viso doveva essere bianco come un lenzuolo, e avevo la gola in fiamme, oltre che scorticata.

Duncan mi osservò turbato, mentre Lance preparava qualcosa da iniettarmi endovena. Che bello!

Prendendo una mia mano tra le sue, Duncan disse spiacente: “Come faccio a lasciarti qui da sola, sapendo quanto stai male?”

“Perché? Dove devi portare le tue chiappe pelose?” ironizzai, cercando di sorridere.

Missione vana.

Il suo, di sorriso, non raggiunse mai gli occhi.

“Richiedono la mia presenza a Chester, ma dirò che non posso andare” mi spiegò,  stringendo leggermente la mia mano.

“Non se ne parla neanche” sbottai, pur desiderando con tutta me stessa che restasse.

Il solo fatto che fosse titubante a decidere di andare, mi rincuorò un poco, però non potevo permettergli di venire meno ai suoi doveri.

“Sei Fenrir, non la mia balia. Scommetto che, tra Lance e Jerome, per non parlare di Erika, non rimarrò sola neppure un minuto, per cui tu vai pure via tranquillo. Tra un’oretta sarò già in piedi, pronta per riprendere l’allenamento.”

Duncan aggrottò la fronte a quel pensiero e scosse il capo, sentenziando perentorio: “Oggi niente allenamento, Brianna. Devi riposare la mente.”

“E tu che ne sai della mia testa?” sbuffai. “Già ci capisco poco io, figuriamoci tu.”

Lui ridacchiò senza allegria, prima di dirmi: “Sono Fenrir, e mi obbedirai.”

“Provaci, a costringermi” lo minacciai ironicamente.

Lance sogghignò, e disse a Duncan: “A lei non puoi certo imporre un ordine con la Voce.”

“No?” esclamai allegramente, prima di sogghignare: “Mooolto bene.”

“Lance, non potevi tenerlo per te?” commentò ironico Duncan prima di tornare serio e dirmi: “Ti lascio nelle loro mani, ma desidero che tu ti riposi almeno mezza giornata. Questo puoi farlo?”

“Visto che è un tuo desiderio, lo acconsentirò” annuii solennemente. “La tua wicca ti concede questo favore.”

“Sei davvero mia?” sussurrò prima di scuotere la testa, ridendo, e fare un cenno con una mano, come per cancellare quello che aveva detto.

Lo fissai stralunata, sinceramente confusa dal suo dire.

Nel guardarlo uscire dalla stanza mentre chiudeva la porta alle spalle, mi chiesi cosa avesse voluto dire con quelle parole.

Certo che ero la sua wicca!

Non avevo rischiato la pelle con Alec, e quel pazzo del suo Freki, solo per fare una scampagnata fino a Matlock!

Un minuto dopo, sentii il motore della Volvo prendere vita e allontanarsi da casa.

Era partito.

Lance mi guardò dubbioso, prima di scuotere il capo e decretare: “Davvero non ho parole.”

“E perché?” gli chiesi, guardandolo mentre infilava l’ago nel mio braccio, dopo avermi disinfettato a dovere. “Che è quella roba?”

“Vitamine. Ne hai un bisogno estremo” mi spiegò, sorridendomi. “Mi dici una cosa, Brianna?”

“Prego, spara pure.”

“Cos’è successo, esattamente, con Alec? Duncan non ne vuole parlare. So solo come hai ucciso il Freki, ma niente di più” mi chiese, attento a estrarre l’ago dal braccio.

“Ma dai!? Davvero non ti ha raccontato nulla?” esalai sorpresa. “Beh, la vedetta di Alec, Beverly, mi ha beccata mentre facevo il bagno in un torrente, così è corsa a dirlo al suo Fenrir. Nel giro di un paio d’ore ce li siamo trovati davanti. Di certo, se Alec voleva starmi simpatico, non avrebbe dovuto minacciare Duncan.”

“Ti ha spiegato perché Alec ce l’ha tanto con lui?”

“Sì, Duncan mi ha detto dell’offerta di Alec e del suo rifiuto” annuii. “Ma quella che mi ha sorpreso è stata Beverly. Ha detto che io e Duncan eravamo… aspetta… sì, che eravamo legati e che, per quel motivo, io non avrei mai servito Alec, se lui avesse fatto del male a Duncan. Che significa?”

Lance aggrottò la fronte e mormorò dubbioso: “Non ne ho veramente idea. Non so cos’abbia visto Beverly. E’ una Völva, quindi può aver visto qualcosa nelle maglie del futuro, osservandovi. Non saprei dirtelo.”

“Una veggente? Sbaglio, o ce n’è in quantità maggiore rispetto alle wiccan?” chiesi un po’ sorpresa.

“Un po’ di più, sì, ma anche quel gene, come quello delle wiccan, è recessivo. Stanno scomparendo più lentamente, ma anche loro sono destinate a svanire, nei secoli a venire” mi spiegò Lance.

“Per via degli incroci di DNA?” ipotizzai, rammentando ciò che Duncan mi aveva detto.

Lui annuì, dicendomi: “La razza dei licantropi non è più pura da tempo. La stirpe di Duncan, come quella di pochi altri, è una delle poche, qui in Inghilterra, a essere di sangue relativamente puro. Nella mia famiglia, per esempio, ho diversi umani tra i miei antenati. Motivo per cui il dono di mia madre, almeno per quanto riguarda la mia generazione, non è ricomparso. Inoltre, nelle famiglie interamente umane ad avere il dono della preveggenza, il gene è ancor più debole, perciò è destinato a scomparire ancor prima che tra i clan di noi mannari”

Con un sorrisino triste, aggiunse un attimo dopo: “Se avessi avuto il suo dono, avrei potuto capire meglio cosa ha visto in voi due Beverly.”

“Era davvero triste, sai?”

Rammentavo con chiarezza i suoi occhi infelici. “E’ innamorata di Alec, e lui neanche se ne rende conto.”

“Questa sì che è nuova” esalò Lance, sorpreso.

“Credo me l’abbia fatto scoprire di proposito, per farmi capire che non mi era nemica, e che stava compiendo solo il suo dovere. Si deve essere aperta a me come pegno per ciò che era stata costretta a fare” gli spiegai, ricordando quell’episodio con un brivido nel cuore. “Non ce l’ho con lei per aver detto ad Alec la nostra posizione, ma…”

“Ma quello che è successo dopo, non ti è piaciuto” terminò per me Lance.

Annii, torva.

“Alec voleva che andassi via con lui, lasciando che il suo Freki uccidesse Duncan. Ma non poteva credere davvero che l’avrei fatto.”

“Il senso dell’onore degli  umani è diverso da quello dei licantropi” specificò Lance, amaramente.

“Beh, Duncan ha fatto di tutto per mandarmi via con Alec. Avrei voluto dargli un pugno in faccia, in quel momento, anche se sapevo benissimo che stava solo cercando di salvarmi. Lui salva tutti” le mie ultime parole, grondarono ironia.

Lance annuì con un risolino, prima di dire: “Tranne se stesso.”

“Già” brontolai, prima di continuare nel racconto. “Morale della favola, Alec ci ha scatenato contro il suo adorato Freki e, quando è riuscito a raggiungerci, io sono caduta a terra dopo averlo colpito sul muso, facendomi male alla caviglia.”

Flash di quell’evento mi ferirono la mente, portandomi a scuotere il capo per il fastidio.

Era come essere di nuovo in quel bosco, con Freki a minacciarci di morte… o peggio.

“A quel punto, quel maledetto si è fermato e, sorpresona, ha fatto capire a Duncan cosa avrebbe voluto fare con me, prima di divorarmi. I suoi occhi, e le sue emozioni, erano così chiari che non mi ci è voluta la spiegazione di Duncan, per capire cosa volesse da me” mormorai, serrando per un momento gli occhi.

Quello sguardo infuocato mi avrebbe mai abbandonato?

Lance aggrottò la fronte, mentre io reprimevo un brivido.

“Duncan deve avergli detto di andare a quel paese, o robe simili, perché Freki si è messo a ridere,… sì, insomma, come fate voi lupi, così ne ho approfittato per gettare la mia catenina d’argento nella sua gola. Non ti dico il resto, però. Credo tu lo abbia già capito.”

Annuendo, Lance mi chiese gentilmente: “Ti senti in colpa?”

“Sì e no. Sì, perché non è bello sapere di aver ucciso una creatura vivente. No, perché l’alternativa sarebbe stata essere prima violentata, e poi sbranata viva, o peggio. Avrebbe potuto farmi prima veder morire Duncan, nel tentativo vano di salvarmi” gli spiegai, stringendomi le braccia al petto.

Il solo pensiero di poter subire una simile sorte, mi diede i brividi.

“Perché eri convinta che avrebbe vinto il Freki di Alec?” mi chiese Lance.

“Duncan sarebbe stato così sciocco da pensare prima di tutto a difendere me, finendo col farsi ammazzare. E’ legato a un senso dell’onore autodistruttivo, Lance” esalai sconvolta, sospirando e scuotendo afflitta il capo. “Lo dimostra in tutto ciò che fa.”

Indicai la finestra, come per rammentare a entrambi la sua partenza.

“Si consuma letteralmente per dare tutto se stesso al branco, non delega mai nulla, forse per dimostrare che è capace di gestire perfettamente la situazione ma… per tutti i diavoli dell’Inferno, è una persona sola, e non può fare ogni cosa per conto suo!”

A sorpresa, Lance mi sorrise comprensivo e ammise: “Hai perfettamente inquadrato il difetto numero uno di Duncan.”

“Hai visto, prima, no?” sbottai, stringendo le mani a pugno. “E’ stato lo stesso comportamento tenuto nel bosco. Si sentiva in colpa per me! Come se non fossi in grado di prendere decisioni da sola, e pagarne poi lo scotto!”

 

“Ne ho avuto l’impressione, in effetti” assentì Lance, scuotendo esasperato il capo.

“Meno male che non ho le traveggole, allora” sbuffai. “Ma voi due non riuscite a farlo ragionare?”

“Ti sembra che il sole sorga a ovest?” ironizzò Lance, pur non essendo affatto divertito.

“Capito” sospirai, prima di bofonchiare: “Quindi, continuerà così fino a uccidersi?”

“Duncan è un uomo robusto” precisò Lance, anche se non sembrava molto convinto del suo dire.

“Come se non me ne fossi accorta. Tra te, Duncan e Jerome, mi sembra di essere affogata tra le pagine di GQ” ironizzai, sogghignando per cercare di sdrammatizzare.

Lui ridacchiò, sinceramente sorpreso, ed esalò:“Io? Scherzerai, spero.”

Lo fissai stralunata, ora chiaramente confusa, prima di chiedergli: “Di’ un po’, da quanto tempo non ti guardi allo specchio?”

“Da stamattina, prima di venire qui” asserì, leggermente sorpreso dalla mia domanda.

Sospirando, scossi il capo, passandomi una mano tra i capelli in disordine e sbuffai esasperata.

“Mio caro signor Hati, se non se ne fosse ancora accorto, è un gran bell’uomo. Anzi, oserei dire che potrebbe buttare giù dal trono parecchi fotomodelli troppo pieni di sé, e prendere il loro posto. Non sfigureresti di sicuro, Lance, se prendessi il posto di David Beckham nella pubblicità dell’intimo Armani.”

Fu il turno di Lance per guardarmi allibito.

Sinceramente sconvolta, esclamai: “Non ci credo! Debbo essere io a dover rassicurare un uomo fatto e finito, sulla sua bellezza fisica…  e mentale.”

“Quella, poi…” ironizzò Lance, fissandomi sardonico.

“Dimentichi che sono stata dentro la tua testa, e so cosa c’è. E quel che c’è, mi piace” gli sorrisi, sorniona. “Vedrai che, prima o poi, qualche lupa con ancora un po’ di sale in zucca, salterà fuori dal baccello e ti sorprenderà.”

“Per ora, l’unica a sorprendermi sei tu” ammise lui, sorridendomi gentilmente. “Hai detto delle cose molto carine.”

“Di solito, mi attengo alla verità. Una qualità scomoda, a volte, ma la preferisco” ammiccai io.

“Anch’io la preferisco.”

Mi sorrise divertito, prima di scoppiare a ridere e celiare: “Guarda come mi sono ridotto! Farmi consolare da una ragazza.”

“Sì, sei davvero caduto in basso, grande e grosso come sei” ghignai, fissandolo con aria di sufficienza.

Lui ridacchiò. A quel punto, però, non potei esimermi dal chiedergli: “Potresti accompagnarmi fino al bagno? Ho paura di crollare a terra, se solo provo a scendere da letto con le mie gambe.”

“Sono il tuo dottore. Certo che ti aiuto” mi sorrise, prendendomi in braccio con una facilità disarmante.

Mi accompagnò fino alla porta del bagno laccata di bianco e lì mi lasciò, perché io sbrigassi le mie faccende.

Quando ne uscii, se non altro almeno i miei capelli erano in ordine.

Non potei fare molto per il viso, che risultava ancora pallido e smunto, macchiato da due stupende occhiaie violacee che mi facevano rassomigliare a un pugile pestato a sangue.

Indicando l’ufficio di Duncan, gli dissi: “Vorrei chiamare mio fratello.”

“Bene” annuì Lance, tenendomi per un braccio mentre io muovevo alcuni passi sul pavimento, sentendo le gambe molli come gelatina.

Ci misi una vita a raggiungere la scrivania di Duncan ma, alla fine, riuscii a digitare il numero di Gordon sul portatile.

Acceso il vivavoce, attesi con pazienza che lui mi rispondesse.

Ero troppo stanca anche solo per provare ansia, il che la diceva lunga sul mio stato di salute.

Non sarei riuscita a combinare un bel nulla, quel giorno.




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N.d.A.: ecco perchè Lance non si fida delle donne, e le lupe del branco,  con le loro mire, non lo hanno certo aiutato a cambiare idea sul loro genere.

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Capitolo 16
*** XVI. ***


XVI.




 
 
Trovai Gordon al terzo tentativo.
Quando mi rispose, la sua voce era ansante, come se fosse tornato da una corsa, o l’avessi interrotto nel bel mezzo di una gara.
Il che, di per sé, era assurdo.
Cosa stava combinando, alle undici del mattino? Si era messo a fare il podista?
“Ehi, ciao” ansò Gordon.
“Ciao. Ti sei dato alla corsa campestre, per caso?” gli chiesi, guardando divertita Lance, appoggiato alla scrivania di Duncan. Una gamba muscolosa dondolava oltre il bordo, messa in evidenza dai jeans schiariti.
“Non esattamente” replicò, col fiato corto. “Per essere precisi, sono di fronte alla casa di una ragazza, e la sto aiutando a sistemare la legna per il camino.”
“Una ragazza? Specifica, Gordon, sono curiosa” ridacchiai, intrecciando le mani sotto il mento e fissando il cordless come se potessi scorgere il volto di mio fratello.
Una risatina argentina fece breccia nella nostra telefonata, ipnotizzandomi per un momento. Chiunque fosse, aveva una voce splendida.
“E dai, Abegail, piantala, non prendermi in giro pure tu” brontolò Gordon, prima di dirmi: “Abby, qui, mi ha aiutato a chiarirmi un po’ le idee, visto che tu me le hai incasinate di brutto.”
“Scusa” feci la lingua, prima di chiedergli: “In che senso, ti ha aiutato?”
Sentii un fruscio e, subito dopo, una voce di ragazza. Abegail, supposi.
“Buongiorno, Brianna. Sono Abegail. Mi sono permessa di dare una mano a tuo fratello, quando mi ha fatto diverse domande su ciò che sei. Spero di non aver causato disturbo.”
Il suo modo di fare così cortese mi portò ad arrossire di piacere. Ma da dove saltava fuori quel concentrato di educazione?
“Oh, no, affatto. Nessun disturbo, Abegail. Anzi, ti sono grata per quel che hai fatto. Posso sapere se ci conosciamo?” le domandai sempre più curiosa, cercando una Abegail tra i miei ricordi.
“Oh, non credo tu ti ricordi di me, Brianna” ridacchiò divertita Abby. “Suono il clarinetto nella banda della scuola,  e ho l’età di tuo fratello Gordon.”
“Clarinetto, clarinetto…” ripetei tra me a voce alta prima di esclamare lieta: “Abegail Prescott, giusto?!”
“Sì” assentì Abbie. “Sono felice tu ti sia ricordata di me.”
Era difficile non rammentarla. Occhi neri come i capelli lunghi e lisci, un viso pallido e rade efelidi sul naso sottile ed elegante, labbra rosse e carnose e onnipresenti abiti scuri.
L’avevo sempre considerata una dark, ma evidentemente era ben altro, se era a conoscenza di wiccan  e licantropi.
Quel che non capivo era perché Gordon si fosse rivolto proprio a lei. Così glielo chiesi.
Ridacchiando, Abby mi spiegò l’arcano. “Oh, è semplice. E’ venuto nel negozio di fiori di mia madre con la scusa di comprare un’azalea e mi ha chiesto se, per caso, ne sapessi qualcosa di occulto e di streghe.”
“Oddio!” ridacchiai.
Non avevo idea che Gordon si sarebbe spinto a tanto. Forse, quello che c’era su internet non lo aveva aiutato affatto.
“Quando mi ha parlato di wiccan e licantropi, ho ritenuto necessario parlarne con il mio alfa, immaginando che quanto successo al nostro luogo di potere fosse correlato a ciò che era successo a te” mi spiegò Abbie.
Di certo, non era una licantropa, o ne avrei avvertito la presenza a suo tempo. Forse, una figlia umana di una coppia di licantropi.
Non ne fui così sorpresa. Ormai, niente era capace di sconvolgermi.
“Gordon, dunque, sa che tu sei una neutra?” le domandai curiosa.
 Era così che chiamavano i figli mezzi umani dei licantropi, e mi sembrava un nominativo più che azzeccato, visto che non erano né carne né pesce.
“Sì. Ha anche parlato con il nostro Fenrir, dopo aver fatto promettere a Gordon di mantenere il segreto” mi spiegò Abby. “E’ così che abbiamo ricollegato i fatti di ciò che è successo al Vigrond1.”
“Parola nuova!” la bloccai immediatamente. “Ha a che fare con la quercia sacra?”
“Sì, è il luogo in cui i nostri Gerarchi e i clan in visita si incontrano, il luogo in cui riposano i nostri morti, e in cui i loro ricordi sono assorbiti dalla quercia per diventare la nostra memoria collettiva, a uso esclusivo di Fenrir… o di una wicca” mormorò Abby, pacata.
“Capisco. Quindi, Gordon vi ha spiegato cos’è successo, … e ora sa anche dove mi trovo?”
“Sì, il nostro Fenrir ha ritenuto di poterglielo dire.”  
“Sai anche se sono riusciti a trovare coloro che hanno attentato alla sua vita e a quella della sua compagna?” chiesi turbata.
In quei giorni così strani per me, non avevo avuto un minuto di tempo per chiedere a Duncan se avesse chiesto notizie su Becca e il suo compagno.
“Stanno tutti bene e Becca è all’ospedale, sotto controllo medico. E’ all’ottavo mese, e un evento del genere ha rischiato di farla partorire in anticipo…” mi spiegò Abbie, prima di aggiungere soddisfatta: “…comunque, coloro che hanno attentato alla vita della Prima Lupa e di Fenrir sono già nel mondo degli spiriti.”
Morti. Divorati, con tutta probabilità.
Deglutii un paio di volte prima di chiedere: “Per opera di Freki?”
“Sì. E anche di Geri. Il nostro Fenrir ha ritenuto fosse giusto far muovere entrambi” mi disse Abby, senza alcuna inflessione nella voce.
Per lei, era del tutto normale parlare della morte di un traditore del branco, ma per me era ancora difficile accettare con così tanta condiscendenza una punizione simile.
Non che non l’avessero meritata, ma il mio cervello faticava ancora a comprendere tutte le loro regole.
Le regole dei licantropi erano davvero molto diverse, rispetto a quelle del mondo umano.
“Capisco… e come potete essere certi che non ci siano falle nella sicurezza?”
“E’ un’abilità di Freki, quella di rintracciare tutti coloro che sono coinvolti in ciò per cui si esegue una sentenza. Finché esiste un solo licantropo, o umano, al corrente di notizie pericolose per la nostra incolumità, Freki non si fermerà. E neppure Geri. Freki e Geri lavoreranno in coppia fino a pericolo debellato. O esecuzione eseguita” mi spiegò Abby, prima di aggiungere: “E se vuoi saperlo, il vostro patrigno non era al corrente di chi vi fosse al raduno. Sapeva solo della presenza di alcuni licantropi, null’altro. Perciò, non è stato ritenuto corretto eliminarlo per informazioni non in suo possesso e, soprattutto, perché lui non ha ucciso o ferito nessun licantropo. Il fatto di essere un Cacciatore non è scusa sufficiente per eliminarlo.”
“Capisco. Grazie per avermi spiegato ogni cosa” esalai, tirando un sospiro di sollievo.
Nonostante tutto, non volevo che Patrick morisse, o avrebbe lasciato sola Mary B.
Fui perciò segretamente grata della sua pessima mira e, ad alta voce, le domandai: “Allora, non dobbiamo aspettarci visite strane, giusto?”
“No, Brianna. Il mio Fenrir sta anzi collaborando con alcuni lupi del branco, che lavorano in polizia, per depistare le indagini. Per ora li hanno spediti al nord, in direzione di Aberdeen. Per cui sei al sicuro” mi disse Abby, con voce più allegra.
“Molto bene” annuii, prima di lasciare a lei un compito che mi premeva particolarmente. “Baderai tu a mio fratello, in mia assenza? Non vorrei si facesse troppo intraprendente nelle ricerche, e finisse col cacciarsi nei guai.”
Ridendo adorabilmente, Abegail asserì: “Non corre rischi, Brianna. Ha sempre vicino a sé un licantropo, per ogni evenienza. Il nostro Fenrir non ha lesinato, in quanto a protezione. Ritiene di doverlo fare come favore personale a Duncan, visto quello che ha rischiato per salvare Becca.”
“Dimmi un po’, Abegail,... come fai a sapere tante cose? Il tuo Fenrir ti ha chiesto di riferirmele?”
Essendo solo un neutro, anche se parte del branco, ero più che certa che non avesse libero accesso al loro luogo di potere, al Vigrond, come lo aveva chiamato lei e, soprattutto, che non potesse essere presente alle decisioni prese da Fenrir.
Perciò, perché sapeva così tanto?
Abegail rise ancora e mi disse: “Molto perspicace, Brianna. Lo so perché sono la nipote di Fenrir di Glasgow. E mio zio riteneva fosse saggio io fossi in possesso del maggior numero di notizie, qualora tu avessi contattato Gordon.”
“Okay, chiaro. E come mai Gordon sta facendo il manovale a casa tua?” le chiesi a quel punto io.
Abegail, allora, mi mise a conoscenza del loro piccolo trabocchetto. “Lavoro estivo a pagamento. Mio padre l’ha assunto per fare piccoli lavori attorno a casa, così è tenuto sotto stretta sorveglianza da noi del branco per la maggior parte del tempo. Due piccioni con una fava.”
“Fico!” esclamai, prima di chiederle: “Posso parlare un momento con Gordon?”
“Ma certo… scusami se mi sono dilungata così tanto. Che la tua caccia sia proficua” mi disse Abegail, chiudendo la nostra chiacchierata.
Frase di circostanza, immaginai.
“Anche la tua” replicai, sperando andasse bene.
Dovevo farmi spiegare un paio di cosette, per quel che concerneva i modi di dire, o avrei rischiato di fare gaffes clamorose.
“Grazie” mormorò Abegail, prima di ripassare il cellulare a Gordon.
“Allora, che dici, sorella? Sono stato bravo?” gongolò tutto orgoglioso Gordon.
“Di più. Oserei dire che il sangue della nostra famiglia ti ha mandato a colpo sicuro dalla persona giusta. E mi stupisce che il loro capo-clan si sia fidato così ciecamente di te” ghignai allegramente.
“Ehi, dico, ma per chi mi hai preso?!Io li so mantenere, i segreti!” sbottò Gordon.
“E scommetto che il fatto che Abby sia così carina non c’entri nulla, vero?” ghignai perfida. Desiderai con tutta me stessa poterlo vedere in viso, per scoprire se era arrossito.
“BRIANNA!” esclamò lui, assolutamente imbarazzato. “Se non la pianti di dire scemenze, riattacco!”
“D’accordo, basta battute di spirito…” sogghignai, prima di dire più seriamente. “… Mary B come sta?”
“E’ affranta, come potrai ben immaginare. Mi si spezza il cuore all’idea di non poterle dire niente. Sei sicura che debba tenere ancora il becco chiuso?” mi domandò Gordon, spiacente.
Guardando Lance, che scrollò le spalle impotente, asserii: “Se aspetti un minuto, chiedo informazioni.”
“Che hai intenzione di fare, Brianna?” mi domandò Lance, curioso.
“Ehi… questa non è la stessa voce che ho sentito l’altra volta!” mugugnò torvo, Gordon.
Ops. Difetti del viva voce.
Sorridendo, mi lanciai in una breve spiegazione per Gordon. “Stai parlando con l’Hati del branco, cioè con il terzo in comando, Gordon, quindi modera i toni. E tra poco parlerai anche con Sköll, il secondo in comando, quindi, stessa educazione, grazie.”
Lance sogghignò ed esclamò: “Ora capisco… Duncan non ne sarà molto contento.”
“Chi è che guida il branco quando Fenrir non c’è?” sentenziai, con ovvietà.
“Sköll” annuì Lance. “Ed è ora che quel ragazzino faccia un po’ di pratica. Lo chiamo subito.”
“Grazie, Lance.”
“Di nulla… sei o non sei la nostra wicca?” mi sorrise, prendendo il telefonino dalla tasca dei jeans.
Vederlo armeggiare a quel modo mi portò a sospirare e, lasciato scivolare il mio viso sul palmo aperto di una mano, contemplando ammirata quello spettacolo, esalai: “Dio, Lance, non azzardarti a rifare una cosa del genere davanti ai miei occhi. Non sono di marmo!”
“Brianna! Che succede?!” sbottò subito Gordon.
Lance ridacchiò e commentò al mio indirizzo: “Sbaglio, o il fratellino è geloso marcio di te?”
“A quanto pare” annuii, ridacchiando. “Gordon, tira le redini. Lance ha soltanto tirato fuori il cellulare da una tasca, ma immagina che a farlo sia un incrocio tra David Beckham e Kellan Lutz, e capirai perché ho sospirato.”
“Sei una depravata, sorella” sbottò sdegnato Gordon, con una risatina in sottofondo.
“Ho gli occhi. E’ ben diverso” precisai, sogghignando e strizzando l’occhio a Lance, che sorrise complice.
In una decina di minuti, Jerome fu in casa del cugino e, giunto che fu con il suo solito sorriso solare e gli occhi scintillanti d’ilarità, mi raggiunse alla scrivania stampandomi un bacio sulla fronte.
“Allora, dolcezza, che succede?”
“Brianna, si può sapere che sta succedendo, lì? Ci sono un po’ troppi uomini, lì accanto a te, per i miei gusti” brontolò Gordon.
“Oh, il fratellino, immagino… salve Gordon” ridacchiò Jerome, tutto contento.
“Sköll?” disse solo Gordon, dubbioso.
“Esatto. E non pensare stia gozzovigliando con loro, Gordon. Sono un tantino più controllata di così, lo sai” gli ricordai, pur trovando ironica la situazione.
Chiunque altro, trovandosi in una stanza con due esemplari di razza come Lance e Jerome avrebbe avuto, come minimo, la mente invasa da immagini ben poco caste.
Eppure, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era a quanto bene mi trovassi con loro, a quanto la loro vicinanza mi desse sicurezza… mi completasse.
“Lo spero. Mi spiacerebbe sapere che la mia sorellina è diventata una scostumata.”
“Ma come sei bravo ad usare i paroloni” lo irrisi bonariamente, prima di dire a Jerome: “Ti ho voluto qui, Jerome, perché ho una richiesta da farti.”
“Dimmi tutto. Sono ai tuoi ordini” annuì Jerome, sorridendomi generosamente.
“Ho bisogno che tu mi dia il consenso per poter ampliare anche a Mary B il permesso di sapere di me” mormorai, ora nuovamente seria.
Jerome impallidì leggermente a quelle parole, e i suoi occhi si assottigliarono in pochi istanti.
Da giovale e quasi infantile che era, divenne una statua di marmo nel giro di pochissimi attimi. Raddrizzandosi nel guardarmi con espressione seriosa, mormorò con una voce più profonda del solito: “Mi chiedi di essere Sköll, vero?”
“E’ un tuo diritto e dovere, se non ho inteso male la tua posizione” annuii, seria al pari suo.
Fissando gravemente il cordless, Jerome si rivolse perciò a Gordon. “La vostra matrigna è degna di fiducia? Un suo eventuale tradimento può significare la morte per molti, immagino che tu questo lo sappia.”
“Mary B non è stupida. Se le dicessi che è una cosa più che seria, non tradirebbe la vostra fiducia. Capirà” asserì Gordon, diventando serio a sua volta.
“Allora, in qualità di Sköll, ti concedo di divulgare le notizie su Brianna anche alla vostra matrigna. Naturalmente, la tua parola è un impegno, immagino che tu lo capisca” sentenziò Jerome, gli occhi ridotti a due fessure e le labbra tese in una linea sottile.
Non lo avevo mai visto così. Ora, finalmente, avevo Sköll dinanzi a me, non soltanto un simpatico ragazzo e un licantropo dall’aria divertente.
“Ovvio. Abby, qui, mi ha spiegato tutto di Freki e Geri, e non ci tengo a trovarmene uno alle calcagna. So come tenere la bocca chiusa, e so che Mary B farà lo stesso. Me ne assumo la responsabilità” mormorò Gordon, perfettamente serio e con voce stranamente tranquilla.
Probabilmente, nel mese in cui ero stata assente, era maturato più di quanto non avrei ritenuto possibile e, mordendomi un labbro, mi spiacque di avergli causato così tanti disturbi.
Meritava di vivere un’adolescenza più tranquilla di così. E glielo dissi.
Lui, irriverente come al solito, replicò: “Sei davvero una stupida, sorella. Pensi sul serio che mi sarei messo in un angolo a piangere? Da quando in qua lo faccio? Mamma e papà non ci hanno insegnato così.”
“Lo so, ma ugualmente mi spiace.”
“Comincia a dispiacerti se scoprirò che hai fatto la cretina con uno dei tre galli cedroni con cui sei in compagnia, perché non ti rivolgerò più la parola” mi minacciò scherzosamente, mentre Jerome riacquistava tutta la sua giovialità, indicandosi comicamente.
“Okay, vedrò di scegliermi un altro lupo con cui rotolarmi nell’erba” ridacchiai prima di dire, più seriamente: “Ehi, Capitano, stai attento, mi raccomando.”
“Da quando Capitan Harlock non sta attento?” ironizzò Gordon. “Sta attenta tu, piuttosto. Ciao.”
“Ciao” sussurrai, prima di staccare il vivavoce.
“Duncan mi ammazzerà” commentò Jerome, appoggiandosi alla scrivania per guardarmi seriamente.
“Non penso proprio. E’ un tuo diritto prendere decisioni, quando lui non c’è. E te lo ha chiesto la vostra wicca” gli rammentai, scrollando le spalle.
“Avrei dovuto riferire in Consiglio, prima di tutto… e loro mi avrebbero detto di no” precisò Jerome.
“Beh, da quel poco che ho capito, una wicca non prende ordini da nessuno, visto che neppure Fenrir può imporsi con la Voce del Comando. Figurarsi se può farlo il Consiglio. Per cui, sei dispensato da qualsiasi obbligo nei loro confronti, se la richiesta viene da me” replicai per contro, con un sogghigno stampato in faccia.
Lance e Jerome si guardarono dubbiosi per un momento, prima di annuire e Lance, sogghignando, ammise: “Forse è un particolare che la Lupa Madre ha omesso di ricordare. In linea di principio, è del tutto vero che il Consiglio, o anche Fenrir, non può ordinare nulla a una wicca, quindi anche la prova al novilunio potrebbe essere invalidata.”
“Oh, no, quella la farò comunque. Non voglio cedere di un passo, di fronte a Sheoban, anche perché voglio scoprire cosa vuole da me” borbottai, aggrottando la fronte.
“Perché sei convinta che voglia qualcosa da te?” mi chiese Jerome, curioso.
“Il suo strano voltafaccia. E la scansione che ha fatto del mio dono, quando ci siamo incontrate. Penso di averla… ingolosita, per così dire. Vuole qualcosa, e io desidero scoprire che cosa” borbottai seriamente, squadrandoli a momenti alterni.
“Non mi stupirebbe se, a interessarla tanto, fosse il tuo potere. Se tu le diventassi alleata, nessuno potrebbe contrastarla” ringhiò Lance, aggrottando a sua volta la fronte.
“Pensa sia così stupida da farmi abbindolare da qualche parola carina?” gli chiesi, scioccata.
“Ricorda che Sheoban non ha un’alta considerazione dei giovani. Vi crede tutti strumenti duttili e facili da utilizzare. E scommetto che proverà a usare il suo fascino su di te” mi mise in guardia Lance.
“Fascino? Di che tipo?”esalai, sempre più sorpresa.
“Sheoban è una leader nata. Molto più del marito, che fu Fenrir prima di Duncan. Non è un caso se il Consiglio pende dalle sue labbra” brontolò Jerome, annuendo grave. “Se sei convinta che voglia qualcosa da te, presta attenzione a tutto ciò che dirai, perché potrebbe usarlo contro di te, o per aiutare se stessa.”
“D’accordo” annuii, prima di chiedere loro: “Qualcuno di voi mi può portare giù? Sto morendo di fame.”
Lance e Jerome scoppiarono a ridere, ma io non mi unii a loro. Il pensiero di Sheoban mi impediva di rallegrarmi.
Dovevo stare più che attenta a quella donna. Lei aveva molta più esperienza di me, e avrebbe potuto fregarmi come voleva, se non avessi prestato attenzione al suo dire.
Una parola di troppo, e mi sarei trovata in guai ben più grossi di quelli in cui già mi trovavo.
 
 
_______________________
1: Vigrond: o Vigridhr. Sarà il luogo della battaglia finale tra il bene e il male, secondo il mito norreno, perciò luogo di immenso potere mistico. Ho pensato fosse il nome perfetto per il Luogo di Potere dei licantropi.

N.d.A.: Ritroveremo Duncan nel prossimo capitolo, perciò non temete... non è sparito. E ci saranno un po' di colpi di scena! :)

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Capitolo 17
*** XVII. ***


N.d.A.: Avviso ai lettori. La parte finale del capitolo è un pochetto cruenta, non tanto per gli eventi in sé, quanto per quello che dirà Duncan, perciò... sappiatelo. A parte questo, credo apprezzerete quanto succederà tra breve.
Buona lettura!

 





XVII.







Avevo appena terminato di pulire la stalla assieme a Erika, quando udii il rombo della Volvo emergere dal cortile e raggiungere le mie orecchie.

Voltandoci all’unisono verso l’auto color oro, che entrò in quell’istante nel nostro campo visivo, sorridemmo spontaneamente e lasciammo da parte pale e carriola per andare a salutare Duncan al suo ritorno da Chester.
Erano passati dieci giorni dalla sua partenza, giorni in cui, dopo l’iniziale stanchezza dovuta al mio primo assaggio del potere, avevo cominciato a sviluppare le mie capacità con sempre maggiore forza e bravura.
Lance non si era che prodigato in complimenti, in quei giorni così pieni.
Io, in compenso, avevo fatto di tutto per riempirlo di orgoglio, perché la soddisfazione che lui provava nel vedermi imparare così in fretta, e così bene, riempiva di gioia anche me.
Ero soddisfatta delle mie capacità e dalla velocità con cui apprendevo ma, al tempo stesso, ne ero impensierita, perché avvertivo che tutta quella bravura avrebbe potuto rivoltarsi contro di me, in qualche modo.
Era un pensiero sordido, impresso in un angolo della mia mente con un inchiostro che non ero in grado di debellare in alcun modo, e sapevo che presto o tardi sarebbe tornato a perseguitarmi.
Solo, non sapevo in che modo.
Naturalmente, avevamo tenuto tutto nascosto a Duncan, un po’ per fargli una sorpresa, un po’ per non impensierirlo – a ogni allenamento, era seguito un mio crollo fisico.
Lance aveva deciso di parlargli di persona, giusto per evitare scenate da parte sua.
Sapeva per certo che l’amico si sarebbe imbestialito, se avesse saputo delle numerose flebo di soluzione fisiologica e vitamine a cui ero stata attaccata ogni qual volta terminavo un allenamento.
Voleva essere lui a discutere con Duncan della mia salute, perché era convinto che così sarebbe riuscito a placare i suoi timori.
Io, invece, ero certa che, non appena avesse sentito in casa odore di farmaci, sarebbe esploso come una bomba atomica.
Mi aveva chiesto di non strafare, ma non era esattamente quello che avevo fatto. Prevedevo bastonature verbali per me e Lance.
Lasciando da parte quei pensieri per evitare di stamparmi in faccia un’espressione terrorizzata, dedicai tutta la mia attenzione a Duncan che, sceso che fu dall’auto, ci sorrise e esclamò: “Ehi, ragazze! Siete super impegnate, a quanto vedo.”
“Ciao Duncan” esclamammo in coro io ed Erika.
Ormai ci veniva naturale.
In quei dieci giorni, passati quasi sempre assieme a lei - quando Lance non mi faceva allenare, o non mi riempiva di bombe energetiche - avevamo imparato a conoscerci meglio.
A quel modo, avevo scoperto, con mia somma sorpresa, che Erika era quanto di più vicino a una sorella avessi mai avuto.
Neppure con Nancy, o Elspeth, era così, forse neppure con Gordon, ma quello dipendeva dal fatto che era un maschio.
Con Erika, avevo imparato a conoscere una parte di me stessa che non sapevo di possedere, avevo aperto uno scrigno di segreti inesplorati e, assieme a lei, avevo fatto visita a questo mio piccolo tesoro nascosto, scoprendo cose di me che non avrei mai sospettato.
Avevo scoperto quanto mi piacesse prendermi cura dei cavalli di Duncan, sebbene non ne avessi mai avuto uno mio, o quanto mi fosse gradita la presenza di Jasmine sul letto, la notte, quando ascoltavo i sussurri della casa vuota intorno a me.
Erika mi aveva insegnato ad ascoltare il vento, facendomi comprendere che, come wicca, avrei potuto percepirne i messaggi appena sussurrati, e io mi ero meravigliata dell’enormità di voci in esso contenute.
Con pazienza infinita, mi aveva istruita su come scrutare le nubi in cielo per carpirne i segreti e, tra una lezione e l’altra, mi aveva fatto ascoltare i suoi CD preferiti, facendomi nel contempo conoscere anche le sue due migliori amiche, Morgan ed Eliza.
Come lei, anche loro si erano subito aperte a me come fiori in boccio di fronte ai primi raggi del sole mattutino.
Non avevo potuto che ricambiare quel gesto spontaneo, e avevo lasciato che entrassero nel mio mondo, senza aver più paura di ciò che ero, o rappresentavo.
Grazie a loro, avevo cominciato a muovere i primi passi verso la piena accettazione della mia nuova condizione di wicca.
In definitiva, avevo scoperto che vivere tra licantropi mi piaceva. Mi piaceva davvero molto.
E non solo perché Erika e le sue amiche mi erano simpatiche, e le consideravo già mie grandi amiche.
Con mio sommo sconcerto, mi ero resa conto di provare anche un piacere fisico nello stare assieme a loro.
Come un vampiro, fagocitavo le loro energie residue, energie che non erano in grado di controllare, e che disperdevano nell’aria come un profumo dolciastro, da cui io ero attratta in maniera quasi incontrollabile.
Costernata, la prima volta che mi ero resa conto di quel mio comportamento quasi famelico, avevo chiesto con estremo turbamento qualche spiegazione a Lance.
Per nulla preoccupato, e premuroso nei miei confronti, aveva pacificato le mie paure facendomi comprendere che, per una wicca, abbeverarsi delle energie dei licantropi era assolutamente normale, anzi cosa assai gradita.
Sempre più sorpresa, avevo chiesto lumi riguardo al gradita e a quel punto Jerome, prendendo la parola, mi aveva detto che il mio assaggiare il loro potere aveva, sui licantropi, l’effetto di una carezza.
Basita, lo avevo ascoltato senza credere a una parola, pur cosciente che mi aveva detto l’assoluta verità.
Non convinta, il giorno seguente a quella scoperta, avevo provato a tenere sott’occhio le reazioni di Morgan, Erika ed Eliza, tutte noi impegnate nella stalla a sistemare la paglia pulita nei box dei cavalli.
Con mio sommo sgomento, avevo notato che, non appena accennavo a incanalare dentro di me le loro energie residue, un sorriso leggero spuntava sui loro volti, prima di svanire come era apparso.
Con un sospiro, avevo chiesto conferma anche a loro e, tra risatine imbarazzate e ampi cenni del capo, avevano tutte annuito, facendomi capire che Jerome non aveva affatto scherzato.
Non ero del tutto convinta che, quel particolare, mi fosse gradito, ma tant’era, era parte di me.
Com’era parte di me, ormai lo sapevo, il dolce sentimento che sentivo crescere nei confronti di Duncan.
Avevo cercato di obnubilarlo, di relegarlo in un angolo disperso della mia mente, di convincermi che stavo sbagliando, ma nulla era valso allo scopo.
Stare lontani per dieci giorni, poi, non aveva fatto altro che rendermi ancora più consapevole del senso di vuoto che percepivo ogni qualvolta lui non era con me.
Avvilente all’ennesima potenza, ma era così. Stavo diventando totalmente dipendente da lui e, per una come me, era  una cosa a dir poco insopportabile.
Fu quindi con un sorriso che mi avvicinai a lui – che potevo farci, ormai, se mi sentivo così? – e mi informai sul suo viaggio. “Com’è andato il tuo tour? Tutto bene?”
“Benissimo” ammiccò, sorridendomi spontaneamente e mandando in frantumi il mio cuore.
Di questo passo, dovrò farmi fare un trapianto, pensai disperata.
Del tutto ignaro del mio turbamento, Duncan fissò prima le stalle e poi me, prima di ampliare il suo sorriso e asserire: “Non mi dire che ve ne siete sempre occupate voi.”
“Sì. Chi altro doveva pensarci?” sogghignai, appoggiandomi al badile che tenevo in mano, indecisa se spaccarglielo in testa o lanciarlo in terra per abbracciarlo.
Nessuna delle due idee mi parve attuabile, però, perciò rimasi ferma impalata, in attesa che lui o Erika dicessero qualcosa di intelligente.
Io, al momento, ero impegnata a capire come funzionassero i polmoni, perché non mi ricordavo più come si respirava.
Maledetto lui e i suoi occhi spettacolari!
Per fortuna, Erika intervenne dicendo: “Ho chiamato Peggie, dicendole che avremmo badato noi ai cavalli, anche perché Gabriel sembra aver preso una cotta proverbiale per Brie, e non penso si sarebbe fatto avvicinare da altre donne se non da lei.”
Duncan rise sommessamente nel sentirglielo dire, e ammiccò divertito. “Non avevo dubbi che si sarebbe invaghito di te.”
“Oh, e perché?” gli chiesi, curiosa di sentire la sua risposta.
Lui si limitò a sorridermi in maniera strana, sollevando un sopracciglio con aria ironica, come se la mia fosse stata una domanda stupida.
Non sapendo bene come interpretare quello sguardo, gli rammentai: “Sai di essere più criptico di un’iscrizione azteca, vero?”
Duncan scoppiò a ridere di gusto e mi diede un buffetto sulla guancia, prima di mormorare: “Mi sono mancate le tue battute, in questi giorni.”
Meno male, pensai divertita, continuando a non capire la sua precedente affermazione. Che mi teneva nascosto? A Gabriel piacevano le ragazzine?
Erika ci guardò divertita, prima di voltarsi al pari mio nell’avvertire l’aura di Jerome avvicinarsi a noi.
Ormai ero diventata brava a percepire le auree dei licantropi, e sapevo riconoscere senz’ombra di dubbio quelle che già conoscevo.
Sorrisi a Jerome, che si avvicinò a noi con una mano alzata in segno di saluto e un sorriso tutto dedicato al cugino che, da allegro che era, tornò serio nel giro di pochi attimi.
Ombroso, ringhiò: “Che hai fatto, Jerome?”
“Sapevo se ne sarebbe accorto subito. Io e i segreti non siamo molto amici” commentò Jerome, strizzandomi l’occhio con fare complice.
Duncan ci fissò per un momento con aria indecifrabile, forse irritato, forse confuso, prima di dare uno spintone al cugino e sibilare: “Come ti è saltato in testa di dare un permesso del genere a Brianna?! Sai a che pericolo ci hai messo dinanzi?!”
“Duncan!” esclamai, turbata che potessero picchiarsi per causa mia.
Avevo temuto quel momento, fin da quando avevo chiesto a Jerome il permesso di parlare con Mary B, ma mai avrei pensato si potesse risolvere così male.
Erika stette prudentemente a distanza, forse consapevole del fatto che frapporsi tra un Fenrir e uno Sköll in lotta, non era la più azzeccata tra le manovre da farsi, ma io non volevo essere la causa di un litigio.
Senza attendere un solo momento, mi misi in mezzo a loro, addossandomi completamente a Jerome e, fissando seria Duncan, asserii: “Gliel’ho chiesto in qualità di wicca. Potevo farlo benissimo. E’ nei miei diritti scavalcare il Consiglio e parlare direttamente a Fenrir… o al suo sostituto.”
Duncan mi fissò a denti stretti, gli occhi ridotti a due esili fessure pulsanti mentre Jerome, dietro di me, stava trattenendo a stento l’ira, forse rendendosi conto che non io, ma lui, avrebbe dovuto perorare la propria causa di fronte al suo Fenrir.
Tant’era, comunque. Mi ero messa in mezzo, e dovevo portare a termine la mia arringa.
Senza farmi intimidire dal suo sguardo, che avrebbe steso chiunque altro, aggiunsi: “Era perfettamente nei diritti di Jerome decidere al posto tuo. E’ il suo compito, quanto tu non ci sei. O te ne sei dimenticato, troppo preso com’eri dal prenderti sulle spalle il destino del mondo intero?!”
Duncan sgranò gli occhi, sorpreso forse dal mio livore e, per un attimo, non parlò.
Jerome, prudentemente, mi avvolse la vita con un braccio, pronto probabilmente a scansarmi all’ultimo momento, qualora il cugino fosse esploso.
Imperterrita, però, rimasi ferma a guardare Duncan, mentre i suoi occhi si tingevano d’ambra e la sua bocca si assottigliava come un arco teso.
Sapevo cosa stavo rischiando? Non molto, in effetti.
Ma ero certa di dover porre un freno alla sua rabbia, prima che essa lo avvolgesse completamente, permettendogli di completare la trasformazione.
Allungai perciò una mano fino a sfiorare il suo braccio – ora rovente – e dissi con voce più tranquilla: “Arrabbiati con me, se vuoi, ma non con lui, che ha solo fatto il suo dovere di Sköll, rispondendo a una domanda della vostra wicca.”
“Parli di wiccan solo quando più ti aggrada” mi ringhiò contro Duncan, ancora furioso.
“Parlo di wiccan ora che so cosa sono. E ne parlo perché io sono una di loro” replicai, continuando a mantenere il contatto visivo e fisico con lui.
“Avreste potuto chiamarmi” precisò Duncan.
“Sminuisci Sköll, parlando così” ribattei duramente, aggrottando la fronte.
“Brie, basta… lascia perdere. So com’è fatto Duncan” mormorò dietro di me Jerome, la voce che trasudava rimpianto e dispiacere.
“E come sarei?!” sibilò piccato Duncan, raddrizzando la sua postura. Non avevo notato che si era piegato in avanti, come per attaccare.
Provai un istintivo brivido di paura.
Cosa sarebbe successo se Duncan ci avesse attaccati? Davvero non lo sapevo.
Jerome rispose al suo tono con uno altrettanto teso, dicendo per contro: “Un testardo senza speranza, ecco cosa sei. Non capisci che tutti, qui, stiamo cercando di aiutarti, mentre tu rifiuti categoricamente di ascoltare.”
“Adesso basta!” ringhiò Duncan, facendo l’atto di muovere contro il cugino.
“Basta lo dico io!” sbottai, levando la mano dal suo braccio e utilizzando l’energia sprigionata da Duncan per bloccarlo.
Come Lance mi aveva fatto notare, ogni licantropo preda di una forte emozione, emana più energia del normale, energia che serve ad aumentare le proprie forze.
Questa forza può servire per un attacco, o per sopportare uno stato di profondo turbamento, così da poter ritrovare l’equilibrio.
Era addirittura utilizzata nei momenti di intimità, per dare maggiore piacere al proprio compagno, o alla propria compagna.
Quell’energia, dispersa in gran quantità, poteva essere sfruttata da una wicca, che poteva prelevare e convogliare contro una minaccia, qualora ne avesse avuto bisogno.
Era a quel modo che le wiccan proteggevano loro stesse, quando non avevano null’altro a cui aggrapparsi.
E fu così che decisi di agire io.
Raccolsi dentro di me l’esplosione di collera di Duncan, e gliela rispedii indietro come un’onda di tsunami, mandandolo lungo riverso a terra, gli occhi nuovamente verdi e l’espressione allibita di chi si sarebbe aspettato di tutto, tranne quello.
Jerome ed Erika trattennero il fiato per la sorpresa, del tutto impreparati a un simile gesto da parte mia mentre io, ansante e con lo sguardo ancora puntato su Duncan, attendevo una sua reazione di qualche tipo.
Non ci mise molto ad arrivare.
Mi sorrise, dapprima stupidamente, poi sempre più orgogliosamente e, alla fine, si rialzò spazzolandosi i jeans schiariti che indossava.
“Beh, me la sono proprio cercata, eh? Prendermela con Sköll, e proprio di fronte a una wicca tanto agguerrita.”
“Idiota” ansai, cominciando a risentire dello sforzo fisico. Un’altra volta.
Mi aggrappai a Jerome, ancora stordito da quella scena, mentre Duncan perdeva di colpo il suo sorriso per fissare il cugino in cerca di spiegazioni.
Jerome fece in tempo a trattenermi prima che io cadessi come una pera cotta e Duncan, avvicinandosi lesto e fissandomi ora spaventato, chiese al cugino: “Cos’ha? Che succede? Cos’altro non mi avete detto?”
“Non… ricominciare…” brontolai, socchiudendo gli occhi. “Jerome, ti prego…”
“Andiamo subito, Brie” annuì lesto, prendendomi in braccio e portandomi in fretta in casa, seguito a ruota da Duncan ed Erika.
Aprendo la porta con una spallata, Jerome mi portò in fretta al piano superiore e, dopo avermi fatta sdraiare sul letto, prese dal comodino una siringa ipodermica.
Professionale, conficcò l’ago in una bottiglietta di liquido trasparente, che Duncan fissò come se fosse stato un serpente a sonagli.
Sedutosi accanto a me, prese una mia mano ghiacciata tra le sue, calde come fornaci, ed esalò turbato: “Brianna, vuoi spiegarmi cosa diavolo è successo in questi dieci giorni? Perché la tua stanza odora di medicinali?”
Il caro, buon vecchio naso dei licantropi non mente mai.
Non era servito a molto arieggiare la stanza.
Tutte le vitamine e gli stimolanti che Lance mi aveva dato erano arrivati alle sue nari sensibili, smascherandomi.
Mentre Jerome mi conficcava l’ago in un braccio, facendomi rabbrividire sensibilmente, sorrisi stordita a Duncan, spiegandogli i motivi di quei medicinali. “Lance pensa sia dovuto all’eccessivo potere che ho dentro di me. Mi sfinisco, quando lo uso. Ah, ti avverto, ho speso un capitale in cibarie, perché sto mangiando più di Gabriel.”
Quella battuta non lo fece sorridere. I suoi occhi rimasero turbati, la sua stretta convulsa. Lo avevo evidentemente scioccato a morte.
Nel giro di pochi minuti lo stimolante fece effetto e, nel raddrizzarmi, lo fissai con un sorriso che sperai fosse convincente. “Vediamo di risolvere una cosa per volta, okay? Per ora dobbiamo pensare al novilunio. Mancano solo tre giorni, e io voglio arrivare a quella data conoscendo ogni più piccola parte del mio cervello sfasato.”
Niente, neanche l’accenno di un sorriso.
Jerome fissò il cugino e, serio, gli domandò: “Avrei davvero dovuto turbare il tuo soggiorno a Chester, sapendo cosa andavi a fare là, per dirti che Brianna stava male? Cos’avresti potuto fare che Lance, o Mary Beth, non potevano già fare per lei?”
“Mary Beth?” ripeté lui, confuso.
“Ho ritenuto giusto dare il consenso a parlare con lei non solo perché pensavo fosse una cosa sufficientemente sicura, ma anche perché avere un secondo parere medico, in questo caso, non guastava” gli spiegò Jerome, sfidandolo con gli occhi a replicare.
Quando Jerome mi aveva esposto la sua teoria, mi ero ulteriormente stupita di lui e, per un attimo, mi ero sentita una sciocca per averlo giudicato solo un ragazzo simpatico e affabile.
C’era molto di più in lui, solo non aveva mai occasione di dimostrarlo.
Poiché nessuno di loro, compreso Lance, aveva la ben che minima idea di come si comportasse una wicca durante il proprio apprendistato, sarebbe stato utile avere due pareri medici, viste le mie reazioni fisiche in seguito all’uso del potere.
Mary B, oltre ad aver pianto al telefono per circa dieci minuti, si era dichiarata dispostissima ad aiutarci e, soprattutto, a credere a tutto ciò che le aveva detto Gordon.
Lance e lei si erano costantemente tenuti in contatto, sia tramite cellulare che computer, per portare avanti le loro ricerche congiunte.
Il tutto, con la supervisione di Kate che, da Aberdeen, aveva consigliato a Lance il modo giusto di procedere con me, per evitare che io mi sfinissi più del dovuto.
Da lei, avevo ricevuto la promessa che, entro la fine del mese, si sarebbe presentata in visita a Matlock con il Fenrir e l’Hati del suo branco, per conoscermi.
Duncan fissò il cugino mestamente, prima di allungare la mano libera verso di lui, carezzargli il viso lievemente punteggiato di barba e dire con un sorriso appena accennato: “Ti ho reso un ben misero servizio, mio Sköll, e ho dubitato ingiustamente di te. Come posso fare ammenda?”
“Lasciandoti aiutare più spesso” brontolò Jerome, carezzando la mano del cugino con fare distratto.
Sembrava che il tocco delle sue dita avesse contribuito a chetare la sua rabbia.
Duncan annuì grave, prima di sentir suonare il cellulare del cugino.
Curioso, Jerome lo estrasse dalla tasca dei jeans e sorrise, dicendo: “Si parla del diavolo… è Mary Beth.”
Allungando una mano per prendere il cellulare dalla sua mano protesa, accettai la comunicazione e dissi: “Ciao, Mary B… come va?”
“Tutto bene, tesoro. Immagino che Jerome sia lì con te, visto che hai risposto tu” ridacchiò Mary Beth.
“Non mi molla mai. Non sono mai da sola, tranquilla” la rassicurai, strizzando l’occhio a Jerome prima di sorridere a Duncan, ancora seduto accanto a me. “Dimmi tutto.”
“Allora, ho fatto un rapido controllo con i miei colleghi. Sai com’è, dopotutto io sono un chirurgo. Naturalmente, ho mostrato una cartella falsa” nel dirlo, la sentii ridere sommessamente. “In pratica, soffri di una grave forma di anemia, da quel poco che abbiamo capito. Devi ingurgitare ferro in quantità industriale, tesoro, e mangiare più che puoi. Parlandone anche con Abby, lei mi ha consigliato di passare più tempo possibile nei boschi. Non so a cosa possa servire, ma lei mi ha detto che una wicca ne ha bisogno per mantenere l’equilibrio.”
“Sì, so cosa intende. Ringraziala da parte mia per il consiglio” annuii, ripensando a ciò che anche Kate mi aveva consigliato.
Il respiro degli alberi e la loro energia erano come un balsamo per me, ma gli allenamenti cui mi ero dovuta sottoporre, oltra al governo della stalla e della casa mi avevano portato via più tempo di quanto non avessi messo in conto, e non ero perciò riuscita a visitare il bel bosco di faggi di proprietà di Duncan.
Ora che era tornato, non avrei mancato di farlo. “Di Patrick sai dirmi niente?”
Sospirando – immaginai si sentisse combattuta all’idea di cospirare alle spalle del marito – disse mesta: “Non fa che stare al telefono con i suoi amici, chiuso nel suo studio. L’ho sentito urlare, una volta. Ha detto, testuali parole, che ‘se quel maledetto traditore non salta fuori, come facciamo a ritrovare il posto?’. Sai cosa possa voler dire?”
“Oh, sì. Intendono sicuramente il licantropo che li ha aiutati a trovare il luogo di potere del clan di Glasgow” mugugnai, irrigidendomi. “Difficile che riescano a trovarlo, comunque, visto che è già bell'e che andato.”
“Ti prego, Brie… non cominciare. Sai che è difficile, per me, accettare questa parte della storia” sospirò Mary Beth.
“Perdonami” mormorai con calore. “Ma ti prego di credere che non siamo noi nel torto, Mary B. Davvero.”
“Lo immagino” sospirò ancora lei.
In sottofondo, sentii un singhiozzo.
Stava soffrendo immensamente, a causa di ciò che era suo marito, e questo fece montare dentro di me una rabbia tale da voler distruggere pezzo per pezzo Patrick, così da fargli patire le pene dell’inferno, come lui le stava facendo patire alla moglie.
“Cerca solo di stare attenta, d’accordo? Sai che non voglio ti succeda qualcosa.”
“Lo so, Mary B. E tu cerca di stare allegra. Questa cosa non riguarda il rapporto tra te e Patrick. E’ ovvio che lui ti ama” le rammentai, cercando di dare un tono positivo al mio dire.
Non mi rispose, limitandosi a un mpfh sussurrato che avrebbe potuto voler dire qualsiasi cosa.
Si sentiva giustamente tradita nel profondo, poiché Patrick le aveva tenuto nascosta una pratica così indecorosa, che avrebbe potuto benissimo farle cambiare idea su di lui.
E forse lui, proprio per paura di perderla, non gliene aveva mai parlato per evitare un simile disastro.
Questo, in un certo qual modo perverso, andava a favore di Patrick. Di certo, l’amava molto. Ma perché spingersi a predare i licantropi? Non l’avrei mai capito.
“Mi farò dare il ferro da Lance, e ti prometto che mangerò come un cavallo, okay?” dissi a quel punto, cercando di ridere. Fu come ingoiare una grattugia.
“D’accordo. Stammi bene, tesoro” sussurrò mesta Mary Beth, prima di chiudere.
Sospirando, restituii il cellulare a Jerome prima di dire: “Anemia di proporzioni bibliche, insomma… Lance aveva ragione. Quindi, debbo imbottirmi di ferro. Diventerò come Iron Man.”
Quella battutina fiacca strappò un sorrisino altrettanto fiacco ai presenti. Era evidente quanto fossero preoccupati per me, e non avevo davvero idea di come calmarli.
“Anche quanto, Iron Woman” replicò Erika, lanciandomi un sorriso tutto denti.
“Già” annuii, prima di dire: “Spinaci e carne rossa per pranzo, allora?”
“Direi di sì. Corro subito a fare la spesa. Jerome, accompagnami” sentenziò Erika, afferrando per un braccio il fratello e trascinandolo fuori dalla stanza.
Erika aveva capito al volo che desideravo parlare da sola con Duncan. Era un tesoro di ragazza, non c’era che dire.
Non appena sentii sbattere la porta dabbasso, mi volsi a fissare il viso ancora teso di Duncan e, sollevando la mano libera, la accostai a lui per lisciare le rughe sulla sua fronte.
“Non fare quella faccia. Dovevamo immaginare tutti quanti che sarebbe andata così. E poi, non sto morendo. E’ solo una cosa temporanea. Quando il mio corpo si sarà abituato al potere, non soffrirò più di anemia.”
“Ma a che prezzo?” esalò, indicando i medicinali sul comodino.
“Duncan, quando ho accettato di presentarmi al Vigrond per il novilunio, ho messo in conto un po’ di sofferenza” gli ricordai, fissandolo negli occhi, due enormi pozze di smeraldo contornate da lunghe ciglia scure.
“Come sai quel nome?” mi chiese curioso, gli occhi leggermente sgranati.
“Lunga storia” scrollai le spalle, ben decisa a non perdere il filo della conversazione. “In ogni caso, ho accettato io di mettermi in gioco e, così facendo, mi sono presa carico di tutto quello che sarebbe potuto succedere.”
“Ti sto ripagando del tuo aiuto in ben misero modo” sospirò, scuotendo afflitto il capo corvino.
“Ripagami sorridendo di più, facendoti aiutare da Jerome e lasciando che Lance ti consigli. Fai che la tua Triade di Potere sia attiva, e non menomata. Il Consiglio ne ha approfittato fin troppo. E’ ora che tutto ciò finisca” lo spronai con veemenza, seria e con il viso contratto dalla tensione.
Lui aggrottò la fronte e mi chiese: “Perché dici questo?”
“Ho visto come si comporta il Consiglio, quando parli. Volgono tutti lo sguardo verso Sheoban, in attesa che lei prenda una decisione. Non ascoltano te, ma lei. Vai bene finché ti attieni a ciò che vogliono loro ma, quando agisci in un modo a loro inviso, ti si rivoltano contro. Correggimi se sbaglio” mormorai, stringendo la sua mano rilasciata sul copriletto.
Non mi disse nulla. Fu come un sì, per me.
“Sheoban ti si è rivoltata contro finché non mi ha vista… deve aver notato qualcosa che le è parso interessante, altrimenti non si spiegherebbe il suo voltafaccia. Pensaci bene” insistetti, stringendo ulteriormente la presa. “Non voglio sapere cosa ti ha spinto a concedere loro tanto credito, ma ti avverto… Sheoban sta tramando qualcosa.”
Quel commento gli fece distogliere gli occhi per un momento, quasi avessi centrato nel segno, ma dalla bocca di Duncan non giunsero conferme.
Un attimo più tardi, però, disse sommessamente, lo sguardo duro come l’acciaio fisso nei miei occhi attenti: “Se proverà soltanto a minare la mia autorità, la ucciderò.”
“Beh, affila gli artigli, allora, Fenrir, perché credo li dovrai usare a breve” grugnii, torva. “Verrò al Vigrond e dimostrerò a tutti chi sono, ma non sperare che io ascolti il Consiglio, perché non lo farò. Non mi fido di loro.”
“Te lo dice il tuo potere?” si informò Duncan, turbato.
Annuendo, ammisi: “In gran parte, le sensazioni sgradevoli erano causate da Marjorie, per gli ovvi motivi che conosciamo, ma ho sentito serpeggiare altro, in quella stanza. E non mi è piaciuto.”
Annuendo a sua volta, Duncan asserì: “Mi fiderò del tuo dire, allora. Sarò più cauto.”
“Bene” sorrisi a quel punto, prima di chiedergli: “Avresti davvero colpito Jerome perché ha preso una decisione al posto tuo?”
“Non per quello” replicò laconico, prima di alzarsi e aggiungere: “Riposa un po’. Ti chiamerò quando il pranzo sarà pronto. Quei due non dovrebbero metterci molto, a tornare.”
“Va bene” sussurrai, sdraiandomi sul letto e lanciandogli un sorriso confortante.
Duncan mi fissò ancora un momento, lo sguardo combattuto, prima di uscire con un sospiro.
Non riuscii a comprendere cosa lo arrovellasse.
Come soleva fare da quando eravamo arrivati a Matlock, bloccò volontariamente le sue emozioni perché non le potessi percepire. Cosa mi nascondeva?

***

Dopo aver visto andare via i cugini, Duncan si rivolse a me, semi sdraiata sul divano del salotto e intenta a guardare uno stupido programma di gossip.
“Com’è riuscito, Gordon, a non far parlare Mary Beth?”
Sorpresa da quella domanda, spensi il televisore e, sedendomi più compostamente, gli spiegai i fatti come li conoscevo io.
“Beh, non è stato facile, in effetti. Per ogni evenienza, è andato a trovarla in ospedale, così che non potesse correre a gambe levate ad avvertire Patrick.”
Lui annuì, e io proseguii dicendo: “Per farla breve, le ha detto di avere mie notizie, ma che doveva avere la certezza assoluta che non ne avrebbe parlato con Patrick, o lui non avrebbe aperto bocca. Non ti dico come si è arrabbiata.”
“Lo immagino” ammiccò Duncan, accavallando le lunghe gambe, seduto comodamente su una poltrona vicino alla finestra.
“Gordon ha fatto sfoggio della sua miglior interpretazione da fratello affranto, e le ha detto che ero fuggita da casa per salvarti da morte certa. Nel contempo, le ha mostrato il proiettile che aveva trovato nel cortile, il giorno della nostra partenza” gli spiegai, muovendo mollemente una mano per dare più enfasi al mio dire. “A quel punto, lei è crollata sulla poltrona del suo studio e ha preso in mano il proiettile, fissando il nitrato d’argento all’interno dell’ogiva. Gordon ha detto che l’ha guardato per almeno dieci minuti prima di scoppiare a piangere.”
“Mi spiace” sussurrò Duncan, adombrandosi.
Scrollai le spalle, prima di proseguire. “Quando Gordon le ha parlato dei licantropi e delle wiccan, lei è rimasta basita. Non voleva credergli. Alla fine, ha dovuto chiedere il permesso ad Abby, una neutra del branco di Glasgow, di accompagnarla dal suo Fenrir.”
 “Aspetta un momento. Che ha fatto, tuo fratello?” esalò Duncan, sgranando gli occhi.
Ridacchiando, gli dissi: “Non chiedermi come ha fatto, ma deve aver percepito che Abegail potesse saperne qualcosa, su wiccan e licantropi, così l’ha agganciata nel negozio dei suoi e le ha chiesto lumi. Adesso, è un sorvegliato speciale assieme a Mary Beth. Fenrir di Glasgow si è offerto di proteggerli dai Cacciatori, casomai ve ne fosse bisogno.”
“Che altro avete combinato, nei dieci giorni in cui sono stato via?” chiese ironico Duncan.
"Poco altro, a parte svuotarti la dispensa” replicai, scrollai le spalle.
“Quindi, Fenrir di Glasgow si è preso questo impegno, eh? E non mi ha detto nulla” scosse il capo Duncan, con aria più che mai sorpresa.
“Gli abbiamo chiesto di non disturbarti. Inoltre, gli ha parlato anche Jerome e, visto che tu non c’eri, la sua parola valeva come la tua” mormorai, prima di chiedere: “Perché Jerome ha insistito tanto per non chiamarti? Cosa sei andato a fare a Chester di così tremendo?”
Duncan si adombrò in viso e mormorò, dopo un momento: “Ho presenziato a un processo, Brianna. Dovevamo decidere delle sorti di un giovane licantropo, macchiatosi di un reato piuttosto grave.”
“E immagino non fosse un tribunale normale” ipotizzai, adombrandomi a mia volta.
Lui scosse il capo, asserendo: “No. Eravamo presenti io e gli alfa di Chester.”
“Per alfa, intendi i Mánagarmr di più alto rango?” gli chiesi, sorprendendolo ulteriormente.
“Tu ed Erika… quanto avete parlato?” mi chiese curioso.
“Molto” ammiccai. “Anche se molte cose sono rimaste in sospeso. Mi ha detto che lei non ha l’autorità di parlarne.”
“Capisco” annuì. “Andate molto d’accordo, vero?”
Sospirando, assentii con un sorriso e dissi: “E’ come avere una sorella, di cui non conoscevo l’esistenza fino a dieci giorni fa. Amo Gordon, ma con Erika è tutto molto più profondo. Forse perché siamo entrambe donne… non saprei.”
“E’ possibile. Ed Erika è dotata di una sensibilità davvero acuta. Se nella sua famiglia fosse stato presente il gene delle veggenti, lei sarebbe stata una Völva eccezionale” annuì Duncan, orgogliosamente.
Assentii a mia volta, prima di continuare il mio discorso. “Ci ho preso, prima?”
“Sì, intendevo dire proprio loro. Mi hanno chiamato non appena hanno saputo cosa aveva tentato di fare il ragazzo, e non è stato facile mantenere la calma, quando ho conosciuto i fatti” ringhiò Duncan, oscurandosi nuovamente in viso.
“Come mai?” esalai confusa, sentendomi la gola stretta da una morsa. Cos’era successo?
“L’hanno bloccato poco prima di commettere un atto vietato. La sua sorellina, grazie al cielo, lo ha sentito parlare al telefono con un amico, proprio mentre stava spiegando i suoi intenti, così è corsa a dirlo a Jonah, il Mánagarmr più alto in grado a Chester” mi spiegò torvo.
“Cosa voleva fare?” gracchiai, ora spaventata a morte.
“Uccidere il fidanzato di una ragazza di cui si era invaghito… una ragazza umana” mi spiegò Duncan, fissandomi per un momento prima di distogliere lo sguardo. “Il suo intento era di uccidere il rivale e mutare lei in licantropo, pensando follemente che la ragazza ne sarebbe stata felice. Dio, non posso credere alle mie stesse parole! Eppure, è ciò che ha tentato di fare!”
Il suo dire trasudava vergogna, rabbia, disgusto e, non da ultimo, rimpianto. Quest’ultimo sentimento, non lo compresi. Cosa rimpiangeva?
Subito, la sua aura tornò nei regimi, impedendomi di fatto di percepire qualcos’altro e, fissandolo turbata, gli chiesi: “Qual è stata la punizione?”
Duncan lanciò uno sguardo all’esterno, oltre la coltre morbida e leggera dei tendaggi color crema della finestra del salotto.
“Non voglio parlartene.”
“Pensi sverrei?” ironizzai, prima di notare la tensione della sua mascella.
Le mani, strette ai braccioli, erano sbiancate per la tensione ed io, sgranando gli occhi, esalai: “L’hai ucciso?”
“E’ stato punito come meritava” si limitò a dire Duncan.
“Rispondimi!” esclamai, raggiungendolo e inginocchiandomi dinanzi a lui.
Lui si volse a fissarmi, gli occhi due pezzi gelidi di smeraldo, e mormorò torvo: “Non comprendi ancora tutte le nostre leggi, Brianna… ne rimarresti turbata.”
“Mettimi alla prova. Ti prego” sussurrai per contro, sfiorando una sua mano con la mia. Era gelata.
Lui si alzò, attirandomi verso l’alto con sé.
Strinse una mano attorno alla mia nuca, mandandomi un brivido freddo lungo tutta la schiena.
Chinandosi verso di me, mi sussurrò all’orecchio con voce carica di risentimento e disprezzo: “Gli abbiamo mozzato la mano con cui avrebbe voluto uccidere l’umano, e mutare la sua amata in una di noi. Naturalmente, non ricrescerà, perché la sentenza è stata eseguita con una lama d’argento.”
Ora la sua aura mi avvolgeva. E io tremai di freddo.
Fu come trovarsi nel bel mezzo di una tormenta di neve, abbigliata solo con vestiti estivi e infradito.
Il disprezzo che avevo avvertito, non era solo diretto al giovane che aveva tentato di scavalcare una delle leggi più importanti del branco, ma anche verso se stesso, che aveva dovuto impugnare la lama che lo aveva reso storpio per la vita.
Tremai sotto la sua mano, invasa da quelle sensazioni tremende e lui, come se si fosse scottato, indietreggiò di un passo, gli occhi nuovamente caldi e percorsi dal rimorso per avermi spaventata.
Cercando di mantenere la calma, esalai: “Bene… ora ho capito. Grazie per avermelo detto.”
“Brianna…” tentennò lui, ora deciso a porre un rimedio ai suoi modi così sgarbati.
Scossi il capo, allontanandomi a mia volta di un passo e, sorridendogli mesta, mormorai: “Avevi ragione, non ero ancora pronta per ascoltare. Scusami se ti ho costretto a dirlo.”
“Brianna, ti prego… lascia che ti spieghi” disse ancora, allungando una mano per bloccare la mia ritirata.
Svicolai lesta, replicando: “Vado un po’ da Gabriel. Tu non hai colpa di nulla, è chiaro? Sono io a essermi comportata da sciocca.”
Detto ciò, fuggii letteralmente fuori di casa, lo stomaco in subbuglio e un desiderio folle di piangere a premere contro la parete della sclera arrossata.
Quando mi sarei abituata al fatto che, tra licantropi, le cose non funzionavano come tra gli umani?

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Capitolo 18
*** XVIII. ***


XVIII.



 
 

 
 

Mi svegliai la mattina seguente con un tremendo mal di testa e le ossa rotte.
Il giorno precedente, dopo aver saputo della condanna subita da quel giovane di cui non conoscevo nulla, non ero più riuscita a guardare Duncan negli occhi.
Mi ero sentita una sciocca, ma non avevo trovato ugualmente la forza per agire in maniera differente.
Lo avevo lasciato alle sue mansioni, impegnato a recuperare il tempo perso in clinica, mentre io avevo passato tutto il pomeriggio a strigliare i cavalli e farli passeggiare per il cortile.
La zampa di Gabriel stava guarendo bene, da quel poco che potevo capire, e non sembrava esserci più rigidità muscolare. Duncan l’aveva curato in tempo.
Entro breve, avrebbe potuto ricominciare a correre per i prati. Avevo sorriso al solo pensiero. L’unico vero sorriso che mi ero concessa quel giorno.
La sera, non era andata meglio.
Avevo mangiato in fretta e furia, per poi chiudermi in camera ad ascoltare musica con il lettore MP3 regalatomi da Erika e pieno della sua robaccia spacca timpani – comunque utilissima, nel caso specifico.
Duncan, dal canto suo, non era salito in camera se non a tarda ora.
Stropicciandomi gli occhi pesti e gonfi, mentre ripercorrevo mentalmente quella giornata disastrosa, mi levai a sedere sul letto solo per rendermi conto che, a tutti gli effetti, non avevo dormito esattamente nella posizione corretta, da lì il tremendo dolore alle ossa.
In buona sostanza, mi ero sdraiata di traverso sul materasso con gambe e testa ciondoloni, e così ero rimasta per tutta la notte.
“Idiota che sono” brontolai tra me, alzandomi e dirigendomi in bagno. Dall’interno, nessun rumore. Via libera.
Mi chiusi dentro, dando un giro di chiave, e mi lavai per bene il viso prima di spazzolarmi denti e capelli.
Il mio viso, riflesso nello specchio, era pallido come un cencio e dalle profonde occhiaie violacee. Ero un figurino.
Sbuffando, ne uscii solo per sentire dire a Duncan, probabilmente al telefono nel suo studio: “D’accordo, vieni pure stamattina. Ho tempo. Buona giornata.”
Sbattendo confusa le palpebre, fissai la porta chiusa per alcuni attimi prima di veder comparire Duncan, in maniche di camicia e pantaloni blu notte.
Vedendomi, si immobilizzò per un attimo prima di sorridere esitante e mormorare: “Buongiorno… sembri essere appena passata sotto un treno, sai?”
“Ho notato. Buondì” annuii, prima di indicare l’ufficio e chiedergli: “Già al lavoro?”
“Non c’è pace per i malvagi” citò, prima di indicarmi di scendere dabbasso. “Come va, oggi?”
“Meglio. Te l’ho detto. Non è colpa tua, sono io a essere dura d’orecchi” sospirai. “So, o meglio, dovrei sapere, che avete le vostre leggi, e che non le applicate a caso. Oddio, tu non le applichi a caso. Alec, credo goda nel fare del male, ma tu proprio no.”
“Lieto che tu lo pensi” replicò, neutro.
Non appena raggiungemmo la cucina, accesi la macchinetta per il caffè e aggiunsi: “Capisco che ci sia bisogno di rigore, Duncan, e forse comprendo anche il perché di una punizione così tremenda. Ma fatico a digerirla. Dammi ancora un po’ di tempo, va bene?”
“Hai tutto il tempo che vuoi, Brianna. Ma mi fa piacere che tu capisca che io non amo fare del male.” Mi sorrise lievemente, mettendo nel microonde  un paio di brioches.
“Quello non potrei mai pensarlo” scossi il capo, più tranquilla. “Con chi parlavi, prima, se posso chiedere?”
“Sei wicca… puoi chiedere ciò che vuoi al tuo Fenrir” mi irrise benevolo lui.
“Non continuare su questa strada, Duncan. Sai esattamente perché ti ho fatto notare certe cose, ieri” brontolai, sedendomi alla consolle.
“Lo so, e mi rammarico di non esserci arrivato da solo” sospirò, scuotendo il capo.
“Sai essere straordinariamente testardo, credimi. Niente di strano, perciò, che tu non ci sia arrivato” commentai bonaria, guadagnandomi un’occhiataccia per tutta risposta. “Quindi?”
“Si trattava di Sheoban. Intende parlarmi di alcune cose riguardanti il branco… e di te” mi spiegò, scrutandomi con aria curiosa.
Sbattei le palpebre, indecisa se essere spaventata o confusa – di cosa mai potevano sparlare, della sottoscritta? – prima di domandargli: “Naturalmente, io non sarò presente, vero?”
Mi fissò spiacente, scuotendo il capo, e mi spiegò i motivi della mia mancata presenza a questa riunione privata. “Finché non ti riconosceranno come wicca, non avrai questo diritto, mi spiace.”
“Mica è colpa tua” brontolai, giocherellando con le posate che avevo davanti al mio naso.
“Brianna… Brie, cerca di capirla. E’ in ansia per le sorti del branco, non meno di me. Ma ti prometto che le farò capire quanto tu possa essere preziosa per noi, e che brava persona sei” asserì con forza, sorridendomi e sfiorandomi il viso con la punta delle dita.
Era la prima volta che usava il mio nomignolo.
Il colpo andò a segno. Mi azzittii e annuii, pacificata dal suo dire.
Era Fenrir e, nel bene e nel male, lui governava, lui giudicava… lui si sacrificava. Prima lo avessi compreso, prima avrei smesso di soffrire.
Dopotutto, ero anch’io a volerlo più forte, più autoritario nei confronti del Consiglio. Non dovevo lamentarmi, se lui si comportava da Fenrir quando doveva.
Non poteva essere sempre il premuroso e quieto compagno di viaggio che avevo conosciuto io. Doveva anche essere il feroce detentore del trono, e il giudice supremo del branco. Come era il suo primo difensore.
Il microonde trillò. Dopo aver ritirato le brioches e averle sistemate su un piatto, mi volsi verso di lui cercando di mostrarmi allegra e chiesi: “Una o due zollette, nel caffè?”
“Due, grazie” mi sorrise, forse rasserenato dal mio cambiamento d'umore.

***

Aprii la porta prima ancora che Sheoban suonasse il campanello. La sua aura era così potente che qualsiasi creatura, dotata di potere, nel raggio di almeno venti metri, non avrebbe potuto che avvertirla.
E forse lo faceva di proposito, per far capire a tutti chi comandasse.
Di certo, Duncan non si sarebbe mai esibito in uno sfoggio di potere così marcato, non era da lui.
La salutai con un leggero inchino, cui lei rispose con un quieto sorriso.
Lasciandola entrare, la accompagnai al piano superiore, dove Duncan aveva il suo studio, informandomi sulle ultime notizie riguardanti il clan. “Posso chiederle se gli animi, nel Consiglio, si sono un po’ calmati?”
“Nei limiti del possibile, giovane Brianna” mi rispose pacata, osservandomi con i suoi occhi di falco mentre salivamo gli scalini.
“Capisco” esalai un sospiro, imboccando il corridoio al primo piano prima di bussare alla porta dello studio. “Duncan, c’è Sheoban.”
Lui aprì un attimo dopo, inondandomi con il suo profumo e la sua aura appena accennata.
Pur non volendo, la assaporai sulla punta della lingua per un istante, prima di ritrarmi vergognosa e dire, senza neppure guardarlo in viso: “Vado in cucina a preparare qualcosa per pranzo, okay?”
“Va bene” replicò cauto, lasciando entrare Sheoban nel suo ufficio.
Non potei evitare, però, di notare lo sguardo curioso e interessato della donna. Cosa mai avevo detto, di così interessante?
Cercando di non dare troppo peso a quell’occhiata, sgattaiolai al piano inferiore desiderando, per una volta, avere l’udito sopraffino di un licantropo.
Ero curiosa all’inverosimile e, sapere che loro due avrebbero parlato di me, mi rendeva ancora più decisa a scoprire quali segreti non fossero per le mie orecchie.
Rimasero nello studio per quasi due ore, due ore in cui io mi impegnai anima e corpo per preparare uno spezzatino degno di tale nome.
Nonostante le mie mani, e parte del mio cervello, fossero concentrati sulle verdure triturate e sulla carne immersa in succoso vino rosso, la restante parte della mia materia grigia rimase fissata sui due licantropi a colloquio.
Non potevo farci nulla. Volevo sapere, e quell’attesa mi snervava.
Sobbalzai come una sciocca, infatti, quando udii la porta dello studio al primo piano aprirsi per lasciar fuoriuscire la voce tesa di Duncan che, circospetto, asserì: “Continuo a credere che tu stia esagerando, Sheoban. Mi sembra quanto meno prematuro, oltre che azzardato.”
“Il tempo parlerà per me, ragazzo. Quando mai mi sono sbagliata?” replicò Sheoban, scendendo le scale, subito seguita da Duncan.
Lui, evidentemente, preferì non risponderle, perché non avvertii la sua voce lungo le scale.
Affacciandomi titubante dalla porta della cucina, li scrutai con un sorriso acqua e sapone e chiesi educatamente: “Non si ferma per pranzo, Sheoban?”
La donna annusò l’aria, sorridendomi compiaciuta, prima di scuotere il capo e replicare: “No, mia cara, anche se il profumino è ottimo. Sarà per un’altra volta.”
Annuii, lieta che se ne andasse e lasciasse Duncan tutto solo perché io lo potessi interrogare a dovere ma, quando lo vidi entrare in cucina, il viso scuro e le mani strette a pugno, desistetti immediatamente.
Mi limitai a borbottare: “Brutta?”
“Abbastanza” mormorò, senza avere il coraggio di guardarmi.
Cosa gli aveva detto su di me? Perché non osava levare lo sguardo?
Mi avvicinai a lui, ben decisa a scoprirlo ma Duncan, svicolando come se non avesse notato i miei intenti – o forse proprio per quello – si accostò alla consolle centrale della cucina.
Preso un pezzo di pane e un coltello, fece per affettarlo su un’asse di legno, forse desideroso di fare la sua parte, visto che era stato impegnato quasi tutta la mattina con Sheoban.
Nel farlo, però, si ferì accidentalmente a un dito, spillando alcune gocce di sangue vermiglio, che caddero sul tagliere come piccoli rubini grezzi.
Quella vista mi mozzò il fiato.
La bocca mi si inaridì, mentre i battiti del mio cuore presero a correre come un treno impazzito verso vette che, ne ero sicura, nessun essere umano aveva mai toccato prima.
Il respiro si fece veloce e la mia lingua lappò le labbra secche mentre Duncan, voltandosi verso di me – certamente consapevole di quelle mie reazioni fisiche – mi fissò con occhi cupi, profondi come boschi immersi nell’oscurità della notte.
Restammo in silenzio per diverso tempo, non seppi dire quanto, mentre la sua ferita si rimarginava e il suo sangue si raggrumava sul tagliere, dimenticato dal suo padrone ma non da me.
Perché, a dispetto di tutto quanto mi era capitato fino a quel momento, niente mi aveva colpito come il suo sangue scarlatto.
Quando lo avevo curato nel bosco non mi aveva fatto alcun effetto, ma a quel tempo i miei poteri di wicca erano sopiti, come inattivi, mentre ora…
Dio, ora lo volevo! E questo mi fece sorgere il desiderio disperato di vomitare.
 “Mi faccio schifo” brontolai, allontanandomi un poco da lui e reclinando il viso, così da non dover più fissare quel sangue così deliziosamente invitante.
“Cosa c’è? Ti sei spaventata perché mi sono tagliato?” mi chiese, confuso.
“No” sussurrai, tornando istintivamente con lo sguardo sulla sua mano perfettamente sana.
Neppure una linea rosea indicava il punto in cui il coltello aveva tagliato la sua carne.
Duncan seguì il mio sguardo prima di arcuare leggermente un sopracciglio e dire, consolatorio: “Credo di aver capito. E’ per il sangue, giusto?”
“Mi sento un mostro” esalai, coprendomi il viso con le mani perché non mi fissasse come, invece, stava facendo.
Le mie mani vennero subito scostate da quelle di Duncan che, sorridendomi benevolo, sussurrò: “Non c’è niente di male, Brianna. E’ parte del tuo dono. Solo, non pensavo fossi già a questo punto… tutto qui.”
“Che punto? Sto per diventare il Conte Dracula?” sbottai, sgranando gli occhi.
Lui rise sommessamente, e asserì tranquillo: “Niente di tutto ciò. Ma, per rendere più solido il legame tra wicca e Fenrir, è previsto lo scambio di sangue. Ne senti il bisogno, tutto qui.”
“Tutto qui” ripetei, ironica. “Voglio solo squarciarti un braccio e bere il tuo sangue. Normalissimo” continuai poi, sempre più irriverente.
Duncan mi fissò esasperato, prima di mordersi un dito e puntarlo verso di me, stillante di sangue.
Con voce tonante, asserì: “Bevi, e sii parte di me.”
“Come?!” esclamai, pur continuando a fissare la goccia di sangue che, brillante, galleggiava sul suo dito.
La secchezza in bocca tornò, come la voglia di bere sangue. Ancora una volta, mi sentii male al solo pensiero.
“E’ la formula di rito, Brianna. Non un invito sconveniente” ironizzò a quel punto, con un mezzo sorriso.
“Sei sano come un pesce, giusto?” chiesi allora, sollevando un sopracciglio con aria scettica, ancora inorridita all’idea di bere sangue.
“Sanissimo. Bevi, prima che si richiuda il taglio” mi esortò lui.
Notando quanto avessi voglia di scappare da lì, piuttosto che mettere in bocca il suo dito, Duncan sogghignò e posò la mano sana dietro la mia nuca, spingendo nel contempo l’altra verso la mia bocca.
In un attimo, sentii sulle labbra il sapore del suo sangue e, come un’esplosione di stelle nel mio cervello, mi ritrovai a suggere il suo dito per averne ancora, e ancora.
La sua energia vitale e il suo potere mi invasero il corpo come mai prima di allora era avvenuto e, istintivamente, mi avvicinai a lui poggiando una mano sul suo petto, in corrispondenza del cuore.
L’altra era stretta alla sua, intenta a tener bloccata quella fonte di energia accanto alla mia bocca.
Gli occhi di Duncan si socchiusero, il verde mescolato all’oro, mentre un basso ringhio gutturale fuoriusciva dalle sue labbra dischiuse, quasi provasse lo stesso piacere che stavo avvertendo io.
Sospirai lieta, godendo di quel sapore mescolato con il suo potere dirompente e, abbandonandomi a quelle sensazioni, mi afflosciai contro di lui, sussurrando: “Mio Fenrir…”
“Mia wicca…” sussurrò, lasciando scivolare la mano dalla nuca fino alla mia vita prima di cingerla con forza. “Ora appartengo a te.”
Io annuii distrattamente prima di scostarmi, afferrare un coltello dal cassetto e segnarmi un dito, mormorando: “E io appartengo a te. Bevi, e sii parte di me.”
Duncan annuì e si portò il mio dito alle labbra, succhiando dolcemente e leccando debolmente la mia pelle, facendomi rabbrividire.
Comprendevo solo vagamente quanto fosse importante quella cerimonia, troppo presa dalle sensazioni dirompenti che sentivo scorrere dentro di me come un oceano divorato dalla tempesta.
C’era sensualità in quei nostri gesti, una sensualità che andava oltre qualsiasi atto fisico avremmo potuto compiere insieme.
Quello scambio di sangue valeva molto più di qualsiasi altra cosa.
Era un legame indissolubile, che niente e nessuno avrebbe potuto distruggere, un laccio che ci legava per l’eternità, impedendoci di essere realmente lontani l’uno dall’altra.
Se anche un domani fossi tornata alla mia casa, lui sarebbe stato con me. Dentro di me. Come io in lui.
Questo, significava lo scambio di sangue.
In qualunque momento, in qualunque tempo, io e lui ci saremmo trovati. La sua wicca e il mio Fenrir.
Non mi resi conto di piangere di gioia, finché Duncan non mi asciugò le lacrime con un dito.
Gli sorrisi e lui, guardando il mio dito ancora stillante di sangue, mi domandò: “Andiamo a mettere un cerotto, vuoi?”
Annuii prima di dire: “Grazie.”
“Grazie a te. E’ stato un gesto molto importante, per me” replicò, accompagnandomi subito dopo al piano superiore.
“Contraccambio. Anche per me è stato importante!” esclamai. E stupendo.
Non disse altro, limitandosi a mettere un cerotto sul taglio incriminato, prima di percepire l’aura di Lance in avvicinamento.
“Il tuo maestro è qui.”
“Già. Ultimo giorno di scuola” mugugnai, ancora intorpidita dal piacere appena provato per rendermi effettivamente conto del pericolo incombente. “Naturalmente, non mi dirai cosa ti ha detto Sheoban su di me, vero?”
Lui scosse il capo, gli occhi nuovamente foschi come una mattina d’inverno. Lasciai perciò perdere, mi limitai a sorridere e dissi: “Ho la prova della tua lealtà. Mi basta.”
“Come basta a me” convenne lui, riaccompagnandomi dabbasso per pranzare assieme a Lance.

***

Di comune accordo con il mio personale insegnante, avevamo deciso di non fare alcun tipo di allenamento, il giorno prima del novilunio.
Mi sarei riposata a sufficienza, avrei divorato quanto più cibo proteinico potessi ingurgitare, e avrei sperato che questo fosse sufficiente per mantenermi in piedi una volta giunta al Vigrond.
Dopo avermi dato un buffetto sulla guancia a mo’ di saluto, e aver strizzato l’occhio a Lance, Duncan si affrettò ad allontanarsi per raggiungere la clinica.
Hati, dopo aver parlato del più e del meno per tutta la durata del pranzo, poté finalmente scrutare con aperta curiosità il mio dito ricoperto dal cerotto.
Sorridendo, gli chiesi: “Cosa sta pensando la tua mente perversa?”
“Sono barricato, Brie. Dovrai sudare sette camicie per saperlo” ridacchiò Lance.
“Come se non lo avessi fatto nei giorni precedenti” replicai, ridacchiando.
Lance mi circondò le spalle con un braccio, asserendo: “La sua energia ti sarà d’aiuto, al Vigrond.”
“Gli altri lo sapranno come lo hai scoperto tu?” gli chiesi turbata, sistemandomi meglio su uno degli sgabelli.
Avrei pensato in seguito a sparecchiare.
Inoltre, quel poco cibo presente sul tavolo avrebbe potuto tornarmi utile, qualora avessi avuto bisogno di una razione extra di calorie.
“E’ probabile. L’energia di Duncan, in quanto Fenrir, è riconoscibilissima, e stenta a degradarsi nel tempo” annuì Lance. “Quando il suo potere tocca qualcuno, se ne possono scorgere i segni per mesi.”
“Interessante. Marjorie mi ucciderà seduta stante” ridacchiai nervosamente, prima di decretare: “Dovrò ammazzarla io per prima.”
“Sarebbe preferibile” ammiccò Lance, estraendo il fido sfigmomanometro digitale dalla sua borsa.
“Ah, mio inseparabile amico… vieni, abbracciami…” sussurrai maliziosa, allungando le braccia come avrei fatto per invogliare un amante ad avvicinarsi.
“Come sei sciocca” ridacchiò Lance, infilandomelo a un braccio prima di chiedermi: “C’è un motivo per cui sento l’odore della Lupa Madre in casa?”
Mi adombrai, borbottando: “Perché è stata qui, stamattina, e ha parlato con Duncan.”
“Oh, quindi era a causa sua il subbuglio che ho avvertito nella testa del nostro Fenrir” commentò Lance, aspramente.
“Se tu ci hai capito qualcosa, sei più bravo di me. Quando sono nelle sue vicinanze, si barrica” sbuffai, fissando i numeri digitali dello sfigmomanometro muoversi veloci sullo schermo a cristalli liquidi.
Lance si limitò a sollevare un sopracciglio con aria evidentemente sorpresa, come se scoprire quel particolare lo stupisse parecchio.
Da bravo Hati, però, preferì non fare domande sul suo Fenrir, limitandosi a sorridere sornione e lasciandomi nel dubbio più totale.
Cosa gli era venuto in mente di così divertente? E perché non voleva dirmi nulla?
“Mary B ti ha mandato i risultati delle analisi?” chiesi a quel punto, preferendo lasciar cadere l’argomento.
Tanto, da quei due, non avrei ottenuto che aria fritta.
“Sì, e ho anche apportato diverse correzioni alla tua dieta di farmaci. Direi che, così, dovresti andare a posto nel giro di un mesetto al massimo” annuì Lance, soddisfatto.
“Capito, capo” annuii. Sessanta su centodieci. Decisamente bassa, per me. “Che dici?”
“Sei nei limiti. Procediamo cautamente e, se non ce la fai, dimmelo subito. Non voglio ti affatichi più del dovuto” dichiarò serio Lance, dandomi  un buffetto sul naso.
Obbedii. Neppure io volevo ridurmi uno straccio.
Ci concentrammo soprattutto sulla respirazione, e sulle barriere personali, per circa un paio d’ore prima di concederci una pausa.
Proponendo a Lance di andare a fare un giro nella stalla mentre mi riprendevo, gli chiesi: “Ti è mai venuto in mente di studiare le differenze tra il DNA umano e quello dei licantropi?”
Lui ridacchiò, annuendo, e mi spiegò: “Sì… credo che tutti i licantropi che hanno studiato medicina, presto o tardi, si siano lasciati andare a qualche esperimento.”
“Ebbene?”
“Abbiamo ventiquattro cromosomi” mi informò, scrollando le spalle con noncuranza. “E il nostro sangue muta quando siamo in fase animale. Curioso, vero? Ecco perché hai potuto bere il sangue di Duncan, senza mutare in licantropo e perché, in casi estremi, possiamo recarci in ospedale. Come ha fatto Becca per il suo bambino, per esempio.”
“Curioso davvero” esalai, prima di ridacchiare nel veder trotterellare Jasmine fuori dalla stalla.
Con un certo divertimento, notai che anche Lance non amava particolarmente farsi avvicinare dalla gatta.
Sorridendo, la presi in braccio, facendomi avvolgere dai suoi premurosi ron-ron e la accarezzai distrattamente, mentre ironizzavo su tutta quella situazione bizzarra. “Certo che vedere un licantropo grande e grosso come te, terrorizzato da una gatta, fa ridere.”
“Quella bestia infernale ha degli artigli d’acciaio” brontolò Lance, guadagnandosi un’occhiata ferale da parte di Jasmine. “Ancora non capisco come Duncan e lei possano andare d’accordo.”
“Nello stesso modo in cui lui riesce a fare il veterinario, e nessun altro licantropo è in grado di farlo” asserii semplicemente. “Strano che questo non lo abbiate studiato.”
“Non credo che Duncan si farebbe punzonare solo per una mia morbosa curiosità” ghignò Lance.
“Però sarebbe divertente chiederglielo” replicai malefica, facendogli l’occhiolino.
“Potresti sempre provarci, Brie. A te, forse, darebbe ascolto” sorrise a quel punto lui, dandomi un casto bacio sul capo prima di lanciare uno sguardo ai cavalli e dire: “Vedo che sono in gran forma.”
Avevo notato che, dopo il nostro primo incontro-scontro nella cucina, Lance si era parecchio lasciato andare con me, e questo mi aveva reso molto felice.
Ero lieta che la mia presenza lo tranquillizzasse al punto tale di lasciarsi andare a simili manifestazioni di affetto.
“Gabriel è quasi del tutto guarito. E gli altri due sono dei gran burloni” gli spiegai sorridente, avvicinando il viso a Gabriel perché mi sfiorasse con il suo muso morbido.
Chiusi gli occhi, sospirando mentre il suo pelo mi solleticava la pelle fresca e Lance, sospirando di sorpresa, mi disse: “E’ come per Duncan.”
“Che cosa?”chiesi distrattamente.
Scuotendo il capo, Lance cominciò a rimuginare e io, fissandolo curiosamente, mi chiesi dove stessero convergendo i suoi pensieri.
Senza neanche accorgermene, estesi il mio potere fino a sfiorarlo e lui, accorgendosene, mi lasciò entrare senza remore.
Stava chiedendosi se, lo strano potere di Duncan, potesse derivare da un dono latente proveniente da una qualche antenata wicca, visto che sembrava in tutto simile al mio.
O se, al contrario, il mio essere così vicina agli animali, oltre che alle piante, potesse avere tratti in comune con il dono di Duncan.
Ridacchiando, tornai dentro di me ed asserii: “Sono sempre più convinta che dovremmo chiedere a Duncan di analizzarlo. Se vuoi, ti darò anche un campione del mio sangue.”
“Adesso come adesso, i risultati sarebbero falsati, visto che il vostro sangue è impuro… o meglio, è mescolato” replicò, prima di esalare vagamente sorpreso: “Qui tra loro, il tuo potere è più sotto controllo. Hai notato che non ti sei minimamente affaticata?”
Il mio battito cardiaco, effettivamente, era normale, per nulla accelerato, e neppure una stilla di sudore imperlava la mia fronte. Curioso.
Fissando Jasmine, che ricambiò il mio sguardo con eguale intensità, dissi tra me: “Possibile che il problema stia tutto qui?”
“In che senso?” mi chiese Lance.
“Lance, il mio potere è legato alla luna, che mi consente di utilizzare le energie della Madre Terra, giusto?”  gli domandai, vedendolo annuire. “Però, a quanto pare, se sto in mezzo alle creature della Madre, il potere del nostro caro e biancastro satellite non sembra essere necessario.”
Lance mi guardò con attenzione, prima di dirmi di lasciar scendere Jasmine a terra e ordinarmi: “Riprova a entrare nella mia mente.”
Annuii e, come avevo immaginato, quel procedimento mi costò ben più sforzo che in precedenza.
Era il legame.
Ogni creatura vivente mi infondeva forza al posto della luna, che era debole per me, in quei giorni, a causa del novilunio sempre più vicino.
Stando confinata tra quattro mura, e perciò lontana dal mondo della natura, davo fondo solo alle mie energia che ovviamente, essendo legate alla luna, erano esigue.
Il mio dono praticamente unico, invece, poteva appoggiarsi direttamente alla Madre Terra, perché mi aiutasse a sprigionare l’energia necessaria per compiere ciò che volevo.
A patto, ovviamente, di essere direttamente a contatto con qualcosa di vivo.
Questo significava essere una wicca più potente di quanto io stessa avessi immaginato, o temuto.
Ero in grado di scavalcare il problema del novilunio, chiedendo sostegno direttamente alla Madre, cosa che wiccan meno potenti di me non avrebbero potuto fare.
Le teorie di Lance si erano concretizzate con ancor più efficacia di quanto avessimo pensato. Non necessitavo neppure di trovarmi nel Vigrond, per esercitare il mio potere senza l’influsso della luna.
A questo punto, cosa poteva fermarmi?
Sorrisi entusiasta, esclamando: “Li abbiamo in pugno!”
“Eccome, piccola!” sogghignò Lance, prima di aprirsi in una risata eccitata e, prendendomi per la vita, farmi librare per aria, facendomi girare come una trottola attorno a lui.
Risi con lui, ugualmente esaltata all’idea di aver scoperto finalmente quale fosse il canale giusto per convogliare il mio potere.
Non dovevo semplicemente usare il mio cervello per legarmi alla luna, ma unirmi alle creature viventi che avevo intorno, così da convogliare in me la loro energia.
Dovevo essere una parte del tutto, e lasciarmi trasportare dalla corrente, non cercare di navigare alla cieca, e controcorrente, con mezzi deboli e inadatti.
Saperlo, mi rincuorò non poco.
Quando Lance mi rimise a terra, il viso ridente e fiero, scorsi Erika in fondo alla stalla e, al colmo della gioia, le corsi incontro per abbracciarla.
“Erika, ho capito, ho capito!”
Lei rise divertita, ricambiando l’abbraccio e, guardando Lance che si stava avvicinando con passo tranquillo, chiese curiosa: “Cos’ha capito, miss strangolatrice, qui?”
Sorridendo orgoglioso, Lance le disse tutto soddisfatto: “Abbiamo scoperto come fare in modo che non si esaurisca, usando il potere.”
Erika sgranò gli occhi, prima di replicare all’abbraccio con una presa stritolatrice degna di un polipo gigante.
Immobilizzata, iniziai ben presto ad essere a credito d'aria e, bofonchiando, borbottai: “Sì, sono felicissima anch’io… ma mi stai uccidendo, Erika!”
Lei mi lasciò andare, ridacchiando imbarazzata, prima di sentenziare fiera: “Beh, è una cosa fenomenale. E come ci riesci?”
“La Natura, Erika. Tutto ciò che è vivo, mi permette di utilizzare la sua energia, o di convogliarla loro attraverso. Devo solo lasciarmi trasportare dal flusso di potere, che è presente in tutto ciò che è vivo intorno a me."
Risi, come se quella scoperta, ora, mi sembrasse quasi sciocca. Perché non ci ero arrivata prima?
"Finora, avevo agito senza utilizzare le energie residue di Lance, usando solo il potere proveniente dalla luna, ma ho scoperto che è sciocco, oltre che inutile. Il mio dono è così forte che, pur essendo la luna così debole, in questo momento, posso comunque richiamare i poteri della Madre Terra… e la presenza dei licantropi non è che un aiuto in più. La luna, per me, è solo un elemento in più, non una necessità. Posso utilizzare l’energia vitale che scorre tutt’intorno a noi, senza bisogno di Lei. Dovevo solo crederci di più, e non cercare di spremere unicamente il mio cervello fino allo sfinimento” terminai di dire, al colmo della felicità.
“Pensa a cosa sarai capace di fare al Vigrond, allora, che è pieno di vita e di energie latenti” sentenziò allegra Erika, prima di adombrarsi un poco e aggiungere: “E’ anche pieno di morte, però. Potrà contare qualcosa?”
 “Non credo” scosse il capo Lance, pensieroso. “I nostri morti non disturberanno Brie. E l’energia vitale della foresta, unita a quella della quercia, le darà la forza necessaria per mettere a tacere l’intero Consiglio. Il tutto senza attingere a una sola stilla di potere dei licantropi.”
Io annuii, aggiungendo: “Non potranno dirmi di aver rubato loro l’energia per salvarmi il culo. Sarà stupendo vedere le loro facce sconvolte.”
“Sarebbe il tempo. Ormai hanno bisogno che qualcuno li ridimensioni” brontolò Erika, intrecciando le braccia sotto il seno appena accennato.
“Abbiamo una secessionista nel branco?” ironizzò Lance, guardandola con ironia.
Erika arrossì un po’, prima di mugugnare: “Mio cugino è Fenrir, eppure non lo trattano neppure con un decimo del rispetto dovutogli. Beh, non mi va. E bisognerebbe farglielo notare, prima o poi.”
“Ben detto” annuì Lance, dandole una pacca sulla spalla.
Erika restò esterrefatta. E pure io, a dir la verità.
Da quel che avevo capito, e visto, Lance non dava confidenza a nessuna lupa.
Lasciarsi andare a un simile gesto anche con Erika, e non solo con me, mi lasciò ben sperare per lui.
Forse, stava guarendo.

***

A cena, dopo averne parlato con Duncan, notai il suo viso rilassarsi gradatamente, forse non del tutto pacificato, ma sicuramente più tranquillo rispetto al giorno in cui mi aveva vista crollare davanti ai suoi occhi.
Per chetare ulteriormente le sue paure, e forse anche le mie, gli chiesi di uscire con me e lui, obbediente, mi seguì finché non raggiungemmo i bei cespugli in fiore delle rose e dei gelsomini bianchi.
Il loro profumo, che galleggiava attorno a noi, portato da lieve brezza, mi confortò immediatamente.
Dopo aver inspirato piacevolmente quegli effluvi, sfiorai con mani leggere le foglie umide e i petali freddi dei fiori, sussurrando tra me alcune parole di una canzone.
Duncan mi osservò attento, i suoi occhi scuri nella penombra della notte, nostra unica fonte di luce il lampioncino crepuscolare della clinica.
Ferma in corrispondenza di una rosa color carne, la accarezzai distrattamente prima di voltarmi e sorridere a Duncan. “Come posso rassicurarti?”
“Non saprei neppure io” ammise, un sorriso appena accennato. “Cos’avete sperimentato, tu e Lance?”
“Un po’ di tutto” scrollai le spalle prima di notare il tosaerba, dimenticato in un angolo del cortile.
Sorridendo, lo fissai prima di dirgli: “Quello… sposterò quello.”
“E’ piuttosto pesante” mi fece notare Duncan.
Sogghignai, prima di concentrarmi sull’oggetto in questione, la mano sempre affondata nel cespuglio di rose, intenta ad accarezzare le sue foglie setose.
Come sempre avveniva quando richiamavo il potere, avvertii una sorta di onda leggera attraversare il mio corpo prima che essa raggiungesse la mia mente, dove si librò in mille colori diversi, creando un arcobaleno infinito.
Assottigliando gli occhi, mi concentrai sul tosaerba che, dopo un istante, cominciò a rotolare sulle sue ruote di plastica, venendoci incontro sotto gli occhi sorpresi di Duncan.
Lui mi fissò un attimo, sbalordito, mentre il tosaerba continuava ad avanzare, il mio battito cardiaco perfettamente sotto controllo e il respiro regolare, per nulla accelerato nonostante lo sforzo che stavo compiendo.
Quando infine raggiunse i piedi di Duncan, il tosaerba si fermò, io mi rilassai e, fissandolo con un gran sorriso, sentenziai: “Ebbene? Puoi sentire anche tu che il mio cuore non è in sofferenza, no?”
Annuì, i suoi occhi fissi su di me mentre un sorriso leggero si apriva sul suo viso, emblema stesso della sua ritrovata serenità.
Mi si avvicinò in due passi, sollevandomi in aria come aveva fatto Lance quel pomeriggio, nella stalla e io, aggrappandomi alle sue spalle, risi con lui dicendo: “Noto che sei contento.”
“Di più!” esclamò lui, rimettendomi a terra per abbracciarmi con forza. “Sei stata bravissima, Brie… eccezionale!”
Io tentai di non pensare troppo al fatto che le sue braccia mi stavano stringendo, o avrei perso il contatto con la realtà, cercando di ottenere troppo da quel gesto di per sé innocente.
 Non potevo pretendere di più, dovevo accontentarmi, non cercare l’oro laddove non c’era.
Risposi semplicemente all’abbraccio, appoggiando il capo contro il suo torace e, con un sospiro, mormorai: “Sono la tua wicca. Non mi permetterei mai di deluderti.”
“Non potresti” replicò, semplicemente, scostandomi quel tanto per potermi guardare in viso, il sorriso ancora dipinto sul suo viso perfetto.
Buona, Brianna, non pensare a quello che stai pensando, mi ammonii in fretta, cercando di distogliere lo sguardo dalle sue labbra carnose e a portata di bacio.
Sciocca, a lui non interessi in quel senso. Frena i bollori e non renderti ridicola, mi dissi con ancora più enfasi, continuando però ad assaporare il calore del suo corpo e della sua aura, stesa attorno a entrambi come una coperta di velluto.
Era così facile illudersi, quando lui mi trattava così gentilmente.
Jasmine mi aiutò a uscire da quello stato di trance aggrappandosi alle mie gambe, desiderosa di salire in braccio.
Scoppiando a ridere, mi scostai da Duncan per accoglierla tra le mie braccia e sussurrare: “Ciao, stupenda. Sei a caccia di topolini, o hai già trovato qualcosa?”
Duncan sorrise divertito, carezzando la sua gatta, che esplose in un’ovazione di fusa che mi fece vibrare la cassa toracica.
Ammiccando, mi confidò: “La nostra Jasmine non ama mangiare topolini, eh? Lei è di palato più raffinato.”
“Non li caccia?” chiesi sorpresa, cercando di non pensare al nostra che aveva appena usato per parlare di Jasmine.
“Oh, sì, tiene la stalla al sicuro da condomini indesiderati, ma poi li getta nel bosco. Lei non ne vuole sapere di mangiarli. Preferisce che io le prepari del pollo, o del pesce” scrollò le spalle Duncan.
“Cara Jasmine… l’hai proprio piegato al tuo volere, questo grosso licantropo, eh?” ridacchiai, stringendola al petto e poggiando la guancia sul suo morbido pelo.
Lei mi leccò il mento un paio di volte prima di strofinarsi contro di me e, infine, saltare sulle spalle del padrone per poi appollaiarsi lì, simile a una stola vivente.
Risi divertita e Duncan, grattandola sotto il mento, mi prese per mano e disse: “Vieni, rientriamo in casa. La serata è dolce, per il momento, ma si sta avvicinando un temporale, e non voglio tu prenda freddo.”
Annuii, accettando la sua mano e le sue premure. Non potendo ottenere altro, avrei dovuto accontentarmi di questo.
Ero la sua wicca. Non potevo sperare in nulla di più.




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N.d.A.: mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate di questo capitolo. Grazie, comunque, per aver letto! :)


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Capitolo 19
*** XIX. ***


N.d.A.: avviso ai lettori. Alcune scene sono un po' cruente.



XIX. 


 
 


 

Con mia grande sorpresa – e ammetto, un pizzico di gioia puramente femminile – Sarah giunse da noi, il pomeriggio del novilunio, con un gran fagotto sottobraccio e un sorriso stampato sul volto.
Fiera, mi disse: “Il tuo vestito per l’Iniziazione, wicca.”
Eccitata come una bambina con un giocattolo nuovo, corsi al piano superiore, seguita più lentamente da Sarah, e poggiai sul letto la busta nera contenente l’abito, aprendo poi la zip che nascondeva il suo interno.
Strabiliata, fissai senza parole il lungo vestito di raso nero in essa contenuto e, con dita esitanti, lo sollevai per ammirarlo alla luce del sole pomeridiano, che filtrava dalle imposte aperte.
Il taglio era semplice; lungo e sfiancato, raggiungeva le caviglie, dove si svasava leggermente a formare quasi una calla capovolta.
Senza maniche, aveva spalline leggere intessute con fili d’oro e, sullo scollo a V , uno stupendo ricamo a forma di luna faceva bella mostra di sé, brillando debolmente alla luce del sole.
Stringendomelo al petto, abbracciai fulminea Sarah, prima di chiederle: “Perché questo dono?”
“La wicca deve avere un abito speciale, il giorno della sua Iniziazione al Vigrond. Non avrei mai permesso che tu andassi là in pantaloni e maglietta” mi sorrise Sarah, carezzandomi delicatamente il viso.
Era difficile pensare a lei come Freki, quando era così dolce e tenera.
Mi fece accomodare allo scrittoio e lì, cominciando a spazzolarmi i capelli, sentenziò: “Mi occuperò io di te, oggi.”
“Grazie” le sorrisi deliziata, indirizzandole un’occhiata grata attraverso il riflesso dello specchio.
Lei ricambiò il sorriso, spazzolandomi teneramente la chioma, prima di informarmi su ciò che mi avrebbe aspettato al Vigrond. “Stasera saranno presenti, oltre al Consiglio, i maggiori Mánagarmr di tutto il clan. E’ una serata importante, questa, poiché ora anche noi avremo una wicca che ci consiglierà e veglierà su di noi.”
“Sempre che superi la prova, e Marjorie non mi ammazzi prima” ammiccai, socchiudendo gli occhi.
Mi aveva sempre rilassato molto, farmi pettinare i capelli.
Mi ricordava i momenti in cui mamma lo faceva, ridendo di questo o quell’antefatto, mentre io le spiegavo ciò che mi era successo a scuola.
Sentivo tremendamente la mancanza di quei momenti e stare lì con Sarah, che si prendeva cura di me come se fossi stata una sua figlia, mi fece percepire con ancora maggiore forza la mia perdita.
Avrei voluto averla al mio fianco, quel giorno. Ma così non sarebbe stato.
“Sciocchezze” asserì Sarah, con un piccolo sogghigno. “Non fallirai.”
“Tu hai mai fallito?” le chiesi, non potendo esimermi dal chiederglielo.
“Come Freki?” replicò lei, pacata.
“Sì” annuii io.
“No.”
Una sola parola. No.
O non voleva parlarne, o Sarah sapeva perfettamente il fatto suo.
Mi sorrise con enfasi, sollevando un sopracciglio con ironia.
Ghignando nervosa, le dissi: “Ti diverti alle mie spalle, facendomi tremare di paura, vero?”
“Un po’, lo ammetto” annuì Sarah, prima di posare la spazzola sullo scrittoio e aggiungere: “Ce l’abbiamo nel sangue, Brianna. Non è come nascere Fenrir, ma il nostro capo-clan riconosce subito chi deve detenere quel ruolo. Duncan mi nominò Freki subito dopo… beh, subito dopo la sua investitura.”
Nel dirlo, aveva esitato un momento. Cosa diavolo era successo, quella notte?
“Duncan mi ha detto che è stato eletto sedici anni fa. Il che vuol dire che aveva appena quattordici anni. Connor era davvero così giù di tono da non poter detenere il potere ancora per qualche anno?” mi domandai a voce alta, cercando di arrivare alle mie risposte in maniera indiretta.
“Connor ebbe un infarto piuttosto grave, Brianna. Per questo, si vide costretto ad abdicare dal suo ruolo. Sapevamo tutti perfettamente che Duncan era troppo giovane per prendere le redini del comando, ma Connor preferì così” mi spiegò Sarah, aggrottando la fronte. “Mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente, se Connor non avesse avuto quel cedimento.”
“Un infarto?”esalai sorpresa.
Sarah ammiccò, venendo poi incontro alle mie domande inespresse. “Non moriamo solo a causa dell’argento. E’ vero che non possiamo ammalarci a causa di virus e batteri, - pur se prendiamo anche noi il raffreddore - ma questo non vuol dire che, in età avanzata, il nostro corpo non abbia dei cedimenti come quello umano.”
“Ah” mormorai sconcertata.“Quindi, se ho capito bene, Connor ha abdicato subito dopo l’infarto, eh?” aggiunsi poi, dubbiosa.
“Sì, perché?” mi chiese, vagamente curiosa.
“Non poteva semplicemente delegare parte dei suoi doveri a Sköll, e continuare a detenere la corona fino alla maggiore età di Duncan?” le chiesi, pensando di dire una cosa ovvia.
Sarah mi fissò per un minuto buono come se avessi avuto le corna e la coda, prima di affilare lo sguardo e sentenziare: “A volte mi chiedo se siamo idioti, o se gli agi del mondo moderno hanno rallentato le nostre percezioni.”
“Ah, vedo che hai capito cosa volevo intendere” ammiccai, adombrandomi in viso.
“Purtroppo sì” sospirò Sarah, sedendosi sul letto mentre io mi voltavo a osservarla. “Eravamo tutti così in ansia per le sue condizioni di salute, che non abbiamo minimamente pensato che la sua decisione di abdicare potesse essere frutto di un qualche tipo di macchinazione. Perché avremmo dovuto pensarlo, dopotutto?”
“Un capo debole può attirare l’attenzione dei clan vicini. Uno giovane, pur se inesperto, ma guidato da un Consiglio forte, non avrebbe portato su di sé le mire di Fenrir senza scrupoli, decisi ad allargare i propri territori” ipotizzai, rimuginando su ciò che Sarah mi aveva appena detto. “Duncan ha lasciato una così larga fetta di potere al Consiglio, per questo motivo? Perché era giovane e ancora impreparato al suo ruolo?”
“Non solo” mormorò torva Sarah. “Se ce ne fossimo accorti per tempo, forse… ma ormai non si può ricomporre un uovo rotto.”
Sospirando, le chiesi: “Sarah, puoi dirmi cosa successe, la notte dell’investitura di Duncan?”
Lei mi fissò con i suoi profondi occhi scuri e, scuotendo il capo, disse solo: “Se la quercia sacra vorrà parlartene, sarà lei a farlo. Io devo rispettare il veto.”
“Duncan ha imposto un veto?” esalai, più che mai sorpresa.
“Sì” disse solo lei, lasciandomi con mille dubbi a cui dare una risposta.

***

Ferma ai piedi delle scale, le mani rese umide e scivolose dal nervosismo, mi volsi di scatto non appena sentii scendere Duncan dabbasso.
Basita, spalancai gli occhi per la sorpresa e l’apprezzamento, quando notai come si fosse abbigliato per quella serata così speciale.
Indossava una magnifica camicia di raso color ghiaccio, che scivolava sul suo petto disegnandone morbidamente i muscoli pronunciati.
I pantaloni, in gessato grigio a righe bianche, fasciavano le sue gambe diritte e flessuose, rendendo ancor più armonico ogni suo movimento.
Ai piedi portava scarpe nere e lucide. Nel complesso, insomma, era uno splendore.
Sbattendo più volte le ciglia, esalai: “Beh, che dire… complimenti.”
“Grazie” mormorò.
Apparentemente incapace di distogliere lo sguardo da me, mi squadrò da capo a piedi, forse sorpreso da ciò che vide.
Oltre all’abito portatomi da Sarah, indossavo anche un leggerissimo scialle di impalpabile seta nera a ricami argentei e un girocollo da cui pendeva un’unica, enorme perla a goccia, sempre dono di Sarah.
Di sicuro, non mi aveva mai vista conciata a quel modo.
“Stasera, comunque la stella sarai tu” mormorò roco.
“Ne dubito” ironizzai, riuscendo in qualche modo a sfuggire al suo sguardo.
Passai nervosamente le mani sull’abito, che mi scivolava sul corpo come una seconda pelle, disegnando le mie forme come se non avessi avuto nulla addosso oltre all’aria che mi circondava.
Non ero esattamente a mio agio, ma Sarah mi aveva assicurato che ero bellissima e, poiché avevo percepito la verità nel suo dire, non potevo neppure accusarla di essere una bugiarda.
A volte, non ero del tutto certa che avere quel potere fosse piacevole.
Distogliendomi a quei pensieri con il suo ingresso in grande stile, Jerome si avvicinò a noi con una mano sollevata e un sorriso stampato sul volto sbarbato.
Sorridendo di rimando, lo ammirai nel suo completo total black prima di vederlo sgranare gli occhi e sentirgli dire: “Accidenti a te, Brie. Sei un’autentica bellezza!”
Ridacchiai, divertita dalla sua espressione basita, e replicai: “Anche tu stai molto bene. Sembri un gangster, lo sai?”
Lui ammiccò come un divo degli anni cinquanta e mormorò con voce sensuale, passandosi svogliatamente le unghie sulla camicia: “Tesoro, io lo sono.”
A quel punto risi di gusto – Jerome aveva sempre quell’effetto, su di me – prima di notare lo sguardo leggermente accigliato di Duncan.
Rivolgendosi al cugino, lo minacciò torvo: “Mi raccomando, stasera. Non voglio che arrivi con l’abito strappato, o i capelli pieni di foglie. Sei tu responsabile per lei.”
“Non le succederà nulla, Duncan. So correre anch’io attraverso i boschi senza fare danni” sorrise bonario Jerome, prendendomi per mano per poi aggiungere: “Il punto è che preferirei andare da un’altra parte, stasera, invece che a quella noiosa pagliacciata.”
Io socchiusi le palpebre, abbellite da ombretto dorato, e mugugnai: “Come ti capisco, Jerome.”
Duncan non si divertì affatto, però, e richiamò all’ordine il cugino dicendo seccamente: “Ora basta. La faccenda è seria, e come tale va gestita. Vai, e vedi di non fare confusione.”
“Signorsì, comandante!” esclamò Jerome, del tutto intenzionato a non lasciarsi scoraggiare dallo sguardo uggioso del cugino. “Vieni, mia bella signora di nero vestita.”
Io mi volsi a salutare Duncan, solo per scoprire che il suo sguardo era fisso sul cugino con un livore tale che, per un momento, temetti di vederlo balzare contro di lui per azzannarlo. Me ne chiesi il motivo.
Subito dopo, non appena sentì su di sé il mio sguardo, si calmò e sorrise, carezzandomi una guancia.
“Non badare alle sue sciocchezze, e non essere in ansia. Non succederà nulla, poiché tu sei pronta e noi saremo al tuo fianco per spalleggiarti.”
“Lo spero” mormorai, sfiorando la mano poggiata sulla mia guancia prima di allontanarmi assieme a Jerome.
L’oscurità quieta della notte ci avvolse con il suo mantello e, lasciandomi prendere in braccio da Jerome, gli avvolsi il collo con le braccia e dissi: “Conducimi verso il mio destino, allora.”
“Come comandi” assentì, cominciando a correre in direzione del bosco, leggero come il vento e altrettanto veloce.
Come Duncan, anche Jerome sapeva muoversi con l’agilità di una pantera e la stessa grazia ferina – se avessero saputo che li paragonavo a grossi gattoni, probabilmente avrei passato un brutto quarto d’ora.
L’effetto, comunque, rimaneva quello.
Scivolammo nel bosco come ombre evanescenti, attraversandolo abbastanza velocemente da non permettermi di riconoscere nulla attorno a me, nonostante un debole bagliore illuminasse ogni cosa.
Sapevo cos’era. L’energia sprigionata dalle creature viventi, che io potevo scorgere come baluginii spettrali simili alla bioluminescenza delle lucciole nella notte.
Mi accontentai di percepire quella forza indistinta che mi avvolgeva come una coperta, dandomi calore e conforto.
Senza badare alla direzione presa da Jerome, ascoltai i rumori del bosco e le voci dei suoi abitanti, consapevoli che, quella notte, avrebbero dovuto tenersi ben alla larga dall’enorme quercia secolare che cresceva nel centro della foresta.
Non appena fummo in prossimità del Vigrond, Jerome si fermò e, posandomi a terra, sussurrò: “Se percepisci anche per un solo momento che qualcosa non va, fermati. Il potere della quercia è enorme, e voglio che non ti succeda nulla.”
Gli sorrisi, lieta del suo interessamento e, rivolta a quel viso in ombra che a malapena riuscivo a scorgere, mormorai: “Non aver paura per me. La sento.”
“Come?” esalò lui, sorpreso.
Non appena i miei piedi avevano sfiorato il sottobosco spugnoso e ricco di vita – avevo preferito non indossare le scarpe, per poter avere un contatto diretto con la terra –, l’energia vitale della quercia mi aveva raggiunto e aveva avvolto la mia mente in un coro di voci e suoni, simili all’eufonica armonia di un’orchestra perfettamente accordata.
Flauti e viole si fondevano a ottoni e pianoforte, il tutto mescolato a voci vecchie di secoli, che mi diedero il benvenuto nel luogo in cui vita e morte si mescolavano in un tutt’uno.
Lì, le memorie di coloro che furono erano in contatto con coloro che ancora camminavano sulla Terra, uniti da un’unica discendenza e da un unico scopo.
Camminai sul fogliame, sapendo perfettamente dove andare nonostante non vedessi a un palmo dal naso.
Solo i contorni indistinti delle piante mi erano chiari, grazie all'energia residua che ne tingeva le forme con sfumature dorate.
Jerome, accanto a me, mi teneva per mano senza dovermi guidare, io già protesa ad ascoltare il vociare sommesso della quercia che, come un’enorme presenza vitale all’interno del bosco, mi chiamava a sé per conoscermi.
“E’ immane, la forza che porta con sé da secoli” sussurrai ammirata.
“Percepisci il suo respiro?” mi chiese Jerome, la voce eccitata.
“Sì” sussurrai, estasiata e incapace di esprimere a parole ciò che stavo provando in quel momento.
Il suono era più forte, ora, e i contorni di un’enorme quercia dalla chioma a ombrello si aprirono di fronte a me ,con toni dell’amaranto e del rame.
Pulsava di vita e, nel contempo, in essa scorrevano ricordi vecchi di secoli, forse millenni, di gente appartenente al mondo dei morti da prima che io avessi esalato il mio primo vagito in questo mondo.
Avvertii vagamente la presenza di altri licantropi intorno a me, tutti raggruppati nell’enorme radura che si estendeva di fronte alla quercia sacra del Vigrond.
Scrutandoli e percependo le loro auree come fari nella notte, commentai: “Un bel gruppetto, eh?”
“Non averne paura” asserì Jerome, prima di indirizzarmi verso Duncan e Lance, giunti prima di noi.
Lance, per quella sera, aveva indossato una camicia scura – non avrei saputo dire il colore esatto – e pantaloni in tinta e, a braccia conserte e con lo sguardo cupo, fissava la folla di licantropi come se fosse stato pronto a dar battaglia al minimo segnale di nervosismo.
Hati era lì per uccidere, quella sera, qualora ve ne fosse stato bisogno.
Li salutai con un cenno, prima di rendermi conto che anche gli altri licantropi erano riccamente abbigliati.
Ergo, era una cerimonia diversa dal solito, visto che nessuno era in forma animale.
Duncan mi fissò per un momento, avanzando poi di un passo per esclamare a gran voce: “Come promesso al Consiglio, la nostra ospite si è presentata qui per renderci partecipi dei suoi doni! Spero che, dopo questo assaggio del suo potere, la faida che avete scatenato contro di lei svanirà come neve al sole.”
Tra la folla di presenti, oltre ovviamente a Connor e Sheoban, scorsi anche Marjorie.
Pur non potendo più presiedere alle sedute del Consiglio, era comunque una delle Mánagarmr più potenti della zona, quindi non avrebbe mai potuto mancare a un evento simile, forse desiderosa di essere presente alla mia sconfitta.
Con mio sommo sgomento, notai quanto fosse elegante e maledettamente bella, nel suo lungo e succinto abito di taffetà bianco, più simile a un’esile camicia da notte che ad altro.
 Provai un profondo senso di inadeguatezza, quando la guardai.
Duncan, però, non la degnò neppure di un’occhiata.
Marjorie rispose a quella totale mancanza di interesse, avanzando di un passo e mettendosi in mostra dinanzi a tutti per replicare ironica: “Dubito fortemente che quella ragazzina sia in grado di toccare la quercia senza morirne ma, se tu sei deciso a ucciderla di tua mano, fai pure, Fenrir. Assisteremo alla sua morte con piacere.”
Duncan assottigliò le palpebre, fissandola rabbiosamente, prima di sibilare: “Non ti è stato chiesto alcun parere, Marjorie. Non costringermi a bandirti anche dal Vigrond.”
Un mormorio di voci sorprese si diffuse tra i presenti – forse non aveva esattamente pubblicizzato la sua uscita dal Consiglio – e Marjorie, avanzando di un passo verso di noi, lo sguardo cinico e sprezzante, aggiunse: “Ti comporti da dittatore, da quando questa ragazzina è giunta tra noi. Mi viene il sospetto che sia lei a muovere i fili del nostro grande Fenrir, non tu stesso.”
Le voci si fecero indignate, mentre Jerome e Lance si facevano nervosi alle mie spalle, e il viso di Duncan si tingeva d’ira a stento repressa.
Marjorie sorrise soddisfatta, forse lieta di aver fatto innervosire il suo Fenrir.
A quel punto, la affrontai verbalmente, rispondendo alla sua tirata con una certa acredine: “Certo che, a dare aria alla bocca, sei davvero brava.”
“Tu, piccola…” ringhiò lei, avvicinandosi di un ulteriore passo e puntando direttamente verso di me.
Io indietreggiai, lesta, per raggiungere la quercia senza mai perdere il contatto visivo con lei e, con voce resa roca dalla rabbia che anch’io provavo, asserii senza mezzi termini: “Mi volevate immolare come agnello sacrificale, al solo scopo di dimostrare che il vostro Fenrir aveva commesso un errore. Beh, in errore siete voi!”
Detto ciò, poggiai una mano sulla nodosa corteccia della quercia, sprigionando il mio potere e lasciando che quello del Vigrond mi invadesse.
Cori sorpresi e volti sgomenti si aprirono tra i licantropi presenti, non appena il mio corpo e quello della quercia si illuminarono come stelle.
Io stessa avrei voluto gridare di paura e sconcerto, quando vidi me stessa splendere come se avessi preso fuoco.
A quel punto, però, ero troppo concentrata sull’enorme quantità di dati che, la quercia, stava riversando dentro di me come un fiume in piena.
Non potei certo badare allo stupore generale, né alla faccia sconvolta di Marjorie che, pian piano, si tinse di furore cieco, alterando i bellissimi tratti del suo viso.
Sprigionando il mio potere, avevo reso noto a tutti anche il mio patto di sangue con Duncan, e  questo la rese letale come un cobra aizzato contro la preda.
Riuscii a percepire con chiarezza l’aura latente di Duncan venire sprigionata dal mio stesso corpo, segno inequivocabile di ciò che io e Fenrir avevamo condiviso.
Sotto i miei occhi terrorizzati, vidi Marjorie farsi sempre più scura in volto finché il suo corpo perfetto cambiò, mutando in qualcosa che non avevo mai visto, se non nei film dell’orrore.
Sgomenta, la guardai mentre sollevava una mano artigliata, in parte coperta dal pelo rossiccio del lupo che era in lei.
Come una furia, si lanciò verso di me gridando: “Ti ha dato il suo sangue, maledetta!”
Incapace di muovermi, immobilizzata com’ero dal potere della quercia sacra, fissai i suoi artigli avvicinarsi pericolosamente a me, mentre tutt’intorno a noi la confusione regnava sovrana, di fronte al gesto insensato di Marjorie.
Fu Duncan a muoversi per primo, impedendole di colpirmi.
Utilizzando la stessa tecnica di Marjorie, mutò unicamente la parte superiore del corpo in quella creatura che non era né lupo né uomo e, con la mano piegata ad artiglio, la intercettò bloccandola al collo.
Senza difficoltà alcuna, la sollevò di peso, incurante del suo scalciare convulso.
Forse mi urlarono qualcosa, ma non seppi dirlo con certezza; il mio corpo era interamente avvolto dal potere del Vigrond.
Esso mi teneva avvinghiata a sé, e solo gli occhi erano liberi di scorgere impotenti ciò che avveniva intorno a me.
Duncan gridò qualcosa a Marjorie, il viso ancora distorto dalla rabbia, prima che lui le squarciasse la gola con gli artigli, lasciandola poi ricadere a terra grondante di sangue.
Rantoli convulsi si espansero intorno a tutti noi, ammorbando l’aria mentre il mio sguardo rimaneva avvinghiato a lei, immersa in un lago di denso liquido scarlatto.
Il suo sangue.
Quella vista mi fece raggiungere un luogo simile, nei reconditi anfratti della memoria della quercia e, quando vidi quelle scene di lotta cruenta, urlai.
Urlai così forte che ogni volto presente al Vigrond si volse verso di me, mentre io mi ripiegavo su me stessa, graffiandomi viso e braccia nel vano tentativo di cancellare quelle immagini spettrali, inondate di sangue fresco e lucente.
Alcune voci si affollarono intorno a me, mentre mani calde mi bloccavano, ormai del tutto incapace di comprendere cosa stesse succedendo.
Solo quell’incubo a occhi aperti aveva senso. Null’altro.
Sentii vagamente la voce di Duncan, ma non seppi dire se apparteneva alla realtà o all’incubo che stavo vivendo quando, finalmente, persi conoscenza.

***

“… non ti permetterò di farlo!” gridò una voce, facendosi strada nel mio subconscio malandato.
“Sono un dottore, Duncan, e non mi interessa un accidente se tu non vuoi lasciarmelo fare! Ha bisogno di tutto il calore possibile, e non del nostro potere. Altra energia psichica la ucciderà!” ringhiò l’altra voce, più vicina a me.
Un grugnito, una porta sbattuta con violenza e un sospiro.
Un fruscio di acqua. Vapore. Caldo.
Sì, avevo bisogno di caldo. Sentivo ghiaccio attorno a me. Ghiaccio e morte. E sangue rappreso. Il suo tanfo dolciastro mi invadeva le nari, inondandomi di ribrezzo.
“Cerca di calmarlo, prima che butti giù la casa con noi dentro” disse la voce, ora stanca e roca, mentre un getto di acqua bollente mi colpiva. Sospirai, forse.
“Sarebbe come cercare di impedire al sole di sorgere. Hai visto com’era ridotto, no?” replicò una terza voce, tesa come una corda di violino.
“Vai, ora. Non voglio che si senta in imbarazzo più di così.”
Una porta venne aperta e richiusa con delicatezza. Altra acqua. E nuovamente l’oblio.

***

Vagavo senza meta in un limbo freddo e cupo, circondata da qualcosa di simile a una foresta priva di vita.
Gli alberi scheletrici la facevano da padrone, e un sottobosco di foglie secche - in procinto di polverizzarsi - scricchiolava macabro a ogni mio passo.
Non sapevo dove mi trovavo, ma osservai avida ciò che si trovava intorno a me, quasi fosse un obbligo.
All’improvviso il vuoto, un grido – forse il mio – e nuovamente una foresta, stavolta rigogliosa e ricca di vita,… e una casa.
La riconobbi. Era quella di Duncan, solo priva della stalla.
Mi avvicinai, desiderosa di capire cosa stesse succedendo e, affacciandomi curiosa alla finestra che dava sul salotto, vidi una graziosa bimba di circa dieci anni intenta a giocare con le bambole.
Il viso era paffuto, circondato da boccoli scuri come pece e due occhi smeraldini brillavano sereni su quel volto angelico.
Con un brivido, rammentai altri occhi in tutto simili a quelli. Duncan.
Sbalordita, fissai la bambina festante fin quando, una donna elegante e bella, entrò nella stanza, la baciò sul capo e le disse dolcemente: “La mia Hope… vuoi venire con la mamma a fare spesa?”
La bimba annuì prima che l’immagine svanisse, lasciandomi stordita e fredda.
Un letto… no, un sudario. E il volto cinereo della bimba, di Hope. Cori di disperazione, pianti. Lutto feroce.
Di lei potevo scorgere solo il viso, perfetto nella morte, ma tutto ciò che prudentemente – e misericordiosamente – era stato coperto con un telo di lino scuro, era informe, del tutto irriconoscibile. Cosa le era successo?!
Mi scostai, inorridita dalla sua sorte, prima di venire inghiottita dal vuoto, ritrovandomi distesa in quello stesso salotto, le voci di tre bimbi che giocavano con alcune macchinine, incapaci di vedermi.
Non me ne stupii; ormai avevo capito, più o meno, cosa mi stava succedendo.
Stavo percorrendo i  ricordi della quercia, solo non sapevo in che ordine temporale.
Mi misi seduta, intenta a osservare i tre bimbi giocare. Uno aveva boccoli biondo oro, tagliati appena sopra le orecchie, mentre gli altri due, apparentemente più piccoli, erano mori e molto simili tra loro.
Un singhiozzo mi salì alla gola. Lance, Duncan e Jerome!
Impulsivamente, mi mossi verso di loro, pur sapendo che non avrei potuto toccarli, quando mi ritrovai ad affondare letteralmente dentro le loro anime pure e incontaminate di bambini.
Percepii un calore improvviso, dopo tutto quel freddo glaciale, e compresi.
Capii che quel riconoscimento istantaneo, quella sensazione di dejà-vu era dovuta al fatto che, effettivamente, io e loro ci eravamo già incontrati, le nostre anime si erano già toccate, accettandosi reciprocamente.
Quando uscii dai loro corpi, invasa da una sensazione d’amore dilagante per loro, li vidi confusi, mentre si guardavano l’un l’altro turbati, solo vagamente consapevoli di quel che era successo.
Fu a quel punto che, la donna del ricordo precedente, apparve nel sogno a occhi aperti che stavo vivendo, chiamando Duncan e ricevendo come risposta un ‘sì, mamma?’.
Madre. Lei. Era. Sua. Madre.
Dio. Quella bimba morta che avevo visto poco prima, era sua sorella!
Contrariamente alla scena precedente, non vidi amore negli occhi della donna, solo aspettativa, e urgenza.
Un’urgenza quasi volgare, che mi spinse a chiedermi il perché di quel comportamento.
Quando percepii che il vuoto era pronto a riavvolgermi tra le sue spire di morte, urlai i loro nomi, scorgendo i loro volti volgersi verso di me in risposta al mio richiamo.
Sorrisi, prima di svanire nuovamente nell’oblio.
Man mano che scivolavo attraverso la memoria secolare della quercia, vidi corpi e ceneri di licantropi sepolti nella terra sacra del Vigrond, percepii le loro anime svincolarsi dai legami con la materia mortale cui erano state legate con il primo alito di vita, e le vidi tornare alla Madre come una miriade di corpi pulsanti come stelle.
A ogni morte, si creavano nuove anime. A ogni nuova nascita, un’anima riempiva di vita il corpo ospite, in un ciclo senza fine.
Sorrisi, nel comprendere che tutti noi non eravamo altro che anime destinate a corpi mortali solo per un breve lasso di tempo e che, rinascita dopo rinascita, tornavamo a nuova vita grazie alla Madre.
Capii anche che il mio spirito, già appartenuto al branco di Duncan, aveva preso contatto con quelli dei tre Gerarchi prima ancora di rinascere in forma umana, scegliendo e lasciandomi scegliere da loro per creare un legame più forte del tempo e dello spazio.
Avevamo accettato di unirci prima ancora della mia nascita, legati dal profondo amore che l’anima - che ora mi dava vita - aveva provato per quegli spiriti, tanto da spingerla a ritrovare il suo antico retaggio.
Un altro balzo, stavolta più violento dei precedenti, e vidi il Vigrond, un giovane trio di ragazzi fermi in mezzo alla radura.
Erano circondati da un Connor sofferente, una Sheoban sorniona e ferocemente soddisfatta, oltre a un uomo e una donna irritati e combattivi. I genitori di Duncan.
Urla si levarono tra i contendenti, mentre un giovane Duncan osservava ai limiti della vergogna i propri genitori, mentre offendevano il neonato Consiglio e Fenrir con le loro pretese insensate.
Vidi Connor levare una mano per difendersi dall’attacco proditorio del padre di Duncan che, senza alcun preavviso, si scagliò contro di lui sotto gli sguardi attoniti del Consiglio.
Duncan urlò, Lance lo bloccò e Jerome si strinse a loro, piccolo bimbo di dieci anni gettato nel mezzo di un’arena in cui la vita e la morte ballavano a braccetto.
Sangue, artigli e zanne.
Tutto questo si fuse insieme, in una danza di spettri cui dovetti fare da spettatrice silenziosa, desiderosa di comprendere ma attonita di fronte a tanta violenza.
 E così seppi.
Seppi dell’odio covato nel cuore di Duncan nei confronti della sua famiglia, che aveva cercato di spodestare il ruolo del neonato Consiglio e di Fenrir stesso per ergersi al di sopra di tutti, sperando a quel modo di governare sul clan tramite il figlio.
Seppi dell’uccisione dei coniugi McKalister, divorati dal branco perché non ritenuti degni di essere sepolti nell’abbraccio della Madre.
Seppi del dolore di Duncan, nato solo per permettere ai genitori di portare avanti il segreto - quanto impossibile - desiderio di guidare i licantropi attraverso di lui.
Poiché la primogenita era morta durante il Cambiamento, prima di poter loro permettere questo, avevano puntato tutto su Duncan.
Seppi così anche dell’orrendo, quanto diabolico, patto con cui Sheoban incatenò Duncan al Consiglio, impedendogli di fatto di essere Fenrir a tutti gli effetti.
Legandolo a loro con l’onta dei genitori a gravare sulle sue giovani spalle, lo destinarono a un futuro di sacrifici, vittima ultima di una follia cui non era stato attore principale, ma solo spettatore innocente, e di cui avrebbe portato le catene giorno dopo giorno.
La rabbia che provai nei confronti di Sheoban per quello che aveva fatto a Duncan, per quello che i suoi genitori gli avevano fatto, mi ricondusse a galla, lontana dal freddo di quei luoghi, più vicina alla luce… alla vita.
Scorsi altri blandi ricordi di vecchie wiccan, dei loro grimori e delle Parole del Potere, ma non vi badai.
Io agognavo a raggiungere la luce che scorgevo sopra di me.
E fu così che riaprii gli occhi. 



_______________________________
N.d.A.: finalmente anche il passato di Duncan è stato svelato e, con esso, i motivi per cui è così legato al Consiglio e al Branco. Da uno a dieci, quanto siete arrivati/e a odiare Sheoban? ;)
Grazie a tutti coloro che hanno letto!

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Capitolo 20
*** XX. ***


N.d.A.: ne succedono di cotte e di crude... poi mi saprete dire. :) Buona lettura!


XX. 



 


 

Presi fiato come se fossi sul punto di annegare, o come se quello fosse il mio primo vagito nel mondo e, con dolore, aprii gli occhi.
La luce invase le miei iridi, provocando altro dolore, cui seguì un singulto strozzato e un sospiro.
Due mani afferrarono le mie, mentre una voce roca e tesa esalò: “Brianna. Brie. Mi senti?”
Stentai a mettere a fuoco, intontita com’ero dai postumi del sogno, per cui impiegai parecchio tempo prima di capire che, colui che mi stringeva convulsamente le mani, era Duncan.
Il suo viso, illuminato dalla luce del mattino, era segnato da occhiaie profonde e le sue gote erano scure di una barba non fatta da giorni. Giorni?
Confusa, cercai di sollevarmi a sedere, ogni muscolo che gridava scandalizzato di fronte a quell’abuso, mentre le mani sollecite di Duncan mi sistemavano un cuscino dietro la schiena per permettermi di essere più comoda.
“Ma cosa…?” gracchiai, prima di rendermi conto di avere la gola riarsa.
Tossii un paio di volte, guardandolo confusa nel tentativo di ricordare qualcosa che non fosse lo strano sogno in cui ero caduta… quando? Non rammentavo nulla.
“Non parlare, sarai stanca. Ora bevi un po’ di the col miele, e vedrai che ti sentirai meglio” mi sollecitò lui, gli occhi accesi di gioia nonostante il suo volto fosse sconvolto dalla fatica. Ma perché? Cos’era successo?
Quando però avvicinò la sua mano, avvolta attorno alla tazza da the, rammentai ogni cosa. Ogni suono. Ogni odore.
E urlai.
Rammentai di avere già urlato, motivo primo della mia raucedine.
La mia mente tornò a sprofondare nella paura atavica provata di fronte al sangue di Marjorie, mescolata alla soverchiante incredulità di fronte al potere della quercia, che mi aveva invaso come un’infestazione di locuste in un campo di grano maturo.
Spinsi via Duncan, sempre continuando a urlare, decisa a non lasciarmi toccare da quella mano che, come un artiglio d’aquila, si era accanita su Marjorie, squarciandole la gola.
Ero terrorizzata. Non sapevo perché visto che Duncan, con il suo gesto, mi aveva salvata. Ugualmente, però, non lo volli vicino.
Turbato e spaventato a sua volta, Duncan si allontanò proprio mentre Lance, entrando di corsa nella stanza, gridava: “Vai via! Ora!”
Senza attendere un attimo di più, Duncan mi lasciò con Lance che, stringendomi i polsi perché non tornassi a ferirmi al volto con le unghie, mi ordinò con veemenza: “Brianna… Brie… calmati… calmati… non sta succedendo nulla… va tutto bene!”
“Il sangue, Lance… il sangue…è  morta… morta…” singhiozzai senza freni, addossandomi al suo petto prima di scoppiare in lacrime.
“Chi è morto, Brie?” sussurrò, cullandomi teneramente contro di sé.
“La… la sorella di Duncan… Hope… e i suoi genitori… tutti morti…” balbettai ancora, incespicando nelle parole mentre tossivo per la raucedine.
Lance mi accostò alla bocca la tazza da tè e io bevvi avida, bevvi quasi strappandogliela di mano, bevvi finché il fuoco dentro di me non fu estinto.
A quel punto lo guardai, gli occhi finalmente limpidi e la mente desta e pronta.
“Ora spiegami esattamente di che stai parlando, e del perché sai di Hope” mi ingiunse Lance, sistemandomi una ciocca di capelli con la mano enorme.
Gli spiegai del sogno, o meglio, dei sogni, e accennai a quanto avevo scoperto su di noi.
Sorrisi, quando lo vidi sobbalzare per la sorpresa, confuso non meno di me, anche se mi parve in qualche modo sollevato nell’apprendere la verità.
“Almeno so di non essere impazzito…” ammiccò Lance, prima di dirmi, più serio: “… quindi, hai visto tutto.”
“Ogni cosa. Ho la mente ancora bombardata di immagini, e sto faticando un casino per riordinare ogni cosa. Ma almeno adesso so. So cos’ha fatto Sheoban a Duncan, so perché lui si sente così legato al Consiglio… quella maledetta…” ringhiai, digrignando i denti prima di sentire male alle guance.
Tastandomele, le ritrovai coperte di sottili e lunghe croste in via di guarigione.
“Ho fatto a botte con Jasmine?”chiesi turbata.
“No, è tutta opera tua” mi spiegò Lance, accennando un sorrisino. “Quando hai visto Marjorie cadere a terra, sei uscita di testa, non mi viene in mente espressione migliore, e hai cominciato a graffiarti ovunque. Abbiamo faticato parecchio per tenerti ferma.”
Lo fissai a bocca aperta, rammentando sprazzi di immagini confuse, prima di ricordare un particolare curioso.
Sollevando un sopracciglio, gli domandai: “Mi hai fatto la doccia, per caso?”
Lui rise sommessamente, per nulla turbato, e annuì. “Per la verità, sotto la doccia ci sono finito anch’io, visto che non eri in grado di stare in piedi da sola. Spero di non averti offesa. Ma era l’unico modo per riscaldarti. Eri diventata un pezzo di ghiaccio, ed eri così satura di potere che, se anche solo avessimo tentato di riscaldarti con le nostre auree, ti avremmo uccisa.”
Deglutii a fatica, scuotendo il capo prima di esalare: “No problem. Hai fatto benissimo.”
“Immaginavo non avresti mosso obiezioni” sorrise, prima di aggiungere: “Non ho guardato, comunque.”
Sollevai scettica un sopracciglio, ben sapendo che mentiva - almeno in parte.
Scoppiando a ridere, Lance ritrattò. “Insomma, non ho guardato per guardare, se capisci che intendo.”
“Ho capito, Lance… non arrampicarti sugli specchi della semantica” commentai ironica.
“Se parli così, vuol dire che stai meglio” ammiccò, chiedendomi subito dopo: “Perché hai cominciato a urlare, prima?”
Arrossendo mio malgrado, mugugnai: “Ho rammentato quel che ha fatto Duncan e mi sono spaventata, quando me lo sono trovata vicino. So che è stupido, però… Dio, non sapevo che poteste mutare anche solo in parte… è stato…”
“Orrendo?” mi suggerì, venendomi incontro.
“Qualcosa del genere” ammisi vergognosa.
“Non credere che a noi faccia piacere vedere certe scene. Parecchi sono stati male, in seguito, soprattutto perché tu e la quercia avete riversato sul Vigrond talmente tanto potere da… beh, da ubriacare parecchi di noi” mi spiegò Lance, lanciandomi un’occhiata divertita.
“Eh? Ubriacare? Ci si può ubriacare di potere?” esalai sgomenta.
“Oh, sì. E comunque, anche Duncan è rimasto scioccato per quel che ha fatto. Non aveva mai agito con così tanta violenza, ma è pur vero che non è neppure mai stato attaccato con così tanta violenza, prima d’ora” precisò Lance.
“Marjorie… come sta?” chiesi titubante.
“Vive, se può farti star meglio. E’ in via di guarigione, ma ne avrà ancora per molto. La ferita che Duncan le ha procurato ha rischiato di ammazzarla” dichiarò sprezzante. La sua energia ribollente mi disse che pensava fosse un gran peccato che il colpo non fosse andato più a fondo. Rabbrividii al solo pensiero.
“E Duncan? Lui come sta? L’ho visto parecchio sbattuto…” aggiunsi, prima di ricordarmi della sua barba e chiedere, confusa: “…e con una barba incolta di giorni. Mi spieghi quanto tempo sono stata addormentata?”
“Otto giorni” ammise, sgomentandomi.
Affondai nei cuscini, basita, e gracchiai: “Mi prendi in giro, vero?”
“No, affatto” scosse il capo Lance, mettendo finalmente in mostra una traccia dell’ansia che, a sua volta, aveva patito in quei giorni d’inferno. “Ammetto di essermi spaventato parecchio, Brie, e non mi è piaciuto affatto. Ho dovuto alimentarti con le flebo, e Duncan non si è mai mosso da qui, temendo che tu ti risvegliassi e ti ritrovassi qui da sola. L’ho praticamente cacciato dalla tua camera quando, per quattro giorni di seguito, si è rifiutato di mangiare e dormire. E’ stata una lotta, tenerlo lontano dal tuo capezzale.”
“E io l’ho scacciato a quel modo” esalai, sentendomi prossima alle lacrime.
“Non ne hai colpa, eri spaventata e confusa. Sicuramente Duncan non se l’è presa… capirà” mi sorrise Lance, carezzandomi una guancia.
“Puoi… puoi farlo venire qui?” gli chiesi, mordendomi un labbro per l’ansia.
Annuendo, Lance chiuse un momento gli occhi prima di sorridere e dirmi: “Vi lascio soli. Dopo aver parlato con lui, riposa. Più tardi, ti porterò qualcosa di buono da mandare giù.”
Annuii prima di veder comparire Duncan sulla porta, esitante come un bambino di fronte a un genitore infuriato.
Lance mi sorrise, dandomi un bacetto sulla fronte prima di sussurrare: “Non farmi più spaventare così, piccola. Non sopporterei di perderti.”
Annuii ancora, sfiorandogli la guancia con la mano prima di vederlo avviarsi verso la porta, che chiuse alle sue spalle mentre Duncan si avvicinava a me.
Cauto, si accomodò sul bordo del letto, prima di intrecciare i suoi occhi ai miei.
Io sorrisi timida, afferrando una delle sue mani per stringermela al petto e sussurrare, a occhi chiusi: “Perdonami.”
“Non hai nulla di cui farti perdonare” precisò, arrischiandosi ad accarezzarmi il viso con la mano libera.
“Ti ho fatto soffrire ingiustamente,... ma ho avuto paura” aggiunsi, riaprendo gli occhi per intrecciarli nuovamente ai suoi.
Erano limpidi come il più perfetto degli smeraldi e, alla luce del sole, sembravano ancora più trasparenti del solito. “Non avrei dovuto.”
“Hai tutti i diritti di provare paura e confusione. Hai superato una prova difficilissima” mi sorrise più tranquillo, continuando ad accarezzarmi il viso, gli occhi sfavillanti come stelle.
“Cos’è successo dopo… beh, dopo il mio spettacolo pirotecnico?” chiesi a quel punto, cercando di fare dell’ironia.
Lui rise, prima di dirmi: “Beh, Sheoban è andata su tutte le furie con Marjorie, e poco ci è mancato che la divorasse. Alcuni dei consiglieri si sono sentiti male, a causa della dispersione di potere, mentre altri erano pronti a giurarti fedeltà fino alla fine dei tempi. Insomma, una riunione al Vigrond simile alle altre.”
Ghignai, e convenni con non poca ironia. “Sì, come no.”
“Ora non importa quello che è successo” mi sorrise, baciandomi sulla fronte con gentilezza, proprio come aveva fatto Lance, indugiando però con le labbra sulla mia pelle fresca. “L’importante è che tu ti sia ripresa. Gordon e Mary Beth erano in ansia per te. Ormai non sapevamo più cosa dire loro.”
“E tu? Eri in ansia anche tu? Vedo che non ti sei preso molta cura di te stesso” sorrisi divertita, carezzandogli la barba incolta.
Lui scrollò le ampie spalle, sussurrando: “Non ti avrei mai lasciata qui da sola.”
“Non posso sentirmi sola, ricordi?” gli rammentai, levando il dito in cui mi ero incisa con un coltello.
Duncan annuì e io, euforica come se fossi reduce da una bevuta tra amici, dichiarai allegramente: “Non immaginerai mai cos’ho scoperto!”
“Dimmi tutto” asserì, allargando il suo sorriso. Non mi aveva mai sorriso così, e ne fui lieta. Più che lieta.
“So il perché della nostra strana affinità, conosco il perché di ogni cosa. La quercia mi ha mostrato il passato, e mi ha mostrato te. Voi” dissi estasiata, afferrando entrambe le sue mani mentre lui impallidiva leggermente. “So di Hope, del tuo dolore, di tutto, e so di noi.”
“Di noi?” esalò con voce strozzata.
Al colmo della gioia, gli spiegai degli spiriti erranti che si incarnavano nei nascituri per dare loro un’anima.
Gli dissi della mia anima, che aveva toccato le loro, quando ancora io non ero che un pensiero nelle menti dei miei genitori.
Gli spiegai della reciproca accettazione del legame, e fu a quel punto che lo vidi cambiare.
Da allegro che era divenne serio, gli occhi taglienti come spade e la bocca piegata in una smorfia amara, piena di un dolore che io non compresi.
Scivolò via dalla mia stretta, scuotendo nervosamente il capo come volendo negare qualcosa che non era in grado di sopportare.
Muta testimone del suo turbamento, non seppi come spiegarmi quel suo voltafaccia improvviso.
Cos’avevo detto, di così tremendo, da sconvolgerlo a quel modo? Cosa?!
Uscì dalla stanza grugnendo un non voglio di cui non compresi il significato.
Basita e, sì, ferita di fronte al suo comportamento, rimasi ferma nel letto, impossibilitata a seguirlo per via della mia debolezza, nuovamente sola e, stavolta, vuota dentro come se mi avessero disintegrata con una bomba a frammentazione.
Mi afflosciai senza forze contro il cuscino, lo sguardo vacuo puntato sul soffitto bianco, mentre i passi concitati di Lance mi raggiungevano le orecchie, ferendole.
La porta si aprì, lasciandolo entrare. Fissandolo confusa, esalai: “Che ho fatto, Lance? Che ho fatto?”
“Nulla, Brie. Nulla. Chi non capisco, è Duncan. E’ uscito di casa come una furia, senza dire nulla a nessuno” scrollò impotente le spalle, avvicinandosi a me. “Di cosa stavate parlando?”
“Del legame che ci unisce fin da prima della mia nascita. Pensavo sarebbe stato felice quanto me, di sapere cosa fosse la strana sensazione che tutti noi abbiamo provato nel conoscerci, invece è diventato distante, arrabbiato. Quasi lo avessi schiaffeggiato” nel dirlo, lacrime furiose salirono ai miei occhi, ma io le ricacciai indietro, determinata a non piangere. Non avevo fatto nulla di male!
Lance aggrottò la fronte prima di spalancare la bocca, ed esalare: “Dio non voglia… non può pensare che sia un legame imposto.
“Come, imposto? Cosa? Che vuoi dire Lance?!” esclamai, sempre più turbata.
Lance si limitò a scuotere a sua volta il capo, confuso non meno di me dopodiché, scusandosi, mi lasciò sola a sua volta, promettendomi che sarebbe giunta Erika per tenermi compagnia.
Sbraitando un insulto a tutta la razza maschile in generale, crollai contro i cuscini e rimasi in ostinato silenzio finché non vidi giungere Erika, un vassoio tra le mani e l’aria di chi non sapeva che pesci prendere.
Le feci cenno di avvicinarsi e lei, un po’ più sicura, si sedette vicino a me e chiosò: “Sembrano tutti pazzi, eh?”
“Puoi dirlo forte. Io, questi uomini, non li capisco” brontolai, ingoiando un pezzo di pancake inzuppato nello sciroppo d’acero.
Erika mi sorrise bonaria. “Gli uomini, spesso e volentieri, non vedono a un palmo dal loro naso e, quando lo fanno, di solito sbattono contro i muri prima di rendersi conto di quello che stanno facendo.”
Ridacchiai  e asserii: “Beh, Duncan ha sbattuto contro un treno merci, allora. E’ uscito di testa quando gli ho spiegato ciò che è successo tra noi, e così…”
Come con Lance, ripetei anche a lei del legame tra le nostre anime e, pur sorpresa e affascinata dalla storia, riuscì a dire con logica ferrea: “Quel testone senza speranza! Scommetto quello che vuoi che si è spaventato a morte, sapendo di un legame così forte.”
“In che senso?” volli sapere.
Sospirando malinconica, Erika si spiegò meglio. “Mia madre mi parlò del giuramento cui si sottopose Duncan, per espiare la colpa commessa dai genitori. Non avrebbe dovuto dirmelo visto che nessuno, al di fuori dei membri del Consiglio presenti il giorno della sua investitura, ne è a conoscenza, ma tant’è. Un’imposizione simile avrebbe distrutto chiunque, ma non lui. Qualunque Fenrir si sarebbe sentito umiliato da una simile… costrizione… ma lui no, per lui è quasi un vanto poter dire di stare pagando per le colpe della sua famiglia. Come se ve ne fosse bisogno.”
Io sbuffai sprezzante ed Erika, continuando, aggiunse: “Perciò, probabilmente, considera questo legame un’altra imposizione voluta da un qualche potere superiore, e non lo accetta. Non stavolta.”
“Ma è assurdo!” sbottai. “Ci siamo accettati reciprocamente. Non ci è stato ordinato da nessuno. Abbiamo fatto tutto da soli!”
“Vallo a dire a lui” commentò ironica Erika.
Mi morsi un labbro, tremendamente vicina a piangere, ed esalai: “Ha paura di me?”
“Ha paura del legame, non di te. Credo che già il legame a doppio filo con il branco e il Consiglio gli stia dando più di qualche grattacapo, che ormai mal sopporta. Forse, considera questa vostra connessione l'ennesimo laccio attorno al collo” precisò Erika, saggiamente.
“Ma non mi imporrei mai come ha fatto il Consiglio! E poi, è la stessa cosa, Erika! Non importa se non ha paura di me, ma del legame che ci unisce. Prima che glielo dicessi, si comportava così dolcemente con me, i suoi occhi erano luminosi come mai erano stati prima ma, quando gli ho parlato del legame, è scappato via. Quindi odia me, in definitiva, anche se direttamente non gli ho fatto nulla” singhiozzai disperata.
Erika sgranò un momento gli occhi, forse sorpresa di scorgere quella mia reazione, prima di sollevarmi il viso con un dito, guardarmi spiacente, ed esalare: “Lo ami, vero?”
Annuii e ammisi senza problemi: “Sono stata così sciocca da innamorarmi di lui, sì.”
“Non si è mai sciocchi ad amare, Brie” mi abbracciò teneramente, sussurrando: “Non so cosa si provi ad amare come tu sembri amare Duncan, ma so che i maschi possono far soffrire parecchio.”
La scostai, confusa, prima di leggere nei suoi occhi ciò che la bocca non avrebbe mai pronunciato. Lance.
Le carezzai il viso, dicendo: “Beh, ti auguro di non arrivare ai miei livelli di dolore.”
“Per il momento, mi sento solo un’idiota” ammiccò lei, ridacchiando. “Non ti lascerai sopraffare dalla sua testardaggine, vero?”
“Non ha ancora capito con chi ha a che fare” annuii io, prima di tornare ad abbracciarla.

***

Jerome era seduto sul bordo del mio letto, quando Duncan entrò nella stanza, barricato come mai prima.
Lo sguardo era gelido, era quello di un combattente pronto a perdere la vita nell’impresa che si accingeva a compiere, se il fato gli avesse chiesto quel prezzo.
Il mio sconvolgimento iniziale era passato, lasciando il posto a una corazza così dura che, neppure il suo disprezzo verso il nostro legame, avrebbe potuto spezzare.
Che facesse pure il duro, con me. Avrebbe trovato pane per i suoi denti affilati.
Jerome, al contrario di Duncan, si era mostrato entusiasta del legame, e ne aveva gioito con me fino a poco prima dell’arrivo della mia attuale nemesi. Perché doveva essere solo lui a mostrarsi contrario? Perché proprio lui?!
“Ehi, cugino, hai sentito la novità? Non è grandioso?” rise Jerome, alzandosi in piedi.
“Ne sono a conoscenza” replicò gelido Duncan, frizzando Jerome con le sue parole.
Ironica, commentai con Jerome: “Non lo sai che lui è un bastian contrario?”
“Il solito” sbuffò irriverente Jerome prima di piegarsi su di me, darmi un bacio sulla guancia e dichiarare: “Beh, mia prescelta, godremo noi del nostro legame, lasciando a lui giornate vuote e solitarie.”
Non volevo ferire Duncan, ma la sua ostinazione a non comprendere quanto di bello vi fosse in quella scoperta, fece sorgere in me quel lato diabolico del mio carattere che, solitamente, tenevo sottochiave e circondato da caimani affamati.
Sogghignai al suo indirizzo, annuendo. “Hai ragione, Jerome. Se vuole fare l’eremita, che faccia.”
“Giusto” convenne lui, sollevandomi tra le braccia per portarmi in cucina.
Avevo chiesto di poter cenare dabbasso, e non in camera, e Jerome si era offerto di farmi da portantina.
“Posso portarla io” mormorò freddo Duncan, fissando malissimo il cugino.
“E congelarla col tuo cuore di pietra? No, mio caro” lo irrise Jerome prima di farsi serio non meno di lui e ringhiare: “Lascia la tua stupidità lontano da lei.”
Duncan sibilò un’imprecazione prima di allontanarsi a grandi passi e io, con un sospiro, mormorai: “Perché si vuole comportare a tutti i costi da stronzo?”
“Perché forse lo è, Brie” sospirò a sua volta, conducendomi al piano di sotto dove ci stava aspettando anche la sua famiglia. “Saranno tutti felicissimi di rivederti. E vedrai che bella sorpresa ti aspetta.”
“Che cosa?” chiesi curiosa. Accantonai volutamente il malumore di Duncan. Non volevo pensarci.
Ridendo mentre scendeva le scale, con me appollaiata tra le sue braccia, Jerome mi confidò: “Il branco, dopo quello che è successo, ti ha mandato un sacco di doni, sperando così di placare il tuo livore nei loro confronti, visto che nessuno del Consiglio aveva creduto in te. Tremano al solo pensiero di quello che potresti fare loro, visto lo sfoggio di potere che hai mostrato al Vigrond.”
Sorpresa e sgomenta, esclamai: “Ma io non farei mai del male a nessuno, davvero!”
“In ogni caso, loro credono il contrario, ed è un bene. Un po’ di rispetto ci vuole” ammiccò Jerome, prima di entrare in cucina ed esclamare: “Ecco la nostra eroina!”
Salutai allegramente Sarah e Johnathan, che mi abbracciarono calorosamente, dispensandomi sonori baci sulle guance mentre ancora Jerome mi teneva tra le braccia.
Per tutto il tempo, gli occhi di gelido smeraldo di Duncan non mi lasciarono andare, mostrando tutto il livore che covava dentro e riuscendo, nel contempo, a non farmi comprendere da cosa fosse nata tanta rabbia.
Ben decisa a non farmi rovinare la serata dal suo carattere ballerino – e meno male che dovrebbero essere le donne, a essere lunatiche! – risi e scherzai con i parenti di Duncan, ironizzando sul mio spettacolo pirotecnico, e su come Johnathan e Sarah fossero rimasti parecchio storditi dal potere che avevo sprigionato.
Ridendo di gusto, Johnathan ingollò un buon sorso di birra, prima di darmi una pacca sulla spalla e ammettere: “Mi hai fatto crollare a terra come una donnicciola, e Sarah stava così male come non l’avevo vista neppure durante la gravidanza di Jerome. Non ci siamo neppure accorti che Lance è letteralmente fuggito dal Vigrond portandoti qua.”
Sorrisi nel ripensare alle parole di Lance, che mi aveva spiegato cosa fosse successo ai membri del Consiglio, e asserii: “Beh, se non altro è servito a mettere a tacere parecchie bocche.”
“E muoverne una” precisò Sarah, seria in viso rispetto a tutti noi – con l’eccezione di Duncan, ovviamente.
“Perché?” le chiesi.
“E’ più che ovvio che Sheoban non vede l’ora di parlarti a quattr’occhi, per cui presta orecchio, mia cara” mi mise in guardia, sorseggiando del buon vino rosso. “Quando Duncan ha ricevuto l’investitura, e molti di noi sono entrati a far parte del nuovo Consiglio creato da Sheoban e Connor, ci siamo lasciati trasportare dagli eventi infausti di quella notte, senza badare ai particolari. Ma ora non commetterò lo stesso errore di un tempo e, se potrò impedire a Sheoban di ottenere altro potere, lo farò. Non mi fido di quella donna, e non voglio che faccia del male a te o a Duncan.”
“Starò attenta, te lo prometto” annuii, notando il leggero disappunto di Duncan alle parole di Sarah.
Jerome mi scrollò allegramente ed esclamò: “Non pensiamo agli intrighi di palazzo, stasera… dobbiamo pensare a far stare bene Brie!”
“Verissimo, fratellone. Per una volta, sono d’accordo con te” ammiccò Erika.
Saccente, Jerome commentò: “Ovvio che tu sia d’accordo con me. Ho ragione.”
“Non montarti la testa, lupastro dei miei stivali” brontolò Erika, facendomi ridacchiare.
Sembrava di sentire me e Gordon bisticciare.
“Non sei degna neppure di lustrarmi gli artigli, nanerottola” precisò Jerome, ghignante.
Ci fu una risata collettiva, e ovviamente Duncan non vi partecipò, limitandosi a un mezzo sorriso di circostanza.
Voleva a tutti i costi passare come la vittima della situazione, e ancora non capivo il perché. Che mai gli avevo fatto per meritare una freddezza simile?
Se Sarah e Johnathan si resero conto del suo comportamento distante, lo fecero con molta discrezione, perché non notai nulla sui loro volti tranquilli.
Forse, preferivano non parlare di cose così serie a tavola.
La cena, in un modo o nell’altro, riuscì ad avere un finale più che positivo ma, dopo aver salutato Jerome e famiglia, mi ritrovai da sola in casa con Duncan, o meglio, con la sua controparte mummificata.
Avere lui accanto, o un pupazzo di neve, era la stessa, identica cosa.
Lo fissai di straforo, impegnato a riempire la lavastoviglie mentre immagini della National Geografic si susseguivano, le une dopo le altre, sul piccolo televisore a cristalli liquidi della cucina.
I guaiti di alcuni lupi, e il sottofondo musicale del documentario, erano gli unici rumori presenti in casa, mescolati con il frusciare delle stoviglie inserite negli appositi scomparti, in attesa di essere lavate.
Non una parola, non un gesto di qualsiasi tipo, non uno sbuffo. Nulla. Jack Frost, al confronto, sarebbe stata una compagnia calorosa.
Sbuffai, il mento poggiato sulla mano in atteggiamento scocciato e lui, sollevandosi a mezzo per fissarmi silenzioso, scosse leggermente il capo, infastidito.
Un attimo dopo, ricominciò a lavorare.
Digrignai i denti e feci ogni genere di gestacci al suo indirizzo, tutti nel più feroce silenzio.
Quando, però, fui stanca di comportarmi da idiota, mi alzai in piedi e mugugnai irritata: “Vado a letto.”
“Ti ci porto io. Non devi sforzarti” replicò neutro, la voce simile alla carta vetrata più ruvida.
Rabbrividii leggermente, prima di asserire: “Non disturbarti.”
Detto ciò uscii dalla cucina e, alle mie spalle, udii i chiari rumori di piatti inforcati con rabbia nelle rastrelliere della lavastoviglie.
Fu il segno evidente che la mia risposta non era piaciuta al diretto interessato, o che il suo malumore era così forte da arrivare a prendersela anche con dei poveri oggetti inanimati.
Beh, che si sfogasse pure con loro, visto che con me non voleva parlare!

***

Sentivo freddo, oltre a un profondo senso di intorpidimento. Qualcosa non andava.
Mi svegliai di soprassalto, le ossa scricchiolanti e il capo percorso da brevi, fulminee scosse di assestamento, preludio di un mal di testa che, entro breve, mi avrebbe colpito.
Intontita dallo strano sogno che mi aveva destato, fissai costernata la sveglia sul comodino.
Ero indecisa se alzarmi da letto per lanciarla fuori dalla finestra, o limitarmi a girarmi su un fianco con la speranza di riaddormentarmi.
Le tre di notte. Ma non potevo dormire come tutti i comuni mortali? O quasi?
Qualcosa, una presenza, mi mise in allarme. Non ero l’unica a non dormire. Ecco cosa mi aveva svegliata!
Dubbiosa, mi levai da letto, infilando i piedi nelle mie pantofole di spugna color vinaccia e, in silenzio, aprii lentamente la porta della mia stanza, sbirciando nel corridoio buio.
Un lieve bagliore, niente più di una lama diafana sul parquet di rovere, proveniva dallo studio di Duncan, segno che stava ancora lavorando.
Deglutendo a fatica, la rabbia soppiantata da un senso di turbamento all’idea di saperlo ancora desto a quell’ora, mi mossi lentamente verso il suo studio.
Forse, avrei potuto preparargli un tè caldo e, a quel modo, stemperare un po' la situazione gelida tra di noi.
Quando, però, scostai il battente per sbirciare all’interno, lo trovai assopito sulla sua poltrona di pelle scura.
Quella visione mi spezzò il cuore. Il suo viso appariva teso, contratto anche nel sonno che lo aveva colto all’improvviso, di fronte a una pila di documenti sparpagliati a caso sulla sua scrivania.
Avanzai silenziosa, rendendo grazie ai tappeti che ricoprivano il pavimento e che attutivano ogni mio passo.
Fissandolo compassionevole, mi chiesi cosa avesse rubato tempo al suo sonno.
Sbirciai curiosa, trovando ritagli di giornale che mi riguardavano, mescolati ad analisi del sangue e documenti scritti talmente in piccolo che lasciai subito perdere, preferendo tornare a guardare Duncan.
I suoi capelli, che aveva slegato e lasciato ricadere sulle spalle in morbide onde corvine, gli solleticavano il collo robusto e ripiegato su un lato. D’istinto, li accarezzai con una mano.
Erano folti e morbidi, come la criniera di Gabriel.
Sorridendo, socchiusi le palpebre, preda di una strana brama che mi spinse ad avvicinarmi sempre più a lui, incurante di un suo possibile risveglio, o di una sua reazione sgradevole.
La mia mano continuò a sfiorare quelle sericee ciocche di capelli, affondando sempre più in esse e avvertendo il calore della sua pelle sotto le dita.
Lentamente, scivolai tra le sue gambe, facendomi audace e, con movimenti leggeri e impercettibili, sfiorai la linea forte della mandibola, fino a raggiungere le sue labbra piene, lievemente dischiuse nel sonno.
Non potei esimermi dallo sfiorare anche loro, pur sapendo dei rischi che stavo correndo, desiderosa di avere almeno quel ricordo, visto che null’altro avrei ottenuto da lui.
 Il tocco caldo della sua pelle mi sarebbe dovuto bastare per sempre.
Quel che mi stupì fu di ritrovarmi stretta dalle sue mani, le braccia immobilizzate da due morse d’acciaio, mentre occhi smeraldini mi fissavano sorpresi, e pieni di un desiderio che mi sconvolse più della stretta cruenta.
Non ebbi neppure il tempo di scusarmi per il mio gesto che Duncan, con un singhiozzo strozzato, si alzò dalla poltrona per poi schiacciarmi le labbra in un bacio privo di gentilezza, ma carico di una passione così divorante che non provai in alcun modo a fermare.
Dopo quell’iniziale sorpresa, mi abbandonai completamente a lui, lasciando che mi stringesse in un abbraccio violento, divorando e lasciandomi divorare da Duncan.
Era più che evidente quanto nessuno dei due cercasse la delicatezza, in quel momento.
Le sensazioni che sembravamo provare entrambi, e con uguale intensità, non lasciavano spazio a gesti teneri, tutt’altro.
Strinsi le mani tra i suoi capelli, tirandoli con forza mentre lui, con la mano sinistra, scivolava sotto la maglietta del mio pigiama, incendiandomi la pelle al suo passaggio infuocato.
Ansimai al pari suo che, letteralmente, ringhiò sotto il peso delle mie labbra mentre lottava con la mia lingua per affondare sempre di più, ancora e ancora.
Quando mi scostai da lui per un momento, intenta a riprendere fiato come se stessi annegando, Duncan scese a mordicchiarmi il collo.
Un attimo dopo, con mia somma sorpresa, mi scostò con la stessa forza con cui mi aveva stretta a sé pochi attimi prima.
Gli occhi si sgranarono, scintillanti come l’ambra più pura, il fiato si fece corto, ma fu la sua espressione a turbarmi. Parve essere un uomo perso in un incubo.
Ansante non meno di lui e confusa più che mai, feci per riavvicinarmi ma Duncan, stringendomi le spalle con mani pesanti come magli, esalò: “Mio Dio… che ho fatto?!”
Sgranando gli occhi, mi irrigidii subito ed esalai: “Anche quanto, cosa abbiamo fatto!”
Senza neppure ascoltarmi, si scostò da me come se avesse avuto terrore di toccarmi, il viso percorso da una sofferenza profonda, messa in evidenza dalla luce diafana della lampada da tavolo della sua scrivania.
Io lo fissai sempre più stordita, timorosa di ciò che avrebbe potuto dire - o fare - da un momento all’altro.
Il sangue, ancora caldo nelle mie vene, correva a mille, sospinto dal mio cuore in subbuglio mentre il desiderio, acceso di colpo dal suo bacio, urlava di rabbia perché privato del suo sostentamento.
Mi era stato strappato dalle membra con una ferocia che, ora, mi faceva soffrire come mai prima di allora.
Addossandosi al davanzale della finestra, quasi non fosse in grado di reggersi in piedi, gli occhi serrati come se temesse anche solo di incrociare il mio sguardo, Duncan sussurrò: “Sono imperdonabile.”
“Ma che stai dicendo?!”esclamai, avvicinandomi di un passo.
Lui levò una mano per tenermi a distanza e io, sempre più frustrata, gli sentii dire: “Non avrei mai dovuto baciarti, scusami.”
“Duncan, ci siamo baciati. E’ ben diverso!” sbottai. “Pensavi non lo volessi? Beh, ti avrei dato una ginocchiata nei sacri augelli, mio caro, se non avessi voluto che tu mi toccassi a quel modo!”
Ancora non mi ascoltò, troppo preso dal suo personale senso di colpa per darmi retta. Si limitò a scuotere il capo, dicendo mesto: “Non sei tu a parlare, ma quel maledetto legame!”
Sgranai gli occhi, basita, prima di sibilare: “Non è maledetto… e poi, cosa vorresti dire? Che farei la stessa cosa, se Lance o Jerome provassero a baciarmi? Mi avvinghierei a loro come un polipo, e solo perché le nostre anime sono affini? MA PER CHI MI HAI PRESA?!”
Le ultime parole, letteralmente, gliele sputai in faccia, gli occhi lividi e il viso percorso da un dolore così forte che, neppure mille maschere, avrebbero potuto celare.
Lui fece per parlare, forse rendendosi conto del suo errore, o forse deciso a commetterne altri, ma io non gli lasciai possibilità alcuna di spiegarsi.
Furiosa, gli sibilai contro: “Se pensi che il mio amarti sia una cosa maledetta, allora tieniti pure i tuoi sensi di colpa, e crogiolati nel tuo dolore di vittima sacrificale.”
“Parli d’amore senza conoscerne il significato” mormorò amaramente Duncan, senza neppure guardarmi.
Mi morsi un labbro per non piangere, e replicai con tono fiacco: “Dicesti che non mi avresti mai trattata da ragazzina, ma l’hai appena fatto, denigrando il sentimento che provo per te e, peggio, dando la colpa del mio comportamento a una tua sciocca credenza! Io non mi faccio guidare da nessuno, nemmeno dal destino! E di certo, questo non è il caso!”
“Brianna…” esalò, fissandomi ora spiacente.
“Tieni pure il tuo dispiacere per te stesso, perché io non so di che farmene, maledetto testone senza speranza che non sei altro!” urlai, andandomene dallo studio e rinchiudendomi nella mia stanza.
Gettandomi sul letto, piansi tutta la notte, incurante del fatto che, grazie al suo udito, potesse sentire il mio sfogo. Ero solo desiderosa di dare voce al mio, di dolore.
Non mi preoccupò di sapere se, il mio sfogo, avrebbe ferito lui.
Fu così che non avvertii le sue lacrime, troppo impegnata ad ascoltare il suono delle mie, per poter percepire qualcos’altro che non fosse la mia sofferenza.

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Capitolo 21
*** XXI. ***


XXI. 

 
 
 
 
 
La mattina seguente mi ritrovò lucida, furiosa e ben decisa a non mostrare mai più un briciolo di debolezza.
Non avrei permesso a nessuno, tanto meno a Duncan, di distruggermi.
Se il mio amore non gli pareva sensato, ma solo governato da fili invisibili guidati dal destino, che si tenesse pure le sue convinzioni.
Io non avrei mai più provato a dissuaderlo del contrario.
Non elemosinavo amore, né mai l'avrei fatto.
Di buon’ora, mi levai per preparare la colazione e, dopo aver sistemato ogni cosa sulla consolle della cucina, ingollai una tazza di caffè prima di mangiare in fretta un pancake bagnato di sciroppo d’acero.
Al piano superiore, avvertii i rumori prodotti da Duncan al suo risveglio e, ben decisa a non discutere con lui di prima mattina, me ne andai fuori di casa per occuparmi subito dei cavalli.
Di buona lena, li condussi fuori dai box, tenendoli saldamente alla cavezza e, dopo averli liberati nel piccolo recinto dietro la stalla, presi carriola e pala per ripulire la stalla.
Agii su escrementi mescolati a paglia come se volessi togliere il cemento sottostante, tanto la rabbia mi divorava.
Uno dopo l’altro, i box vennero puliti e risciacquati con potenti getti d’acqua, per poi essere riempiti nuovamente di paglia pulita e fresca.
Non badai che marginalmente alla traccia profumata del potere di Duncan che, passando il più lontano possibile dalla stalla, si diresse in clinica per pensare ai suoi pazienti pelosi e piumati.
Avevo ben altro a cui pensare, che prestare attenzione alle sue bizze.
Quando mi ritenni soddisfatta, il sudore a bagnarmi la maglietta color salmone che indossavo, presi un secchio per riempire le vasche interne ai box per permettere ai cavalli di abbeverarsi comodamente.
Nel raggiungere la canna dell’acqua, però, mi ritrovai a fissare Sheoban, ferma all’entrata della stalla e gli occhi grigi fissi su di me.
La mia rabbia e frustrazione erano state tali da non permettermi di sentirla. Che idiota, a farmi beccare così di sorpresa!
Posai lentamente il secchio a terra, passandomi il dorso della mano sulla fronte accaldata e, con un cenno leggero del capo, la salutai dicendo: “Lupa Madre.”
Wicca” mormorò per contro lei, con un inchino a mezzo busto.
Un po’ sorpresa, mi avvicinai di qualche passo e le chiesi: “A cosa devo questo onore?”
“Sono venuta a nome del Consiglio per sapere come stai” mi spiegò, scrutandomi curiosa, prima di allargare il proprio sguardo a tutta la struttura della stalla.
“Molto meglio, grazie. Recupero in fretta” mormorai pacata, sempre mantenendomi sul chi vive.
Sì, mi aveva sorpresa con la sua entrata in scena, ma non avevo nessuna intenzione di perdere terreno, con lei.
Non mi fidavo, e non mi sarei mai fidata.
Annuendo pensierosa, Sheoban scrutò ancora qualche secondo la stalla pulita e ordinata in maniera quasi maniacale, prima di sorridere. “Vedo che ti sei presa un impegno gravoso, sulle spalle. Tenere testa alla fissazione per l’ordine e la pulizia di Duncan, è difficile.”
“Sono ospite, e mi sembra giusto rendermi utile. Inoltre, ho scoperto che mi piace molto prendermi cura dei cavalli” le spiegai, prima di veder giungere Jasmine dal cortile, il pelo ritto e lo sguardo iroso puntato su Sheoban.
Piegandomi su un ginocchio, la presi lesta in braccio perché non commettesse qualche idiozia.
Con calma, cominciai a carezzarla gentilmente per chetarne lo spirito, dicendo nel frattempo: “La scusi, non le piacciono proprio i licantropi. Padrone escluso, s’intende.”
Sheoban sorrise misteriosamente, ammettendo: “Duncan ci ha stupiti tutti, dicendoci che avrebbe intrapreso la carriera di veterinario. Da quel che sappiamo, non è mai capitato. Il suo è un dono davvero raro. Come il tuo, del resto.”
“Di sicuro, Duncan è un tipo eccezionale” dissi con casualità, continuando a carezzare Jasmine, che si stava esibendo in una sviolinata di fusa davvero spettacolare.
Assottigliando un poco le iridi di ghiaccio, Sheoban buttò lì con aria da cospiratrice: “Sa anche essere eccezionalmente tardo, se così vogliamo dire, però.”
Aggrottai un poco la fronte, non volendo arrischiarmi a camminare su un terreno così scivoloso.
Lei, però, proseguì nel suo dire senza badare troppo a me e ai miei silenzi imbarazzati. “Marjorie e molte altre lo hanno tentato, ma senza alcun risultato. Sembra che Duncan sia praticamente immune al fascino femminile, a parte quello della sua gatta.”
Sogghignai, celiando: “Di certo, non si è mostrato molto propenso a fare la parte dello stallone da monta.”
Sheoban rise del mio commento non proprio elegante, prima di fissarmi sorniona e dire: “No di sicuro, anche se non l’ho mai visto sfoggiare i suoi poteri come è successo al Vigrond, quando ti ha protetta dall’attacco di Marjorie.”
Scrollai le spalle, volendo sminuire tutta quella faccenda. “Duncan ha preso molto a cuore questa faccenda della wicca. Non fa specie che volesse difendermi.”
“Già, si fa di tutto, per le wiccan” sussurrò debolmente Sheoban, prima di aggiungere ad alta voce: “Non credo dipendesse solo da quello. Era te, che stava difendendo.”
“Sono la vostra wicca” precisai, a costo di apparire logorroica e un po’ sciocca. Dove voleva andare a parare?
“Ma sei anche la donna che lo ha salvato da morte certa” replicò Sheoban, sorniona. “Grazie in ritardo per aver ricondotto a casa sano e salvo il nostro Fenrir, comunque.”
“Non sono una che ha fretta” ammiccai, cercando di capire dove volesse condurmi, con quei discorsi senza alcun senso logico.
A cosa serviva rivangare il passato? Cosa voleva dimostrare? E cosa voleva che le rispondessi?
Avvicinandosi ulteriormente, ma restando a distanza di sicurezza dalle zampe di Jasmine, Sheoban disse con fare materno, gli occhi che grondavano preoccupazione e intensa partecipazione: “A volte, il cuore degli uomini è imperscrutabile, mia cara. Può sembrarti che vogliano dire una cosa, quando in realtà pensano tutt’altro. Ma ciò non vuol dire che una persona debba scoraggiarsi.”
Ben decisa a non mostrare le mie carte, esalai candidamente: “Mi sta sfuggendo il senso di questo discorso, Lupa Madre.”
“Chiamami pure Sheoban, mia cara, e considerami tua alleata e amica. Apprezzo molto il coraggio con cui hai affrontato la prova cui ti abbiamo sottoposta, e sappi fin d’ora che, se avrai bisogno di qualsiasi cosa, potrai contare su di me” mi disse, svicolando abilmente. “So cosa significa essere lontani dai propri cari, senza la presenza di una madre al fianco, sempre pronta a consigliarci. Vorrei che tu mi vedessi così, cara.”
Una madre? Da dove le venivano certe idee? E perché?
Con un cenno elegante del capo, mormorai: “Sono onorata dalla sua offerta, Sheoban. In effetti, mia madre e la mia matrigna mi mancano, e avere il loro conforto sarebbe d’aiuto, in questo periodo di grandi cambiamenti.”
“Allora, non avere remore a parlare dei tuoi dubbi con me. A cosa serve avere tutta la mia esperienza, se non posso condividerla con qualcuno?” asserì, sorridendomi così teneramente che, per un momento, vacillai.
Era questo il potere di cui mi aveva parlato Sarah.
Sapeva sedurre con un solo sguardo e, perciò, era più pericolosa di molti altri. Di Connor stesso che, a differenza di lei, non possedeva lo stesso charme.
“So di essere ancora giovane e inesperta, perciò ritengo di grande conforto avere il suo favore... e il suo affetto” dissi a quel punto, cercando di non lasciar trapelare dal mio sguardo il dubbio che mi divorava.
Sheoban mi diede un buffetto sulla guancia con fare affettuoso, sempre stando attenta alle mosse di Jasmine. “Sai parlare senza dire nulla. Un’ottima dote, non c’è che dire.”
Finsi di non capirla e la salutai con un sorriso, quando la vidi prendere la via del portone della stalla, ben decisa a mantenermi calma finché non fosse stata abbastanza lontana per non sentirmi imprecare.
Lasciando scivolare a terra Jasmine, che miagolò contrariata, raspando il cemento con la zampetta nel punto in cui si era trovata Sheoban fino a pochi attimi prima, mugugnai, rivolta alla gatta: “Quanto vorrei fare come te.”
Con un sospiro, mi lasciai andare a un tremolio sconvolto, ripensando a quegli occhi enormi, e apparentemente candidi, che mi avevano promesso coccole e conforto. Per un attimo, mi domandai cosa sarebbe potuto succedere, se avessi ceduto a quelle lusinghe.
Dove mi avrebbe portato Sheoban, se mi fossi messa nelle sue mani?
Come una falena con la fiamma, ero attirata e inorridita al tempo stesso dal suo potere seduttivo, fatto di amore profferto e di calore umano donato con generosità.
Ero tentata di accostarmi a lei, perché sentivo il bisogno impellente di parlare con qualcuno di ciò che il mio cuore stava patendo, ma dentro di me sapevo che sarebbe stato un suicidio aprirmi proprio a lei.
Non sapevo bene perché, ma i suoi occhi non promettevano solo amore incondizionato.
C’era qualcos’altro, celato in quegli occhi grigi e profondi.
Sospirando, reclinai il capo, portando una mano al petto dove, fino a poco tempo prima, si sarebbe trovato il pendaglio di mia madre.
Sussurrai tra me, domandando al fantasma dei miei genitori: “Non devo cedere ora, vero? Non alla prima mano tesa… ditemelo, vi prego…”
Ovviamente, niente e nessuno giunse in mio aiuto.
Con un brontolio insoddisfatto e la certezza che, anche questa volta, avrei dovuto cavarmela da sola per non rischiare guai, andai a prendere i cavalli per riportarli nei box e terminare i miei lavori nella stalla.
Quando fu il turno di Gabriel, lui sbuffò contrariato, sbattendo nervoso uno zoccolo in terra, come se la sola idea di tornare dentro la stalla lo indispettisse.
Fissai la zampa di Gabriel per accertarmi che non avesse alcun tipo di infezione – tale da spiegare il suo nervosismo – e gli battei affettuosamente una mano sul collo nerboruto, mormorando con un sorriso: “Vuoi correre, mio bel moro?”
Il cavallo nitrì una volta, annuendo con ampi gesti del muso prima di carezzarmi il viso con il naso, come a volermi invitare a salire in groppa.
Gli sorrisi maggiormente, continuando ad accarezzare quel manto morbido e folto, percorsa da un pensiero che, con sempre maggiore forza, voleva spiccare il volo per diventare realtà.
Annuendo tra me e me, lo condussi verso lo scaffale dei finimenti e, con calma moderata, gli misi il morso tra i denti. 
Presi una delle coperte da sottosella che Duncan teneva in una cassapanca, al sicuro dagli artigli di Jasmine, e gliela sistemai sul dorso.
Gabriel nitrì giocoso, facendo nitrire di rimando gli altri due, che sembrarono incitarlo a mettercela tutta per fare bella figura.
Ridendo divertita, intimai loro: “Non montatelo troppo, è già abbastanza pompato così.”
Gabriel mi diede una leggera spinta col muso perché prendessi la sella e io, sempre sorridendo, gliela misi, controllando che la cinghia del sottopancia fosse stretta a sufficienza.
Con un gesto familiare quanto naturale, che veniva da anni e anni passati al maneggio della mia amica Brittany, in America, salii in groppa e regolai le staffe per la mia altezza.
Quando mi ritenni pronta, presi un gran respiro e, dato un leggero colpo di tacchi ai fianchi di Gabriel, lo ammonii gentilmente: “Questa è la tua prima uscita con un cavaliere dopo tanto tempo, Gab. Cerca di andarci piano, o la tua zampa te le canterà dopo.”
Gabriel annuì, pur guardandomi di straforo con aria furba.
Non fidandomi del tutto di quello sguardo sornione, tenni ben strette le redini per chiarire subito chi avesse il controllo della situazione.
Quello che non mi aspettai – ero troppo concentrata su Gab per fare caso ad altro – fu di trovare Duncan fuori dalla stalla, lo sguardo turbato puntato su di noi e le labbra tese in un’espressione contrariata.
Bene, non vedevo l’ora di farlo infuriare.
“Dove pensavi di andare?” esclamò senza mezzi termini.
“Gab ha deciso che vuole fare una passeggiata, e io lo accompagno” replicai sprezzante.
Voleva la guerra? Gliel’avrei data.
“Gabriel non sa cosa è bene per lui” precisò Duncan, aggrottando la fronte.
“Hai sentito, Gab? Non si fida di te” sussurrai all’orecchio del cavallo, battendogli affettuosamente una mano sul collo mentre fissavo ironica Duncan.
Gabriel sbuffò innervosito e scalciò a terra un paio di volte mentre io, tornando in posizione eretta sulla sella, fissai Duncan con un’espressione gelida negli occhi socchiusi. “Non è d’accordo. E neppure io.”
“Scendi. Non è sicuro, per te” mi intimò Duncan, avanzando di un passo, la mano levata per afferrare le redini del cavallo.
Gabriel scartò indietro, sbuffando nervoso dalle narici. Irrigidendomi, ringhiai: “Perché? Perché sono una ragazzina? Gab non mi farà mai del male!”
Quelle parole parvero andare a segno, perché Duncan rabbrividì visibilmente, reclinando il capo prima di mormorare: “Non capisci che non posso…”
Prima ancora che lui terminasse la frase, colpii i fianchi di Gabriel con i tacchi dei miei stivali, dicendo con freddezza: “Andiamo, Gab. Qui non siamo desiderati.”
Detto ciò, ci dirigemmo al passo verso la foresta, che lambiva i confini della casa di Duncan.
Non volevo stare ancora a sentire le sue scuse, men che meno le sue lamentele patetiche. Lo raccontasse a qualcun altro, perché a me non interessava.
Dopo aver proceduto per qualche miglio al trotto leggero, immersi nella penombra morbida e fresca della faggeta che racchiudeva il Vigrond, Gabriel cominciò a mordere il freno. Ridendo divertita, annuii nell'esclamare: “Aumenta pure l’andatura, io ti starò dietro!”
Gab obbedì all’istante, cominciando a galoppare con sempre maggiore forza, frustando il sottobosco con i suoi zoccoli e levando pesanti zolle di terra, che ci lasciammo alle spalle a memoria del nostro passaggio.
Gridai istintivamente di gioia, assaporando la forza dei suoi muscoli e il sibilo del vento sulla faccia.
Per alcuni istanti, dimenticai ciò che combatteva freneticamente dentro il mio cervello, e che mi procurava più dolore di quanto non volessi.
Le scuse deprimenti di Duncan, mi avevano fatto così infuriare da rendermi impossibile trovare il perdono nel cuore.
Se lui, semplicemente, mi avesse detto di non essere interessato a me, sarebbe stato mille volte più semplice, più accettabile, ma no, se ne era dovuto uscire con quella frase ignobile.
Cristo, dopotutto ci eravamo baciati! Non mi aveva aggredita nel sonno, spinto da chissà quale pulsione sessuale!
Al solo ricordo di quel bacio, il cuore mi balzò in gola mentre le gote si facevano di fiamma, rammentandomi quali sensazioni avesse scatenato in me il tocco delle sue labbra.
Avrei voluto essere divorata per poter essere completamente dentro di lui, ed era follia anche il solo pensarlo.
Eppure, in quel breve momento di pazzia pura, non mi era parso un sacrificio vano.
Sentire la piena risposta di Duncan al mio tocco e, anzi, percependo quanto desiderio a stento trattenuto vi fosse stato anche in lui, mi aveva fatto sentire una dea, per alcuni istanti.
Ma poi lui aveva rovinato tutto, allontanandomi come se  fosse stato un appestato, e io una povera martire mossa dalla compassione verso un’anima impura.
Che idiota.
Sbuffai, scrollando il capo nel tentativo di cancellarlo dalla mia mente, pur sapendo quanto fosse vano quel gesto.
Da quando avevo bevuto il suo sangue, i miei sentimenti per lui erano, se possibile, aumentati d’intensità, e quanto era successo nel suo studio aveva solo peggiorato ulteriormente le cose.
Se dimenticare ciò che sentivo per lui fosse stato possibile, l’avrei fatto volentieri, visto quanto poco Duncan volesse saperne e quanto, a tutti gli effetti, quel mio sentimento lo facesse soffrire.
Sospirai afflitta, facendo deviare Gab perché raggiungesse il Vigrond e permettermi, forse, di giungere in un luogo in cui avrei potuto starmene tranquilla per un po’.
Dopotutto, ero anche una Sacerdotessa della Terra, oltre che una Accolita della Luna, e il contatto con quella enorme e potente quercia, avrebbe potuto aiutarmi a fare chiarezza nella mia mente ottenebrata dai dubbi.
Quando intravidi la figura imponente della quercia sacra, feci rallentare Gabriel fino a fermarlo sotto l’ombrello folto e smeraldino della pianta.
Lì, ammirata, la osservai danzare lievemente al lento e sinuoso passaggio del vento tra le sue fronde.
In quel luogo di primitiva bellezza, l’aria era ancor più fresca e umida, piacevole sulla pelle, e il profumo del bosco sembrava maggiormente penetrante e forte.
Il cinguettio di pettirossi e cinciarelle mi fece sorridere mentre scendevo dalla sella di Gabriel, battendogli gentilmente una mano sulla spalla.
Il suono tranquillo e pacifico di quegli uccelli mi aiutò a calmare in parte le mie ansie.
Stare in quei luoghi pervasi di antiche memorie, e primordiali poteri, era rigenerante.
Socchiudendo gli occhi, già pervasa dalla magia del Vigrond, osservai placida Gab dirigersi nel mezzo della radura per brucare erba fresca.
Il suo portamento diritto e fiero mi fece capire che tutto andava bene. Ne fui felice.
“Davvero bravo… la tua zampa funziona che è una meraviglia” mormorai, prima di perdermi in contemplazione dell’imponente chioma della quercia.
Chiudendo un momento gli occhi, la sfiorai con il tocco della mia mente, avvertendo con maggiore forza sotto di me, intorno a me, il richiamo del suo potere che, sinuoso come un serpente, mi stava avvolgendo come per volermi dare il benvenuto.
Acconsentii a lasciarmi abbracciare e, in un attimo, mi ritrovai ad affondare nei suoi ricordi, ricordi ancestrali che provenivano da altre vite, da altre piante venute prima di lei, da cui lei era nata grazie alla prima ghianda portata in quella foresta, secoli e secoli addietro, da un altro Fenrir.
Con non poca sorpresa, vidi quello che doveva essere stato il capostipite della razza, Fenrir in carne e ossa, enorme e spaventosamente attraente nella sua forma animale.
L'immagine vibrò, cominciò a correre, ruotare, incunearsi in un vuoto cosmico per poi bloccarsi e mostrarmi altri due lupi, diversi dal primo che avevo visto.
Coraggiosamente, i due lupi stavano difendendo tre donne piccole e dall’aspetto fragile ma che, per nulla turbate dalla loro presenza, osservavano i loro nemici avvicinarsi senza esitazione.
Tra le braccia delle due donne più giovani, due fagotti. La stirpe di Fenrir. I figli di Hati e Sköll.
Morirono molti anni dopo, wicca
Quella voce improvvisa mi stupì. Che fosse stata la stessa quercia, a parlare?
L’immagine cambiò, mostrandomi le prime alleanze tra clan e le battaglie tra umani e licantropi. Battaglie, sangue, morte e… una nuova vita.
Il primo germoglio di una nuova quercia, in un bosco nuovo. Lei.
Sì… molte altre querce sono venute prima di me, e altre ve ne saranno, dopo la mia dipartita… fui, sono e sarò… come te, del resto…
Ancora un balzo temporale, un volto di donna bellissimo ed etereo, dagli occhi blu cobalto e circondato da neri capelli.
Due persone, poco dietro di lei, volti che mi rammentavano qualcosa, ma a cui non seppi dare un nome.
Mi risvegliai lentamente, sdraiata sulle foglie secche della quercia ai piedi del suo nodoso tronco, un leggero venticello che stormiva tra gli alberi vicino, e lo sguardo di Jerome puntato su di me.
Sedetti, togliendo le foglie dai capelli e dalla maglia.
Lui si avvicinò con passo guardingo, mi salutò prima di accomodarsi al mio fianco, per poi spiegarmi la sua presenza al Vigrond. “Sono passato da casa per sapere se ti andava di venire con me a fare un giro in macchina, ma ho trovato Duncan con un diavolo per capello e il box di Gabriel vuoto, così ho pensato fossi uscita a cavalcare.”
Sollevando un sopracciglio con ironia, gli chiesi: “E ti ha anche spiegato perché fosse incavolato?”
“Duncan? Scherziamo? Quello mantiene i segreti meglio dell’MI-6. Non è come me, che sono un libro aperto!” ridacchiò Jerome, dandomi una pacca sulla spalla prima di notare il mio sguardo serio.
“Che succede?” mi chiese subito dopo, adombrandosi in viso.
“Tuo cugino è un idiota di prima categoria” sentenziai senza mezzi termini.
“Sai che novità… che ha combinato stavolta, comunque?” mi domandò per contro, scrollando le spalle.
Non risposi e lui, aggrottando subito dopo la fronte, mi prese per le spalle fissandomi attentamente. “Se ci ha provato con te, senza il tuo permesso, lo ammazzo per direttissima.”
Risi infelice, prima di sospirare e ammettere: “Te lo lascerei credere, se la sua morte servisse a placare il mio dolore, ma la verità è un’altra.”
Calmandosi un poco, Jerome mi chiese: “Vuoi parlarne con Erika?”
“No. Mi sento a mio agio, con te. Te l’ho detto, non ho remore a parlarti” gli spiegai, giocherellando con una foglia di quercia dalle sfumature brune. “Ci siamo baciati, l’altra notte, ma non è andata esattamente come speravo.”
Lui sollevò un sopracciglio con evidente sorpresa, ma mantenne un contegno di ferro per permettermi di continuare senza interruzioni.
Io lo ringraziai con un sorriso, aggiungendo: “Beh, io volevo che mi baciasse, ma lui ha avuto la bella pensata di dirmi che era il nostro maledetto legame a spingerci l’uno tra le braccia dell’altra. Io mi sono offesa e gli ho detto che, se fosse stato per colpa del legame, avrei avuto la stessa reazione con te e Lance, quando invece non è affatto successo.”
Ammiccando, Jerome commentò: “Se vuoi, mi rendo disponibile.”
Sorrisi un momento, prima di continuare e dire: “Fatto sta che l’ho insultato, e poi sono andata in camera a piangere. Molto poco edificante, ma è così. Stamattina, quando Gab mi ha fatto capire di voler provare a correre, lui ci ha detto esattamente come la pensava… non è vero, Gab?”
Il cavallo nitrì e Jerome, avvolgendomi le spalle con un braccio, esalò esasperato: “Mio cugino si sta dimostrando ancora più idiota di quanto pensassi. Che mito!”
“Già” esalai scocciata. “Jerome, non mi sono sognata niente. Quel che sento per lui, non ha nulla a che fare con il legame che abbiamo. Il legame riguarda qualcos’altro. Ha a che fare con la sfera emotiva, non posso negarlo, ma non è quello a spingermi verso di lui!”
“Ti credo. Come so per certo che neppure io, pur con tutte le mie forze, potrei vederti come una ragazza da portarmi nel letto. E’ come se, ora, fossi in compagnia di mia sorella” mi spiegò, sfiorandomi i capelli con un bacio. “Forse, per liberarti dal dubbio, dovresti parlarne con Kate. Sarà qui tra un paio di giorni e, probabilmente, potrà spiegarti l’entità di questo legame, e magari dare una scrollata anche a Duncan perché rinsavisca.”
Annuendo più tranquilla, gli chiesi: “Pensi che Kate potrà spiegargli che il legame non c’entra nulla?”
“Forse” mormorò Jerome, prima di alzarsi e aggiungere: “In ogni caso, restare qui da sola non giova alla tua salute. Il tuo cuore mi sembra affaticato.”
“Come…” cominciai col dire, prima di avvertire attorno a me l’energia calda e vibrante di Jerome.
Sorridendogli, lo abbracciai stretto, abbeverandomi del suo potere e lui, carezzandomi la schiena con gesti morbidi e regolari, asserì con forza: “Abbeverati alla mia fonte, Figlia della Luna, lascia che sia il tuo cacciatore, per stanotte.”
Conoscevo quel gergo. Mi stava parlando come se fossi un membro ferito del branco. Si sarebbe preso cura di me, finché non mi fossi sentita meglio.
Piano, mormorai per contro: “La tua acqua e il tuo artiglio saranno il mio sostentamento, Figlio della Luna.”
Stringendomi per un momento con maggiore forza, Jerome ringhiò: “Come può farti soffrire a questo modo?!”
Non seppi cosa rispondergli.
***
Stavo strigliando Gabriel, quando avvertii alle mie spalle il potere impercettibile di Duncan. Era più barricato che mai.
Mi volsi appena, la spazzola sempre in movimento sul pelo accaldato di Gab, e mormorai: “Sì?”
“Dobbiamo parlare” esordì, appoggiandosi al box prima di guardare Gabriel e chiedere: “Come si è comportato?”
“E’ stato impeccabile. La zampa è guarita perfettamente” dissi neutra, concentrandomi unicamente su Gab.
La sua presenza fungeva da cuscinetto tra me e Duncan e, pur sentendomi una sciocca all’idea di usare un cavallo per contrastare le emozioni contraddittorie che mi ribollivano dentro, non potei esimermi dall’essere felice della presenza dello stallone.
Duncan annuì impercettibilmente prima di accarezzare il capo bruno di Gab e sentenziare, rivolto al cavallo: “Mi hai fatto spaventare a morte, lo sai, razza di scavezzacollo?”
Bloccai un momento la spazzola, prima di riprendere a strigliarlo. A quello, proprio non avevo pensato.
Non avevo badato minimamente al fatto che, portandolo fuori senza il suo consenso, potevo averlo messo in ansia.
Avevo badato solo a farlo infuriare, non pensando che Duncan potesse essere seriamente preoccupato per la salute di Gab.
Che sciocca!
A volte, mi comportavo davvero come una ragazzina.
Gab mi salvò dall’imbarazzo nitrendo allegro, come a voler dimostrare al suo padrone quanto, la sua paura, fosse stata del tutto immotivata.
Lo ringraziai mentalmente per quell’aiuto insperato.
Non ero ancora dell’umore adatto per chiedere scusa a Duncan per il mio gesto dettato, sopra a tutto, dal desiderio di ferirlo.
Attese alcuni momenti, prima di guardarmi e chiedermi: “Sai che dopodomani giungeranno qui la wicca di Aberdeen con il suo Fenrir e il suo Hati?”
“Sì, me ne ha accennato Jerome” annuii, continuando nel mio lavoro con più impegno di quanto non ve ne fosse realmente bisogno.
Annuendo a sua volta, Duncan continuò dicendo: “Vorrei… vorrei tu venissi con me al Vigrond per accoglierli. So che è ingiusto chiedertelo, da parte mia, però…”
Sollevando di colpo gli occhi per fissarlo, un’espressione più sorpresa che mai stampata sul viso, esalai costernata: “Non dovresti chiedermelo? Duncan, sono la wicca di questo branco!”
Era la prima volta, a dirla tutta, che lo ammettevo anche con me stessa.
Non avevo ancora detto con sincerità quelle parole ad alta voce ma, fin da quando avevo sfiorato la quercia con il mio potere, quel legame era cresciuto come il germoglio di una pianta pronto a prosperare e vivere pienamente.
Inoltre, dopo la Cerimonia del Sangue, mi sarebbe stato praticamente impossibile non appartenere a quel branco. Ero legata a Duncan a doppio filo, lo volessi o meno.
E io lo volevo.
Lui distolse lo sguardo dal mio viso, girovagando con gli occhi sulla superficie liscia delle pareti della stalla.
Imbarazzato, borbottò: “Dopo… beh, dopo quello che è successo, non me la sento di chiederti nulla che non voglia tu per prima… cerca di capire…”
Sospirando, lasciai cadere la spazzola nel catino al mio fianco e, dopo aver abbandonato il box di Gabriel, sollevai una mano per afferrare il mento punteggiato di barba di Duncan, obbligandolo a guardarmi.
Non volevo quel confronto più di quanto lo volesse lui, ma non potevo nascondermi per sempre dietro ai paraventi.
Accigliata, gli dissi: “Ho capito chiaramente come la pensi su quanto è successo, Duncan, e stai pur tranquillo che non mi sentirai mai più parlare di certe cose con te. Non voglio passare da bambina capricciosa, perché sono tutto tranne quello. Ma voglio sia chiaro un concetto. Con o senza di te, io sono la wicca di questo branco. Ho preso questo peso sulle mie spalle il giorno in cui ho deciso di lasciare che Lance mi aprisse la testa come un melone, per vedere cosa vi era contenuto all’interno. Presenzierò e farò la mia parte, ma non chiedermi di dimenticare, perché non lo farò. So cosa provo, e non è una menzogna dettata da sapienti mani divine. E’ tutta farina del mio sacco. Non vuoi crederlo? Peggio per te. Non sarò certo io a forzarti.”
“Va bene” annuì Duncan, incatenato al mio sguardo.
Lo lasciai andare, sospirando nuovamente e sentendomi stranamente vuota dentro, come se mi avessero strappato l’anima a morsi. E forse era davvero così.
Sapevo di farmi del male, restando, ma non potevo abbandonare il campo ora che avevo raggiunto la piena fiducia di tutti.
Inoltre sapevo, sentivo che qualcosa di incompiuto doveva essere portato a termine e che, prima di quel momento, non avrei potuto dire conclusa la mia opera all’interno del branco.
Quando, e se, fossi tornata a casa da Gordon, volevo che quel senso di incompletezza fosse sparito dal mio cuore.
Allontanandomi da lui per poter carezzare Rafael, che si lasciò coccolare con piacere, cominciai a dire: “Tutti quei doni che ci sono nel salotto…”
“Sì?” annuì, in ascolto.
“E’ necessario tenerli? Mi sento tremendamente in imbarazzo, di fronte all’enormità dei loro regali” ammisi imbarazzata.
Era un problema cui avevo pensato, a momenti alterni, per tutto il pomeriggio.
Lo fissai di straforo, vedendolo sorridere leggermente prima di asserire: “E’ un gesto che il branco ha voluto fare per onorarti. Non accettarlo, vorrebbe dire che non li reputi degni del tuo perdono.”
“Temevo fosse così” sospirai, appoggiandomi alla fronte di Rafael per un momento. “Però… posso dare qualcosa in beneficienza?”
“Sì, questo puoi farlo” annuì Duncan, avvicinandosi di un passo.
Nervosa e in attesa di un suo ulteriore movimento, continuai a guardarlo con la coda dell’occhio ma lui, alla fine, si limitò a sospirare, mormorando mesto: “A volte, penso tu sia peggio di una droga.”
“Cazzo, che complimento!” esclamai, senza tanti giri di parole.
Senza dire altro, se ne andò dalla stalla, lasciandomi sola con i suoi cavalli e il leggero sibilo del vento che, nel bosco, faceva stormire le fronde rigogliose degli alberi.
Una droga. Per lui, ero come una droga.
Non avevo capito gran che di quella frase, ma il modo in cui l’aveva detto non mi era piaciuto per nulla. Era infastidito dall’effetto che sembravo procurargli, e ciò mi ferì più di una coltellata al petto.
Stringendomi a Rafael, sussurrai: “Sono davvero così cattiva, Raf?”
Ovviamente lui non mi rispose, limitandosi a nitrire e scuotere il muso.
Quando, però, vidi Jasmine corrermi incontro e saltarmi in braccio, capii che proprio cattiva del tutto non potevo essere, se quella splendida e vanitosa gatta aveva preferito la mia compagnia a quella del suo padrone.
Peccato non potessi chiedere a Jasmine il perché di una simile presa di posizione.

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Capitolo 22
*** XXII. ***


 XXII.

 

 


 

Contrariamente a quanto avevo pensato, l’arrivo della wicca di Aberdeen a Matlock non previde l’intervento di tutti gli alfa del branco.
Solo la vecchia cerchia di potere, si presentò al Vigrond, oltre ai managarmr più potenti di Matlock e gli attuali Gerarchi del clan.
La notte, rischiarata da flebili stelle e uno spicchio allegro di luna, sembrò voler salutare l’arrivo degli onorati ospiti del branco di Duncan con una serata priva di nubi, e una temperatura più che gradevole.
Non credevo possibile che la luna potesse avere un simile potere sugli eventi atmosferici, ma era bello pensarlo.
Con mia grande sorpresa, Kate si presentò in maniche di camicia e jeans schiariti, appollaiata sul dorso dell’Hati di Aberdeen mentre al suo fianco, alto e possente come una montagna, camminava quello che si rivelò essere Bright Cox, il suo Fenrir.
Il fatto che fosse abitudine dire che Fenrir, Hati e Sköll fossero delle wiccan la diceva lunga sui poteri insiti in quel ruolo, di cui io comprendevo i confini solo a stento.
Non ero del tutto sicura che mi avessero raccontato ogni cosa, ma potevo approfittare della presenza di Kate per chiarirmi le idee.
Quando, infine, la ragazza scese dalla groppa di Hati, mi resi conto di quanto fosse piccola, sul metro e cinquanta, più o meno.
Aveva rigogliosi riccioli rosso sangue e occhi verdi come la giada, così brillanti da sembrare quasi quelli di un gatto.
La bocca, generosa a piegata in un sorriso, si allargò in una risata dopo avermi stretto la mano, che io protesi verso di lei in segno di benvenuto.
Volgendosi a parlare con il suo Fenrir, chiosò: “Mi vergogno del mio titolo, Bright, dopo aver percepito il suo potere.”
Quest'ultimo mi fissò sorpreso per un momento, gli occhi neri come pece impegnati a studiarmi curiosi prima di farsi sconcertati.
Evidentemente, dovevo avere qualcosa di particolare… magari una macchia sul naso.
Rise anche lui e guardò Duncan, in piedi accanto a me e vestito informalmente come i nostri ospiti. “Certo che hai avuto una fortuna davvero rara, Duncan. Ha un potere che attira come il fuoco per le falene. Davvero stupefacente.”
Sollevai curiosa un sopracciglio e Kate, avvedendosene, mi spiegò meglio: “So che sei una novizia, per cui le nostre parole ti sembreranno oscure. Quel che volevamo dire è che il tuo potere, se paragonato al mio, è cento volte più forte. Neppure sapevo potessero esistere tali parabole di energia. Siamo tutti sorpresi.”
“Beh, fa piacere lasciare strabiliati gli ospiti” commentai, sorridendo e fissando Lance, in forma animale a sua volta, come per volerlo uccidere. Poteva anche accennarmelo!
Lui uggiolò una volta, quasi a scusarsi per la manchevolezza e Bright, scoppiando nuovamente a ridere, esalò: “La vostra wicca sarà anche inesperta, ma vedo che si sa far rispettare.”
“Più che bene” annuì Duncan, con un sorrisetto.
Kate sorrise benevola a Sheoban e Connor, prima di notare la mancanza di Marjorie.
Curiosa, chiese: “Noto che manca la tua sanguisuga preferita, Duncan. In che anfratto l’hai nascosta?”
Duncan divenne serio nel breve battito di un ciglio e, roco, spiegò loro: “Marjorie è in punizione per aver osato levare la mano sulla nostra wicca.”
Quelle parole fecero impallidire Bright e gonfiare di rabbia Kate che, aggrottando la fronte, esclamò sconcertata: “In altri tempi, un tale sacrilegio sarebbe stato punito con la morte!”
“Spero tu sia stato degnamente duro con lei, Duncan, perché un simile affronto potrebbe pregiudicare la serietà del tuo nome, se tu non vi avessi posto rimedio adeguatamente” aggiunse a sua volta Bright.
“E’ stata punita più che bene” intervenni lesta, preferendo non indugiare oltre sull’argomento. Quella scena ancora mi faceva accapponare la pelle.
Duncan mi fissò un momento con aria combattuta, come se volesse in qualche modo proteggermi dalle mie stesse paure ma io, scuotendo impercettibilmente il capo, glielo impedii.
Non volevo aiuto, da lui. Era troppo difficile accettare le sue cortesie, dopo essere stata così sonoramente rifiutata.
Sospirò leggermente, pur accettando il mio rifiuto e, tornando a rivolgersi a Bright, Duncan disse più formalmente: “Il Clan di Matlock ti da il benvenuto tra le sue braccia, Fenrir di Aberdeen. Possa la tua caccia essere fruttuosa, e la tua permanenza lieta. L’acqua del mio ruscello e le prede del mio bosco sono tue.”
Con un grazioso cenno del capo bruno, Bright sorrise di fronte a quella frase di rito e replicò con altrettanta serietà: “Possa il vento guidare il tuo passo e la luna illuminare le tue scelte, Fenrir di Matlock. L’acqua del tuo ruscello e le prede del tuo bosco sono a me gradite.”
Detto questo, strinsero le loro possenti mani vicino ai gomiti e, con una certa sorpresa, si sfiorarono le guance l’un l’altro prima di annusarsi all’altezza dell’orecchio.
Kate, avvicinandosi a me, sussurrò: “E’ un vecchio rituale. Anticamente, lo si praticava in forma animale, ma ormai è in uso soprattutto in forma umana. Anche se sembra assurdo, vero?”
“Già” annuii, trovandolo quasi ridicolo. Ridere, però, sarebbe parso davvero poco educato.
Dopo quel breve scambio di convenevoli, io e Kate ci avviammo verso la quercia sacra per la nostra parte del rito.
Ora che entrambi i branchi avevano una wicca, si sarebbe potuto procedere anche con quella parte del cerimoniale che, ormai da tempi immemori, non poteva più essere eseguito per mancanza di sacerdotesse.
Entrambe sfiorammo con le mani il tronco nodoso dell’albero, avvertendo sotto le nostre dita il respiro della pianta e il vociare sommesso delle memorie del passato, che ribollivano dentro di lei come un vorticoso vento senza fine.
Sorridendole cordiale, asserii: “Non c’è menzogna nel mio dire, né intento malvagio. Accogli ciò che il nostro sangue ricorda e accettalo come dono di buona volontà da parte del Clan di Matlock.”
“Non c’è menzogna nel tuo dire, né intento malvagio. Accolgo ciò che il vostro sangue ricorda e lo accetto come dono di buona volontà da parte del tuo Clan, wicca di Matlock” rispose a sua volta Kate, lasciandosi avvolgere dall’abbraccio del potere della quercia.
Chiusi gli occhi, per meglio concentrarmi e scorgere quali ricordi la quercia avesse deciso di sottoporre all’attenzione di Kate. A sorpresa, scoprii trattarsi niente meno che del mio personale ricordo dell’incontro con Duncan, Jerome e Lance da bambini.
Da quel poco che avevo compreso, il mio spirito aveva fatto parte della quercia – per questo avevo potuto vederlo.
Non ero stata in grado di comprendere quanto antica fosse la mia anima, né se fosse appartenuta a più di un uomo o di una donna, ma di una cosa ero certa.
Quello spirito era stato così legato a questo branco, o a qualcuno facente parte del clan, da volergli rimanere fedele anche in una seconda vita, pur se nel corpo di una wicca.
Quando Kate mi fissò, lasciando al passato quel ricordo, lessi lo stupore e sì, l’ammirazione, nel suo sguardo di giada, portandomi a chiedermi perché potesse farle così piacere essere a conoscenza di quel particolare.
Mi si avvicinò, baciandomi sulle guance come previsto dal rito e, dopo essersi allontanata di qualche passo, mormorò: “Capisco la tua confusione, ma ne potremo parlare agevolmente più tardi.”
“Grazie” sussurrai, ritrovandomi a sorriderle con calore. Volesse il cielo che, un po’ della confusione che regnava nella mia testa, fosse cancellata!
Come previsto dal rito di accoglienza, la vecchia Triade di Potere si fece avanti per salutare degnamente i nostri ospiti.
In seguito, gli alfa più potenti del Consiglio presenti a Matlock fecero altrettanto, rendendo loro onore e porgendo loro il benvenuto.
Quando tutto fu concluso, e furono espletati gli scambi di doni tra clan, ci allontanammo dal Vigrond per raggiungere la casa di Duncan.
Lì, avremmo parlato più agevolmente di fronte a birra, salatini e sandwich, questi ultimi rigorosamente preparati da Sarah.
Su questo, si era imposta, e nessuno aveva voluto contraddirla.
Affiancata da Jerome durante il nostro ritorno dal Vigrond, cercai con ogni mezzo umanamente possibile di non guardare Duncan, che procedeva dinanzi a me tenendosi a un passo di distanza da Bright.
Come calamite, però, i miei occhi continuarono a seguire il movimento sinuoso dei suoi passi, come ipnotizzati da un incantatore di serpenti.
Jerome, poggiandomi delicatamente una mano sulla spalla, sorrise comprensivo e Kate, al mio fianco, mi guardò calorosamente. “Vedo bene che la situazione è parecchio inguaiata.”
“Il Cubo di Rubik è più facile da dipanare” borbottai di rimando, facendola ridere.
“Io non sono mai riuscita a finirlo, non ho abbastanza pazienza” ammiccò lei, passandosi una mano tra i folti riccioli ramati.
Impiegammo una ventina di minuti per raggiungere il limitare del bosco – molto gentilmente, i licantropi avevano tenuto la nostra andatura umana – e, non appena fummo accolti dal sentore delicato e aromatico dei gelsomini del giardino di Duncan, sorrisi spontaneamente.
“E’ sempre un benvenuto piacevole.”
“Sì. E’ un profumo inebriante” annuì Kate, osservando curiosa Jasmine mentre si avvicinava.
La micia degnò di un’occhiata funesta il gruppo di licantropi, tenendo ben alta la coda rossa come a voler far notare a tutti chi fosse il padrone di quel territorio.
Miagolando una sola volta in direzione di Duncan, corse poi verso di me per balzare tra le mie braccia senza emettere alcun suono, se non il suo ron-ron avvolgente.
La strinsi a me, affondando un momento il viso nel suo pelo caldo e folto, prima di dire, rivolta a Kate: “Lei è Jasmine, la gatta di Duncan.”
Sorridendo alla gatta, che si lasciò accarezzare con lunghi miagolii mielosi, Kate esalò: “Allora è vero. Pensavo fosse solo una barzelletta.”
Duncan ci guardò un attimo, un mezzo sorriso stampato sul viso in ombra, e borbottò: “E’ una gatta traditrice, come vedi. Non si è neppure fermata per un salutino.”
Kate lo guardò con sufficienza, sollevando un sopracciglio con espressione ironica, e disse per contro: “E tu ti fidi ancora del giudizio delle donne, Duncan? Dovresti saperlo che siamo lunatiche.”
Una risatina collettiva si levò dal gruppo, mentre entrava in casa di Duncan.
Io risi con loro, prima di vedermi puntare addosso lo sguardo curioso di Sheoban, colmo di domande a cui, sicuramente, non avrei risposto.
Neppure se mi avesse scatenato contro Sarah nelle vesti di Freki.
Lasciando che gli uomini e le donne del branco entrassero e si impadronissero della cucina, guardai Kate prima di chiederle: “Ti spiace se andiamo a parlare nella stalla? Non vorrei che le loro orecchie sensibili ascoltassero ciò che ho da dirti.”
“Concordo con te. A volte, i loro sensi sopraffini sono un’autentica scocciatura” annuì Kate, seguendomi nella penombra del cortile inghiaiato.
Le porte della stalla erano state lasciate aperte, perché l’aria fresca della notte penetrasse all’interno per il piacere dei cavalli.
Avvertendo il mio odore, si esibirono in un coro di nitriti, prima di guardarmi oltre il bordo dei box, degnando di occhiate curiose la nostra ospite.
Concessi una carezza a ognuno di loro e infine mi sistemai contro il box di Gabriel, lasciando che lui poggiasse il muso sulla mia spalla.
I miei occhi, nel frattempo, studiarono le espressioni visibili sul volto di Kate. Sembrava curiosa… e in attesa.
Non la feci aspettare. Perché anch’io ero in attesa. Di una risposta.
Con un sospiro, le spiegai succintamente ciò che era successo a Duncan, le raccontai del nostro primo incontro, di come eravamo fuggiti e di come, quel nostro viaggio, avesse fatto nascere in me quei sentimenti devastanti che ora mi facevano stare tanto male.
Kate, per tutto il tempo, annuì senza esprimere alcun giudizio, concedendomi solo brevi sorrisi enigmatici.
Non sapevo come interpretare il suo silenzio, ma volevo darle tutte le informazioni necessarie perché mi aiutasse a capire, a dipanare la massa intricata di input che vorticavano nella mia mente devastata dall’incertezza.
Alla fine, avvicinandosi per carezzare Jasmine, Kate asserì: “Lo spirito di cui ora sei padrona doveva essere davvero potente, per aver scelto di sua spontanea volontà di tornare nello stesso clan in cui aveva già vissuto. E, più ancora, ad aver scelto i suoi compagni di viaggio. E potrei dire lo stesso degli spiriti di Lance, Jerome e Duncan. Non è cosa facile, o consueta, ciò che vi è capitato.”
“Quindi, non si tratta di un’imposizione dettata da qualcun altro” sospirai, sentendomi stranamente sollevata alla notizia.
Kate scosse il capo e mi spiegò con maggiore chiarezza: “Nessuno può scegliere come e dove tornare, o in che forma, neppure il destino. O almeno, quasi nessuno, a quanto pare. Ciò che hai tra le mani, è un potere che va oltre l’immaginabile. Non mi sorprende che io possa sentire la tua aura anche così lontana dal Vigrond. Normalmente, non potrei farlo.”
“Hai conosciuto altre wiccan, per dirlo?” le chiesi per contro.
“Solo una. Ed era molto, ma molto meno dotata di te. E’ una vecchia signora di Oslo, che siamo andati a trovare tre anni fa, io e Bright. La percepii come wicca solo quando ci trovammo nel loro Vigrond. Anche Bright fece fatica ad avvertire il suo potere, ma il tuo… oh, cielo… è come venire avvolti da una tempesta di fuoco” sentenziò Kate, sorridendomi.
“E’ un  bene?” chiesi, storcendo il naso.
“Oh, più che sì” annuì allegra Kate. “E la tua Triade Spirituale ti rende ancora più potente, o meglio, ti renderebbe…”
Aggrottando la fronte, borbottai: “Spiegati meglio. Cosa intendi con Triade Spirituale?”
“Parlo di spiriti affini. Da quel che sappiamo, le wiccan possono avere affinità con uno o più spiriti del branco, ma mai più di tre. Io sono affine solo a Bright, e so per certo che le nostre anime si sono toccate soltanto quando ci siamo conosciuti con questi corpi di carne e sangue, ma tu… Dio, non pensavo che fosse umanamente possibile! Tre di massima stirpe. Fenrir, Hati e Sköll. Non oso immaginare cosa potrebbe succedere, se voi tre uniste i vostri poteri durante una notte di Luna Blu, quando le nostre auree sono più forti. Già quello che hai fatto durante il novilunio ha dell’incredibile, figurarsi in una notte in cui la luna ha così potere” esclamò Kate, gli occhi illuminati dalla curiosità e dal desiderio di sapere.
“Luna Blu?” ripetei, sorpresa.
“E’ un fenomeno astronomico che avviene quando la luna piena si ripete due volte nello stesso mese” mi spiegò Kate, sorridendomi. “Quest’anno l’avremo esattamente la notte del trentun dicembre. E’ emblematico, direi1.”
“E’ inquietante” precisai, rabbrividendo.
Lei ridacchiò, un suono di campanelle tintinnanti che mi rilassò gradatamente, permettendomi dopo poco di unirmi alla sua ilarità. “Sembra quasi che tu sia divertita dalle mie vicende personali.”
“Non divertita, strabiliata” scosse il capo Kate, carezzandomi comprensiva un braccio. “E sgomenta. Da quel poco che ho capito, Duncan rifiuta il legame, e non comprendo perché.”
Sospirando, e perdendo di colpo tutta la voglia di ridere, le spiegai ciò che sapevo. “Pensa che il legame sia imposto. Non lo vuole accettare perché crede che siano altre, le mani che lo spingono verso di me. Non comprende che io non mi farei guidare da niente e da nessuno, e pensa che io sia solo una sciocca ragazzina infatuata di lui perché un’entità superiore mi dice di esserlo.”
Kate aggrottò la fronte, passeggiando nervosamente per la stalla mentre Gab mi dava leggeri colpetti affettuosi contro la guancia, e Jasmine faceva le fusa come una pentola di fagioli in ebollizione.
Quel commento sembrava aver preoccupato Kate più di quanto avessi immaginato, e questo mi mise in ansia.
Dopo un minuto buono di silenzio, in cui gli unici rumori a farci compagnia furono gli sbuffi dei cavalli e il frinire delle cicale nel bosco, Kate mi fissò con i suoi occhi da gatta, dicendo seriamente: “Conosco poco del passato di Duncan, so solo che ha sofferto un grave lutto, e che questo lo ha reso molto chiuso in se stesso. Ma non so cosa sia successo con esattezza.”
“I suoi genitori furono divorati dal branco perché traditori, così che i loro spiriti non potessero rinascere…” le spiegai, in barba ai veti che avevano ricevuto gli altri membri del branco.
Era necessario, che sapesse.
Vedendola spalancare lentamente gli occhi a quella notizia, mi imposi di terminare il mio dire. “…ma, prima ancora, Duncan perse una sorella durante il Cambiamento. In quell’occasione, scoprirono che Hope sarebbe diventata il prossimo Fenrir che avrebbe guidato il Clan di Matlock. I genitori di Duncan, perciò, decisero di concepire un altro figlio, essendo già a conoscenza del fatto che la Madre Terra aveva scelto la loro famiglia per far nascere il successore designato per il clan.”
“Oh mio Dio… e naturalmente, questo Duncan lo sa” esalò Kate, portandosi una mano alla bocca quando io annuii spiacente.
“Sa fin dall’infanzia di non essere stato cercato per i giusti motivi, ma l’onta più grande è stata commessa al Vigrond, quando Connor decise di mettere nelle mani di Duncan l’intero Clan. Istituì un Consiglio per fare da spalla alla nuova Triade di Potere, ma escluse da esso i genitori di Duncan che, indispettiti, decisero di forzare il neoeletto Consiglio perché permettessero loro di essere gli unici guardiani del figlio."
Sospirai pesantemente, prima di riuscire a proseguire. "Connor e Sheoban, naturalmente, rifiutarono, e così avvenne il peggio. I genitori di Duncan si rivoltarono contro di loro, scatenando un bagno di sangue. A quel punto, a Duncan venne imposto da Sheoban e Connor di prestarsi totalmente al servizio del Clan e del Consiglio, e naturalmente lui accettò, sentendosi tremendamente in colpa per ciò che i genitori avevano tentato di fare.”
“Duncan l’altruista, eh?” commentò aspra Kate.
Sollevando un sopracciglio, replicai a mia volta: “La sua fama lo precede.”
“Già. Quindi, tu dici che fino a ora non ha fatto che anteporre il branco a se stesso, seguendo le indicazioni di altri, ma non le sue” riassunse Kate, annuendo tra sè più volte.
“Sì. E ha sicuramente interpretato questo legame come l’ennesima imposizione. Duncan non ha mai ceduto su un punto, e cioè su ciò che riguarda i suoi sentimenti. Non a caso, non ha ancora una Prima Lupa, nonostante il Consiglio abbia cercato più volte di affibbiargliene una” le spiegai, scrollando le spalle. “Nella sua mente contorta, ha letto il mio amore come l’ennesimo schiaffo del destino nei suoi confronti. Non ha visto più in là del suo naso, come direbbe sua cugina Eirka.”
Kate ridacchiò senza allegria, prima di mormorare pensosa: “Una Triade Spirituale può essere molto potente, ma può avere anche un effetto dirompente sui suoi membri, se essa non viene accettata pienamente.”
Aggrottando la fronte, le chiesi turbata: “In che senso?”
“Che succede se togli un piede a una sedia?” mi domandò per contro lei.
“Cade” gracchiai roca, sgranando lentamente gli occhi, come se di fronte a me si fosse aperto uno squarcio da cui scorgere la verità.
“Più il legame verrà rifiutato, più diverrete deboli” sentenziò Kate, stringendo le mani sulle mie spalle e fissandomi con occhi spiacenti. “L’unica tua salvezza, e di coloro che tu ami, è andartene. Se lui non accetta come reale ciò che provi, oltre a ciò che sei per lui allora, l’unico modo per salvarvi dalla distruzione è allontanarsi dal centro di potere. Rendere debole il legame con la distanza. Duncan e gli altri ne soffriranno un po’, all’inizio, come sicuramente anche tu, ma almeno sarete salvi. Se rimarrai, e Duncan non si piegherà a questo legame che anche lui ha voluto, ma che ora non accetta più, allora ne soffrirete tutti… e molto. Non è importante che ricambi il tuo amore, poiché esso non è connesso al legame tra le vostre anime, ma deve accettare l’unione dei vostri spiriti, o tutto sarà vano.”
Deglutii a fatica, come se in gola avessi un macigno.
Fissai terrorizzata quel viso acqua e sapone, illuminato dalle lampade della stalla, mentre il mondo, sotto di me, si inabissava sempre più velocemente, portandomi con sé e facendomi affogare nelle mie peggiori paure.
L’abbandono. L’allontanamento. L’addio.
Non volevo, non desideravo questo dolore, non agognavo a non rivedere mai più tutte le persone che ora mi circondavano con le loro auree e con il loro affetto.
Il mio unico desiderio era poter stare per sempre con coloro a cui avevo imparato a volere bene.
Non volevo separarmi da loro, quando il bisogno che io avevo di loro era pari a quello che loro avevano di me.
Senza accorgermene caddi in ginocchio, mentre Jasmine scivolava via dalle mie braccia e Gab nitriva spaventato.
Strinsi le braccia attorno al mio corpo scosso da brividi mentre Kate, accucciandosi accanto a me, mi massaggiava le spalle, spiacente. “So che è tremendo, ma è la verità, Brianna. Io e Bright siamo solo amici, e io amo moltissimo la sua Prima Lupa, per cui non so cosa voglia dire provare verso il proprio Fenrir un sentimento così forte come quello che tu provi per lui, ma posso dirti questo. Se questo tuo amore non verrà riconosciuto per quello che è, ti sbriciolerà pezzo per pezzo fino a lasciare polvere di te. Di questo sono certa. Il tuo potere è troppo forte, per essere lasciato in balia di una mente indebolita dal dubbio e dall’infelicità. Devi ritrovare un equilibrio e, se questo vuol dire allontanarti dall’uomo che ami, allora dovrai farlo.”
“Non esistono davvero alternative?” esalai, percependo dentro di me un turbinio di onde inferocite che si infrangevano contro le pareti del mio cervello, cercando di eroderlo.
“Non abbiamo mai alternative, Brianna. Abbiamo un grande potere, ma siamo anche immensamente deboli, se lasciamo che qualcosa spezzi il nostro animo. Al mal d’amore si guarisce, Brianna, ma dal potere non si può che rimanerne schiacciati, se lo si lascia a briglia sciolta.”
Nel dirlo, mi sollevò il viso con un dito perché il concetto mi fosse più chiaro, ben sintetizzato nel suo sguardo spaventato.
Sospirando afflitta, la abbracciai con forza, esalando: “Ho solo paura.”
“E chi non ne avrebbe?” disse per contro lei, massaggiandomi la schiena con le mani. “Hai ancora un po’ di tempo per convincere il tuo recalcitrante cavaliere ad accettare il legame, ma io non attenderei oltre la prossima luna piena. Rischi di perdere il controllo come hai fatto ora. E la prossima volta potresti non trovare la forza di contenere ciò che si agita dentro di te.”
“Era così evidente?” esalai, staccandomi da lei per fissarla in viso.
Sì, era decisamente evidente. Kate era pallida come un cencio, e i suoi occhi vibravano d’ansia.
“Presta attenzione, Brianna. Il tuo potere può essere prezioso quanto pericoloso. Gestiscilo con perizia, e non lasciarti sopraffare da lui, o…”
“… o finirò male, giusto?” mormorai.
“Sì. E finirai col fare del male a coloro a cui vuoi bene” annuì mesta Kate.
“Capisco” assentii a mia volta, scuotendo debolmente il capo.
“Mi spiace di essere latrice di così brutte notizie” mormorò spiacente, sorridendomi a mezzo.
“Non è colpa tua” dissi per contro, pur desiderando incolpare qualcuno di quel guaio colossale.
Già, ma contro chi avrei potuto indirizzare tutto l’odio, la disperazione e la paura che ora mi attanagliavano il cuore in una morsa sempre più stretta?
Purtroppo, potevo prendermela solo con me stessa.
“Posso chiederti un’ultima cosa?” mi domandò Kate, attirando la mia attenzione.
“Spara.”
“Avete già compiuto la Cerimonia del Sangue?” mi chiese, quasi sperando le rispondessi di no.
Non risposi, limitandomi a sorridere infelice e Kate, tornando ad abbracciarmi, mi consigliò caldamente: “Allora fai in fretta, mia cara, o pagherete entrambi un prezzo molto alto.”
Che fare, con una simile Spada di Damocle sul collo?
 
 
 
________________________
1: Luna Blu: la data riportata da Kate è reale e si riferisce al 31/12/2009, giorno in cui si è avuta la seconda luna piena del mese di dicembre.




N.d.A.: so che magari vi aspettavate qualche frase più confortante, da parte di Kate, ma la verità è che da grandi poteri derivano grandi responsabilità (grazie Spider-man...:D)




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Capitolo 23
*** XXIII. ***


XXIII. 



 


 

Entrate che fummo in casa, nessuno ci chiese il perché della nostra temporanea assenza, così come nessuno ci esaminò per carpire qualcosa dalla nostra postura o dai nostri volti in apparenza tranquilli.
Mi ero lavata il viso prima di entrare, cancellando le tracce del pianto che mi aveva preso subito dopo le parole funeste di Kate.
In quel momento, ero talmente sovraccarica di energia che avrei potuto correre fino al Vigrond, e ritorno, senza battere ciglio.
Peccato che i miei problemi non potessero risolversi con una semplice corsetta nei boschi.
Quell’ultimatum, quella scelta che mi spettava, ma che non avevo alcuna voglia di prendere, pesava su di me come un macigno pronto a schiacciarmi da un momento all’altro.
Nessuno avrebbe potuto darmi una mano in quel compito.
Solo io e Duncan avremmo dovuto misurare i nostri reciproci sentimenti, sperando con tutto il cuore che lui comprendesse la verità dei fatti.
Doveva cancellare dal cuore la paura di quel legame che ci univa e che avevamo scelto consapevolmente, non spinti dal Fato o da chissà cos’altro.
Farglielo capire era compito mio, ma dovevo ancora comprendere come intraprendere quell’arduo sentiero che mi accingevo a percorrere.
Badai a sistemarmi nell’angolo più lontano da lui, decisa a non averlo sott'occhio per meglio ragionare su quel che avrei dovuto fare di lì a poco, ovvero sia convincerlo della mia buona fede.
La mia tattica, però, venne miseramente mandata in frantumi dall’arrivo di Sheoban.
Sorridendomi nell'allungarmi un bicchiere di punch, mi chiese: “Come mai tutta da sola in un angolo, Brianna? Non ti unisci alle chiacchiere?”
“Devo pensare a un paio di cose” mi inventai sul momento, scrollando le spalle e accettando il bicchiere panciuto colmo di liquido arancione.
Sorseggiandolo e apprezzandone il sapore fruttato, le domandai per contro: “Connor come sta? L’ho visto un po’ pallido, stasera.”
“La vecchiaia che avanza, wicca, ma nulla di preoccupante. Grazie per l’interessamento, comunque” mi sorrise, studiandomi con attenzione.
Quegli occhi da falco non mi avevano mollata per un solo attimo, fin da quando mi ero presentata al Vigrond e avevo fatto conoscenza con Kate.
Avrei tanto voluto sapere cosa si celava dietro quelle muraglie perlacee, ma le sue barriere erano così robuste che, se solo avessi cercato di fare breccia in esse, se ne sarebbe subito accorta, chiedendomi lumi.
No, meglio evitare. Per il momento, almeno.
“Di nulla, Sheoban. Anche mia nonna materna ebbe un infarto, anni addietro. Solo che a lei non andò bene come a Connor… le volevo molto bene” mormorai meditabonda, affondando con lo sguardo nel punch.
La mia immagine riflessa sembrava quella di un mostro a più facce, contorto e deforme.
“Mi spiace” disse sinceramente Sheoban. “I lutti ci segnano irreparabilmente, ma non devono farci perdere di vista il fatto che la vita va avanti, e che nulla deve vietarci di essere felici. Gli ostacoli, anche se sembrano insormontabili, si superano, se la volontà è forte e il desiderio grande.”
Assottigliai appena gli occhi, fissandola di straforo mentre i miei nervi si tendevano per l’attenzione, chiedendomi cosa volesse dirmi.
Casualmente, celiai: “In questo momento, il mio più vivo desiderio è trovare presto la via del letto. Ultimamente dormo male, e sto cadendo dal sonno.”
“Ben presto, i nostri ospiti raggiungeranno l’albergo in cui saranno ospitati e tu potrai riposarti, wicca. Potrai dialogare più comodamente con Kate domani, quando il sole sarà alto e la giornata sarà più… propensa a sembrarti migliore” mi informò Sheoban, sorridendomi melliflua.
Annuii bonariamente, chiedendomi nel contempo se per caso Sheoban avesse origliato la nostra conversazione, annullando totalmente la sua aura per non essere percepita dai nostri poteri.
Mi sembrò strano perché, pur se perfettamente controllato, il suo potere era avvertibile anche a metri e metri di distanza.
Quindi, cosa voleva dirmi? O il mio viso mostrava qualcosa che non potevo bloccare?
“Una buona notte di sonno farà miracoli” assentii, finendo il punch e scusandomi con lei non appena vidi Erika entrare in casa.
Poiché la riunione era terminata, le era concesso vederci, a quel punto.
La affiancai, prendendola sottobraccio e sorridendole – lieta di vederla – prima di accompagnarla da Kate.
Le presentai con tono allegro e faceto. “Kate, lascia che ti presenti Erika, la sorella di Jerome.”
“E’ un onore conoscerti, wicca” esalò Erika, con un sorriso eccitato e un breve inchino.
“Onore mio” replicò Kate, guardandoci e sorridendo spontaneamente. “Pagherei per avere un’amicizia salda come quella che sembra legarvi.”
Ridendo divertita e un po' imbarazzata, replicai: “Nessuna ragazza simpatica, nel branco di Bright?”
“Tutte ragazze snob” celiò Kate, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del suo Fenrir, che la fece sghignazzare di gusto. “No, è che sono tutte, o molto più piccole, o molto più grandi di me. Solo un problema generazionale.”
Bright, avvicinandosi a noi tre, avvolse le spalle della sua wicca con un possente braccio, replicando per contro: “Sei tu che pensi che le altre non ti vogliano vicino. Se la piantassi di pensare di essere una freak, allora vivresti anche meglio.”
“Il carattere non si cambia. E non usare quella parola… la odio” brontolò Kate.
“Estelle non vedrebbe l’ora di coccolarti da mattina a sera, se solo glielo permettessi. Ma tu la tieni a distanza come fai con tutte le altre, pensando di essere fuori posto, in mezzo a loro” brontolò Bright, prima di spiegarsi meglio. “Estelle è mia moglie.”
“Io la adoro, Bright, ma credimi, è più forte di me. E’ snervante percepire tutto quello che provate, e stare nel contempo perennemente zitti per evitare gaffes. Ho sempre il terrore che le altre pensino che io origlio. Per voi è più facile visto che, se non volete, non potete leggervi nella mente reciprocamente. Ma il vostro potere fuoriesce al minimo sospiro, e io mi ci trovo in mezzo, golosa come una bambina in mezzo ai dolci, e divoro più energia di quanta ne vorrei… sensazioni comprese.”
Io sgranai gli occhi ed esalai: “Meno male che non sono la sola a pensarlo.”
Erika rise candidamente, avvolgendomi la vita con un braccio e, rivolta a Kate, disse: “Non credo che le donne o gli uomini del branco pensino che tu origli, Kate. Certo, magari a qualcuno potrà dare fastidio, ma questo succederebbe in ogni caso. Non si può star simpatici a tutti. Neppure se si è wiccan.”
“Ecco, diglielo Erika” annuì Bright, dando una pacca sul braccio a Kate, che ridacchiò.
 “Proverò a darti retta, Erika, promesso” mormorò Kate, scrollando le spalle.
Non ero del tutto sicura che le sarebbe bastato il commento di Erika, per convincerla della buona fede delle persone del branco, ma ero certa che ci avrebbe per lo meno provato.
In fondo, potevo capirla. Anche io mi sentivo come un’enorme parabola, sempre sintonizzata sul branco e sulle loro beghe.
Certo, c’erano le dovute eccezioni, vedi Sheoban e Duncan, che erano più ermetici di Fort Knox.
Per il resto, avvertivo fin troppe emozioni latenti provenire dai licantropi e, a volte, era un lavoraccio tenerle fuori dalla mia testa.
Sorridendo comprensiva a Kate, chiosai: “Ti sembra di essere un ricevitore satellitare, vero?”
“Eccome… e anche se so perfettamente che il branco sa che non posso farci nulla, mi sembra sempre di non fare abbastanza per tenerli fuori dalla mia testa” sospirò Kate. “Dovrei esserci abituata, visto che sono anni che posseggo questo dono in forma attiva, eppure…”
“Credo non ci si abitui mai, a certe cose ma, almeno, sai che adesso puoi parlarne con me” le sorrisi confortante, stringendole calorosamente una mano.
“Già. E’ bello non essere più sole” sorrise a sua volta, mostrandomi un po’ del disagio fin qui provato.
No, non doveva essere stato facile, per lei, sopportare tutto da sola, per così tanti anni.
Non faceva specie che si sentisse come un pesce su un albero.
Bright passò lo sguardo da me alla sua wicca diverse volte, allargandosi in un sorriso di pura letizia. A quanto pareva, quella solidarietà reciproca gli fece piacere.
“Non vedevo questo sorriso da tempo, sul viso di Kate. Grazie infinite, Brianna” asserì Bright, piegandosi verso di me e avvolgendomi il collo con una mano.
Sapevo, più o meno, quel che avrebbe fatto, ma era la prima volta che un alfa mi salutava a quella maniera.
Stava rendendo merito al mio titolo.
Arrossendo leggermente, sentii le sue labbra sfiorarmi il collo, appena sotto l’orecchio sinistro, mentre il suo respiro mi sfiorava la gola nell’allontanarsi.
“Hai un potere in cui si potrebbe annegare volentieri” mi sussurrò poi, sorridendo maggiormente e fissandomi con occhi infuocati.
Avevo risvegliato involontariamente il lupo che era in lui, a quanto pareva.
Kate lo spinse indietro con una gomitata nel torace e, con un sogghigno, lo sgridò bonariamente. “Che fai? Flirti con un’altra wicca in mia presenza?”
Bright si riprese a sufficienza per scoppiare in una risata allegra e di gola, dandomi il tempo di riprendermi da quello sguardo.
Forse Duncan aveva ragione. Ero davvero come una droga, per loro.
“Scusa, Kate, ma assaggiare il suo potere può dare veramente alla testa. Se cercassi di sbronzarmi, non mi darebbe le stesse soddisfazioni” commentò Bright, prima di volgere lo sguardo verso il suo ospite ed esclamare: “Non è vero, Duncan? Dammi man forte!”
Lui, che non aveva distolto lo sguardo da noi neppure un attimo, fin da quando Bright si era avvicinato, sorrise mesto e annuì. “Sì, è un potere che inebria.”
“Ecco, vedi? Perciò non pensare ti abbia tradita, a leannan” le disse Bright, dando un’intonazione scherzosa alle sue ultime parole.
“Ah, 'mia cara' dillo a tua moglie, razza di barbagianni” rise Kate, prima di mettermi in guardia. “Stai attenta a questo tipo, prima che decida di diventare bigamo, sposandoti di nascosto.”
Scoppiai a ridere di gusto, attirando nella mia risata sia Erika che Kate, mentre Bright sbuffava contrariato dalla battuta della sua wicca. Duncan ci osservò vacuo, come se gli avessero rubato qualcosa di importante, e che non era in grado di ritrovare.
Non ero davvero in grado di capirlo. Ma, di certo, non avrei perso tempo a chiedermi cos’avesse. Non quella sera, almeno.
Non avevo la forza di affrontarlo, con tutti quei licantropi chiusi tra quattro mura, tutti troppo impegnati a divertirsi per schermare le proprie auree.
Sentivo su di me tutto il loro potere lasciato a briglia sciolta, che letteralmente mi affogò fin quando anche l’ultimo degli ospiti non fu uscito di casa.
Con la promessa di fare un giro per Matlock assieme a Kate, il giorno successivo, la salutai mentre alcuni membri del branco, in auto, conducevano i nostri importanti ospiti in un albergo vicino.
A quel punto, tornata in casa con la testa leggera e i pensieri intorpiditi dal sonno, mi ritrovai a fronteggiare Duncan e il suo sguardo perplesso.
Sospirai, appoggiandomi alla porta d’ingresso mentre lui mi osservava dalla cucina, poggiato fiaccamente contro lo stipite, una mano sul fianco mentre l’altra era rilasciata mollemente lungo la gamba.
Le dita che tamburellavano nervosamente sul tessuto schiarito dei jeans.
Non sapevo che dire, che fare, come affrontare l’argomento, perciò mi limitai a commentare: “Un successone, no?”
“Ti sei comportata egregiamente” annuì, sollevando un momento lo sguardo per scrutare il lampadario nel corridoio prima di tornare a fronteggiarmi. “Tu e Kate sembrate andare d’accordo.”
“E’ wicca da molti più anni di me, e ha potuto spiegarmi un sacco di cose, anche troppe, forse” gli spiegai, distogliendo un momento lo sguardo. “Inoltre, capisco il senso di disagio che prova. Non è carino origliare in continuazione, pur sapendo che la gente se lo aspetta, da noi.”
“Nessuno penserebbe mai che le vostre intenzioni siano meno che meritevoli” abbozzò un sorriso Duncan, il primo di tutta la serata.
“E perché? Vi fidate così ciecamente di noi?” ribattei, sinceramente curiosa.
“Una wicca è votata alla sicurezza del branco, perciò non farebbe mai nulla contro di esso. Quando esiste questo legame è impossibile, per la wicca, infierire in alcun modo su un qualsiasi membro del clan. Se non per difendersi, ovviamente” spiegò Duncan, pensieroso. “E’ uno dei motivi per cui noi licantropi vi abbiamo così a cuore. Sappiamo che siete gli unici esseri umani che mai, mai, si rivolterebbero contro di noi. La storia stessa delle vostre famiglie parla per voi.”
“Che intendi dire? Ora mi confondi” esalai, fissandolo dubbiosa.
Ridendo fiaccamente, Duncan mi fece cenno di seguirlo in salotto. Annuendo, mi accodai a lui, osservandolo mentre scrutava attentamente i libri impilati in un bel mobile di mogano intarsiato.
Quando trovò il volume che cercava, me lo mostrò spiegandosi meglio. “Qui c’è la storia delle wiccan inglesi e irlandesi dal quindicesimo al diciannovesimo secolo. E' l'unico tomo in mio possesso, ma so che ne esistono molti altri. Vuoi vederlo?”
“Neppure sapevo che potesse esistere una cosa del genere” annuii sorpresa, prendendo il volume e accomodandomi su una poltrona.
Duncan mi seguì, allungando una gamba sul bracciolo e indicandomi la pagina che parlava della mia famiglia, i McKenna.
C’erano un’infinità di nomi, persone di cui non sapevo nulla, ma che avevano in comune con me il retaggio magico che ci legava ai licantropi da tempi immemori.
Accanto a ciascun nome, c’era un’accurata sinossi di tutto ciò che quella persona aveva compiuto in vita, sia per la propria famiglia, che per i licantropi con cui era venuta in contatto.
Sfiorai la pagina ruvida e ingiallita dal tempo, passando in rassegna con lo sguardo le miriadi di nomi elencati in bell’ordine e trascritti con caratteri eleganti.
Quasi con reverenziale timore, scrutai la stampa ingrandita del mio blasone, di cui non avevo mai sentito parlare, e di cui ignoravo totalmente l’esistenza.
Leccandomi nervosamente le labbra, domandai con voce roca: “Cosa… cosa significa?”
“Lo scudo a tre bande rappresenta l’onore. I tre leoni, la fierezza e il coraggio. L’elmo, la strenua difesa, e i colori oro e verde indicano la generosità, la speranza e la lealtà nei confronti di chi si ama1” mi spiegò Duncan, indicando man mano con un dito le varie parti del blasone.
“Dici che non è un caso che siano stati scelti proprio questi simboli, per rappresentare la mia famiglia?” mormorai turbata.
“L’onore e il coraggio fanno parte del vostro retaggio, del vostro sangue. Ogni storia qui raccontata parla della vostra forza, sia essa stata brandita da mani maschili o femminili. Come hai potuto constatare di persona, tuo fratello si è mosso a colpo sicuro, cercando notizie su di te. Il sangue non mente mai, in nessun caso, e il comportamento di Gordon ne è stato l’ultima prova tangibile” mi spiegò Duncan, ritirando la mano e riprendendo il libro per riporlo.
“Se il sangue non mente mai, e la lealtà nei confronti di chi amo viene prima di ogni cosa…” replicai allora io, voltandomi a fronteggiarlo. “… perché non puoi accettare per vere le mie parole?”
Duncan si bloccò, il volume fermo a mezz’aria e le spalle tese per la tensione che riverberava in ogni fibra del suo corpo.
Le mie parole parvero frustarlo con violenza, ma io non volli cedere allo sconforto e proseguii asserendo: “Perché pensi che menta, sul nostro legame? Perché pensi che menta su ciò che provo per te?”
“Non mi conosci abbastanza” riuscì a dire Duncan, mettendo via il libro e rimanendo ostinatamente voltato per non guardarmi. “Come puoi dire di amarmi, se mi conosci solo da due mesi?”
Mi alzai, furente e, presolo per un braccio, lo obbligai a voltarsi per fronteggiarlo, decretando senza mezzi termini: “Non sono infatuata di un bell’uomo, Duncan, ficcatelo in testa! Potresti avere anche la faccia di Gabriel, e ti amerei lo stesso, perché è quello che c’è qui dentro…” e nel dirlo, gli puntai un dito contro il torace muscoloso. “… che amo! La tua bellezza mi ha solo complicato le cose! Ma so cosa c’è nel mio cuore e nella mia testa! E nessuno se non io ha concepito questo pensiero!”
“Brie…” esalò, indeciso su cosa dirmi.
“Non pretendo di essere ricambiata, Duncan, maledizione! Non sono così idiota! Ma esigo che tu creda che né il destino, né la mano di un essere superiore, ci ha guidati dove siamo giunti da soli. Te lo ripeterò finché non ci crederai, perché ci siamo scelti indipendentemente da tutto e da tutti, e questo non c'entra nulla con ciò che provo per te."
Sbuffai infastidita, ma riuscii a terminare di dire: "Nessuno ha guidato te, come nessuno ha guidato me. E’ stata una libera scelta, del tutto consapevole, come la è stata quella di amarti” sibilai, continuando a puntare il dito contro di lui, ancora e ancora.
“La scelta di un bambino?” mi irrise lui, con aria affranta.
“Sminuisci te stesso, parlando così. Un bambino non ha il diritto di scegliere? O di pensare?”
Ma già mentre lo dicevo, capii di avere sbagliato.
No, lui non aveva mai scelto. Non aveva mai pensato per se stesso. I suoi genitori non gliel’avevano mai permesso. Il branco non gliel'aveva mai permesso.
Per questo era così radicalmente convinto che, anche quel legame, gli fosse stato imposto e, per quanto io avessi tentato di dirgli il contrario, lui non mi avrebbe mai creduto.
Aggrottò la fronte, mi allontanò il dito con fredda gentilezza e replicò: “Forse tu hai vissuto con genitori amorevoli, ma io no. Non sai cosa significhi crescere in una casa in cui tutti non hanno che aspettative titaniche, quando tutti agognano ad avere da te solo il meglio, quando tutti ti fissano come se non fossi abbastanza svelto o agile, quando nella notte, nei silenzi della tua stanza, senti le voci dei tuoi cari che parlano di te, rammaricandosi della perdita della loro primogenita. Tu non lo sai, cosa vuol dire!”
Indietreggiai, spaventata mio malgrado dalla rabbia repressa che stava montando in lui come la piena di un fiume e, fissando quei suoi occhi lividi macchiati di pagliuzze dorate, esalai: “Duncan, io…”
“Brianna, non portarmi a dire cose di cui mi pentirei” mi minacciò, rude e livido in viso. “Non mi è mai stato concesso il libero arbitrio, fin da quando ero piccolo… perché mai dovrei anche solo credere che abbia avuto in grazia una simile benedizione?!”
Benedizione?
Volli chiedergli cosa intendesse dire con quelle parole ma lui, voltandosi e dirigendosi con passi pesanti verso la finestra, la aprì e mi ordinò: “Vai a letto, Brianna. Non ho intenzione di parlare con te, stanotte.”
“Come desideri” annuii, uscendo mesta dal salotto per dirigermi al piano superiore con passo strascicato.

***

Dopo essersi infilata in bocca una cucchiaiata generosa di gelato, Kate borbottò: “A giudicare dalla tua faccia pesta, direi che la conversazione con Duncan non ha sortito gli effetti voluti.”
“Per poco non ci siamo presi per il collo” brontolai, ingollando un po’ di frappé alla fragola.
La giornata si era aperta con rade nubi all’orizzonte, pallide e diafane come spettri, ma un caldo sole di fine estate era riuscito a spazzarle via.
Ora, rischiarava Matlock illuminando le sue antiche case di mattoni rossi e i suoi viali alberati.
Turisti e abitanti si mescolavano in un cacofonico via vai di persone, lungo la via dove ci eravamo fermate per gustare un prelibato gelato.
Tra loro, le auree leggere e sfruscianti dei licantropi si distinguevano dalle forme neutre dei comuni esseri umani, illuminandosi letteralmente ai nostri occhi di wiccan.
Parlarne con Kate mi fece scoprire che anche lei, al pari mio, avvertiva l’energia delle piante e dei licantropi sotto forma di colori, anche se non con l’intensità con cui li percepivo io.
Quando le parlai dei colori ramati della quercia sacra, annuì, dicendomi che quel colore dipendeva proprio dalla sua vecchiaia.
Se avessimo avuto nel Vigrond una quercia più giovane, essa sarebbe risultata dorata come il resto delle piante.
A tal proposito, le chiesi: “So per fonte sicura che la quercia ormai è vecchia e che, ben presto, le sue radici cominceranno a cedere. Cosa succederà, quando avverrà il peggio?”
“Niente di così tremendo come temi, Brie” mi sorrise Kate. “Semplicemente, Duncan prenderà una delle sue ghiande e la pianterà poco lontano dalla madre, perché possa crescere lontana dalla sua ombra e, quando essa perirà, convoglierà tutti i suoi ricordi nella figlia, di modo tale che nulla vada perduto.”
“Sarà un dispiacere… è una pianta così bella” sospirai mesta, terminando il frappé.
La cannuccia emise un borbottio contrariato mentre aspiravo e, ridacchiando, lasciai perdere le ultime gocce di quel succulento beverone per poi mormorare: “Capisco comunque che debba avvenire. Fa parte del ciclo naturale delle cose.”
“Parlare della quercia non cancellerà le tue ansie, Brie” mi fece notare Kate, sorridendomi comprensiva.
“Già” sbuffai, scostando il bicchiere del frappé per appoggiare i gomiti sul tavolino da bar cui eravamo accomodate.
Lungo la strada, un tram sferragliò lentamente mentre alcune auto tentavano di superarlo, sfidando le leggi delle fisica e rischiando di finire spiaccicate contro i veicoli che procedevano sulla corsia opposta.
Come se godessero nello sfidare il destino.
Sospirando, le chiesi: “Siamo proprio certe che non sia io a sbagliarmi? Che non sia effettivamente il destino a farmi provare ciò che sento?”
“Sai perfettamente che non è così, Brianna. La visione era più che chiara. Il tuo spirito ha voluto tornare nel suo clan, come gli spiriti della Triade hanno voluto accettarti come tu hai accettato loro, quali compagni di vita. Il fatto che poi tu ti sia innamorata di Duncan, è un corollario. Ma anche questa è stata una tua scelta, non te l’ha imposto nessuno, anche se capisco che, trovarsi a tu per tu con un uomo come Duncan, possa far girare la testa con facilità” ammiccò, cercando di alleggerire la tensione con un sorriso.
“Volesse il cielo che fosse solo quello, Kate. Un’infatuazione sarebbe facile da annullare. Ma ciò che sento è ben più forte, … e distruttivo” sbottai, passandomi una mano tra i capelli scalati e d’oro brillante. “E il comportamento di Duncan non mi aiuta. A volte è carino e gentile, altre ancora mi caccia via malamente, per non parlare di quanto sembra affranto, quando sta con me. Come dovrei interpretare i suoi sentimenti, se poi se ne sta perennemente barricato?”
“Perennemente, eh? Beh, di sicuro ti nasconde qualcosa di cui si vergogna, e questi suoi voltafaccia sono il chiaro sintomo di una persona in conflitto con se stessa. Forse non è così estraneo ai tuoi sentimenti come dice di essere” chiosò Kate, pensierosa, picchiettandosi il cucchiaino di metallo contro il mento.
“Sii seria, non è interessato a me. Ma vorrei che almeno accettasse il nostro legame per quello che è. Una scelta. Niente di più, niente di meno” scossi il capo, fissandola malamente.
“E tu accetteresti di stare al suo fianco come amica, pur amandolo, se lui accettasse il legame... ma non te?” mi disse scettica Kate.
“Sì, lo farei” assentii senza alcuna remora.
“Allora rendi onore al tuo nome, McKenna” mi sorrise Kate, prima di veder comparire uno dei licantropi di Duncan che, dopo un breve e ossequioso cenno del capo, chiese il permesso di parlarci.
Da quando ero diventata ufficialmente la wicca del branco, non avevo più potuto evitare scene del genere.
Pur a malincuore, avevo dovuto accettare il loro comportamento per non offenderli, esattamente come avevo accettato i loro doni all’indomani della mia Iniziazione al Vigrond.
“Bright di Aberdeen manda a dire alla wicca del suo branco che, a causa di problemi interni, è costretto a rientrare prima del tempo, e chiede se questo possa comportare dei problemi a miss Kate” disse compunto il giovane, di cui non ricordavo il nome.
Kate mi fissò sorpresa, equiparando di sicuro la mia espressione sconcertata, e domandò: “Non ti ha detto cos’è successo?”
“No, wicca. Non conosco i dettagli” scosse il capo il ragazzo.
“Dev’essere successo qualcosa di veramente grosso, per aver richiamato Bright a casa” mormorò pensierosa Kate, prima di fissarmi spiacente e aggiungere: “Devo andare con lui. Non posso lasciarlo solo. Certo, Estelle può dargli una mano, e anche gli altri, ma…”
Sorridendo, scossi il capo e asserii: “Ma la wicca deve stare al fianco del suo Fenrir. Ti capisco. Farei così anch’io. Parti pure tranquilla. Risolverò da sola i miei problemi.”
“Mi spiace, Brianna” sospirò Kate, alzandosi in piedi assieme a me.
Dopo aver pagato il conto, recuperammo la Volvo di Duncan e, mettendomi al volante, la rassicurai. “Non ti devi preoccupare per me, Kate. Sistemerò tutto, in un modo o nell’altro.”
“Spero solo di poterti rivedere, quando torneremo qui per un’altra visita” mormorò Kate, scura in volto.
Già. Sarebbe piaciuto anche a me ma, da come si erano messe le cose, ne dubitavo fortemente.
Il discorso di Duncan mi aveva turbato, così come il suo strenuo, palese rifiuto di credermi.
Non potevo insistere oltre, se davanti a me trovavo soltanto un uomo sfiduciato e deciso più che mai a tenermi fuori dalla sua vita sentimentale.
Fosse anche solo come amica.
L’avrei ulteriormente ferito, se avessi proseguito nell’intento di convincerlo a tutti i costi a credermi, e non lo volevo.
Purtroppo per me e per il mio cuore, mi era più cara la sua felicità rispetto alla mia.
Anche se questo, Duncan, non lo capiva.
Attraversammo le strade affollate di Matlock senza realmente vederle, i pensieri focalizzati sui problemi scoppiati ad Aberdeen, problemi tali che neppure lo Sköll del posto aveva ritenuto di poter giostrare da solo.
Temevo con tutta me stessa che potessero c’entrare i Cacciatori, con questa chiamata improvvisa.
Quando finalmente la casa di Duncan fu in vista, accelerai ed entrai nel cortile, lasciando dietro di me una scia di polvere biancastra non appena gli pneumatici rotolarono sulla ghiaia.
Fermata l’auto a una spanna dalla siepe di gelsomino, scesi di corsa assieme a Kate e, riversandoci in casa – dove avvertimmo la presenza di Duncan e Bright – dissi a mezza voce: “Duncan, siamo qui.”
Duncan sbucò dalla cucina, il viso teso e scuro non meno di Bright, che attendeva in piedi, accanto alla consolle, le braccia strette al petto e la bocca ridotta a una linea sottile e pallida.
Kate si fermò accanto a me, il viso pallido e le mani tremanti e, con voce roca, esalò: “Dimmi tutto, Bright.”
Gli occhi tristi di Bright si posarono sul viso preoccupato di Kate che, dopo un attimo di tentennamento, aggiunse: “La verità… niente di meno, Bright.”
Annuendo suo malgrado, Bright la avvicinò stringendola in un abbraccio e, al suo orecchio, disse mestamente: “Tua madre, Kate… è morta questa mattina. Un’auto pirata… mentre andava in negozio per aprire…”
Io sgranai gli occhi, basita, mentre Kate si stringeva a Bright singhiozzando convulsamente.
Un’auto. Un’altra auto aveva falciato una vita.
Scossi il capo, cercando a tentoni il muro per appoggiarmi contro di esso, le gambe molli per un dolore che credevo sopito ma che, invece, non era mai morto davvero dentro di me.
Rivivere quei momenti fu un attimo.
La chiamata della polizia, la nostra baby-sitter che ci abbracciava, la signora gentile degli assistenti sociali, i mesi passati nell’orfanotrofio in attesa che la nostra famiglia ci reclamasse.
Tutto passò di fronte ai miei occhi serrati come un film lanciato a tutta velocità, i flash di un passato che avrei preferito non rivivere ma che, prepotenti, tornarono a scavare voragini nel mio animo già ferito.
Non trovai il muro, ma Duncan, a sorreggermi.
Pur apprezzando il suo gesto, lo allontanai con una mano per raggiungere uno sgabello, dove mi sedetti e lasciai crollare il capo, poggiando la fronte contro la superficie liscia e fredda della consolle.
I singhiozzi di Kate ammorbarono l’aria, mentre il potere di Bright la avvolgeva come una calda coperta nel tentativo di confortarla in quel momento di massimo dolore.
Duncan, dietro di me, muto testimone del mio personale stato di prostrazione, mi sfiorò più volte il capo con la mano, carezzandomi gentilmente senza mai aprire bocca.
Non trovai la forza di allontanarlo nuovamente, schiacciata com'ero da sentimenti contrastanti - che mi percuotevano come colpi di maglio - per dirgli che la sua condiscendenza, in quel momento, non era altro che un’ennesima stilettata al cuore, per me.
Impiegammo forse una mezz’ora per riprenderci e, quando Kate si scostò da Bright, gli occhi pesti e il viso pallido come un cencio, abbracciò me e gracchiò: “So che tu puoi capirmi meglio di chiunque altro.”
“Purtroppo sì, Kate, perciò ti dico, chiamami, non importa a che ora ma, se ne senti la necessità, chiamami. Sarò qui per te” esalai, affondando il viso tra i suoi riccioli ramati prima di scostarmi da lei e baciarla sulle guance umide di lacrime salate.
Bright si accostò nuovamente a Kate, ben deciso a non abbandonarla un solo attimo al suo dolore.
Scrutando spiacente sia me che Duncan, mormorò: “Mi spiace che la nostra visita debba concludersi a questo modo. Mi sembra di non ripagare degnamente la vostra generosa ospitalità, decidendo di andarmene così.”
“Non dirlo neppure, Bright. Andate, e non pensate a noi” scosse il capo Duncan, salutando Bright con una stretta di mano e Kate con un bacio e un abbraccio caloroso.
Fuori, già al volante della Opel Insignia con cui erano giunti a Matlock, il loro Hati – Claus – avviò il motore non appena li vide comparire oltre lo specchio della porta.
Senza attendere un secondo di più, partì alla volta di Aberdeen, lasciando dietro di sé solo una nuvola di polvere e il vuoto della casa dietro di noi.
Ferma sulla porta d’ingresso, il volto emaciato e stanco, sospirai pesantemente prima di mormorare: “Vado a fare una passeggiata con Gabriel… ti spiace?”
“No, vai pure. Capisco il tuo bisogno di stare da sola” assentì piano Duncan dietro di me. “Mi troverai in clinica.”
“Va bene” annuii, dirigendomi verso le stalle senza neppure voltarmi.
In quel momento, non avrei saputo cosa dire.




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Capitolo 24
*** XXIV. ***


N.d.A.: Un bel po' di carne al fuoco, preparatevi...


XIV. 







 

Il principio secondo cui, chi è innamorato, è felice e spensierato, deve essere venuto in mente a qualcuno con un senso dell’umorismo davvero sadico.
Essere innamorati ti fa star male, soprattutto quando l’oggetto del tuo amore non ricambia o, peggio, crede che tu sia impazzita.
Parlarne con Erika, di fronte a una tazza gigante di gelato, mi aveva aiutato, ma solo in parte.
Sentivo la mancanza del conforto materno, anche se stentavo ad ammetterlo.
Mi mancavano le battutine di spirito di Mary B, che già mi aveva aiutato a superare la crisi che avevo avuto con Leon, l’anno precedente.
Ripensarci, mi fece sorridere. Come avevo potuto stare tanto male? Quel che provavo ora, era molto, molto più intenso!
Non potevo pensare di sfogarmi al telefono con lei, mettendola al corrente delle mie pene amorose.
Lei non sapeva nulla di Duncan, da quel punto di vista, né di come questo mio sentimento fosse nato e si fosse sviluppato.
L’avrei messa inutilmente in agitazione.
Mi rimaneva una sola scelta. Sperai solo di trovare ciò che cercavo, perché ne avevo un bisogno quasi fisico.
Preso il coraggio a due mani e afferrato il cellulare, che tenevo nella tasca dei pantaloni, digitai il numero di telefono di Sarah e, dopo aver atteso con impazienza di udire la sua voce, esordii dicendo: “Ciao, Sarah… sono Brie… ti disturbo?”
“Non mi disturbi, mai… in cosa posso esserti utile?” mi rispose all’altro capo, la voce pimpante e serena.
La madre di Erika era spumeggiante come una fresca giornata di primavera, e stentavo a ricordarmi chi fosse in realtà, all’interno del branco.
Il suo carattere, così solare e fresco, mal si addiceva a un sicario senza scrupoli.
Cercando di non pensarci, le esposi il mio problema. “Beh, avrei bisogno di parlarti, se non sei troppo impegnata.”
“Vieni a pranzo da me, oggi… chiacchiereremo un po’, va bene?” mi propose, dandomi l’indirizzo dell’azienda in cui lavorava, a Matlock.
La ringraziai per la gentilezza e chiusi la comunicazione, lo sguardo di Gab puntato addosso a me, mentre la sua coda scodinzolava gioviale.
“E’ inutile che mi guardi così, oggi non ti porto fuori. Hai bisogno di riposare, dopo la cavalcata di ieri” lo rabberciai bonariamente, carezzandogli il muso con un sorrisino.
Lui sbuffò, chiaramente contrariato. Ridacchiando per diretta conseguenza, me lo strinsi al petto, sussurrando: “Sarebbe mille volte più semplice essere una giumenta e amarti, sai?”
Nitrì come per darmi ragione e io, scostandomi da lui per un’ultima carezza, me ne tornai in casa per rassettare la cucina e la mia stanza.
Lanciai solo uno sguardo addolorato in direzione della clinica, dove Duncan si stava occupando dei suoi pazienti animali e dei loro padroni.
Quella mattina, avevamo parlato pochissimo, esprimendoci praticamente a monosillabi, e solo la telefonata disperata di una sua cliente, ci aveva salvato da una colazione condita di silenzi imbarazzati e gesti inespressivi.
Dopo la mia cavalcata nei boschi, ero rientrata distrutta e davvero poco disposta a chiacchierare, e Duncan aveva accettato il mio silenzio con un assenso e un sospiro.
Non accettavo il suo strenuo rifiuto di comprendere, perché sapevo perfettamente dove stava la verità, e non era come l’aveva dipinta lui.
Ugualmente, non potevo continuare a discutere con lui dell’argomento, o avremmo finito con lo scannarci a vicenda, o peggio.
Lui era convinto che il mio amore per lui fosse deviato dal legame che ci univa. Io, invece, sapevo che non era così, e Kate me l’aveva confermato.
Ma sapevo anche che, più quel conflitto tra noi fosse andato avanti, più avrei messo in pericolo le persone che amavo.
Dovevo decidermi, per un senso o per un altro. Ma era così difficile!

***

L’azienda di informatica per cui lavorava Sarah era nel centro di Matlock, circondata da alte costruzioni in vetro, così come da antichi palazzi appartenuti, un tempo, alle case nobiliari del luogo.
Nuovo si mescolava ad antico, un po’ come avveniva dentro di me. Un corpo di ragazza in cui dimoravano poteri ancestrali.
Speravo solo che quegli antipodi non cozzassero troppo dentro di me, portandomi a impazzire. Anche se pensavo di esserci molto vicina.
L’indirizzo che mi aveva dato Sarah, mi aveva condotta di fronte a un enorme palazzo in stile liberty, con ampie finestre e muri ricoperti di stucchi in stile rococò.
La pareti esterne, di un candido color panna, recavano i segni inequivocabili dello smog ma, a parte quel particolare, tutto era mantenuto in perfetto stato e ordine. L’interno non era da meno.
I pavimenti, in marmo multicolore, ricoprivano l’intera hall d’entrata, e un bancone in radica di noce si inarcava verso le porte d’entrata come un arco flesso.
Oltre quella barriera lignea, e lucida come uno specchio, una donna sulla quarantina, armata di auricolare e abbigliata con un rigoroso tailleur nero fumo, rispondeva precisa e affabile al telefono.
Mi avvicinai a lei per chiedere dove si trovasse l’ufficio di Sarah e, nel farlo, sbirciai oltre il colonnato d’entrata.
Da quel punto, riuscii a scorgere un angolo riservato a coloro che erano in attesa di essere ricevuti.
Bei divanetti di pelle erano seminascosti dietro paraventi di legno e carta di riso, dalle elaborate serigrafie giapponesi.
Accanto alle alte finestre del piano terra, una macchina per il caffè e un distributore di bibite completavano l’angolo relax.
Distolsi subito lo sguardo, non appena mi resi conto che la telefonista si era liberata e, sorridendole cordiale, esordii dicendo: “Buongiono. Stavo cercando l’ufficio di Sarah Withlock. Mi sta aspettando.”
La donna mi rivolse un sorriso di circostanza, prima di sbirciare sulla lista degli appuntamenti che aveva sottomano.
Annuendo una sola volta, mormorò: “Ann White, giusto?”
“Esatto” assentii meccanicamente.
La donna tracciò una linea sul mio nome, indicandomi poi una fila di ascensori in acciaio sulla sua destra. “Ultimo piano, ufficio 7-A . Buona giornata.”
“Anche a lei” sussurrai lesta, prima di allontanarmi.
Per quanto fossi diversa dalle foto che comparivano sporadicamente in televisione, era meglio che gli estranei non si soffermassero troppo a guardarmi in faccia.
In fretta, salii su uno degli ascensori e pigiai sul numero del piano, ascoltando distrattamente il leggero sibilare dei cavi durante la risalita.
Quando raggiunsi finalmente il piano, ne uscii con passo lesto e, dopo aver controllato i numeri applicati su ogni porta, bussai alla numero sette.
Aperto il battente, trovai ad attendermi esattamente la persona che stavo cercando.
Sarah mi salutò con un sorriso e un abbraccio e, dopo avermi preso sottobraccio, mi accompagnò fino alla mensa dell’azienda.
Lì, pranzammo tranquillamente a un tavolo d’angolo, osservando le persone in strada e il traffico impazzito di mezzogiorno.
Rade nubi tingevano il cielo azzurro, lanciando ombre longilinee sulla città. Ammirandole distrattamente, dissi: “Sai, a volte mi piacerebbe essere una nuvola, senza legami, mai nello stesso posto, libera di andare dove voglio.”
“Chi non lo vorrebbe?” mi sorrise Sarah, dando una forchettata alla sua insalata mista. “A nessuno piace essere vincolato contro la propria volontà. Ma a volte non si può fare altrimenti.”
Mi limitai a sorriderle, preferendo non rispondere e, con calma, terminai di mangiare il mio piatto di spaghetti al sugo di verdure. Il tiramisù che avevo preso, pareva davvero invitante, ma prima dovevo terminare la pasta.
Chissà che sfogarsi sui dolci non mi servisse a calmarmi?
Dopo circa un’ora passata placidamente nella sala mensa, ci dirigemmo nuovamente nell’ufficio di Sarah.
Accomodatami su una comoda poltroncina in pelle color mogano, la ascoltai proseguire il suo discorso, sentenziando: “Essere la guida di un branco è un vincolo che non si può spezzare, un po’ come essere dei principi ereditari o qualcosa del genere.”
“Era così evidente che volevo parlare di Duncan?” ridacchiai, agitandomi nervosamente sulla poltrona.
“Si vede che qualcosa turba entrambi, mia cara, anche se non ho ben capito cosa sia successo tra voi” scrollò le spalle, sedendosi dietro la sua scrivania per poi guardarmi attentamente. “Ma una cosa la so. Quel che sta agitando i vostri animi interessa alla Lupa Madre, e non so in che modo. Vedo come ti guarda, e non mi piace, e vedo come guarda Duncan, e quello mi piace ancor meno. Da quando è avvenuta la tua Iniziazione, lei si aggira attorno a te come una leonessa con un branco di zebbre.”
“Meno male che non sono paranoica” sospirai, non sapendo bene se sentirmi sollevata, o ancor più depressa. “Ho la netta impressione che sia molto interessata al mio… beh, al mio coinvolgimento sentimentale nei confronti di Duncan."
Mi grattai una guancia, pensierosa, e ripresi a dire: "A lei, naturalmente, non ho detto nulla, ma penso che lo sappia. Inoltre, si è offerta di farmi da madre, per così dire, come se avesse compreso il mio bisogno di parlare di questo mio sentimento con qualcuno più esperto di me. E ammetto di averci pensato, mio malgrado. Avevi ragione, nel dire che il suo charme è molto potente.”
Sarah si limitò a sollevare un sopracciglio con interesse.
A quel punto, le raccontai brevemente di quanto fossi presa da Duncan e di come, al mio accennare ai miei sentimenti, lui si fosse chiuso a riccio.
Fu a quel punto che cominciai a provare un senso di tranquillità che, ormai da tempo, non provavo più.
Non seppi mai se fu per merito del suo sguardo comprensivo, o dei suoi sorrisi colmi di calore umano ma, in ogni caso, più i miei segreti uscivano dalla mia bocca, più il mio animo si pacificava.
Non mi ero resa conto di essere arrivata al limite della sopportazione fisica, e mentale, se non dopo aver detto tutto a Sarah.
Alla fine, ammisi con un mezzo sorriso: “Grazie per avermi ascoltata. Ora sto meglio. L’avevo già detto a Jerome ed Erika, ma parlare con te mi è stato di grande aiuto.”
Sarah mi sorrise gentilmente, replicando: “Mi ritengo onorata del fatto che tu abbia scelto me, per confidarti, oltre ai miei zelanti quanto silenziosi figlioli. Non mi hanno mai menzionato nulla.”
“Sono ottimi amici” annuii con convinzione.
“Se non altro, so perché Duncan è così suscettibile, e perché Sheoban ti guarda come se fossi una ciotola di panna. Certo che arrivare a proporti di essere, per te, come una madre, mi ha sorpreso parecchio. Non pensavo fosse arrivata a bramarti con così tanto ardore!”
Risi a quel commento e Sarah, ammiccando più seriamente, sentenziò: “Quando saprai il perché, riderai meno, credimi.”
“Oh, è così brutta?” esalai, sorprendendomi non poco.
“Non brutta… ma… ingiusta, direi… almeno, secondo il mio metro di giudizio” scrollò le spalle, prima di spiegarsi meglio. “Esiste da sempre una connessione speciale tra wiccan e licantropi, come hai potuto percepire tu stessa sulla pelle. Questa connessione, visto quel che tu provi per Duncan, non può che acuirsi. Se poi aggiungiamo il vostro legame tra anime e la Cerimonia del Sangue, che avete giustamente compiuto, la cosa si rivela essere ancora più forte.”
“Che intendi dire?”chiesi a quel punto, turbata.
“Il fatto che wiccan e licantropi siano connessi tra loro grazie al potere della luna può dare, alla wicca che voglia, e possa, portarla agli estremi, un’energia inimmaginabile. Una forza che le permetterebbe di essere superiore ai Gerarchi del branco."
Facendosi mortalmente seria, aggiunse: "Questa forza potrebbe mettere al sicuro tutto il clan, anche nelle circostanze più avverse. Per questo si dice che Fenrir, Hati e Sköll appartengono alle wiccan. Esse hanno effettivamente la possibilità di accumulare più potere dei Gerarchi, utilizzando la loro energia. Anche senza permesso, tra l’altro, se la cosa si rendesse strettamente necessaria.”
Annuii, deglutendo a fatica e lei, alzandosi dalla poltrona per andare alla finestra, guardò distrattamente fuori prima di proseguire dicendo: “La seconda guerra mondiale avrebbe messo in serio pericolo il nostro branco, visti i bombardamenti compiuti dalla Luftwaffe… per quanto forti, non siamo immuni alle bombe.”
“Immagino” annuii cauta.
“In quel periodo, il nostro branco aveva subito grandi perdite a causa di una lotta intestina con un altro clan, e i nostri guerrieri più forti erano rimasti uccisi, o menomati da armi ad argento. Insomma, non avremmo potuto difenderci da eventuali attacchi di terra, e le bombe avrebbero fatto il resto, se fossero arrivate fino a noi” mi spiegò succintamente, sempre scrutando fuori dalla finestra.
Lo sguardo era perso nel vuoto, e la mente immersa nella storia che mi stava raccontando.
Rimase in silenzio per alcuni attimi, forse indecisa su come procedere, quando finalmente si volse verso di me e disse: “All’epoca, il branco poteva contare su una wicca. Il suo nome era Lionors Vaughan. Penso tu ne abbia già sentito parlare, vero?”
Al mio assenso, proseguì. “Non aveva i tuoi poteri, da quel che so, ma era abbastanza potente. Non a sufficienza, però, per tenere il branco al riparo dai pericoli connessi alla guerra.”
“Che ne era dei Gerarchi?”chiesi, turbata.
“La Triade dei Gerarchi era potente, ma non indistruttibile, e sia Connor che Sheoban lo sapevano” asserì Sarah, adombrandosi.
“Perciò?” chiesi, temendo già la sua risposta.
Sospirando, Sarah si venne a mettere di fronte a me, il corpo poggiato contro la scrivania.
I suoi profondi occhi mi sondarono l’animo quasi cercando, dentro di me, il coraggio per sopportare ciò che lei stava per dirmi.
Non so cosa vide, ma asserì: “Lionors aveva un legame d’anima con Connor.”
“Oh, cavoli” esalai, sgranando gli occhi. “Come lo sai?”
Scrollando le spalle, Sarah mi mise al corrente di ciò che era venuta a sapere nel corso degli anni. “Me lo raccontò mia madre. Avevamo una Völva molto potente, all'epoca e, quando li vide assieme, percepì ancor prima di loro il legame che li univa. Eccitata, Margareth - così si chiamava - pensò bene di mettere a conoscenza del branco questo fatto benaugurante e, durante una riunione del clan al Vigrond, la verità venne a galla. Naturalmente, Sheoban ne fu molto lieta.”
Stringendo i denti per un momento, quasi le desse fastidio il solo pensiero, Sarah continuò dicendo: “Sheoban spinse Lionors a unirsi a Connor per generare un figlio, cosa che avrebbe reso la wicca più potente che mai, e perciò in grado di proteggere tutto il clan in quel momento di profondo pericolo.”
Sicuramente dovetti sembrare un’ebete, perché Sarah sorrise per un attimo, prima di tornare nuovamente seria e proseguire nel racconto. “Lo stadio di massimo fulgore, per una donna, è la gravidanza. Lionors divenne abbastanza potente per erigere una barriera di puro potere attorno alla nostra gente e, della guerra, il branco conobbe solo le privazioni, ma non la morte violenta.”
“Sheoban… li spinse… a letto insieme?” riuscii a dire a stento, gli occhi a bottone e la bocca spalancata per lo shock.
“Precisamente” annuì, disgustata. “Era talmente interessata al bene del branco, o meglio, al potere che avrebbe potuto ottenere, che passò sopra a tutto, persino al suo matrimonio con Connor. E Connor non si fece di certo pregare. Lionors era una bella donna, dopotutto… guarda quella foto.”
Sorpresa, mi volsi e seguii con lo sguardo le indicazioni di Sarah, che stava ponendo alla mia attenzione una vecchia fotografia appesa al muro, circondata da una bella cornice di legno di ciliegio.
Mi alzai, curiosa, e lei, seguendomi, continuò a parlare con tono basso e roco. “Quelli sono Lionors, Connor, Sheoban e il giovane Abraham, il figlio che nacque da quell’unione.”
Poggiai una mano contro il muro, le gambe molli per la debolezza improvvisa che mi prese.
Un profuso rossore mi salì alle gote, incendiandomi il volto e, volgendomi sconvolta verso Sarah, esclamai: “Non vorrà mica che mi faccia Duncan per i suoi porci comodi, vero?!”
“Detto così suona volgarissimo, ma il punto lo hai centrato perfettamente” annuì Sarah, con un mezzo sorriso. “Sheoban controlla fin troppo questo Consiglio, e Duncan è talmente succube di lei da non vietarle nulla. E tu, mia cara, sei giovane e corruttibile, no?”
Nel dirlo, mi strizzò l’occhio.
“Col cavolo che sono corruttibile…” brontolai, prima di ammettere: “…ma capisco cosa vuoi dire. Il mio amore per Duncan le da la sicurezza che, prima o poi, io ceda. E se fosse lo stesso Duncan a chiedermelo, per il bene del branco, forse non riuscirei a dire di no.”
“Capisci perché ne sono disgustata?” mi domandò Sarah, accigliandosi. “Quando mia madre me ne parlò, mi si rivoltò lo stomaco. Sheoban ha giocato con i sentimenti di troppe persone, per mantenere nella totale sicurezza il suo branco, e questo non mi sta bene. Non siamo pedine sulla sua scacchiera personale, e il fatto che voglia giocare con te e Duncan allo stesso gioco, mi manda in bestia.”
“Se anche io accettassi una cosa del genere, cosa le fa credere che io, poi, userei il mio potere per i suoi comodi?” chiesi a quel punto, turbata anche al solo pensiero di una cosa simile.
“E’ semplice. Se una wicca si unisce a un licantropo, perde la sua indipendenza e diventa parte integrante del branco, e perciò è soggetta agli ordini della Prima Lupa e di Fenrir” ammise sprezzante Sarah. “Sheoban non avrebbe mai commesso l’errore di dare a Lionors tanto potere, senza avere la certezza di poterlo sfruttare come voleva. Alla fine, Lionors non concesse al branco solo protezione, fece molto di più.”
“Cosa?” riuscii a chiedere.
“Non chiedermelo, Brianna. Ti prego” sospirò Sarah, fissandomi combattuta.
“Commise… degli omicidi?” esalai, sconvolta.
Con un potere così devastante, e stretto fermamente nelle sue mani, cosa poteva fare una donna assetata di dominio come Sheoban?
“Il branco di Matlock non era composto di tre contee, quando Lionors si unì a questo clan” soggiunse Sarah, scuotendo mesta il capo.
Non volli sapere altro. La sola idea mi disgustò così tanto, che il mio stomaco fu sul punto di rimettere tutto quello che avevo appena mangiato.
Quanto era lunga la scia di sangue che aveva lasciato dietro di sé Sheoban?
“Al branco stette bene?” chiesi con voce roca.
“Il branco non si poté opporre, e la conquista di nuovi territori piacque a molti membri del clan. E così Lionors agì” sospirò Sarah, scuotendo il capo.
Tornai a guardare la fotografia, i volti giovani e apparentemente ingenui di Sheoban e famiglia quando, all’improvviso, i miei occhi si focalizzarono meglio su Abraham, e lì si congelarono, in preda al panico e alla furia.
Quel taglio degli occhi, stranamente a mandorla, quella piega ironica della bocca carnosa, circondata da un viso allungato e dagli zigomi alti, quella voglia sul collo, proprio vicino al pomo d’adamo… non poteva essere… eppure…
Voltandomi nervosamente verso Sarah, le chiesi: “Che ne è stato, di Abraham? Dov’è, ora?”
Un’ombra calò sul suo viso, quando disse: “E’ morto. Ucciso da Freki, su ordine di Fenrir.”
Sconvolta, esalai: “Come? E perché?”
“Perché uccise sua madre, quando aveva sedici anni. Non si seppe mai il perché ma, quando Connor trovò Lionors con la gola tagliata, sdraiata nel suo stesso sangue e con l’odore di Abraham sul coltello che l’aveva uccisa, lui mise in moto Freki perché compisse la sua vendetta” mi spiegò Sarah, gli occhi diventati due lame di ghiaccio.
Gli occhi tornarono alla foto, a quello sguardo che ero certa di conoscere, e chiesi ancora: “Aveva gli occhi verde-azzurro e i capelli castano chiari?”
Sarah mi fissò sorpresa, ed esalò: “E tu come lo sai?”
Aggrottando pericolosamente la fronte, decretai: “Abraham non è affatto morto.”
“Ma … ma Connor… disse che…” tentennò Sarah, guardandomi senza capire.
“Il branco non vide mai il suo corpo, vero?” replicai, lo sguardo sempre fisso negli occhi in bianco e nero di Abraham.
“No. Abraham non venne riportato indietro. Fenrir disse che Freki lo aveva divorato” esalò Sarah, adombrandosi e cominciando a capire dove volessi andare a parare.
“Abraham è il padre di Patrick, il mio patrigno. Potrei metterci la mano sul fuoco” sibilai rabbiosamente.
Afferrando il mio cellulare, digitai in fretta il numero di Mary B che, allegra, mi rispose, dicendo: “Tesoro, ciao… come stai?”
“Tutto bene, Mary B. Ma avrei un favore da chiederti…” mormorai, fissando un momento Sarah prima di continuare. “…nonno Abraham ha avuto dei problemi di salute, da giovane, che tu sappia? Qualche ricovero ospedaliero?”
“Tesoro, le tue doti includono anche la veggenza, per caso?” borbottò Mary B, con voce vagamente sgomenta.
“No, ma ho un brutto presentimento” sospirai. “Hai la sua cartella clinica?”
“Brie, è un segreto professionale” tentennò Mary B.
“Sì, va bene, ma dimmi se è stato ricoverato, in gioventù” la esortai, lesta, il cervello che andava a mille per risistemare tutti i pezzi del puzzle.
Potevo sentire i pezzettini che si incastravano l’uno con l’altro, dandomi l’idea del quadro generale a cui mi stavo avvicinando.
Sentii un cassetto aprirsi e dei fogli che venivano mossi a gran velocità, prima di sentirle dire: “Ricovero ospedaliero a Lockerbie, nel gennaio del 1956. Il paziente lamentava parziale perdita della memoria e stati di delirio, uniti a crisi di panico. Fu curato con antidepressivi per circa sei mesi, prima di essere dimesso e inviato presso un vicino orfanotrofio per l’adozione. Nessuno lo venne a cercare, così le autorità lo dichiararono orfano” dopo un momento, aggiunse: “Disse di non ricordare nulla della sua famiglia, di conoscere solo il suo nome… ah, c’è  un appunto. Qui c’è scritto che la vista del cane lupo del suo medico curante gli causò un’autentica crisi di nervi, tale da dover allontanare subito l’animale, vista la sua reazione spropositata.”
Avevo messo il viva voce, perciò anche Sarah udì quel che le mie orecchie avevano fagocitato con ferocia. Abraham Smithson altri non era che il figlio di Connor e Lionors.
Con tutta probabilità, l’omicidio efferato della madre doveva averlo fatto uscire di senno.
E il fatto che avesse reagito così, di fronte a quel cane, era forse la causa dell’omicidio della madre.
Probabilmente, lei gli aveva parlato del suo retaggio, e lui era andato fuori di testa.
“Tesoro, perché mi hai chiesto di Abraham?” mi chiese Mary B, confusa.
“Posso richiamarti più tardi, Mary B? Devo fare due conti” mormorai confusa, la mano libera premuta sulla fronte mentre il cervello, come invaso dall’acqua, affogava in ricordi che non pensavo di avere dentro di me.
La stanza scomparve, come ricoperta da un velo scuro e io mi ritrovai piccina, nascosta dietro una porta, intenta a origliare una conversazione che non era per le mie orecchie di bambina.
Udii mia nonna – mia nonna? – dire a mio padre, con concitazione: “Non è possibile che abbia parlato proprio di wiccan.Ne sei sicuro?”
“Sì, e la cosa mi ha lasciato di stucco. Com’è possibile che ne sia al corrente?” replicò mio padre, la voce non meno ansiosa di quella della nonna.
“Non lo so. Ma è un pericolo per Elizabeth e per Brianna, rimanere qui. Non possiamo sapere cosa potrebbero fare alla bambina, o cosa potrebbero inventarsi, ora che Lizzie è incinta ed è indifesa di fronte a loro” sospirò mia nonna, il viso percorso dalla preoccupazione.
“Pensi arriverebbero a fare loro del male?” esalò mio padre, sgranando gli occhi.
“Sono Cacciatori, caro, e non si fermerebbero di fronte a nulla, se avessero la possibilità di eliminare la loro nemesi con più facilità” sospirò mia nonna, afflitta.
“Ma… come è possibile? Tu… tu non li senti, vero?” scosse il capo mio padre, confuso.
“No, ma Elizabeth ne è in grado, e Brianna penso diventerà ancora più forte di lei. C’è un enorme potere, nel suo animo, e questo mi fa temere per lei. E’ per questo che devi portarle via da qui, al più presto. Brie deve essere messa al sicuro dal suo stesso retaggio, oltre che dai Cacciatori” decretò mia nonna, con veemenza.
Mio padre si passò una mano sul viso pallido, lo sguardo perso nel vuoto, prima di stabilire: “Va bene, mi accorderò con la mia sede di Boston e andremo là. Ma tu verrai con noi. Tremo al pensiero di quello che potrebbero farti, se rimanessi qui da sola.”
Mia nonna sorrise, stringendogli una mano con calore, prima di mormorare: “Sei un bravo ragazzo, Nick, l’ho sempre saputo, fin da quando Lizzie ti portò a casa la prima volta.”
“E non t’importa che io abbia il loro stesso sangue?” replicò lui, ammiccando con amara ironia.
“La mente e il cuore contano di più, per me. E i tuoi sono puri e incontaminati” sorrise mia nonna.
Avrei voluto andare da loro, abbracciarli, dire ai miei cari che ora sapevo, ma non potevo intervenire nel passato.
Così come ero giunta in quell’angolo di memoria, così ne uscii, stremata e con il fiato corto, mentre Sarah mi osservava sgomenta, il viso pallido come la luna.
Ammiccai, dicendo a stento: “Sto bene.”
“Non sembrerebbe” esalò, cercando di sorridermi. “Sei del tutto certa di quello che stai dicendo?” chiese poi, fissandomi con espressione aggrottata.
“Se mi basassi solo su mere supposizioni, mi darei della pazza da sola…” brontolai, dirigendomi verso il computer di Sarah. “…posso?”
“Prego” annuì, guardandomi curiosa.
“Vedi, Mary B ha un profilo su Facebook e, tra le altre cose, ha inserito un sacco di foto di famiglia, tra cui una che penso ti farà capire tutto” le spiegai, digitando in fretta la password per entrare nel profilo della mia matrigna.
In pochi secondi, la pagina si caricò mostrando gli ultimi aggiornamenti, tra cui anche i messaggi di sostegno dei suoi amici in rete, che le auguravano una rapida soluzione del mio caso.
Mary B era un mago nel raccontare bugie, a quanto pareva.
Sorrisi sardonica nell’aprire la bacheca delle foto e, con cupa determinazione, sentenziai: “Ed ecco a voi la causa prima di tutti i miei guai.”
La foto, di uno stinto color seppia, si aprì, riempiendo tutto lo schermo e mostrando un giovane ventenne in sella a una moto, intento ad aspettare la partenza del TT sull’Isola di Man.
Lo stesso sorriso sghembo, gli stessi occhi da gatto, la stessa espressione ironica, gli stessi zigomi alti sul volto allungato e fiero e là, in bella mostra sul collo lasciato scoperto dalla camiciola aperta, la voglia a forma di goccia.
No, non mi potevo sbagliare. Era lui.
Anche Sarah parve convincersi, perché impallidì visibilmente e continuò a ritmi sempre più concitati a scrutare la foto sul muro e quella a video, come per sincerarsi di non avere le traveggole.
Io, nel frattempo, ricomposi il numero di Mary B e, non appena la sentii, le chiesi: “So che non puoi spiegarmi i particolari, ma mi puoi dire in generale che gli successe, in clinica?”
“E tu, poi, mi spiegherai il perché di tutte queste domande?” replicò lei.
“Sì, te lo dirò” annuii, pur sapendo che sarebbe stato l’ennesimo colpo, per lei.
Già l’aver saputo degli hobby segreti di Patrick, l’aveva quasi stroncata.
Quando poi avesse scoperto che il padre di suo marito aveva scatenato la sua guerra personale contro le wiccan, finendo con il mettermi nei guai, non ero certa di come l’avrebbe presa.
“Allora, sostanzialmente Abraham è stato trovato sul ciglio di una strada in preda a violente convulsioni, con addosso una maglia sporca di sangue e preda di un forte stato di disidratazione. Ai dottori, disse di non ricordare nulla e, anche con l’ipnosi regressiva, non ottennero risultati. Era come se la sua mente avesse cancellato il suo passato” mi spiegò Mary B, con voce sommessa.
Un attimo dopo, riprese a dire: “Un violento incidente, o uno shock improvviso, possono causare simili traumi, anche a livello permanente. Fatto sta che, dopo aver curato le patologie più gravi e le sue crisi d’ansia, fu dimesso e adottato… due anni dopo, dalla famiglia Smithson di Manchester. Ti serve altro?”
“No, ho tutto ciò che mi serve” esalai, sospirando. “Vuoi davvero sapere, adesso?”
“Sì.”
Conoscevo bene quel .
Mary B era dolce, premurosa e gentile ma, quando voleva qualcosa, era inflessibile come un pezzo di granito, e questa era una di quelle volte.
Sarebbe stato impossibile dare una risposta evasiva alle sue domande.
“Mary B, nonno Abraham è il figlio di una wicca e di un licantropo alfa. E il trauma che lo ha quasi portato alla follia, è stato l’uccisione di sua madre. Non sappiamo cosa l’abbia spinto a farlo, ma riteniamo possa essere stata la scoperta del suo retaggio, a mandarlo in bestia” ammisi controvoglia, reclinando il capo e cercando di immaginarmi le reazioni di Mary B, all’altro lato del telefono.
Silenzio. E un sospiro.
Sarah sospirò a sua volta e, approfittando del viva voce, intervenne dicendo: “Mary Beth, sono Sarah, la madre di Jerome… so che conosce mio figlio.”
Un secondo e Mary B rispose a tentoni. “Oh… sì, sì… è un così caro ragazzo.”
“Se c’è qualcosa che posso fare per lei, in questo momento…” disse allora Sarah, stringendo una mano sulla mia spalla per confortare anche me.
Un altro sospiro, e Mary B celiò: “C’è ben poco che possa fare, Sarah, a parte convincermi che non sono stata una sciocca, in tutti questi anni, e penso sarebbe una cosa abbastanza difficile da farmi credere.”
“Non avrebbe mai potuto immaginarlo, Mary Beth. I Cacciatori fanno parte di logge segrete. Chi non è un adepto, non potrà mai venire a conoscenza della loro esistenza” replicò Sarah, comprensiva.
Con un pesante sospiro, Mary B asserì con convinzione: “Per questo, tuo padre litigò con la famiglia, Brie, portandovi via. Temeva per te e Lizzie.”
“Sì”
“Se può consolarla, Mary Beth, questo tradimento colpisce anche noi. Il nostro vecchio capoclan ci ha taciuto una cosa importantissima. Abraham avrebbe dovuto essere punito per ciò che fece, e il nostro alfa mentì, dicendoci che era stata eseguita la giusta sentenza. Pensammo tutti che giustizia fosse stata fatta, ma così non fu. Anche noi fummo traditi.”
Nel dirlo, la sua voce si fece di ghiaccio.
Percepii dentro di me le schegge gelate del suo rancore e, subito, vi posi rimedio alzando barriere abbastanza resistenti per tenerla fuori dal mio animo.
Anch’io mi sentivo tradita perché, a causa di quell’evento, la mia famiglia era stata costretta a fuggire per evitare rappresaglie, o peggio, e tutto perché la legge era venuta meno nel momento decisivo.
Connor aveva sbagliato, e Sheoban era stata complice del suo silenzio assieme a Hati, Sköll e ai sicari del branco.
Tutti loro sapevano, e avevano mentito.
Avevano mentito per coprire l’incapacità di Connor di porre fine alla vita di suo figlio, che si era dimostrato immeritevole e impreparato e che, in totale spregio della vita, aveva ucciso la sua stessa madre.
Una rabbia cieca mi salì alla testa, diffondendosi come un’inondazione inarrestabile e, scusandomi con Mary B e Sarah, dichiarai gelida: “Adesso se la vedranno con me.”
“Brianna… wicca, cosa intendi fare?” mi chiese subito Sarah, turbata.
“Voglio chiarire un paio di punti con Connor e Sheoban. Ne ho abbastanza delle loro ingerenze” ringhiai, sempre più furiosa.
“Sarah, la fermi!” esalò Mary B al telefono.
“Da qui non uscirà, stia tranquilla” le promise Sarah, bloccandomi a un braccio con forza.
“Devo andare!” replicai con foga, fissando malamente la mano che mi stringeva senza scampo alcuno.
“E’ una cosa che riguarda il branco, non una tua vendetta personale, perciò devi parlarne con Duncan” mi ricordò Sarah, tranquilla ma ferrea.
Parlarne con Duncan? Non credeva a nulla di quello che gli dicevo!
Come se avesse intuito i miei pensieri, mi lasciò per staccare la foto dalla parete e, consegnandomela, asserì convinta: “Con queste prove, non potrà che accettare la realtà dei fatti.”
Mi strinsi la foto al petto e, dopo aver promesso a Mary B che non avrei commesso sciocchezze, chiusi la comunicazione e dissi: “Sei sicura che non debba muovermi da sola? In fondo, come wicca, io sono superiore a Fenrir e al Consiglio.”
“Solo per quel che riguarda te stessa, wicca. Per le questioni del branco, devi sempre rivolgerti almeno a Fenrir, o a Sköll” precisò Sarah, con un sorrisino. “Non ti morderà, e penso che tu non morderai lui. Potrà anche non avere le idee chiare su di te e su se stesso ma, per quel che riguarda il clan, Duncan ha e avrà sempre la mente vigile.”
“Già. Anche troppo” brontolai, prima di abbracciare Sarah e sussurrare: “Grazie… di tutto.”
“Di nulla. Spero solo che si risolva tutto per il meglio” sussurrò Sarah, dandomi un bacetto sulla fronte. “Ora vai dal tuo Fenrir, wicca, e smaschera questo torto.”
“Lo farò” annuii, correndo fuori con il mio prezioso carico stretto al petto, la convinzione che sarebbe successo qualcosa di tremendo entro breve.

***

L’autobus andava anche troppo lento, per i miei gusti e, il peso sullo stomaco che sentivo crescere, non dipendeva dalla foto che tenevo premuta contro di me, quanto dalla sensazione di rabbia e sconforto che mi stavano invadendo come un cancro.
Non avrei mai immaginato che Connor e Sheoban avrebbero potuto tradire il branco, soprattutto di fronte a un assassinio così efferato.
Eppure era successo. Abraham era sopravvissuto, e la sua rabbia si era convogliata contro le wiccan e contro i licantropi.
Pur avendo relegato nell’oblio ciò che aveva fatto, il ricordo di cosa fosse sua madre, e che lui evidentemente odiava, era rimasto nella sua mente alienata, divorandolo dall’interno e portandolo a creare un nuovo genere di Cacciatori.
Cacciatori che erano a conoscenza del potere delle wiccan, e che sapevano quanto esse fossero legate ai licantropi, e perciò preziose per i loro scopi.
Imprecai tra me, chiedendomi se per caso Abraham avesse anche scoperto i nomi delle famiglie a cui le wiccan erano legate.
Preoccupata, afferrai il cellulare per chiamare Kate, temendo per lei.
Quando la informai di ciò che ero venuta a sapere, la sua rabbia si unì alla mia e, quando mi spiegò dell’incidente che aveva tolto la vita a sua madre, mi sentii male.
Stavano tentando di sterminarci?
“Può non essere stato un caso, ti rendi conto?” ipotizzò lei, sentendo nella sua voce le lacrime che sicuramente stavano scivolando sul suo viso. “Se ciò che dici è vero, allora sapevano e hanno pensato di uccidere una wicca, non sapendo che mia madre non aveva alcun potere, pur essendo una donna della famiglia Alexander!”
“Porti il suo cognome?” esalai sorpresa, cominciando a sentirmi veramente male.
“Genitori separati da anni. Ho preso il suo cognome un bel po’ di tempo fa” mi spiegò succintamente, prima di aggiungere: “Molte logge di Cacciatori sono a noi note, e l’uomo che ha investito mia madre faceva parte di una delle tante liste di affiliati”
“Cosa succederà, adesso?” le chiesi, turbata da questa notizia.
“La legge lo ha già preso in consegna, perciò Freki ha le mani legate. Subirà un processo, e vivrà” sospirò, la voce ridotta a un sussurro appena udibile.
La capivo perfettamente. Sapevo cosa si provava nel sentirsi così impotenti di fronte al fato.
“Scoprirò fin dove si è spinto, Kate, te lo giuro. In qualche modo, sarai vendicata” dissi con convinzione.
Non avrei lasciato che questa storia andasse a finire nel dimenticatoio.
Se veramente erano riusciti a trovare un legame tra alcune delle famiglie più vecchie d’Inghilterra e le wiccan, ci avrebbero uccise tutte, vere o presunte che fossimo.
O, Dio non volesse, avrebbero tentato di estercere con la forza i segreti di cui eravamo a conoscenza, per servirsene nella loro personale lotta contro i licantropi.
“Credo in te, sorella” dichiarò Kate con veemenza, prima di salutarmi con un ‘ciao’ strozzato.
Sospirai nel chiudere lo sportello del cellulare e, quando scesi alla mia fermata, tutto il livore che avevo provato fino a quel momento, si era tramutato in sconforto.
A quel punto, anche i miei genitori potevano essere stati uccisi da un Cacciatore. Non potevo saperlo. Ma l’avrei scoperto. Presto.
In quel momento, però, la questione più urgente riguardava il tradimento di Connor e Sheoban. Avevano taciuto su Abraham, e dovevano pagare.
In tutta fretta, mi diressi perciò verso la clinica, sperando ardentemente di non trovare Duncan impegnato con qualche caso.
Dinanzi all’entrata non c’erano auto, e questo mi rincuorò un poco. La prima buona notizia della giornata.
Entrai, facendo tintinnare il campanellino posto sopra la porta e, dal retro della clinica, spuntò Duncan, lo sguardo dubbioso – doveva avermi percepita già prima della mia entrata – puntato sulla foto che tenevo stretta al petto come un gioiello prezioso.
Mi fissò silenzioso per alcuni attimi prima di togliersi i guanti in lattice e oltrepassare il bancone, chiedendomi: “Perché hai quella faccia? Cos’è successo?”
“So che Connor mente a te e al branco da parecchi anni” esordii senza tanti giri di parole, allungandogli la foto, prima di prenderlo per la manica del camice e trascinarlo con me al computer. “Te lo dimostrerò con prove inoppugnabili.”
Duncan si lasciò trascinare, mormorando dubbioso: “Perché mi mostri questa foto? E dove l’hai presa, poi?”
“Me l’ha data Sarah” gli spiegai lesta, digitando in fretta la password per entrare su Facebook.
Lui fissò sempre più confuso la fotografia e il computer a momenti alterni, prima di chiedermi: “Che c’entra Connor con Facebook? Non credo abbia un profilo.”
“No, lui non credo proprio” ammisi, cliccando sulla foto di Abraham. “Ma lui non dovrebbe neppure esistere, almeno stando a quello che Connor disse al branco.”
Gli occhi smeraldini di Duncan si sgranarono di fronte alla foto che gli mostrai a video e, sconcertato, esalò: “Non può essere!”
“Oh, può essere eccome!” commentai aspra. “Lui è il padre di Patrick. E’ lui che ha spifferato tutto sulle wiccan ai Cacciatori della sua attuale famiglia, è lui che ha costretto la mia famiglia a scappare… lui!”
“Ne sei sicura?” mi chiese, guardandomi turbato.
Annuendo, gli raccontai del ricordo di cui mi ero impadronita solo una mezz’ora prima, nell’ufficio di Sarah e lui, sospirando, poggiò una mano sul bancone stringendo le dita sul bordo, fino a sfar sbiancare le nocche.
Digrignò i denti, lo sguardo fosco e gli occhi ridotti a due esuli fessure che sprizzavano fuoco.
Con voce resa roca dalla rabbia, sentenziò: “Questo è un oltraggio che va punito severamente. Dovranno al branco ben più di una spiegazione, prima di morire.”
“Come?” esalai. Fu il mio turno di apparire sorpresa.
“La pena per chi viola la legge del branco come loro hanno fatto è la morte, Brianna. Non ci sarà pietà alcuna, per loro e, visto che si tratta di membri del Consiglio, nessuno vorrà per loro altra sorte se non questa” mi spiegò Duncan, le iridi che già sfumavano all’ambrato.
Il lupo dentro di lui chiedeva sangue. E di certo non potevo dire che avesse torto.
“Ma… come potrete far passare sotto silenzio così tanti decessi?” esalai, afferrandolo ad un braccio.
“Oh, non avverranno tutti insieme, o subito. Ricordati che si tratta di persone anziane…” sibilò Duncan, rabbioso come poche altre volte lo avevo visto. “…Freki sarà discreto e preciso. Come pure Geri.”
“Sarah? Intendi dire che manderai Sarah a…?” gracchiai, rabbrividendo.
“Non sarà sola. L’aiuterà Branson, il Geri del branco. Tu non l’hai ancora conosciuto” mi mise al corrente Duncan, recuperando in parte la calma.
La bestia si stava sopendo, seppur a fatica. “Ma di Connor e Sheoban mi occuperò personalmente.”
“Duncan…” ansimai affranta. Mi terrorizzava, quando indossava i panni dell’assassino, anche se sapevo che aveva tutte le ragioni per essere furioso con loro.
Lui scoppiò in una risata nervosa e, guardandomi ai limiti della furia, esclamò: “Se tu sapessi cosa mi ha detto Sheoban … quella maledetta megera… ricordi, no, quando venne a colloquio da me?”
Io annuii timorosa e lui, imbestialito, aggiunse: “Non bastò quel che mi propose al tuo arrivo… no, lei voleva di più…”
Maledetta megera? Okay, è arrabbiato sul serio,  pensai, più che mai sorpresa.
Poi, ripensando a Sheoban, alle parole di Sarah e alla strana risata di Duncan, arrossii e dissi: “Ah, grazie… non aggiungere nulla. So già cosa vuoi dire, me ne ha parlato Sarah.”
“Davvero?” esalò Duncan, arrossendo suo malgrado.
“Già, e credimi, la cosa disgusta te quanto me. Per quanto tu mi possa piacere, Duncan, non verrei mai a letto con te solo per accrescere il mio potere e, soprattutto, il suo” lo informai senza troppi complimenti, scuotendo il capo con decisione.
Lui si fece triste e disse, spiacente: “So che ti sto facendo soffrire, Brianna, ma…”
Sollevai una mano per bloccarlo e, sicura, asserii: “Non sollevare l’argomento, Duncan. Hai già messo in chiaro come la pensi. Sappi soltanto che non sono così disperata da saltare nel tuo letto, e solo perché me lo consiglia la Lupa Madre.”
Accennò un sorrisino, dicendo: “Non avrei più stima di te, se lo facessi.”
“Grazie” commentai serafica, scrollando le spalle.
Duncan fece per dire altro, ma il suo cellulare squillò improvvisamente, sorprendendoci entrambi.
“Pronto?” mormorò, curioso.
“Sono Lance. Prendi con te Brianna, e venite subito a casa di Marjorie. C’è bisogno di entrambi. Jerome è già qui” disse lesto, la voce percorsa da un tono preoccupato.
Aggrottando pericolosamente la fronte, Duncan strinse nella mano il cellulare fino a far scricchiolare la plastica e, aspro, ringhiò: “E perché mai dovremmo venire lì, scusa?”
“Non si tratta di Marjorie, sennò neppure te lo chiederei…” sbottò esacerbato Lance. “…è suo fratello Sean. Sta male… si tratta del Mutamento.”
Duncan impallidì a quelle parole – la morte della sorella era ben fissata nella sua mente, pur se non era stato uno spettatore diretto di quel tragico evento – e, annuendo più volte, decretò: “Arriviamo subito.”
Detto ciò spense il telefono e, prendendomi per un braccio, esalò: “Dobbiamo cercare di accompagnare il fratello di Marjorie verso la sua bestia… in qualunque modo, e tu sei l’unica che può farlo.”
“Ne sei sicuro?” dubitai fortemente, turbata all’idea di rivedere Marjorie.
“Sicuro? No, affatto. Ma sappiamo che, in teoria, è possibile” rise nervosamente, chiudendo la clinica e correndo verso la Volvo.
Io lo imitai e, salendo di corsa, allacciai la cintura e chiesi: “Quanti anni ha, Sean?”
“Tredici” mi disse, uscendo dal cortile di casa a tutta velocità.
I suoi occhi erano concentrati sulla strada e le mani ben salde sul volante, ma avevo idea che la sua mente fosse da tutt’altra parte.
Ero quasi sicura che stesse pensando a Hope, in quel momento. La sorella che non aveva mai conosciuto, ma che aveva segnato così indelebilmente la sua vita.
Lui, con tutta probabilità, non sarebbe mai nato, se lei non fosse morta quel tragico giorno, ed ero più che sicura che quella consapevolezza pesasse come un macigno sul suo cuore.
Come se non avesse già avuto abbastanza pensieri ad infestare la sua mente turbata dai dubbi e dal senso di colpa.
Stringendo le mani in grembo, cercai di chetare il mio cuore impazzito dall’ansia – per quanto odiassi Marjorie, non potevo sopportare che perdesse il fratello in un modo così atroce – e, forzando la respirazione perché il mio petto non esplodesse, gli promisi: “Farò tutto il possibile per aiutarlo.”
“Nessuno ti chiederà altro, Brianna” sorrise un momento, prima di tornare serio.
Era divorato da un’agitazione tale che, simile a una tormenta di neve, scivolava fuori da ogni poro della sua pelle.
Per aver lasciato esternare a quel modo le sue emozioni – dopo tanti giorni di barricate – doveva essere davvero sconvolto. La cosa non contribuì a calmarmi.
Impiegammo cinque minuti per raggiungere una bassa villetta a un piano, circondata da un bel giardino colmo di erica in fiore e alte betulle dalle foglie brillanti. Lì, inchiodando l’auto, Duncan scese quasi di corsa, con me al fianco nel tentativo di tenere il suo passo.
Suonò, prima di aprire il cancelletto d’ingresso e catapultarsi verso l’entrata, dove Marjorie aprì la porta un secondo dopo, l’aria sconvolta e il viso pallido e smunto.
Era la prima volta in assoluto che non la vedevo curata e perfetta. La sua bellezza sopraffina, però, restava immutata, nonostante i capelli in disordine e la grossa benda che le circondava il collo, a memoria dell’incidente quasi mortale che l’aveva vista protagonista.
Ci fece passare in silenzio, accodandosi a noi mentre ci dirigevamo a passo svelto verso la stanza di Sean, posta in fondo a un lungo corridoio, ricoperto di carta da parati azzurro cielo.
Quando entrammo nella stanza, l’odore dei medicinali mi ferì le narici e Duncan, storcendo il naso, esalò: “Lance, Dio… ma che gli hai dato?”
“Tutti i calmanti che conosco” brontolò lui, senza neppure levare il capo per guardarci.
Jerome era seduto di fianco a Sean, che se ne stava infossato nel suo letto, coperto da un leggero lenzuolo di cotone bianco.
Feci poco caso alla stanza che – come qualsiasi camera di ogni adolescente che si rispettava, aveva oggetti un po’ ovunque, in ordine sparso – , con il suo tanfo ospedaliero, ci diede il benvenuto.
Senza badare a null’altro se non a Sean, puntai direttamente al suo capezzale, tremando dentro di me quando lo vidi così emaciato e fiacco.
Pallido e sudato, ansimava febbrilmente e, a giudicare dall’ECG collegato al suo corpo, il suo cuore batteva all’impazzata, divorando le sue energie minuto dopo minuto.
Sarebbe collassato da un momento all’altro, se non fosse intervenuto qualcuno per chetare quel ritmo sincopato.
Guardai preoccupata tutte le persone presenti, lasciando per ultima Marjorie che, sospirando afflitta, mi disse: “Fai ciò che puoi, te ne prego.”
Quella resa, quella preghiera che veniva dal cuore, mi portò ad annuire.
Sedendomi sul lato libero del letto, presi la mano di Sean e mormorai: “Coraggio, ragazzo… torna da noi.”






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N.d.A.: Per chi se lo chiedesse, il TT, o Tourist Trophy, è una gara motociclistica "open" che si svolge tutti gli anni sull'Isola di Man.
Come per Brianna, inserisco anche i blasoni delle famiglie Alexander e Vaughan.

ALEXANDER: Scudo --> Servitore fedele, protezione. Stella --> qualità divina venuta direttamente da Dio. Luna --> speranza nella vittoria. Arpa --> origine irlandese della famiglia. Colori: Nero --> Costanza. Bianco --> pace, serenità. Elmo --> strenua difesa.
VAUGHAN: Colore: Giallo --> generosità. Scudo --> dominio, autorità, forza in battaglia. Leone --> forza e coraggio. Elmo --> strenua difesa.

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Capitolo 25
*** XXV. ***


XXV. 



 
 


 

Non ricordavo affatto quanto tempo fosse passato, dal nostro arrivo alla casa di Marjorie.
Il sole, comunque, stava ormai toccando l’orizzonte, tingendo di rosso e viola il cielo macchiato di nubi temporalesche.
Il sudore sulla mia fronte non era dissimile da quello che punteggiava i volti dei presenti, indice del nostro stato di prostrazione e debolezza.
Tentavo da un tempo indefinibile di percepire, e chiamare, la bestia dentro di lui.
Duncan e Jerome, nel frattempo, si davano il cambio per le spugnature al corpo di Sean, ormai febbricitante dal almeno due ore.
Marjorie si aggirava intorno al letto con un’espressione sconvolta, incapace anche solo di parlare o di confortare il fratello, ai limiti dell’incoscienza.
“Siediti, Marjorie, o ti farai venire un infarto. Sei allo stremo” sospirò a un certo punto Lance, iniettando a Sean l’ennesima dose di atropina.
Non ero sicura che quella tecnica sarebbe servita ancora per molto.
Marjorie sbuffò indispettita, ma fece come le disse Lance, anche se le sue mani non smisero mai di muoversi, stringendosi e maltrattandosi come per procurarsi lo stesso dolore che il fratello stava patendo.
Sospirai esausta, poggiando un momento la fronte sul cuscino madido del sudore di Sean.
Duncan, premuroso, mi chiese: “Ancora nulla?”
“No. Sto urlando da ore, ma non riesco a entrare nella sua testa. Finché rimane umano, non posso intervenire. La bestia non risponde ancora ai miei richiami” gli spiegai succintamente, accorgendomi delle lacrime che stavano scivolando sul mio viso solo quando alcune di esse caddero sulle mie mani.
Duncan e Jerome mi sorrisero comprensivi. Asciugandomele in fretta, domandai frettolosamente: “Da Kate, nessuna nuova?”
Lance scosse il capo, mormorando dispiaciuto: “Non le è mai capitato. Non sa che fare neppure lei.”
Sospirai, passando nuovamente una mano sul viso per togliere gli ultimi residui di lacrime, assaporando nel contempo il loro sale sulle mie labbra dischiuse. Il loro sapore aspro mi portò a storcere la bocca.
Sapore.
Sgranai gli occhi, dandomi dell’idiota per non averci pensato prima e, guardato Lance per un attimo, gli ordinai: “Incidimi il dito con un bisturi, presto!”
“Che vuoi fare?” mi chiese dubbioso, aggrottando la fronte.
“Chiamare la bestia col sangue e il potere. Dovrete passarmi tutta l’energia di cui disponete, mentre io gli farò assaggiare la mia, unita al sangue che gli scivolerà in bocca. Questo dovrebbe bastare a scatenare un Mutamento pulito… o almeno spero” spiegai loro, allungando nervosamente una mano a Lance “Sto andando a intuito, quindi non so che succederà.”
“Se la bestia sente il tuo sangue di wicca, cercherà di divorarti, ecco cosa succederà. Il tuo sangue è succulento come un banchetto di dieci portate” brontolò Jerome, scuotendo nervosamente il capo.
“Bene. Allora è il rimedio giusto per chiamarla a noi. Bloccherete Sean prima che mi stacchi un braccio e mi trasformi in una pelosa come voi, va bene?” decretai con decisione, cercando al contempo di fare dell’ironia.
Non avevo bisogno di pensare troppo alle conseguenze del mio gesto, o non l’avrei mai fatto.
Marjorie si alzò dalla sedia dove si era accomodata per bloccare le gambe del fratello e, annuendo al mio indirizzo, sentenziò senza tanti giri di parole: “Sono d’accordo con la wicca.”
Duncan mi fissò preoccupato e indeciso, prima di alzarsi a sua volta per piazzarsi dietro di me.
Fatto scivolare un braccio attorno alla mia vita, dichiarò cupo: “Ti trascinerò via prima che Sean ti morda.”
“Va bene” annuii. “Hai di certo riflessi più rapidi dei miei.”
Lui ghignò un momento prima di tornare serio e stringermi protettivo a sé.
Quel contatto, scatenò una serie di reazioni ben poco attinenti alla situazione, ma non potei farci nulla.
Mi diedi dell'idiota per il tempismo orrendo, e cercai di non pensare al dolce languore che si stava impadronendo di me; dovevo dedicarmi completamente a Sean.
Sarei andata in deliquio in seguito.
Lance, con un cupo sospiro, incise il mio dito indice prima di mettersi su un lato del letto, al pari di Jerome.
Deglutendo a fatica, presi un gran respiro e mi avvicinai a Sean, poggiando il dito sulle sue labbra prima di attingere energia dai quattro licantropi, e da me stessa, per convogliare tutto il nostro potere dentro Sean.
Fu come far esplodere una bomba.
La bestia – fino a quel momento sopita e intrappolata dentro di lui – si svegliò con un ruggito, mentre il mio sangue, e le energie congiunte di noi cinque, venivano risucchiate dal suo corpo stremato, chiamando il lupo in superficie a gran voce.
“Svegliati e vieni a me… coraggio… brama il mio sangue come io bramo la tua nascita!” gridai, affondando un poco di più il dito nella sua bocca, sperando che tutto funzionasse per il meglio.
Sean aprì la bocca per lanciare un grido inarticolato e apparentemente privo di forze, ma che mise però in allarme Duncan, dietro di me.
Strillando di sorpresa quando lui mi allontanò di colpo dal ragazzo, fissai sgomenta le sue zanne – sì, zanne! – chiudersi a vuoto senza afferrare le mie carni.
Basita, osservai ammutolita la sua trasformazione avvenire davanti ai miei occhi, spaventati e sorpresi assieme.
La pelle si squarciò con uno stridore di vetri infranti, rivelando un bel pelo marrone e macchiato dal liquido ambrato  che scaturiva dai licantropi, nella fase di transizione da umano a lupo.
Senza badare minimamente al caos che quella mutazione aveva portato, tutti noi osservammo rapiti la nuova creatura che era sorta - letteralmente - dinanzi ai nostri occhi sgomenti e fieri.
La perfetta sincronia tra le ossa spezzate e quelle rigenerate dal potere della bestia, che emergeva per la prima volta, fu per noi l’evento più bello della nostra intera esistenza.
Il pelo fitto e scuro coprì ogni parte del suo corpo, mentre coda e orecchie si allungavano assieme al muso, dando forma alla versione animale di Sean.
Le sue zampe artigliarono il materasso, che scoppiò letteralmente in una nuvola di ciuffi di lana e Marjorie, ridendo e piangendo insieme, gracchiò stanca: “Ora dovrò comprarne uno nuovo.”
Il lupo, ormai perfettamente formato, mi fissò con i suoi enormi occhi castano chiari, la lingua ciondoloni e l’aria di essere estremamente soddisfatto di se stesso.
Ridendo, pur se stremata, esalai lieta: “Benvenuto in famiglia, Sean.”
Lui emise un debole latrato e si accoccolò su ciò che restava del letto mentre tutti noi, stravolti dalla stanchezza, ci lasciammo scivolare a terra.
Non più in grado di reggere lo sforzo, o anche semplicemente il nostro peso corporeo, crollammo come privati dei fili che ci avevano sostenuto fino a quel momento.
Letteralmente sdraiata contro il torace di Duncan, che ancora mi teneva contro di sé, stringendomi un braccio attorno alla vita, chiusi gli occhi e mi lasciai andare a un lungo sospiro di sollievo.
In quel momento di estrema stanchezza, permisi al calore sprigionato dal mio licantropo preferito di avvolgermi nella sua tela.
Sapevo che me ne sarei pentita – se io ero una droga per lui, lui lo era per me – ma, in quel momento, non avevo la forza per allontanarmi da lui.
O meglio. Non avevo la forza di fare nulla.
Nella stanza regnava la pace e la tranquillità laddove, per ore, la tensione e il nervosismo l’avevano fatta da padroni.
Lance stava accarezzando la schiena di Sean con mosse lente, meditabonde, mentre Marjorie, con un sorriso sollevato, era intenta a propinargli dei grattini dietro l’orecchio.
La sua voce era calda, roca, amorevole, mentre si complimentava con lui, facendogli nel contempo un mucchio di moine.
Jerome, invece, se ne stava appoggiato al letto con la schiena incurvata per la stanchezza, gli occhi chiusi e il respiro ansante non meno del nostro, ma con un bel sorriso stampato sul volto pallido.
Avevamo tutti bisogno di riposo, questo era sicuro. Ma chi aveva il coraggio di alzarsi?!
La mano libera di Duncan continuava ad accarezzarmi i capelli e il viso, in un lento e continuo girovagare, come se avesse bisogno di avere la conferma che io fossi ancora lì, sana e salva tra le sue braccia.
Non sembrava che la mia vicinanza gli desse noia. Non, almeno, come era capitato negli ultimi giorni.
Non avevo idea se questa condizione sarebbe mutata per l’ennesima volta ma, almeno per un po’, potevo godermi l’antico Duncan così come lo avevo conosciuto all’inizio di quella strana, assurda avventura.
Solo dopo mezz’ora di riposo assoluto, Duncan ebbe il coraggio di muoversi e, senza dire nulla, mi sollevò da terra, tenendomi in braccio senza alcuno sforzo apparente.
Sorridendo fiacco, gli occhi velati di rosso per la stanchezza, sussurrò: “Ti riporto a casa.”
Perché doveva guardarmi a quel modo, sapendo quello che provavo?
Chiusi gli occhi per un momento, cercando dentro di me qualche residuo di energia per non crollare del tutto e, con un mezzo sospiro, annuii e gli sorrisi.
Avrei dovuto accettare di essere solo un'amica, per lui, per rimanere al suo fianco all’interno del branco, ma sarebbe stata dura. Davvero dura.
Se vi fossi riuscita, forse Duncan avrebbe accettato più facilmente il nostro legame di anime e non avrei dovuto andarmene, abbandonandoli.
Jerome si alzò a sua volta, vedendoci in piedi e, stiracchiandosi come un grosso gatto, mi fece l’occhiolino dicendomi: “Ehi, principessa… complimenti.”
“Grazie” sussurrai, la voce impastata dalla stanchezza.
Marjorie mi fissò per un momento, lo sguardo nuovamente duro ma, con estrema dignità, asserì: “C’è una vita tra di noi, non lo dimenticherò.”
Mi limitai ad annuire, troppo stanca anche solo per trovare dentro la mia testa una risposta plausibile a una simile uscita.
Pensò Duncan a superare quel momento di silenzio impacciato e, dopo aver fatto un cenno del capo a Marjorie, le disse: “Sei riammessa nel Consiglio.”
La cosa la sorprese un po’, perché sgranò leggermente gli occhi prima di annuire e, senza una parola, ci guardò uscire dalla stanza del fratello.
Per una volta, non era stata l’ultima a parlare.
Lance ci avvisò che sarebbe passato più tardi per controllare le mie condizioni e io, annuendo, lo fissai da sopra la spalla di Duncan, replicando con ironia: “Fai pure con comodo. Prometto di non morire, nel frattempo.”
“Ci conto, principessa” ammiccò, sorridendomi e usando lo stesso nomignolo usato poco prima da Jerome.
Nell’uscire dalla casa di Marjorie – Jerome ci stava tenendo aperta la porta – Duncan mormorò orgoglioso: “Sei riuscita in un autentico miracolo. Non avevo mai sentito Lance rivolgersi a una ragazza a quel modo.”
“E’ facile volergli bene… è un uomo buono” mi limitai a dire, richiudendo gli occhi sonnacchiosa.
“Riposa. Baderemo noi al tuo sonno” mi assicurò con calore.
Per una volta, le braccia di Morfeo mi sembrarono quelle di Duncan.

***

“Allora, che dice il mio dottore preferito?” sogghignai, guardando Lance, intento a rimettere al suo posto lo sfigmomanometro digitale.
“Che stai bene. La pressione, come al solito, è un po’ bassa, ma è la normalità per te, a quanto pare” mi spiegò, richiudendo la borsa con un click.
Erika, ferma sulla porta assieme a Jerome, sorrise ed esclamò eccitata: “Sei stata un mito, Brie! Non si era mai sentito che una Mutazione potesse essere guidata come hai fatto tu!”
“Sono andata a naso… e a fortuna. Ma mi è parsa una cosa sensata” scrollai le spalle, prima di lamentarmi sonoramente.
Ogni muscolo del corpo mi faceva un male del diavolo, come se avessi fatto sollevamento pesi per ore, e senza previo riscaldamento.
Dovevo avere più acido lattico io, nei muscoli, di un’intera squadra di rugby dopo un allenamento furibondo.
“Kate è rimasta stupefatta, quando le ho raccontato quel che è successo” annuì orgoglioso Duncan, seduto sul davanzale della finestra.
Il suo sorriso sembrava toccargli le orecchie, tanto era contento. Sembrava lo Stregatto, in quel momento, e la sola idea mi fece sghignazzare.
“Lo immagino…” mormorai divertita, prima di tornare seria e chiedere: “…sanno già che pena avrà il tizio che ha investito sua madre?”
“Ci vorrà un po’, ma Bright sta spingendo sulle sue conoscenze perché abbia il massimo della pena. Non vogliono certo che esca presto” mi spiego Duncan, adombrandosi nel dirlo. “Voglio assolutamente discutere con Connor riguardo a ciò che hai scoperto. Non è ammissibile che abbia mentito al branco in questo modo. Ci ha messi tutti in pericolo, così facendo. Ma prima vorrei che ti sentissi meglio, perché mi piacerebbe che fossi presente anche tu.”
“Contaci” annuii con decisione.
Sembrò voler aggiungere qualcosa ma poi, limitandosi a sorridere, lasciò perdere e, rivolto alla cugina, le chiese: “Ci pensi tu, a lei? Vorrei discutere un paio di cose con i miei due soci, qui.”
“Ma certo. Baderò io a lei. Potete fidarvi” annuì Erika, mettendosi sull’attenti e ridacchiando tutta contenta all'idea di potersi rendere utile.
Dopo aver promesso, si mosse per avvicinarsi a me mentre Lance, raccogliendo la sua borsa, si alzò dalla sedia, che aveva usato fino a quel momento per stare al mio fianco.
Mi sembrò l’occasione perfetta.
Strattonando leggermente il lenzuolo perché finisse accidentalmente dinanzi ai piedi di Lance, lasciai che al resto pensasse la gravità e, come avevo prospettato, il mio piano riuscì alla perfezione.
Incespicando con i piedi, Lance sgranò sgomento gli occhi e, senza poterselo impedire, si ritrovò a fronteggiare Erika in caduta libera.
Parimenti sgomenta e sorpresa, la ragazza non seppe che fare per evitarlo, nella sua caduta rovinosa.
Chiusi ermeticamente gli occhi, Erika aprì le braccia per attutire la caduta a Lance che, però, preferì evitare di schiacciarla come una sardina, e la avvolse velocemente alla vita.
Poco prima di toccare terra, la portò sopra di sé per proteggerla e, con un sordo tonfo, finì rovinosamente sui pesanti tappeti damascati della mia stanza.
Un silenzio tombale scese nella stanza, mentre Duncan e Jerome osservavano basiti la scena e io sogghignavo furtivamente, soddisfatta del mio subdolo operato.
Lance, dal canto suo, ancora intento a stringere Erika contro il suo torace, sollevò appena il capo quando lo stordimento temporaneo - dovuto alla caduta - lo abbandonò del tutto.
Fissando divertito la ragazza, esalò: “Wow, che volo.”
Quell’uscita mi permise di scoppiare a ridere, subito seguita a ruota da Jerome e Duncan, mentre Erika, rossa in viso per la vergogna, si sollevava frettolosamente dicendo: “Oddio, scusa.”
“Scusa? Piccola, sono io che ti sono planato addosso come un masso in caduta libera” ridacchiò Lance, aiutandola ad alzarsi da terra.
Piccola?
Erika lo fissò sbattendo le palpebre, confusa, e Lance, rise di gusto per tutta riposta, le diede una pacca sulla spalla e le domandò: “Tutto bene? Non ti sei fatta male, vero?”
“Eh? Oh, no, no. Affatto!” esclamò lei, scoppiando in una risatina nervosa.
“Ottimo. Andiamo pure di sotto, prima che decida di spappolare qualcun altro” rise ancora Lance, dando un buffetto amichevole a Erika, prima di accodarsi a Jerome nell’uscire.
“Sì, sarà meglio allontanarsi da queste delicate fanciulline, prima che tu ti dia ai tuffi di testa” rise sguaiato Jerome, rosso in viso per il gran divertimento.
Duncan si limitò a sogghignare, chiudendosi la porta alle spalle.
Non appena fummo sole, Erika si volse a fissarmi con espressione accigliata, forse decisa a sgridarmi.
Un attimo dopo, però, si aprì in una risata di gola che mi portò a imitarla di gusto.
“Oddio… tu sei tutta matta… è stato, come dire,…eccitante” rise Erika, asciugandosi lacrime d’ilarità. “E da quando in qua, Lance parla così? Piccola? Non si rivolge neppure ai bambini, in questo modo! Brie, hai davvero fatto miracoli, con lui.”
“Credimi, l’ho fatto con piacere… piccola” ammiccai divertita.
“Non l’avevo mai sentito dire una cosa del genere… almeno, non da quando ho compiuto dieci anni” ansò, cercando di riprendere fiato nonostante le risate.
“Calmati e abbassa la voce, se non vuoi farti sentire dai ripetitori satellitari che stanno di sotto” ridacchiai a mia volta, dandole una pacca sul braccio.
Erika annuì, ritrovando una parvenza di calma. “So che non conta nulla quel che è successo, ma è bello veder sorridere Lance a quel modo. Così …libero da pensieri.”
“Lance ha avuto un passato davvero molto difficile, ...come Duncan, del resto. Non fa specie che siano così restii a fidarsi del prossimo” annuii seria. “Vorrei solo che capisse quanto il nostro legame è vero e puro, e non dettato da chicchessia.”
“Lo capirà. Permettigli di abituarsi poco alla volta” mi sorrise comprensiva Erika.
“Non ho tutto questo tempo a disposizione” sospirai, tornando mortalmente seria.
Lei si fece subito preoccupata e, sedendosi al mio fianco, chiese: “Che intendi dire, Brie?”
“Se lui non lo accetterà alla svelta il nostro legame, potrebbero esserci delle ripercussioni negative per ognuno di noi. Il mio potere è troppo grande, perché io non stia perennemente sul chi va là, ed è difficile stare attente quando si ha la mente percorsa da dubbi. Alla stessa maniera, più Duncan si dilunga a pensare su questa cosa, più si indebolisce. Se andiamo avanti di questo passo, potrebbe diventare un pasto succulento per tipi come Alec, che non vedono l’ora di cogliere impreparati i propri vicini di territorio” la informai, cupa in viso.
Era la cosa che, al momento, mi preoccupava di più.
Se Duncan si fosse arrovellato il cervello su questa storia ancora per un po’, le sue difese si sarebbero di certo abbassate, ed era un’eventualità che un capo non doveva mai permettersi.
Il guaio con Connor e Sheoban, poi, non faceva che peggiorare le cose.
Una scissione di questo calibro, all’interno del branco, avrebbe attirato sicuramente le attenzioni dei clan vicini, mettendo in pericolo tutti.
No, questa faccenda andava risolta alla svelta.
“Non vorrai andartene, spero!?” esalò Erika, portandosi una mano al collo come se le mancasse l’aria.
E mancò anche a me, all’idea di abbandonare tutti loro. Se questo fosse servito a salvarli, l’avrei fatto,... ma quanto mi sarebbe costato?
“Non lo so, Erika, ma rimanere è rischioso, in una situazione così precaria” sospirai, reclinando il capo. “Non hai idea di quanto mi spaventi il solo pensiero di abbandonarvi, ma dovrò farlo, se Duncan non accetterà il legame per quello che è.”
“Lo costringerò con la forza” decretò con foga, stringendomi le mani tra le sue, tremanti nonostante il tono di voce così tenace. “Ma tu non andare via.”
Le sorrisi, attirandola a me per abbracciarla e, ai limiti del pianto, singhiozzai: “Erika, sei la migliore amica che mi potesse capitare e, se dovessi lasciarti, ne soffrirei tantissimo, ma capisci perché devo farlo?”
Lei annuì, singhiozzando al pari mio, e mormorò contro i miei capelli arruffati: “E’ una scelta che proteggerebbe il branco, lo so, ma mi mancheresti tantissimo.”
“E tu a me…” sussurrai, prima di aggiungere: “…ma non è detto che succeda.”
“No” annuì a più riprese, cercando di non piangere.
Io e la mia boccaccia.

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Capitolo 26
*** XXVI. ***


XXVI. 




 


 

Una lama lampeggiò ferale di fronte al mio viso, mentre  fulmini spettrali squarciavano il cielo, ombreggiato da ribollenti e minacciose nubi di pioggia.
Scrutai l’ampia porta-finestra della tetra stanza dove mi trovavo, i gelidi vetri rigati da scie di pioggia, in tutto simili a fiumi di lacrime salate.
Tutto era immerso nell’oscurità, la corrente elettrica forse saltata a causa del violento temporale che imperversava fuori dalla casa in cui mi trovavo.
All’improvviso, la porta-finestra andò in frantumi e, al suono delle mie grida e di quelle di altre persone che non riuscii a riconoscere, la figura di un enorme lupo si frappose fra me e la lama d’argento che mi minacciava.
Un urlo – il mio – e il dolore atroce a un braccio.
A quel punto, la luna si aprì un varco tra le nuvole fosche, permettendomi di scorgere il lupo che aveva cercato di salvarmi la vita.
Jerome.
La lama venne estratta con forza dal mio braccio e, in quel preciso istante, le fiamme invasero il mio corpo, la mia anima e la mia mente, facendomi precipitare nell’oscurità più totale.
Gridai, svegliandomi di soprassalto in un bagno di sudore, certa che quello che avevo appena vissuto fosse un sogno, ma terrorizzata all’idea che potesse trattarsi di uno dei miei incubi premonitori.
Impiegai minuti interi, non seppi dire quanti, prima di riuscire a trovare la forza di riprendere a respirare normalmente, così da consentirmi di alzarmi da letto.
Sapevo solo che dovevo farlo, e alla svelta, pur se il mio corpo non ne comprendeva i motivi.
Cercai a tentoni i miei abiti per vestirmi il prima possibile, ma l’ansia e il terrore erano così forti che le mie mani tremavano al punto da rendermi quasi impossibile muovermi.
Impiegai quasi un quarto d’ora solo per abbigliarmi decentemente e, quando fui finalmente pronta per correre verso la casa di Jerome e assicurarmi che stesse bene, sentii dabbasso le voci concitate di Duncan e del suo Sköll.
Apparentemente, stavano discutendo.
Dei passi concitati, e la porta della mia stanza venne spalancata di getto, lasciando entrare un trafelato Jerome.
Pallido in viso, e con i capelli ancora scompigliati dal sonno, mi raggiunse in due rapide falcate per poi stringermi a sé in un abbraccio consolatorio, facendomi scoppiare a piangere.
“Ho avuto così tanta paura!” riuscii a dire, stringendomi a lui e sentendolo reale - e vivo - sotto le mie dita tremanti.
“A chi lo dici, principessa” sussurrò, prima di scostarsi e chiedermi confuso: “Ma che diavolo era?”
“L’hai visto anche tu?” esalai, sgranando gli occhi per la sorpresa.
“Sì, e sono corso subito qui appena mi sono svegliato” mi spiegò con voce roca, prima di chinarsi un poco e aggiungere: “Vedrai che ne verremo a capo. Anche se tremo ancora al pensiero di quel che ho visto.”
Annuii, ancora raggelata dai flash di quell’incubo orribile, che bersagliavano il mio cervello come colpi d’ascia.
Lui allora accennò un sorriso e, con naturalezza, mi diede un casto bacio sulle labbra per confortarmi.
Il suo calore scacciò in parte l’ansia, ma l’agghiacciante sensazione di un pericolo mosso contro di noi continuò a riverberarmi nella testa.
Un ringhio di gola ci fece scostare spaventati, facendomi dimenticare di colpo le sensazioni orrende appena provate.
Al loro posto, mi ritrovai immersa in qualcosa di molto peggiore... e assurdamente più pericoloso.
Qualcosa che avrei preferito di gran lunga non affrontare. O vedere.
Duncan, sulla porta della mia stanza, ci fissava come se avesse scorto il diavolo in persona di fronte a sé, e fosse pronto a fronteggiarlo fino alla morte.
Indietreggiai spaventata quando  lui avanzò, gli occhi due pozze ambrate che emanavano fiamme purificatrici.
Jerome, ponendosi lesto di fronte a me per proteggermi dalla sua ira incomprensibile, si arcuò in avanti, sibilando: “Non un passo di più!”
“Scostati, maledetto traditore!” ringhiò Duncan, prima di mutare in lupo a una velocità sorprendente.
Fino a quel momento, avevo immaginato che ogni licantropo avesse necessità di mutare da uomo in animale – e viceversa – imponendosi una certa dose di calma, visti gli sconvolgimenti fisici cui andava incontro.
Ma questa volta Duncan, esplose letteralmente, divenendo il lupo enorme che io avevo scorto la prima volta sulle rive di un lago, durante il  nostro viaggio.
Gridai spaventata, allontanandomi da Jerome mentre lui avvolgeva Duncancon le braccia, lanciato all’attacco contro di lui.
Con un grugnito, finì a terra a pochi centimetri dai miei piedi, dandomi così la possibilità di scorgere tutto l’odio e il rancore che quegli occhi d’ambra celavano nelle loro profondità scintillanti.
Jerome piegò la testa in avanti, mostrando a sua volta i denti – ben deciso a non mutare forma – e, con voce reca roca dallo sforzo, sibilò nuovamente: “Smettila, idiota che non sei altro!”
Duncan slanciò il muso in avanti per afferrarlo alla giugulare ma Jerome, per nulla intenzionato a lasciarsi azzannare, lo strattonò con forza per il pelo, allontanandolo un poco dal suo volto.
A quel punto, spaventata a morte e preoccupata per Jerome, incanalai tutta la rabbia di Duncan dentro di me e gliela scagliai addosso, mandandolo per diretta conseguenza contro il muro della mia stanza.
Il riverbero di energia, utilizzato per allontanarlo da Jerome, fu tale da fessurare il muro lungo tutto l’asse orizzontale della parete, scivolando scricchiolante verso il pianterreno.
Quel colpo lo tramortì a sufficienza per permettermi di aiutare Jerome ad alzarsi dopodiché, con le lacrime agli occhi e l’orrore dipinto sul volto, singhiozzai con voce malferma: “Perché mi fai questo? Perché?”
Duncan si rimise sulle zampe, fissandomi con i suoi enormi occhi ambrati, ora colmi di rimorsi e dubbi.
Scoppiando in lacrime, esalai: “Ho aspettato troppo. Troppo!”
Detto ciò, fuggii via udendo la voce di Jerome, dietro di me, che imponeva furiosa a Duncan di non seguirmi e di darmi il tempo di riprendermi.
Riprendermi? E come avrei potuto, dopo quella scena tremenda, stampata a caratteri roventi nel mio cervello?
Non avevo idea di cosa avesse potuto scatenare quella rabbia.
Forse, vedere Jerome che mi baciava, gli aveva fatto credere che i miei sentimenti per lui non fossero autentici.
Davvero non avrei saputo dare un altro perché a quella reazione.
Ma persino un bambino avrebbe capito che, tra me e Jerome, non c’era altro oltre a una salda amicizia!
Tra loro, potevano anche leggersi nel pensiero! Possibile che Duncan non l’avesse compreso?
Scioccata da quel che avevo visto, non persi ulteriore tempo e, dopo aver raggiunto la casa di Erika in venti minuti buoni di camminata a passo ben più che sostenuto, bussai alla porta ed entrai.
Trovai la mia insostituibile amica in cucina.
Vedendomi in quello stato di confusione e prostrazione totali, si irritò immediatamente e ringhiò: “Che ha combinato quell’idiota di Duncan? Dimmelo, che corro a mordergli il culo!”
“Ha quasi ammazzato Jerome, Erika” singhiozzai, stringendomi a lei come se avessi paura di scivolare in un baratro senza fine.
Sicuramente, le mie parole la sorpresero oltre ogni ragionevole dubbio. “Dio, li sto distruggendo! Se Duncan non riesce più a riconoscere la realtà per quella che è, io...”
“Ma che stai dicendo?” esalò senza comprendere, semplicemente tenendomi stretta a sé, quasi temesse potessi crollare da un momento all’altro.
E forse era vero.
“Jerome e io abbiamo fatto lo stesso sogno, poco prima di svegliarci” le spiegai con un gracidio innaturale, sentendo venir meno le poche forze che mi restavano. “Lui… lui è venuto da me per confortarmi e… beh, lo ha fatto alla sua maniera. Mi ha dato un bacio, ma io so che Jerome non prova che affetto fraterno, per me! Perché Duncan ha dovuto travisare tutto?!”
Esplosi di rabbia, alla fine, asciugandomi con veemenza le lacrime dal viso nello scostarmi da lei.
“Lo ha… aggredito?” Erika ansò spaventata, appoggiandosi al muro del corridoio, gli occhi sgranati per la sorpresa e lo sgomento.
Annuii e continuai a dire con voce un po’ più controllata: “Deve aver pensato che tutto quello che gli ho detto fosse una menzogna, e si è infuriato… oddio… che ho fatto?”
“Non hai fatto nulla. E’ lui che è un idiota” sbottò Erika, prendendomi per le spalle per scuotermi. “Ora andiamo da lui e chiariamo la cosa.”
“No. Basta. Ho già fatto fin troppi danni” replicai, scuotendo il capo e allontanandomi dalle sue mani.
“Che dici? No, Brie!” scosse il capo con veemenza, guardandomi con espressione terrorizzata.
Sapeva dove volevo andare a parare, e la cosa la terrorizzava.
 Ma non quanto aveva terrorizzato me la scena a cui avevo appena assistito.
Non potevo permettere che un evento del genere si ripetesse e, ne ero sicura, sarebbe successo ancora, se fossi rimasta.
Duncan non era più in grado di ragionare coerentemente, con me nelle vicinanze a turbarlo con le mie domande e i miei desideri.
Dovevo andarmene, prima che la sua debolezza si trasmettesse al branco, mettendoli tutti in pericolo. Non c’era altra scelta.
Preso un bel respiro, tornai a fissare gli occhi chiari di Erika e, seria in viso, dissi: “Accompagnami da Marjorie.”
“Che? E lei che c’entra, ora?” brontolò Erika, scuotendo energicamente il capo.
I suoi lunghi capelli neri le finirono sulle spalle in una matassa scomposta, che io aggiustai con un gesto premuroso della mano, sorridendole comprensiva.
“Mi aiuterà ad andarmene, e tu sarai la mia copertura” le spiegai, stringendole una mano con forza.
“Ti sgozzerà non appena ti vedrà” precisò Erika, brontolando come una pentola di fagioli.
“No, Erika. Come ha detto lei, c’è una vita tra di noi. Mi concederà ciò che voglio, perché tornerà comodo anche a lei” replicai con sicurezza, trascinandola fuori di casa prima di aggiungere: “Quando ti chiederanno di me, scusati per conto mio, e ricordati di dare un bacio ai tuoi genitori. Sono state persone gentilissime.”
“Ti verranno a cercare per riportarti a casa, ne sono sicura” mi disse per contro, seguendomi di malavoglia.
“Tu glielo impedirai, dicendo che è un mio desiderio. E non si può venir meno ai desideri di una wicca” ribattei, sorridendo triste.
“Sei una stronza, quando tiri in ballo la cosa” sbuffò, cingendomi la vita per un attimo prima di trascinarmi verso il suo scooter. “Ma rispetterò il tuo desiderio, se è questo che vuoi. Promettimi una cosa, però.”
“Che cosa?” le chiesi, temendo di non poterle offrire neppure questo.
“Chiamami. Anche ogni due minuti. Non lasciare che la lontananza uccida la nostra amicizia. Se anche non sarai qui come nostra wicca, potrai essermi vicina come amica, no?” mi pregò, speranzosa.
“Sarò sempre e solo la vostra wicca, anche se non potrò essere fisicamente qui con voi. La Cerimonia del Sangue, che ho celebrato con Duncan, ha fatto sì che una parte di me sarà sempre qui con voi, ma cerca di capire perché non posso restare. Più distanza metterò tra noi, più la sua mente sarà sgombra da dubbi. Il mio potere sarà labile, attorno a lui, e Duncan potrà essere libero dal mio giogo, visto che lui lo vede come tale” biascicai mestamente, aggrappandomi a lei mentre Erika metteva in moto per dirigersi verso la casa di Marjorie.
“Ti capisco, e il coraggio che stai dimostrando nell’allontanarti volontariamente da noi non potrà essere messo in dubbio da nessuno, ma promettilo, ti prego. Chiama” sussurrò, supplichevole.
“Chiamerò. Te lo giuro” annuii, pur sapendo che, ogni volta che l’avrei fatto, il mio cuore si sarebbe lacerato in due per lo sconforto di non poter essere lì con lei.
Proseguimmo in silenzio fino a raggiungere il quartiere in cui risiedeva Marjorie e, quando vidi la sua auto ancora parcheggiata di fronte a casa, sospirai di sollievo.
Annuendo con Erika, scendemmo all’unisono dallo scooter e ci portammo leste fino al suo campanello, dove suonai con mano leggermente malferma.
Non ero sicura di come volevo apparire, ma ormai la decisione era presa.
Un attimo, e Sean si presentò sulla porta di casa, solare come una bella giornata primaverile e di nuovo pimpante e pieno di vita.
Non aveva nulla a che fare, quel giovanotto in salute e armato di skateboard, con il ragazzino emaciato che, solo un paio di giorni prima, avevo salvato da morte certa.
Ci aprì immediatamente e si esibì dinanzi a me in un inchino ossequioso e piuttosto formale, dicendo: “E’ un piacere rivederti, wicca. Grazie ancora per quello che hai fatto per me. Se non fosse stato per il tuo intervento, io sarei morto, ora.”
“E’ stato un piacere aiutarti, Sean. Sapere di essere stata d’aiuto, mi è di conforto” asserii sinceramente, sorridendogli.
Che ci potevo fare se la sorella mi stava antipatica? Non dipendeva certo da me! O da lui!
Con un sorriso estatico, Sean esclamò allegramente: “Oh, il piacere è stato tutto mio, credimi. Cercavi mia sorella, per caso?”
“Sì. E’ in casa?” gli chiesi.
“Sì. E’ in cucina. Venite pure avanti. Io ora devo scappare. Mi aspettano” ci spiegò, indicando lo skateboard che teneva sottobraccio.
“Fai un salto anche per me!” ammiccai al suo indirizzo, vedendolo correre via e salutarci con ampi gesti del braccio.
Come facevano ad avere lo stesso DNA, lui e Marjorie? Doveva esserci stato qualcosa che non era andato, durante il concepimento.
Lasciando perdere quel pensiero, avanzai lungo il corridoio con Erika al mio fianco.
Marjorie, sbucando dalla porta della cucina con una tazza di caffè bollente tra le mani, si appoggiò svogliatamente contro lo stipite e ci guardò con aria diffidente, attenta a ogni nostro minimo movimento.
Quando la raggiungemmo, ci lasciò libero il passaggio perché entrassimo a nostra volta in cucina.
Lì, diedi una breve occhiata ai mobili dalla linea moderna e dai colori pastello, mi soffermai sulla sua figura perfetta – abbracciata da una tuta da jogging nera della Nike – e dissi: “Avrei bisogno di un favore, se ti fosse possibile accontentarmi.”
Lei sollevò un sopracciglio perfetto – ma ce l’aveva un difetto, a parte il carattere? – e mi fissò con autentica sorpresa prima di guardare dubbiosa Erika.
Indicandola con un cenno del capo, replicò: “Non puoi chiederlo al tuo cagnolino?”
Erika ringhiò ma io, facendole segno di non reagire alla sua offesa, mi limitai a grugnire: “Preferirei fossi tu a farlo. Daresti meno nell’occhio. Ed Erika mi serve qui per coprire le mie tracce.”
“Coprire… le tracce? Te ne vai?” gongolò, fattasi di colpo interessata.
“Già. Dovrebbe piacerti, come idea” commentai, aspra come un limone.
Scrollando le spalle, Marjorie ci chiese se volessimo del caffè e, dopo avercene servito una tazza ciascuna, si sedette e asserì senza mezzi termini: “I punti sono due. Duncan mi interessa, e tu lo turbi in una maniera che danneggia anche il branco, oltre a lui come uomo. Wicca o non wicca, sei un danno per il clan, stando così le cose.”
Per quanto fosse stata brutale nell’esporre le cose, il suo ragionamento non faceva una grinza.
Era l’esatto motivo per cui me ne stavo andando. Ma sentirlo dire dalla sua voce, profonda e sensuale come la mia non sarebbe mai stata, mi fece rizzare i capelli per la rabbia.
Sospirai, prima di annuire e ammettere: “E’ appunto per questo che me ne vado. Ma non voglio attirare qui la polizia, per cui vorrei sapere se puoi accompagnarmi il più lontano possibile da Matlock, in modo tale da non incuriosire i Cacciatori. Sono già successe troppe cose, a causa loro.”
“Che intendi dire?” mi chiese Marjorie, aggrottando la fronte e intrecciando le mani sul tavolo della cucina.
“Molto presto, Duncan avrà bisogno dell’appoggio dei suoi licantropi più forti, per affrontare apertamente il Consiglio” cominciai col dire, pur sentendomi morire dentro.
Affidare Duncan a Marjorie. Dovevo essere davvero impazzita.  
Ugualmente, le spiegai di Abraham, e del fatto che Connor aveva taciuto al branco della sua sopravvivenza.
Le dissi anche dei nostri dubbi riguardo la morte della madre di Kate, e del presentimento secondo cui i Cacciatori fossero coinvolti in modo attivo in ciò che era avvenuto.
Quelle notizie la turbarono, oscurando il suo viso dalla pelle eburnea.
Annuendo a più riprese, mormorò: “Se ciò che dici è vero, il Consiglio salterà per aria, ma hai ragione. Duncan avrà bisogno di appoggio, per contrastare Connor e la Lupa Madre. Quel che non capisco è un’altra cosa, però.”
“Cosa?” esalai sorpresa. Mi sembrava di essere stata abbastanza chiara.
Lei sogghignò per un attimo, lasciando che il suo rispetto nei miei confronti balenasse poco alla volta.
Non le avevo mai scorto, nello sguardo, una simile comprensione. “Perché stai chiedendo proprio a me di aiutare Duncan? So che lo ami… quindi, perché?”
“Perché sto affidando l’uomo che amo proprio alla mia nemesi?” replicai con un risolino. “Perché, la nemesi in questione, è il licantropo più potente che io conosca, dopo i Gerarchi, e voglio che Duncan abbia le spalle il più coperte possibile, quando affronterà il Consiglio. Sapere che in esso ci sono anche Sarah e Johnathan mi conforta, ma Sheoban e Connor hanno dalla loro il vecchio Hati e il vecchio Sköll, oltre ad altri quattro Anziani di grande potere. No, preferisco saperlo difeso da te, piuttosto che indifeso di fronte a loro.”
Annuì, accettando la mia spiegazione dopodiché, alzandosi in piedi e posando la tazza di caffè sul ripiano in marmo della cucina, fissò Erika e domandò: “Qual è il suo ruolo, in tutto questo?”
“Se dovessero chiederle notizie di me nelle prossime ore, dirà che sono andata a fare un giro per i boschi per darmi una calmata” le spiegai, sorridendo comprensiva a Erika, che annuì coraggiosamente.
Sapevo che avrebbe voluto scoppiare a piangere, in quel momento.
E lo volevo anch’io.
“Starò alla larga dalla mia famiglia per tutto il giorno e, se mi dovessero cercare al cellulare, racconterò questa frottola, così non correrò il rischio che qualche pensiero errabondo possa smascherarmi” scrollò le spalle Erika, schiacciandosi il naso con le dita con fare nervoso, come a voler cacciare indietro le lacrime.
“Oh, vi prego… niente piagnistei, non potrei sopportarlo!” sbottò Marjorie, afferrando le chiavi della sua auto dal ripiano del telefono, posto accanto al muro.
Storsi il naso, disgustata dalla sua totale mancanza di tatto e, seguendola fuori casa assieme a Erika, grugnii: “Certo che, in quanto a delicatezza, un orso ha più savoir-faire.”
“Scusa tanto, tesoro, se non sono come la tua sciocca amica dal cuore d’oro” replicò Marjorie, ruvida come carta vetrata.
Calma. Devi stare calma. Se ti incavoli e l’ammazzi, come fai a scappare?, mi dissi più volte, cercando di chetare le immagini sanguinarie che il mio cervello elaborò alla velocità della luce.
Erika, dietro di me, brontolò a più riprese, segno che anche lei stava cercando di contenersi, così da non risolvere quell’incontro in un omicidio a sangue freddo.
Salii sull’auto di Marjorie dopo un frettoloso quanto stritolante abbraccio a Erika e, dopo aver lasciato alle nostre spalle la villetta della donna e la mia migliore amica, ci dirigemmo verso sud, in direzione di Cambridge.
Il viaggio fu silenzioso, riempito soltanto dalla musica riprodotta alla radio e dalle battute dei DJ che, di tanto in tanto, si affastellavano l’uno sull’altro a ogni cambio di programma.
In cielo, le nuvole ricoprivano il sole, impedendogli di splendere energicamente come suo solito.
Ironica, pensai che stesse tenendomi il broncio esattamente come, ne ero sicura, me lo stesse tenendo Erika.
Ma non avevo avuto altra scelta. Duncan sarebbe stato meglio senza di me e, alla fine, se ne sarebbero resi conto tutti.
Dopo circa due ore di viaggio ininterrotto e privo di traffico, intravedemmo finalmente il cartello di Cambridge.
Rivolgendomi per la prima volta a Marjorie, da quando eravamo partite, le dissi: “Se… se dovesse rendersi del tutto necessaria la mia presenza, fammi chiamare. Dopotutto, rimango ancora la vostra wicca.”
Fece per ridermi in faccia – me ne resi conto perfettamente, anche perché non fece nulla per celarmi i suoi pensieri – ma poi desistette, annuendo.
Di mala voglia, ammise: “Come dici tu, dopotutto, sei ancora la nostra wicca. Se ritenessi che la situazione fosse davvero rischiosa per il branco, e necessitassimo del tuo intervento, ti farò chiamare. Te lo giuro.”
Non c’era falsità nelle sue parole, perciò accettai la sua promessa come buona.
Per quanto potessimo detestarci reciprocamente, il bene del branco – e di Duncan – veniva prima di ogni altra cosa.
Annuii grata e mormorai, tornando a volgere lo sguardo sulla strada: “Mi dispiace non essere mai andata d’accordo con te.”
“Non è vero, e lo sai” sogghignò per contro, svoltando lungo una via stretta e diritta, dove le case di mattoni rossi, e i giardinetti ben tenuti, si avvicendavano l’una dietro l’altra in un’infinita serie.
Ridacchiai e ammisi: “Già.”
Rise anche lei, apparentemente serena e, dopo aver decelerato di fronte a un passaggio pedonale ingombro di persone, svoltò lungo un viale che costeggiava un enorme parco.
Lì, si fermò nel primo posto utile, spiegandomi succintamente: “Qui siamo al Parker’s Piece. Da qui al centro città manca pochissimo, a piedi. Lì, troverai un distretto di polizia. Il resto spetta a te.”
“Sì…e grazie” annuii, voltandomi per un momento verso di lei. “Possa il vento esserti favorevole.”
“E la tua caccia essere propizia” replicò Marjorie, con un leggero cenno del capo.
Non avevo altro da dirle. Non avevamo mai avuto altro da dirci, noi due.
Con un sospiro, scesi dall’auto e osservai la sagoma scura della sua Seat Ibiza allontanarsi nel traffico cittadino, lasciandomi sola al mio destino, esattamente come avevo voluto che fosse.
Ora, dovevo solo trovare il coraggio di fare il passo successivo.

***

Deglutendo a fatica, la cornetta del telefono in una mano, e lo sguardo del poliziotto al mio fianco fisso su di me con espressione confortante, composi il numero di casa e attesi con il terrore in gola che qualcuno mi rispondesse.
Fa che non sia lui, fa che non sia lui, fa che non sia…
“Pronto? Casa Smithson. Chi è?”
Appunto.
“Patrick… sono io… Brie” dissi con voce strozzata.
Uno. Due. Tre. Quattro secondi e poi: “Brianna… ah,… bene, ragazza. Finalmente ti sei decisa a farti viva. Qui eravamo tutti in pensiero per te” borbottò con voce a stento controllata.
Evidentemente, Mary B o Gordon, se non tutti e due, erano in casa e potevano udirlo chiaramente.
“Scusatemi tutti. Sono stata una sciocca ad allontanarmi senza dirvi nulla” mugugnai mesta, e nella mia voce comparvero le lacrime.
Ero distante dal mio branco, sì, il mio branco, solo da poche ore, e già la nostalgia mi stava uccidendo.
Come avrei potuto resistere, senza di loro? Come?!
Una pacca sulla spalla mi fece riprendere e il poliziotto vicino a me, con un sorriso, disse cortesemente: “Vedrai che andrà bene.”
“Già” sussurrai, prima di aggiungere: “Sono a Cambridge. Venite a prendermi, per favore.”
“Cambridge? Ne hai fatta di strada, ragazza, per non essere automunita” commentò Patrick, sempre contenendosi nelle uscite.
Potevo quasi sentire la sua rabbia frustarmi attraverso il telefono.
Sarebbe stato un viaggio di ritorno davvero orrendo, ma avrei venduto cara la mia pelle.
Non avrebbe ottenuto nulla da me e, anche se mi avesse data in mano ai suoi amici, io non avrei aperto bocca.
Il segreto del mio clan sarebbe morto con me, se a questo si fosse giunti.
Di questo non avevo paura, stranamente.
Sorridendo tra me nel mettere giù la cornetta del telefono, alla fine capii.
Per il branco, si poteva davvero arrivare a fare di tutto.
“Ora lo so, Duncan. Ora ti capisco” sussurrai tra me, lasciando che una lacrima solitaria solcasse il mio viso.






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N.d.A.: Ora, mettete via archibugi, lanciafiamme, missili terra-aria e quant'altro. Doveva succedere, altrimenti non si sarebbe potuti arrivare a ciò che succederà nei prossimi capitoli e che, penso, compenserà la "giusta" rabbia che ora immagino stiate provando. Perciò, vi prego.... non uccidetemi! ç_ç
Ve lo chiedo con tutto il cuore.....:)

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Capitolo 27
*** XXVII. ***


 

XXVII.








 

L'Audi A6 SW, che Patrick aveva preso a noleggio per raggiungere Cambridge, era morbidamente avvolgente, come se fossi stata circondata dall’ovatta.
Mi diede comunque l'idea di essere all'interno di una bara, specialmente quando mi sedetti sui confortevoli sedili posteriori.
L’atmosfera all’interno dell’auto era funerea, mitigata soltanto dalla presenza di Mary B che, di tanto in tanto, cercava di spezzare quei silenzi tesi, mentre ci dirigevamo a una buona velocità verso l’aeroporto di Heathrow.
Patrick si era mostrato gentilmente freddo. Aveva ringraziato i poliziotti che mi avevano preso in consegna, e avevano pensato a sfamarmi – avevo lasciato tutto a casa di Duncan, nella fretta di partire – dopodiché mi aveva caricata sull’auto con uno sguardo che la diceva lunga su quanto fosse stato realmente preoccupato per me.
Nel tragitto che ci separava dall’aeroporto, Patrick non emise fiato e io, ben decisa a non cedere di fronte al suo silenzio, mi trincerai dietro un mutismo assoluto, che interruppi solo per rispondere alle domande vaghe e preoccupate di Mary B.
Stava davvero comportandosi egregiamente, nonostante non sapesse il perché del mio voltafaccia improvviso.
Sicuramente, si stava chiedendo cosa fosse successo di così tremendo da portarmi, così di colpo, ad abbandonare il branco di Matlock senza prima avvisarla di quella mia scelta repentina.
Povera Mary B. Avrebbero dovuto farla santa.
Ero più che convinta che Patrick non si sarebbe lasciato scappare mezza frase, di fronte a Mary B – non sapendo che, in realtà, lei era già al corrente di tutto – perciò occupai il tempo che mi restava per decidere sul da farsi.
Ora che ero lontana dai licantropi, il mio essere wicca non contava molto.
Pur se risvegliata al mio potere, lontana da loro sentivo che le mie energie erano ben misera cosa, se paragonate a quello che potevo fare con loro presenti, e questo mi rattristò.
Ero una wicca dai poteri unici, ma avevo pur sempre bisogno di loro, per portarli al mio massimo fulgore.
Senza la loro presenza, ciò che percepivo era così labile da farmi quasi ridere.
E l’avrei fatto, se tutta quella situazione non fosse stata così tragica. Da sola, ero menomata, con ben poche frecce al mio arco.
Non avevo mai voluto quel potere, ne avevo avuto paura, ma ora che lo sentivo pallido e irriconoscibile nella mia mente, solo uno spettro vuoto e privo di forza, ne sentii la mancanza.
Ero davvero incontentabile.
L’essere rinchiusa all’interno di una gabbia di metallo e materiali plastici, poi, non faceva che peggiorare la situazione.
Ero una creatura legata alle leggi della natura non meno dei licantropi che amavo tanto, e quella per me era una prigione non dissimile da quella in cui avevano imprigionato Duncan, pochi mesi prima.
La civiltà era la mia nemesi, come l’argento lo era per i licantropi.
Mi appoggiai affranta al finestrino dell’auto, chiudendo gli occhi e ripensando al caloroso abbraccio della quercia sacra, al suo placido colloquiare, ai suoi ricordi impregnati di nostalgia, e piansi.
Piansi per ciò che avevo perso, per ciò che stavo tentando di salvare, per ciò che mi avrebbe atteso non appena fossimo giunti a casa.
Mary B mi allungò un fazzoletto, sorridendomi comprensiva ma Patrick, rigido, sibilò: “Devi smetterla di essere così permissiva con lei. Guarda a cosa ci ha portati, la tua dolcezza immotivata.”
Quel commento mi mandò in bestia.
Mi raddrizzai subito e, con un ringhio che riverberò nell'auto, gli rinfacciai: “Non osare parlarle a questo modo! Non è lei  la causa di tutto questo, e tu lo sai.”
Mi fissò attraverso lo specchietto retrovisore, forse chiedendosi fin dove mi sarei spinta con le affermazioni.
Preferendo lasciarlo bollire nel suo brodo per un po’, mi limitai a sogghignare e, con più calma, tornai a sedermi compostamente, asciugandomi gli occhi con il fazzoletto offertomi da Mary B.
A quanto pareva, teneva ancora molto all’opinione della moglie – punto per lui – ma questo non bastava a rendermelo simpatico.
Patrick avrebbe avuto vita dura, con me. Non avrei ceduto il passo, di fronte a lui e la sua cricca.
Dovevano ancora capire contro chi stavano per battersi.
E forse, anch’io dovevo ancora capire contro chi stavo per battermi.

***

L’aereo si involò verso Glasgow alle nove di sera e, per le undici, le luci brillanti della casa che avevo abbandonato in tutta fretta, una mattina d’estate, tornarono a splendere per me, ammiccanti e apparentemente accoglienti.
Dubitavo fortemente, comunque, che lo sarebbero state.
A sorprendermi fu Gordon che, non appena l’auto mise piede – ops, ruota – nel cortile, sbucò da casa assieme alle mie amiche più care, in un comitato di benvenuto che non mi sarei mai aspettata di vedere.
E che mandò in fumo i piani di Patrick, almeno a giudicare dalla sua faccia accigliata.
Striscioni di ‘bentornata’ e gridolini eccitati mi accolsero, non appena scesi dall’auto.
Elspeth, la prima a gettarsi tra le mie braccia - con relativo pianto disperato e liberatorio - mi disse all’orecchio tra mille singhiozzi: “Oddio, mi hai fatto stare così in pena. Ho sognato un sacco di cose tremende!”
Gordon me l’aveva detto più volte, durante le nostre telefonate, e mi ero sentita mostruosamente in colpa per non aver potuto mettere una pezza a quel guaio.
Speravo comunque che, essendo tornata, tutto si sarebbe sistemato per il meglio, tra me e le mie amiche.
Ammesso e non concesso che, nei piani di Patrick, vi fosse la mia salvezza, e non la mia morte.
Se avevo ragione, e dietro l’incidente alla madre di Kate c’erano loro, io allora sarei stata la prossima vittima.
A ogni modo, non potevo pensarci in quel momento. Ora dovevo pensare solo a tranquillizzare le mie amiche.
Mi lasciai perciò sballottare da tutte loro, in lacrime ma felici di rivedermi sana e salva, lasciando per ultimi Gordon e Abegail.
La nipote di Fenrir di Glasgow era venuta appositamente per star vicina a mio fratello e, forse, anche a me.
La strinsi in un abbraccio, sussurrandole: “Duncan non sa che sono qui, quindi il tuo Fenrir non dovrà dire nulla.”
Mi parve sorpresa, ma annuì lievemente prima di lasciarmi andare perché abbracciassi Gordon.
Dio, sembrava così cresciuto, in quei mesi passati lontani!
Non ero del tutto sicura di esserne fiera. Avrei preferito che, l’estate dei suoi diciassette anni, non fosse stata così tremenda.
Lui si limitò a sorridermi prima di prendermi sotto le ascelle con le braccia – da quando era diventato così forte? – e sollevarmi di peso per stringermi a sé, esclamando: “E’ bello rivederti, sorella!”
“E’ bello essere visti, Capitano” replicai, scoppiando a piangere a mia volta.
Avevo resistito di fronte alle mie amiche ma, dinanzi a lui, crollai di colpo.
Un risolino generale mi avvolse, proteggendomi e io, dando un rapido sguardo a Patrick che, scocciato, rientrò in casa assieme a una più serena Mary B, sussurrai: “Qui, com’è andata?”
Rimettendomi giù, Gordon tornò serio e, asciugandomi le lacrime con gesti premurosi e nervosi al tempo stesso, mi spiegò velocemente: “Il telefono fumava, dopo che hai chiamato. Avrà fatto una ventina di chiamate, ma a chi, non lo so.”
“Io penso di saperlo” sospirai, prima di venire avvolta nuovamente dalle braccia di Elspeth.
Ridacchiante e al settimo cielo, disse pimpante: “Dobbiamo recuperare il campeggio che abbiamo saltato.”
“Prima, dovrò sopportare la maxi punizione che mi vorrà propinare Patrick” replicai ghignante, cercando di mostrarmi allegra.
“Lo pregheremo di essere modesto” ridacchiò Ellie, prima di chiedermi: “Allora, si può sapere perché sei scappata? Di certo, non è colpa di Leon. E' stato impegnato al cinematografo del padre per tutta l'estate.”
Guardai malissimo Gordon – che ridacchiò – prima di asserire: “Leon non c’entra nulla, e non ero in compagnia di un ragazzo. Volevo solo… allontanarmi un po’.”
“Tipo, vacanza on the road?” chiese Nancy, ammiccando.
“Qualcosa del genere, sì” annuii. ‘On the road’ la era stata davvero, per un breve periodo.
“La prossima volta che vuoi farne una, chiamaci. Ci divertiremo di più, insieme” mi propose Elspeth, aggiungendo subito dopo: “E i capelli ti stanno da Dio, così.”
“Grazie” sussurrai, infilandoci una mano e percependo il residuo passaggio del potere di Duncan in mezzo a essi.
Trattenni il respiro, quasi mi avessero mozzato la lingua, e desiderai gridare con tutta me stessa.
Maledizione, quanto mi mancava!
Gordon intervenne in mio soccorso, forse scorgendo un prossimo cedimento dipinto sul mio viso. non propriamente sereno.
Prendendomi sottobraccio, disse alle mie amiche: “Avrete tempo domani, per massacrarla di domande. Ora mi sembra piuttosto sbattuta. Di’ ciao alle tue amiche e poi fila a dormire, Brie.”
Ridendo fiacca, mi addossai completamente a lui – sentendomi veramente stremata – e ammisi: “Temo che Gordon abbia ragione. Passerete, domani? Perché, temo che per i prossimi dieci anni sarò confinata in casa.”
Tutte le mie amiche si dichiararono d’accordo e, pian piano, si allontanarono per raggiungere le loro auto.
Tutte tranne Abegail che, restandomi vicina, mormorò: “Noi siamo qui, qualora aveste bisogno di aiuto. Non esitare a chiamarci. Il nostro branco è al tuo servizio, wicca.”
“Te ne sono grata, Abegail” sorrisi, prima di lanciare uno sguardo alla luna alta in cielo, ormai del tutto piena e brillante come una stella.
Inspirai l’aria umida della notte, percependo dentro di me solo un debole sentore del mio potere, ma più che sufficiente per dare la mia benedizione ad Abegail.
Socchiudendo gli occhi, mi chinai verso di lei per darle un bacio sulla fronte e sussurrai: “Possa il vento esserti favorevole…”
“… e la tua caccia proficua” mi rispose, sorridendomi estasiata. L’aveva percepito, e ne fui lieta.
Essendo una neutra, aveva potuto avvertire un poco del mio potere scorrere dentro di lei.
Le wiccan  più potenti potevano farlo e io, nel bene e nel male, ero una di loro. Anche menomata nelle forze com’ero in quel momento.
Lasciai che raggiungesse il suo scooter prima di voltarmi a guardare Gordon che, sconvolto, mi stava fissando senza parole.
Doveva aver percepito qualcosa anche lui, per avere una faccia così.
“Cos’era quel… quella sensazione di calore che ho avvertito?” esalò, stupito.
“Una pallida esibizione di ciò che sono. In quanto mio fratello, puoi avvertirla, almeno un poco” dissi con un sospiro. “Rientriamo. Sono curiosa di vedere cosa mi serba il futuro.”
“Qualsiasi cosa sia, mi avrai al tuo fianco” mi promise Gordon, continuando a tenermi sottobraccio.
“Qualsiasi cosa sia, ti rivolgerai al branco di Abby per farti proteggere” precisai, fissandolo duramente.
Lui si bloccò a metà di un passo, costringendomi a fare altrettanto e, altrettanto duramente, ringhiò: “Non mi tiro indietro, sorella. Dove vai tu, vado io. Stavolta, non lo affronterai da sola.”
“Gordon” sussurrai, spaventata all’idea che potesse succedergli qualcosa per colpa mia.
“Niente storie. E’ così e basta” mi sorrise, prima di riprendere a camminare.

***

Una lama. Il lampo che squarcia la notte. Il dolore. Il sangue.
Gridai nello svegliarmi, la stessa sensazione provata la mattina in cui tutto era andato a rotoli, in cui la mia vita aveva preso una piega che non avrei mai voluto vedere, in cui tutto mi si era chiuso innanzi, negandomi ogni gioia e ogni futuro.
Ansimai nell’alzarmi da letto, le membra stanche nonostante una notte di sonno alle spalle, la certezza che quel giorno non sarebbe stato limpido e solare, ma ombroso e cupo come una notte d’inverno.
Aprii le imposte, ritrovandomi a fissare i grandi faggi che cingevano casa e le ombre di nubi minacciose, laggiù all’orizzonte, pronte a chiudersi sopra la mia testa per non lasciarmi intravedere la luce benevola del sole.
Un bussare secco alla porta mi disse che l’ora era giunta.
Il confronto era lì, pronto oltre il battente di noce levigato e tinto di bianco.
Assicurai la mia presenza e mi vestii, ben decisa a non lasciarmi spaventare da Patrick, qualsiasi cosa avrebbe detto di lì a poco.
Scesi le scale lentamente, sentendo i rumori classici della mattina provenire dalla cucina, e seppi che almeno Mary B e Gordon stavano bene. Questo mi rincuorò.
Quando li raggiunsi, fissai tesa Patrick prima di sedermi.
A quel punto, lui fissò moglie e figliastro e ordinò seriamente: “Volete scusarci un attimo? Dobbiamo parlare da soli
“Io non mi muovo di qui” replicò secco Gordon, sedendosi al mio fianco, le braccia strette sul petto in espressione di sfida.
“Io neppure” disse perentoria Mary B.
Patrick li fissò malissimo ma loro, con mio sommo gaudio, sostennero fermamente il suo sguardo.
Sbuffando contrariato, Patrick mi guardò con autentico livore e sibilò: “Anche questo hai fatto… quanto sanno?!”
Sollevai serafica un sopracciglio, e ironizzai alla grande. “Tutto. Perciò, spremiti pure le meningi per capovolgere la situazione, anche se tanto non ci riuscirai.”
“Difendi dei mostri! Non te ne rendi conto?!” sbottò, picchiando con violenza una mano sul tavolo della cucina.
Sobbalzai leggermente, ma non mi feci prendere dal panico.
Con voce piana, replicai: “E’ opinabile. Credo piuttosto il contrario, Patrick. Quello che stavate per fare, era mostruoso.”
“Non meritano altro!” ringhiò furente, avvicinandosi a me con occhi rabbiosi ed espressione dura. “E tu non sei migliore di loro. Tu, e il sangue che porti dentro di te!”
Sogghignai, sorprendendolo di sicuro – vista l’espressione basita che comparve sul suo volto – e, alzandomi in piedi, lo fronteggiai. “Sangue che porto con orgoglio. Ma che mi dici del tuo?”
“Che intendi dire?” sibilò Patrick, indietreggiando di un passo. Ero più piccola di lui, eppure le mie parole lo fecero barcollare. Cosa temeva?
“Ti sei mai chiesto da dove, tuo padre, avesse preso le informazioni sulle wiccan?” gli buttai in faccia su due piedi, godendo della sua sorpresa e del suo sgomento.
Avrei giocato tutte le mie carte, in quella partita. Non mi sarei fatta mettere i piedi in testa così facilmente.
Impallidito, Patrick ringhiò seccamente: “Perché tiri in ballo lui?!”
“Perché so chi è… veramente” dissi altrettanto seccamente, prima di scoppiare in una risata divertita e aggiungere: “Proprio tu, dai del mostro a me!”
Il dolore lo avvertii un attimo dopo.
Il manrovescio mi schiacciò la carne della guancia, a sorpresa, mandandomi lunga riversa sul pavimento.
Un’esplosione di luci riverberò nella mia testa, facendomi urlare di dolore.
La mia mano si portò subito sulla gota in fiamme, che già si stava gonfiando per la sberla appena ricevuta, mentre Gordon si alzava dalla sedia con un diavolo per capello e Mary B singhiozzava spaventata.
Fissai malamente Patrick, il mio potere quasi del tutto assente, e perciò inutile.
Ero completamente circondata da materiale inanimato, e nessun licantropo poteva darmi un benché minimo appoggio, perciò ero inerme, di fronte alla sua mera forza.
Gordon si venne subito a piazzare accanto a me, e lasciai che mi aiutasse a mettermi seduta.
Furiosa, poi, ringhiai: “Quando scoprirai la verità, che farai? Rivolgerai contro te stesso questa rabbia?”
“Smettila!” mi gridò contro Patrick, furente e con il volto paonazzo. Nei suoi occhi, il dubbio.
Sorrisi trionfante nonostante il dolore al volto, ed esalai: “Hai capito, ormai.”
Inveì contro di me e la mia razza e, uscendo a spron battuto dalla cucina, ci lasciò soli mentre andava a cercare le sue verità.
Stremata, mi lasciai scivolare contro Gordon, borbottando: “Accidenti, che male.”
Gordon ridacchiò nervosamente, mentre Mary B prendeva un po’ di ghiaccio dal freezer.
Dopo averne messi alcuni pezzi in un canovaccio, mi passò il tutto e chiese: “Che intendevi dire, prima?”
“Credo che lo scopriremo tra breve” borbottai, mentre Mary B stentava a non piangere. “Scusa, Mary B, non avrei voluto combinare questo casino.”
Lei scosse il capo, riscuotendosi quel tanto che bastò per non lasciarsi sfuggire alcuna lacrima, che sapevo avrebbe versato volentieri.
Sorridendomi mesta, sentenziò: “La verità, prima o poi, viene a galla, mia cara. E’ giusto così.”
“Non è giusto farti soffrire, però” replicai, rimettendomi in piedi con l’aiuto di Gordon.
“Sono forte abbastanza per sopportare una cosa del genere” asserì, alzandosi a sua volta. “Conoscevo un uomo, e non è colui che ora chiamo marito. Per costui, non provo niente. Per cui, non hai nulla di cui rimproverarti. Ero innamorata di un’idea. E un’idea non può durare in eterno, specialmente se ha fondamenta inzuppate di menzogne.”
“Oh, Mary B…” singhiozzai, allungandomi verso di lei per abbracciarla stretta. “… mi spiace così tanto!”
Mi diede delle pacche affettuose sulle spalle, ridendo sommessamente per non piangere e Gordon, stringendoci entrambe nel suo abbraccio, dichiarò con convincimento: “Ne verremo fuori insieme.”
Lo speravo. Lo speravo davvero.

***

Me ne stavo seduta sul divano del salotto, pronta a tutto come se fossi in procinto di andare al patibolo. E forse era davvero così.
Mary B e Gordon erano accomodati su due poltrone, di fronte al camino spento del salone.
Patrick, armato di un sogghigno che definire lupesco sarebbe stato un eufemismo, attendeva impaziente che suo padre giungesse da Aberdeen, dove era andato in visita da amici.
Aberdeen.
I miei timori, a quel punto, erano più che fondati.
Il cielo si era oscurato fino a diventare nero come pece, gonfio di nubi purulente che emettevano lampi in lontananza.
Parevano pronte a scaricare sulle nostre teste tonnellate d'acqua, non appena il filo di ragnatela che le teneva assieme si fosse rotto del tutto.
Quel cielo mi rammentò l’incubo che mi aveva destato quella mattina e, dentro di me, tremai.
Fa che non succeda nulla a Jerome. Te ne prego, Madre!, pregai disperatamente dentro di me, non sapendo bene a chi rivolgermi, se non a Lei che tutto era, che tutto governava.
Jerome era lontano e al sicuro, dovevo convincermi di questo. Nulla avrebbe potuto fargli del male.
Un colpo alla porta.
Un rombo di tuono e un fulmine.
La tempesta era iniziata.
Nonno Abraham era esattamente come lo ricordavo e, nella mia mente, vecchio e giovane si fusero assieme creando un unico volto, un volto che sapeva di menzogna e di tradimento.
Ci guardò a metà tra il sorpreso e il divertito, prima di rivolgersi al figlio e chiedergli: “Bene, vedo che alla fine la peste è tornata. Le hai almeno cavato qualcosa di bocca?”
Ma Patrick non rispose, chiedendo a sua volta: “Come sai delle wiccan?”
Abraham impallidì, come infastidito dal suono stesso di quella parola, e borbottò: “Studi. Ho compiuto… degli studi…”
Io risi.
Lo so, fu stupido, ma mi venne spontaneo.
Il suo sguardo mi trafisse. Quegli occhi, che sapevo essere di suo padre, il suo vero padre, mi squadrarono rabbiosi.
Non resistetti oltre.
“Sai, gli somigli davvero molto, Abraham… scommetto che Connor sarebbe al settimo cielo, rivedendoti dopo tanto tempo” gli buttai lì, senza neppure troppa grazia.
Il mio tono fu ancora più stupido della mia risata.
Mi uscì una vocetta così querula che, io stessa, mi stupii della mia propensione al masochismo.
Nel breve tempo di un battito di ciglia, e per la seconda volta in un giorno, uno schiaffo mi segno il viso.
Imprecando senza mezzi termini, mi portai una mano al viso, strillando: “La vuoi finire di usare la mia faccia da pungiball?!”
Patrick mi intimò di stare in silenzio mentre Abraham ringhiava, rabbioso: “Cosa stai dicendo, ragazza sciocca e indisponente?! Che menzogne ti hanno messo in testa, quelle bestie?!”
“Non osare chiamarli così! Tu sei una bestia! Tu! Che hai ucciso tua madre, sgozzandola!” gli sputai addosso con tutto il livore di cui fui capace.
Quelle parole lo portarono a sibilarmi contro, prima di dire a Patrick, con veemenza: “Non crederle! Non credere a una sola parola! Lei mente! Lei è una strega! Mentono tutte!”
Mi levai in piedi di scatto, il furore e la disperazione che mi guidavano, e lo fronteggiai esclamando: “Come puoi dirlo?! Come!?”
Si allontanò da me, neppure fossi stata un’appestata e Patrick, dandomi uno spintone, prese un attizzatoio dal camino e me lo puntò contro, sibilando: “Non un passo di più, strega!”
“Patrick, ti prego!” esalò Mary B, facendo l’atto di alzarsi per raggiungermi. Gordon era già a metà strada.
“Fermi! Tutti e due! O la uccido una volta per tutte!” ringhiò loro contro Patrick, bloccandoli sul nascere.
“La verità fa male, eh? E’ bello scoprire che il tuo sangue contiene i germi delle bestie che tu tanto odi?” lo irrisi nonostante tutto, ritrovandomi un attimo dopo la punta dell’attizzatoio contro la gola.
“Smettila!” mi urlò contro, sempre più imbestialito, gli occhi fuori dalle orbite, la rabbia dilagante che lo stava divorando come un cancro.
“E’ la pura verità” mormorai piano, deglutendo a fatica.
Guardai Abraham, tremante di rabbia, e aggiunsi: “Non è vero, Abraham? Ammettilo, una volta per tutte, ricorda ciò che hai voluto cancellare dalla tua mente.”
Lui scosse il capo, gli occhi spiritati e le mani chiuse ad artiglio.
Guardandomi freneticamente intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi, sorrisi non appena scorsi le piante in vaso di Mary B.
La mia unica salvezza. Forse.
Scostai Patrick con uno spintone e, a tutta velocità, mi catapultai sulle piante nel disperato tentativo di attingere quel poco di potere da loro, sperando nel contempo che mi bastasse per fare quel che volevo.
La mia energia era quasi nulla, senza l’appoggio dei licantropi, e limitata com’ero dall'ambiente in cui mi trovavo, ma qualcosa potevo ancora fare, grazie alla poca forza che avevo dentro di me.
Abraham mi inseguì, gettandosi su di me e buttandomi a terra.
Gridando mentre entrambi scivolavamo sul parquet di rovere, riuscii ugualmente ad afferrare uno dei vasi. Questo si rovesciò sul pavimento, ma riuscii comunque ad affondare le dita nel terreno umido, fino a sfiorare le radici delle piante.
Con la mano libera, afferrai la testa di Abraham e gridai: “Ricorda!”
Sentii distintamente un clack nella sua mente, come di una porta aperta di colpo.
I suoi occhi, da torbidi che erano, si fecero lucidi e chiari, spalancandosi lentamente man mano che il flusso di ricordi, sopito per anni, si riversò dentro di lui, mostrandosi in tutta la loro completezza.
Quel risveglio improvviso fece scorgere anche a me le istantanee di quel passato che, fin da quando avevo scoperto la verità, mi ero immaginata mille e mille volte, nel tentativo di trovare una ragione valida per l’orrendo omicidio perpetrato da Abraham.
Vidi una donna incantevole, dai folti e scuri capelli che, con un sorriso e un accenno di dubbio, invitava il figlio ad accomodarsi accanto a sé, sul divano di casa.
Il viso adolescenziale di Abraham era percorso da una curiosità limpida e pura, tipica di quell’età e, per un attimo, mi chiesi da dove potesse essere scaturito l’odio che aveva portato alla tragica fine di Lionors.
La donna gli circondò le spalle con un braccio, mostrandogli un libro in tutto simile a quello che Duncan aveva mostrato a me.
Con orgoglio, Lionors gli parlò della loro discendenza,… e del sangue che scorreva in entrambi loro.
Tremante, il giovane Abraham ascoltò con occhi spalancati e il cuore in tumulto il resto della storia… il resto della sua storia.
Lionors gli disse di Connor, di quanto fosse stata preziosa la sua nascita, di ciò che aveva comportato per tutto il branco.
Invece di esserne fiero, Abraham ingiuriò la madre, riempiendola di epiteti che mi portarono ad arrossire, come fecero arrossire di rabbia e vergogna la donna.
Non contento, Abraham la schiaffeggiò, dandole della donnaccia e, a quel punto, Lionors non poté far altro che usare i propri doni per fermare la furia sempre crescente del figlio.
Vistosi bloccato, Abraham la accusò nuovamente di essere una strega malvagia e, per Lionors, quello fu troppo.
Mollò la presa dal figlio che, con occhi fuori di sé dalla rabbia, prese un coltello da un ceppo sul ripiano della cucina e, con una violenza che mi fece tremare, si scagliò su di lei.
Vinta dal dolore di fronte al furore del figlio, non oppose alcuna resistenza, lasciando che le mani di Abraham la uccidessero.
Sporco di sangue e con il cuore che pompava a mille, Abraham gridò, gridò così forte da arrochirsi la voce.
Stremato e con occhi intrisi dalla follia che lo aveva colto, corse fuori di casa, vagando nella notte e crollando più volte a terra per la stanchezza.
Delirò a più riprese, mentre la febbre divampava in lui e, quando due uomini in uniforme lo trovarono, lo portarono subito in ospedale.
Pieno di ferite e scioccato al punto da non ricordare cosa avesse fatto, i dottori lo curarono come meglio poterono.
La visione scomparve e io, riemergendo con un singulto, fissai lo sguardo in quello di Abraham che, come me, aveva rivissuto quegli attimi, tornando a provare l’orrore della scoperta e il disgusto per ciò che sua madre aveva fatto… e con chi.
Si scostò da me, spaventato, mentre io giacevo a terra stremata, del tutto prosciugata e priva di energie sufficienti anche solo a permettermi di alzarmi.
Lo guardai caracollare alla ricerca di un appiglio cui sostenersi, e sussurrai esausta: “Era questo, che temevi? Di diventare come tuo padre? Nessuno ti disse che eri un Neutro?”
“Lei… lei mi tenne all’oscuro di tutto per anni… anni!” farneticò, gesticolando con frenesia, mentre Patrick lo fissava sgomento, al pari degli altri. “Non mi parlò di nulla finché non fossi stato in grado di capire… così, mi disse… così…”
Ridacchiò isterico, lo sguardo venato di sangue, e proseguì dicendo: “Come poteva credere che avrei accettato l'idea che mio padre fosse un mostro… e mia madre una strega? Come?!”
“Fu solo per questo che la uccidesti?” esalai, reggendomi a fatica su un gomito.
Gordon mi guardò di straforo, ma io scossi il capo. Era troppo pericoloso muoversi in quel momento.
Abraham si volse verso di me, gli occhi spiritati, e ringhiò: “Certo! Non meritava altro. Come tu non meriti altro!”
Detto ciò, tornò verso di me con il chiaro intento di uccidermi ma, a quel punto, un fulmine cielo squarciò le nubi temporalesche, illuminando il cielo e facendo saltare le luci in casa.
Sospirammo sorpresi e, un istante dopo, una finestra esplose vicino a me.
Miriadi di frammenti di vetro mi finirono addosso, mentre la figura imponente di un licantropo penetrava nel salone di casa.
Quel fragore di vetri infranti ci fece gridare attoniti – me compresa – e, quando tutti noi ci rendemmo conto di cosa era successo, il caos regnò sovrano.
Facendomi forza per rialzarmi, raggiunsi Jerome – imponente scudo che mi proteggeva dall’avanzare di Abraham – e, aggrappandomi al suo pelo, mi sollevai gridando il suo nome.
Patrick, ben oltre la furia, si scagliò su di noi con l’attizzatoio puntato contro la sua nemesi, ben deciso a vendere cara la pelle.
Mi strinsi a Jerome per impedire che lo colpisse, e l’attizzatoio affondò nelle mie carni, portandomi a urlare con tutto il fiato che ancora avevo in gola, nonostante mi sentissi allo stremo delle forze.
Jerome guaì e, troppo tardi, mi resi conto che l’arma usata da Patrick era ricoperta d’argento.
La ferocia del suo colpo aveva spinto l'attizzatoio attraverso il mio braccio, giungendo fino alle carni del suo nemico giurato.
Con altrettanta violenza estrasse l’arma, forse sconvolto all’idea di aver ferito anche me, nell’assalto.
Forse.
In quel modo, però, decise del mio destino.





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N.d.A.: spero di aver risolto, con questo capitolo, molti dei quesiti che avevo lasciato trapelare nel corso della storia. Ora, ovviamente, ne succederanno di tutti i colori....^_^


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Capitolo 28
*** XXVIII. ***


 XXVIII.

 
 
 


 

Nell'immediato, non compresi bene cosa fosse successo. Il dolore surclassava qualsiasi altra cosa.
Ma, quando scorsi il sangue sulla punta dell’attizzatoio, sul mio braccio grondante e sulla spalla di Jerome - che macchiava il suo pelo fulvo - compresi.
I miei occhi si puntarono sul cielo oscurato dalle nubi e, come un magnete, avvertii una forza prepotente spingere il mio cuore a battere con maggiore frenesia.
Le mie ossa si contorsero in modo inumano, e i miei muscoli si allungarono, tendendosi in posizioni innaturali.
Jerome uggiolò nuovamente, fissandomi addolorato e sorpreso e, in quell’istante di comprensione reciproca, la luna piena fece capolino oltre il muro di nuvole temporalesche, chiamandomi a sé.
Fu a quel punto che anche Patrick capì.
Corse come un indemoniato verso il camino, prese una ciotola di legno riccamente decorata e, senza stare troppo a pensarci, me la tirò addosso urlando: “Non avrai la mia carne, bestia immonda!”
Starnutii un paio di volte, quando la polverina contenuta all’interno della ciotola mi colpì e, subito, il mio corpo si fece pesante; ogni forza mi era venuta meno.
Ringhiai, urlai, mi dimenai freneticamente nonostante fossi sempre più debole - e il mio corpo più incontrollabile - e, prima di chiudere gli occhi, udii Gordon urlare il mio nome.
Eccoti, finalmente!, gridò una voce sconosciuta, nella mia mente.
Poi fu il nulla.

***

Sentivo caldo. Ero al sicuro, accoccolata tra braccia amorevoli e protettive.
Sorrisi nel sonno, conscia di essere al riparo dai pericoli, in quell’abbraccio familiare.
Non dovevo avere paura del risveglio.
O sì?
Sbattei le palpebre un paio di volte, tramortita da un dolore fluido che mi percorreva il corpo per intero e, a fatica, cercai di mettere a fuoco quel che mi circondava.
Vidi sbarre, e pelle nuda.
Scossi il capo, intontita, e mi mossi per levarmi in piedi, quando la voce ironica e spiacente di Jerome perforò la mia confusione, mettendomi in guardia. “Fossi in te, non mi muoverei. Siamo conciati maluccio.”
Mi volsi nella direzione da cui proveniva la voce, solo per scoprire che addosso non avevo nulla, e Jerome mi teneva contro di sé, gli occhi pudicamente rivolti da un’altra parte.
Arrossendo copiosamente e tenendo saldamente lo sguardo sul suo viso – non che in quella posizione potessi vedere granché – esalai: “Che è successo?”
“Indovina un po’?” sogghignò, continuando testardamente a fissare la parete dietro di me.
Storsi il naso e borbottai: “E’ inutile che fai il falso puritano. Avrai guardato a tuo piacimento, mentre dormivo.”
“Non è vero!” protestò, con veemenza.
Un prurito al naso mi fece sobbalzare e, fissandolo con aperta sorpresa, esalai: “Hai mentito, vero?”
Jerome mi guardò per un attimo con aria confusa, prima di aprirsi in un sorriso estasiato ed esclamare: “Eccome se ho mentito!”
Risi allegramente, anche se avrei dovuto essere infuriata a morte con lui per le libertà che si era preso e, ammiccando, gli chiesi: “Però mi sono anche trasformata, giusto?”
Tornando serio, annuì spiacente e asserì: “Non avresti dovuto farmi da scudo, stupida. Hai combinato un bel guaio. Ora, Duncan mi ammazzerà.”
“Ti ammazzerà comunque visto che sei qui, presumibilmente, contro la sua volontà” sospirai, scuotendo il capo.
“Per niente. Mi ha detto di riportarti a casa, a costo di legarti e imbavagliarti” replicò con nonchalance, sorprendendomi oltremodo.
“In che senso, scusa?” esalai, guardandolo con occhi a bottone.
Lui mi sorrise comprensivo, scuotendo il capo come se gli fosse impossibile rispondermi.
“La spalla come va?” gli chiesi a quel punto, lasciando perdere, per il momento, l’argomento Duncan.
Rammentavo che, poco prima del mio svenimento, lui e io eravamo stati feriti.
Jerome si fissò per un momento la spalla, dove una piccola ferita di forma circolare aveva già formato uno spesso tessuto cicatriziale color lampone. “Ha iniziato a guarire circa mezz’ora fa. L’attizzatoio d’argento proprio non me l’aspettavo.”
“Già” mugugnai, fissando a mia volta il braccio, dove Patrick mi aveva perforato il muscolo del bicipite.
Anche la mia ferita stava rimarginandosi bene… e con tempistiche davvero ben poco umane.
Una licantropa.
E, visto che avevo avvertito la bugia di Jerome – per cui avrebbe pagato salatissimo! – voleva anche dire che… che ero come prima, nonostante tutto.
Sorridendo mio malgrado, dissi tronfia: “Sono ancora una wicca, nonostante abbia messo su pelo.”
“A quanto pare, sì. Non avevo la minima idea che potesse succedere” ammise, sistemandosi meglio.
Reggeva tutto il mio peso, oltre al proprio, e di certo non si sarebbe mai sognato di appoggiarsi alle sbarre d’argento.
Quel particolare mi fece storcere il naso, oltre a sbuffare sonoramente. “Ha un che di già visto, questa scena.”
“Dici?” ridacchiò Jerome.
“Già, peccato che l’altra volta fossi dalla parte giusta delle sbarre…” poi, con disgusto, sollevai i polsi bloccati da pesanti catene argentee e aggiunsi: “…e, soprattutto, non avevo questo ingombro addosso.”
“Ti fanno male?” mi chiese premuroso.
“Bruciano” precisai, cercando di sfregare il meno possibile la pelle contro il metallo lucente.
“Ti capisco” sospirò, reclinando il capo per guardarsi le caviglie bloccate.
“Come ci hanno ficcati qua dentro?” gli chiesi, guardandomi intorno preoccupata.
“Patrick ci ha buttato addosso dell’aconito in polvere, e siamo caduti come due pere cotte. Prima di svenire, però, hai potuto trasformarti completamente. Hai davvero una bella livrea, sai?” mi spiegò Jerome, sogghignando.
“E cioè?” chiesi, curiosa.
Non riuscivo a essere spaventata dalla cosa perché, in realtà, mi sentivo benissimo nei miei nuovi panni, nonostante il bruciore provocato dall’argento.
Forse Duncan si sarebbe sul serio incavolato a morte, ma ormai non poteva farci più nulla.
“Hai il pelo grigio chiaro, con la gorgiera bianca orlata di nero. Davvero adorabile” mi spiegò, sorridendomi.
Arrossii compiaciuta, domandandogli: “Non menti, vero?”
“Dovresti capirlo da te” ammiccò, prima di tornare serio. “Deve aver fatto insonorizzare le pareti, perché non riesco a sentire quasi niente.”
“Già. Il maniaco della precisione ha imbottito anche la porta delle scale, … guarda” brontolai, indicandogli la gomma piuma che ne ricopriva l’intera superficie. “Perché, poco prima di mutare, ho sentito il corpo andare in fiamme?”
“Per via della luna piena. Se non ci fosse stata, non avresti mutato così in fretta. Ed è andata bene. Avrebbe potuto venirti un infarto. A quel punto, Duncan mi avrebbe ridotto a brandelli” sospirò, scuotendo il capo con aria vagamente ansiosa.
“A proposito di Duncan; hai detto che ti ha mandato qui a riprendermi con la forza. Vuoi spiegarmi perché?” chiesi, ai limiti estremi della curiosità.
“Oh, no, non sarò io a dirtelo. Te lo spiegherà lui. Mi ha quasi lanciato addosso mia madre, perché facessi alla svelta…” ridacchiò, nonostante non provasse vera allegria. “… anche se, onestamente, questo non ha l’aria di un salvataggio.”
“No, direi di no” borbottai, guardandomi intorno.
La situazione non era delle migliori, quello era sicuro.
Eravamo imprigionati e impossibilitati a muoverci e, quel che era peggio, non avevamo idea di quel che stesse succedendo al piano superiore.
Speravo soltanto che Gordon e Mary B stessero bene.
“Con Connor e Sheoban, come andiamo?” chiesi per distrarmi e, nel contempo, dare al mio cervello il tempo di escogitare un piano per uscire di lì.
“Beh, Duncan li ha fatti mettere sotto la custodia di Freki e Geri prima di spedirmi qui, quindi non so dirti altro. Da quello che ho capito, vuole aspettare il tuo ritorno, per processarli” mi raccontò  brevemente Jerome, aggrottando la fronte.
Forse stava cercando di ascoltare quel che si stavano dicendo in salotto.
Io sentivo solo un vociare sconnesso, senza senso, perciò rinunciai a piè pari per concentrarmi sul mio potere e sulle catene che ci tenevano prigionieri.
Forse, potevo spezzarle e liberarci da quel casino prima dell’arrivo della cavalleria nemica.
Chiusi gli occhi per comprendere come stesse la situazione, percependo un piacevole tepore familiare all’interno del mio corpo.
Ora che la bestia risiedeva anche in me, sentire Jerome era ancora più facile, e il potere sembrava goderne a piene mani. Era come… drogato.
Ridacchiai, dicendo: “Pare che questa nuova condizione piaccia al mio Ego.”
“Sì? Beh, chiedi al tuo Ego di tirarci fuori di qui” mi pregò Jerome, dimenandosi per stare più comodo.
Difficile, standosene seduti sul cemento freddo e senza nulla addosso.
“E’ quello che sto facendo…” sussurrai, prima di dirgli: “…ah, sappi che per la tua sbirciata la pagherai cara. Carissima.
“Tesoro, se vuoi sbirciare me, io non mi offendo, così siamo pari. Al momento, potresti fare di me quel che vuoi e non mi offenderei comunque, se ciò servisse a farci uscire da qui” commentò lui, ghignante.
Risi, e gli dissi per contro: “Non credo che abusare di te ci tirerebbe fuori dai guai.”
“Peccato” scrollò le spalle, noncurante.
“Sei incorreggibile” ghignai divertita, tornando a concentrarmi sul mio potere.
A quanto pareva, l’avere dentro di me un licantropo aveva enormemente amplificato il mio potere, già mastodontico di per sé.
Questo sembrava potermi permettere di compiere quello che, un normale lupo mannaro, non avrebbe mai potuto fare.
Se era vero che la forza dei licantropi scemava a contatto con l’argento, era anche vero che il mio essere wicca mi permetteva di attingere a un altro tipo di energia.
Con la presenza di Jerome e della mia bestia a darmi man forte, avrei potuto forzare le sbarre e le catene, liberandoci.
Tutto questo, almeno, in teoria.
Ora, dovevo solo provare.
Aggrottando la fronte, mi concentrai sulle catene che avevo ai polsi e sulla loro struttura molecolare, cercando di mandarla in briciole.
Feci molto peggio.
L’argento, letteralmente, si liquefece, scivolando via dalla mia pelle e lasciando al suo posto solo striature bruciacchiate e null’altro a suo ricordo.
Mentre osservavo scioccata la pozza argentea formatasi ai miei piedi, Jerome fischiò ed esalò: “Che cavolo hai fatto?”
“Te lo saprò dire quando lo capirò” borbottai, confusa ed eccitata al tempo stesso.
A quanto pareva, avevo un bel po’ di potere in più, rispetto a quanto mi fossi immaginata.
Ringalluzzita dalla scoperta, feci la stessa cosa alla catena che teneva bloccate le mie caviglie.
Lasciando poi perdere ogni pudore e ogni velleità, mi volsi verso Jerome e sibilai: “Non una parola, cagnaccio.”
Lui annuì, del tutto serio e io, agendo sulle catene che lo tenevano bloccato, lo liberai.
“Bene, e ora usciamo da questa maledetta gabbia.”
“A te l’onore, principessa” mi disse, inginocchiandosi al mio fianco, lo sguardo percorso da un principio di rabbia che sapeva tanto di vendetta.
Chi l’avrebbe biasimato, d’altronde, dopo un trattamento del genere?
Annuii tra me, portando tutta la mia attenzione alle sbarre e, come per le catene, l’argento si sciolse come cera fusa, lasciando una pozza di metallo liquefatto davanti a noi.
Lo evitammo senza rimpianti, desiderosi di non dover sopportare scottature dolorose anche ai piedi.
Guardandomi intorno nervosamente, e cercando di non sentirmi un’idiota totale a causa della mia completa nudità, brontolai contrariata: “Non possiamo piombare al piano superiore, nudi come vermi. Mi vergognerei troppo.”
Jerome mi fissò un momento in viso prima di annuire e ammettere: “Sì, capisco cosa intendi. Per te è tutto nuovo. E' normale che tu ti senta un po’ a disagio.”
“Un po’? E’ un eufemismo, Jerome!” sbottai.
Sorridendomi comprensivo, si avvicinò per carezzarmi il viso, i suoi occhi fissi nei miei. “Sai che da me non devi temere nulla, che non ti guardo come guarderei una potenziale amante. Ti voglio bene, ma non in quel modo, e vederti così, per me, non fa alcuna differenza. Tra noi licantropi non ci sono tabù simili, a meno che due persone non siano reciprocamente interessate a diventare compagni… e non è il nostro caso.”
Annuii, e lui proseguì, dicendo tranquillo: “Imparerai presto a non farci caso ma, nel frattempo, non sentirti in imbarazzo se io ti guardo, o se tu vuoi guardare me. Non c’è nulla di male.”
Annuii ancora, non sentendomi del tutto a mio agio, nonostante il discorso più che sensato di Jerome.
Con un risolino, allora, lui si mise in posa e celiò: “Datti una guardata e facciamola finita. Non ho problemi.”
“Scostumato” ridacchiai, arrischiandomi comunque a dare una sbirciatina.
Mi sentivo ancora una guardona, nel farlo, ma Jerome era così pacifico che, ben presto, l’apprensione e il disagio scomparirono, lasciando il posto ad una comprensione e un’accettazione totali.
Era bello, ma questo già lo sapevo.
Se ne stava davanti a me neanche fosse stato in un bar a chiacchierare, e questo mi portò a sorridere scioccamente. “Scommetto che ti comporteresti così anche se fossi in mezzo alla gente.”
“Diciamo che non ci farei troppo caso. La nudità è una fissazione dell’epoca moderna. Non c’è nulla di tremendo nel farsi vedere come la natura ci ha creati e plasmati. Negarlo è lo spregio, non il contrario” commentò senza alcun problema.
“Capisco” annuii, sentendomi ora totalmente pacificata.
Sì, non era così tremendo come avevo pensato in un primo momento.
La mia bestia lo trovava interessante, come pure io come donna, ma la cosa finiva lì.
Non c’era l’imbarazzo tremendo, lo sconvolgimento emotivo. Nulla, a parte la naturalezza del suo gesto.
Tornai ai suoi occhi con un sorriso stampato sul viso, e dichiarai: “Ora va meglio. Grazie.”
“Di nulla, principessa” scrollò il capo, avvicinandosi a me per avvolgermi le spalle con un braccio.
Entrambi, fissammo accigliati la porta che conduceva al piano superiore.
“Idee?”
A causa delle pareti - e della porta - insonorizzate, non riuscivamo a percepire che brevi e confusi ronzii, nulla di concreto.
Era davvero impossibile comprendere cosa stesse succedendo al piano superiore.
Sperai soltanto che non avessero fatto del male a Mary B o Gordon.
Già sul punto di chiedere a Jerome di aiutarmi a cercare qualcosa con cui coprirci – non tanto per noi, ma per gli altri –  flebili passi concitati e provenienti da dietro la porta, spinsero me e Jerome ad allontanarci istintivamente.
Il timore per l’arrivo di uomini armati di tutto punto ci rese più che guardinghi.
Piegandoci sulle ginocchia, pronti a mutare, fummo piuttosto sorpresi di veder comparire solo Patrick – e non l’intera cricca di Cacciatori.
Il suo fucile, così come il suo sguardo acceso di un’ira profonda, ci fece stare comunque in allerta.
Sembrava pronto a qualsiasi cos,a pur di portare avanti quel che si era ripromesso di fare.
Ucciderci? Probabile.
Si bloccò a metà di un passo, accigliato, sorpreso di vederci fuori dalla gabbia e senza catene a bloccarci.
Puntandoci subito contro il fucile, ringhiò: “Avrei dovuto trafiggerti il cuore mentre eri svenuta, maledetta strega!”
Sparò, facendo riverberare l’esplosione di quel colpo tra le pareti di cemento rinforzato della cantina, ma il proiettile non andò mai a segno, bloccato dalla barriera di solido potere che avvolsi attorno a me e Jerome per proteggerci.
La mia rabbia, unita a quella di Jerome, mi dava forza sufficiente per qualche piccolo trucchetto.
Ma quanto sarei durata, dentro quelle pareti che non mi permettevano di sfruttare appieno i miei poteri? Davvero ben poco, e lo sapevo.
Fargli credere ben altro, però, doveva essere il mio imperativo prioritario, perciò mi stampai sulla faccia un ghigno soddisfatto e lo guardai accigliata, pronta a ricevere un’altra fucilata.
Mary B, però, scardinò completamente le mie decisioni e, sorprendendomi non poco, comparve nella cantina a sua volta.
Si gettò contro Patrick per fermarlo mentre io, ringhiando furiosa, sibilavo: “Vuoi distruggerla, comportandoti così dinanzi a lei?!”
Patrick non badò a me, come non badò a lei.
La colpì con il calcio del fucile, mandandola lunga riversa a terra mentre Gordon sopraggiungeva per darle una mano, lo sguardo percorso dalla rabbia e dalla paura.
Quel colpo, dato con violenza e senza il minimo rispetto per lei, fece montare in me una furia tale che il mio corpo, senza più alcun controllo, mutò per diretta conseguenza.
Non ero ancora in grado di tenere a bada le mie emozioni – la luna piena era troppo forte, perché le resistessi – e, quell’esplosione dentro il mio animo, portò la bestia a riemergere in superficie.
Squarciò le mie carni, sorgendo con fierezza, pronta a dare man forte in quel momento di pericolo.
Tra scricchiolii di ossa e pelo chiaro che mi avvolse le membra, emisi un ringhio assetato di sangue non appena ne fui in grado.
Patrick, pur abituato ai licantropi in forma animale, indietreggiò di un passo di fronte alle mie fauci snudate.
Abraham, in fondo al gruppo, in affanno per la corsa e con lo sguardo percorso dal germe della follia, mi scrutò come se fossi stata un demonio
Con voce resa tremante dalla paura, si lasciò scivolare a terra, le gambe molli e non più in grado di sorreggerlo.
Urlò a squarciagola, le mani tremanti che graffiavano il pavimento di cemento. “Uccidila! Uccidila! Non puoi permettere che un abominio simile sopravviva!”
Intendeva sicuramente il mio duplice ruolo di wicca e licantropo.
Ero una rarità da non perpetrare. Uno scherzo della natura da eliminare sul nascere.
Questo mi fece infuriare ancora di più, se mai fosse stato possibile.
Lasciai perdere le sue urla indemoniate per dedicarmi al mio nemico principale, Patrick, che aveva osato colpire sua moglie, scatenando così la mia rabbia.
Non avrebbe mai dovuto commettere un errore del genere e, Mary B o non Mary B, lui sarebbe stato la mia prima preda.
La mia adorata matrigna, sollevandosi da terra con l’aiuto di Gordon, mi fissò a occhi sgranati per un momento – cercandomi sicuramente all'interno della bestia dinanzi a lei – prima di gridare al marito: “Non ti permetterò di farle del male!”
Lui si volse a fronteggiarla, di sicuro sorpreso dal suo dire, e replicò furioso: “Ma non vedi cos’è diventata?! Non è che un mostro!”
“Se lo fosse, ti avrebbe già divorato, cosa che non ha fatto! Sei tu che la stai minacciando, e che hai tentato di ucciderla! Sei tu il mostro!” gridò Mary B, le lacrime a solcarle copiose il volto.
Non avrei mai voluto essere testimone di tutto quel dolore, ma decisi di non volgere lo sguardo, rendendo onore al suo coraggio e alla sua presa di posizione.
Insensibile a quella vista, Patrick fece per togliersela di torno ma Gordon, bloccandogli un braccio prima che potesse colpirla, ringhiò contro di lui: “Non osare toccarla, bastardo! Non meriti il suo amore!”
“Togliti di mezzo, stupido ragazzino!” urlò Patrick, divincolandosi.
Ero al limite.
Dovevo intervenire, anche solo per chetare il tremore ai muscoli che percepivo in ogni parte del corpo,... ma erano troppo vicini, e il fucile era carico.
Sarebbe potuto partire un colpo, e colpire uno di loro inavvertitamente. Dovevo trattenermi, ma era così difficile!
Jerome, teso e indeciso non meno di me, sussurrò: “Io cerco di allontanare Mary e Gordon, tu pensa a Patrick.”
Non ebbi il tempo di farlo.
Abraham, dopo aver trovato le forze per rialzarsi e riprendersi da quel momentaneo cedimento, corse verso la fiamma ossidrica – diligentemente sistemata a pochi passi da lui – e, sorprendendoci tutti, la accese al suo massimo.
La levò alta sopra il capo e, scrutandomi al limite della follia, me la lanciò contro, urlando: “Il fuoco è l’unica via! E’ sempre stato così! Che muoiano nel fuoco!”
Uggiolai, scostandomi per non rimanerne vittima.
A metà del suo percorso in aria, comunque, essa cambiò bruscamente traiettoria.
Trattenuta dal suo tubo di alimentazione, la pistola della fiamma ossidrica rimbalzò pericolosamente indietro, quando il suo raggio d’azione ebbe una fine.
Malauguratamente, terminò la sua corsa su un mucchio di stracci intrisi di benzina, che Patrick soleva usare per i suoi lavori accanto alle auto.
Fu il finimondo.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di muoversi per diversi istanti, costernati com’eravamo: le fiamme si levavano fiere, con rauchi ringhi violenti ad accompagnarle.
Alte lingue scarlatte si levarono dal cesto di metallo, raggiungendo le travi del soffitto e i mobili di resina che, surriscaldati dal fuoco, iniziarono a colare e gonfiarsi, creando pustole purulente dall’aspetto orrendo.
Allontanandomi ulteriormente dal fuoco al pari di Jerome, scorsi Patrick con la coda dell’occhio mentre scaraventava a terra Gordon con una gomitata al naso.
Sul viso, il chiaro intento di spararmi per uccidermi.
Già sul punto di gettarmi su di lui, decisa a vendicarmi per il trattamento subito da mio fratello, uggiolai spaventata quando vidi Mary B lanciarsi contro il marito.
L’urto fu violento e Patrick, impreparato, crollò  verso uno dei cassettoni di metallo dell'officina, dove erano contenuti i suoi attrezzi da lavoro.
Osservai la scena come al rallentatore, gli occhi immobilizzati a fissare quei fotogrammi terrificanti mentre Patrick cadeva rovinosamente, lasciando che un colpo partisse dal suo fucile, e che colpì di striscio Jerome alla gamba.
La sua testa cozzò tremendamente forte contro uno spigolo appuntito, tramortendolo a morte.
Sentii distintamente il crack della spina dorsale e l’arrestarsi improvviso del suo muscolo cardiaco, quasi qualcuno avesse spento un interruttore nella notte.
Anche Abraham assistette alla scena, ancora tramortito dal panico di fronte al suo gesto insensato e inutile.
Rigido contro una parete della cantina, scrutò il fuoco che lo stava circondando pericolosamente, e ululò tragico: “Ti sei unita a loro, cagna maledetta! Hai ucciso colui che ti avrebbe salvato! Ora siamo tutti perduti!”
Lo guardai senza provare alcuna pietà, le fiamme che gli impedivano di scappare e che sarebbero state la sua bara scarlatta.
Mary B, sgomenta di fronte a ciò che aveva fatto, osservava il marito senza curarsi del pericolo che avanzava.
Gordon la strattonò via prima che una lingua di fuoco le incendiasse la gonna e, mentre osservavo senza alcun rimorso la figura di Patrick - che già stava andando in fiamme - mio fratello la attirò verso di noi.
Comprensivo, le mormorò: “Non puoi più fare nulla per lui, Mary B, dai, andiamo.”
Piangendo, Mary B si lasciò trascinare via di peso da Gordon. Jerome, nel frattempo, aprì il portone della cantina ed esclamò lesto: “Coraggio, usciamo alla svelta da qui, prima che esploda tutto!”
Trovandomi completamente d’accordo con lui, sgattaiolai fuori, dando un colpetto alla schiena di Gordon perché facesse in fretta.
Sogghignando nonostante la situazione ai limiti dell'impossibile, mi disse: “Sì, sì, arrivo, stai buona.”
Le fiamme lambirono i nostri passi, divorando il portone di legno per poi innalzarsi e raggiungere il primo piano, dove i vetri esplosero per il calore prodotto dall’incendio.
L’interno dell’abitato andò a fuoco in breve tempo, sfrigolando e ringhiando con ferocia sotto i nostri occhi allibiti.
Osservammo la scena spaventati e sgomenti assieme, la pioggia che scemò fino a scomparire, come se quelle fiamme fossero l’epilogo giusto di quell’avventura.
Jerome mi fissò dubbioso ma io scossi il muso, dicendogli mentalmente: “Io non c’entro nulla, non dipende da me. Non arrivo a governare il tempo atmosferico.”
“Allora, è giusto che brucino. Il branco dovrà accontentarsi di questa fine, per Abraham, rispetto a quella che avevano deciso per lui” mi comunicò lui, annuendo grave.
Mary B era in piedi al nostro fianco, sorretta da Gordon che la teneva stretta a sé e, seppur con le lacrime che le orlavano gli occhi, smise di piangere.
Sul suo viso c’era la sconfitta e il rimpianto, oltre a una scintilla di quella che mi augurai fosse speranza.
Patrick era morto nel momento stesso in cui aveva tentato di uccidermi, o forse molto tempo prima, quando la verità era giunta a galla, aprendo gli occhi di Mary B.
Lei aveva amato un ideale di uomo che, in realtà, lui si era rivelato non essere, e quelle fiamme stavano contribuendo a dilavare il dolore e il senso di tradimento che Mary B stava provando.
Certo, se la situazione fosse stata normale, le sarebbe bastato divorziare da lui e allontanarsi da un mondo che non le apparteneva, ma quella era tutto fuorché una condizione normale.
Mi avvicinai a lei, uggiolando spiacente e Mary B, affondando il viso nel mio pelo, mi strinse a sé sussurrando debolmente: “Era così che doveva andare, e ora sei libera. Siamo liberi.”
Sapevo che, in fondo al suo cuore, quella conclusione non la soddisfaceva come non soddisfaceva me – non avevo voluto realmente la morte di Patrick, non così, almeno – così rimasi al suo fianco per confortarla come meglio mi riuscì.
La mia forma animale non parve affatto spaventarla come, in principio, avevo temuto.
Gordon ci osservò in silenzio per diversi istanti, un mesto sorriso dipinto sul volto sporco di polvere.
Sembrava saldo come una roccia, ma temevo che dentro di sé potesse aver subito danni irreparabili, e di cui ero l’unica fautrice.
Ritrovandomi il suo sguardo pacifico puntato addosso, però, mi tranquillizzai un poco. Sì, c’era paura, ma anche forza e orgoglio.
No, Gordon non sarebbe crollato.
Ormai era grande abbastanza per sopportare tutto, anche una situazione assurda come quella in cui ci trovavamo.
Volgendosi a mezzo verso Jerome, ammiccò divertito e, toltosi la lunga maglietta dei Nirvana che indossava, gliela allungò con un ghigno. “Copriti le vergogne! Ci sono delle signore!”
Tossii una risata mentre Mary B, scostandosi da me, emetteva un esile risolino, accompagnato da un singhiozzo.
Jerome, accogliendo l’indumento con un sorriso, lo indossò e celiò: “Beh, per lo meno copre le zone importanti, anche se sembro appena scappato da letto.”
Sirene in lontananza ci avvisarono dell’arrivo dei pompieri – le fiamme dovevano essere state viste dai nostri vicini, che avevano prontamente chiamato i vigili del fuoco.
Scostandomi dal gruppo, corsi dietro la casa per nascondermi nei boschi, dove Jerome mi seguì un attimo dopo.
Non era il caso che ci vedessero, o avrebbero posto troppe domande.
Domare l’incendio – la casa era costruita in gran parte di legno – richiese ore intere, ore in cui Gordon e Mary B resero le loro testimonianze, spiegando che Patrick e suo padre avevano avuto un acceso diverbio, da cui era scaturito quell’incendio, causato da un malaugurato incidente.
La bombola di ossigeno nella cantina poi, esplodendo, aveva contribuito a ridurre a un cumulo di ossa annerite e poco altro i corpi dei due uomini, cancellando di fatto anche ogni traccia riguardante le attività segrete di Patrick, oltre al passivo coinvolgimento dei licantropi in quella storia.
La polizia archiviò tutto come una tragica fatalità.
Quando chiesero dove fossi – sapevano del mio ritrovamento, per cui parve loro strana la mia mancanza – Mary B spiegò loro che mi trovavo con le amiche, e che mi avrebbe chiamata subito per avvisarmi.
Gentilmente, il poliziotto le offrì il suo cellulare e Mary B, con una presenza di spirito fuori dal comune, si limitò a mandarmi un sms. Spiegò loro che, dove mi trovavo, non avrei potuto sentire la chiamata, ma avrei almeno trovato un messaggio su quanto avvenuto.
Così facendo, aveva evitato eventuali domande su una telefonata a cui non era mai seguita una risposta.
Mary B non avrebbe potuto essere più brava.
Reclinai il muso, sentendomi in colpa nei suoi confronti per ciò che aveva perso e Jerome, avvolgendomi le spalle con un braccio, disse: “Le ci vorrà un po’ per riprendersi, ma ora è libera da un incubo.”
“Non avrebbe dovuto finire così… e lo sai.”
“Se la Madre avesse voluto salvarli, avrebbe continuato a far piovere, spegnendo l’incendio e permettendoci di rientrare. Così non è stato.”
“Sì, però…”
“Non esistono decisioni perfette, Brie, solo eventi che puoi affrontare al meglio delle tue possibilità, sperando di scegliere con coscienza.”
“Non fare il saputello con me.”
“E tu non fare la piagnucolona. Sapevi perfettamente che non avresti potuto andartene da casa, se Patrick fosse rimasto in vita. Ti avrebbe seguita in capo al mondo, pur di trovare il lupo che gli avevi sottratto e, peggio, sapendo che a tua volta eri diventata licantropa, ti avrebbe sguinzagliato contro ogni Cacciatore d’Inghilterra.”
Il suo ragionamento non faceva una grinza, e mi spiacque ammetterlo.
Avrei solo voluto trovare un modo per salvare tutti, ma così non era stato.
Come Duncan, avevo dovuto prendere la mia decisione per il bene della collettività, non del singolo, e quello era stato il risultato. Era più facile capirlo, ora.
“Quando hai toccato la mente di Abraham, hai visto qualcosa di utile?”
“Sì. Non c’entra nulla con la morte della madre di Kate; quella, è stata solo una tragica fatalità. Era così geloso delle sue scoperte, da non aver mai detto a nessuno quello che sapeva sulle wiccan, confidandosi solo con i suoi parenti più prossimi. Fece promettere loro di mantenere il segreto sui suoi studi. Ma ci era andato maledettamente vicino. Era ad Aberdeen proprio per trovare materiale sulle antenate di Kate. Aveva scoperto un nesso tra la mia famiglia, la sua e quella degli Alexander, e voleva essere certo di non commettere errori. Da lì, la visita all’anagrafe di Aberdeen.”
“Questo, in ogni caso, ci semplifica le cose. Dovrai cancellare i ricordi di molte meno persone, rispetto a quante io temessi in un primo momento.”
“E’ una consolazione, ma mi servirà comunque l’aiuto del branco di Glasgow, perché dobbiamo distruggere tutti i loro computer e i loro schedari, oltre a ripulire le loro menti immonde. E ci serviranno mani in abbondanza, per farlo.”
“Zampe, vorrai dire.”
Sbuffai, replicando: “Bah, quel che vuoi, basta che ci muoviamo. Il tempo scorre, e noi ne abbiamo poco, prima che la notizia si sparga, mettendoli in allarme.”
“Hai ragione. Diamoci una mossa. Qui, per il momento, loro sono al sicuro.”
Annuii, lanciando un ultimo sguardo alle alte lingue di fuoco contrastate dai getti d’acqua dei pompieri prima di correre nel fitto del bosco assieme a Jerome, in cerca del branco locale.





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N.d.A.: direi che, con questo capitolo, vengono date parecchie risposte. Anche se una domanda nuova fa la sua comparsa. Se l'avete notata, vi dico fin d'ora che non posso anticiparvi nulla, perchè la frase a cui mi riferisco darà il via al secondo racconto di questa trilogia, perciò per ora terrò la bocca chiusa.
Vi siete già fatti/e un'idea sul perchè Duncan voglia riavere Brie in seno al branco? ;)
A presto! E grazie a chi ha letto e/o recensito.

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Capitolo 29
*** XXIX. ***


XXIX. 








 

Anche l’ultimo computer era stato distrutto.
Il segreto che Abraham aveva divulgato alla famiglia, ora era di nuovo annegato nell’oblio, cancellato per sempre dalle menti ottenebrate dall’odio che, con i loro sporchi fini, avrebbero usato quelle informazioni per fare del male a troppi innocenti.
Grazie all’aiuto di Frederick, Fenrir di Glasgow, e dei suoi subalterni, riuscimmo a sistemare le cose prima del sorgere del sole.
Quando io e Jerome ci muovemmo per tornare da Mary B e Gordon – che ora si trovavano in una stanza d’albergo fuori città – dissi: “Non so come ringraziarti per l’aiuto che ci hai dato… non lo dimenticherò.”
“Il tuo Fenrir ha salvato mia moglie e molti di noi dalla morte. Non ci sono vite tra noi, solo una salda alleanza. Che il vento ti sia favorevole, wicca mi rispose Frederick, con un elegante cenno del muso.
“E che la caccia ti sia proficua, Fenrir di Glasgow” replicai, avvicinandomi per il saluto di rito.
Mi lasciai annusare dietro l’orecchio, prima di fare altrettanto.
Frederick, a quel punto, asserì: “Adesso posso dire di aver visto di tutto. Non avevo idea che una wicca potesse mantenere i propri poteri, una volta divenuta licantropo. Solleverai un bel polverone tra i clan, questo è sicuro. E non solo per questa novità.”
Quella notizia mi riempì così tanto di gioia che ringhiai infastidita e Frederick, abbaiando una risata, aggiunse benevolo: “Io non ho problemi. Ma altri, forse, ne avranno. Presta attenzione, in futuro, Figlia della Luna.”
“Lo farò, grazie” annuii con un cenno ossequioso del muso, trotterellando via assieme a Jerome.
C’era qualcos’altro che doveva succedermi? Niente poteva andare per il verso giusto? Un asteroide mi sarebbe caduto in testa, non so?!
Jerome, comprensivo, dichiarò: “E’ una condizione più unica che rara, principessa,… normale che scatenerà curiosità e qualche dissapore, ma niente che non possiamo affrontare tutti assieme.”
“Come se non avessimo già abbastanza guai da risolvere” brontolai, correndo al suo fianco e macinando metri su metri all’interno del bosco, ombreggiato dalle chiome robuste dei faggi.
In lontananza, i primi bagliori del sole tingevano di rosso e viola il cielo di quella mattina.
“E ti pare che la vita sia giusta, o premurosa? No, perché se ti è capitato, allora sei stata fortunata” celiò.
Gli mostrai la lingua, prima di allungare il passo in direzione dell’albergo dove Gordon e Mary B avevano trovato riparo per la notte.
Il sole si mostrò all’orizzonte quando noi, con la leggerezza che contraddistingueva ogni licantropo, sgattaiolammo all’interno della loro stanza per andarci a sistemare sul pavimento.
Lì, Gordon ammiccò nella mia direzione, gli occhi infossati nel viso per il gran sonno, e biascicò: “Tutto okay?”
Io annuii e lui, con uno sbadiglio, tornò a dormire.
Mary B giaceva dall’altra parte del letto matrimoniale, il viso smunto ma pacificato dal sonno. Non sembrava avere incubi.
“Le parlerai domani, o meglio, tra qualche ora. Riposa, adesso. Ne hai bisogno. E’ stata una nottata tremenda per tutti noi.”
Non potei certo smentirlo.
Tra l’incendio, la manomissione dei computer e la cancellazione dei ricordi dalle menti dei Cacciatori, non avevamo avuto un momento per riprendere fiato.
Usare i miei poteri in modo così massiccio e continuativo avrebbe dovuto sfiancarmi invece, nonostante tutto, ero fresca e riposata, e la mia forma animale esultava all’idea di combattere altre battaglie.
Era ancora difficile, per me, comprendere completamente cosa mi fosse successo, e come la mia vita fosse cambiata con quel colpo infertomi da Patrick.
Ora ero un licantropo, oltre a essere ancora una wicca, e non sapevo cosa questo avrebbe comportato nella mia vita a parte il fatto che, in un modo o nell’altro, avrei dovuto riprendere far parte di un branco di lupi mannari.
E, da quel che Jerome mi aveva detto, il branco in questione sarebbe stato quello di Duncan. Non seppi se esserne lieta o affranta.
Appoggiai il muso sulle lunghe zampe, osservando pensosa i riflessi argentei del mio pelo chiaro, messi in evidenza dalla rada luminosità del sole, che filtrava tra le imposte socchiuse.
Dentro di me, sorrisi.
Chissà che faccia avrebbe fatto Duncan, vedendomi?
Ridacchiai tra me, prima di chiedermi cosa avrei fatto a mia volta, quando fossi tornata a Matlock.
Mi sarei dovuta mettere d’impegno per dimenticarlo, così avrei potuto essere una buona wicca e una brava licantropa.
Non avrei mai più permesso che Duncan perdesse la testa, come aveva fatto prima della mia fuga. Non l’avrei più disturbato con le mie assidue richieste.
Mai più.
Con quelle convinzioni ben stampate nella mente mi assopii, lasciando che il Morfeo peloso dei licantropi mi accogliesse nel suo regno fatto di sonno e di piacevoli sogni.
Per la verità, non sognai nulla – e forse fu un bene – risvegliandomi alcune ore dopo più arzilla che mai, lo sguardo di Gordon piantato in faccia e un sorriso che gli aleggiava ai bordi della bocca.
Sollevai il muso, dandogli istintivamente una leccata e lui, schifato, si allontanò guardandomi male.
Piccato, esclamò: “Dio, che schifo, Brie! Adesso mi ci vuole una doccia! Mi hai lavato completamente!”
Mary B rise sommessamente dietro di noi e io, volgendomi a guardarla, uggiolai interrogativa, desiderosa di chiederle come stesse.
Profonde occhiaie segnavano il suo viso emaciato, ma sembrava stare tutto sommato bene.
Almeno, per quanto potesse stare bene una persona che era stata testimone di un incendio - in cui aveva perso marito e suocero - e del mio mutamento da umana a lupo.
Di certo, aveva dimostrato fegato da vendere.
La fissai curiosa, la mia visione leggermente schiacciata ai lati, ma infinitamente più particolareggiata.
Rimasi ferma per non spaventarla e la osservai avvicinarsi, la mano protesa e lo sguardo percorso da un lampo di timore.
Lentamente, mi accarezzò dietro le orecchie, cosa che apprezzai tantissimo, e disse: “Non ti preoccupare per me, cara, sto bene. Starò bene. Ora vado a comprarvi qualcosa da indossare. Non potete continuare a girare in questa forma o, prima o poi, qualcuno vi vedrà.”
Annuii, tranquillizzata dal suono pacifico del suo cuore e, sorridendo dentro di me, la osservai uscire dalla stanza con passo deciso.
Gordon, avviandosi verso il bagno, mi fissò malissimo e mi intimò: “Non ci riprovare, è chiaro?”
Mostrai i denti in una sorta di ghigno lupesco e lui, rabbrividendo suo malgrado, biascicò: “Non si può scherzare, con te.”
Detto ciò, entrò in bagno e aprì l’acqua della doccia mentre Jerome, sbadigliando e sgranchendosi le ossa, mi fissò alcuni attimi in stato confusionale prima di chiedermi: “Quasi quasi, mi veniva un infarto, vedendoti così. Dovrò venire a patti con la tua licantropia un po’ alla svelta, se non voglio rimanerci secco. Comunque, come va, principessa?”
“Tutto bene” ammiccai, divertita dal suo dire. “Ma perché tu e Lance vi siete messi a chiamarmi ‘principessa’, così, di punto in bianco?”
“Perché sei la nostra principessina, la nostra sorellina da difendere e proteggere. Anche se credo che adesso non ne avrai più bisogno, tra i tuoi poteri di wicca e quelli di licantropa.”
“Siete carini a pensarla così”, replicai, desiderando enormemente sorridergli.
Non avevo ancora ben capito come funzionavano le espressioni facciali, in un lupo, ma erano certamente più limitate che in un umano.
“Ci è venuto spontaneo.”
“Spero solo che a Duncan non venga spontaneo strozzarci, visto che non gli riporteremo Abraham.”
Lui ghignò, replicando: “Oh, dubito fortemente che a te torcerebbe anche un solo capello.”
“Vuoi spiegarmi il perché?”
“No.”
“Cane.”
“Grazie.”
Misi il broncio, ma lui non ci fece caso, limitandosi a sonnecchiare sul pavimento finché Mary B non fu di ritorno con i nostri abiti, circa un’ora dopo la sua uscita.
Gordon, nel frattempo, aveva terminato la doccia e si era vestito con gli abiti della notte precedente.
Quando Mary B fece la sua entrata, mio fratello stava giusto lagnandosi di non poter indossare altro se non indumenti che puzzavano di fumo.
Nel vedersi consegnare una busta da Mary B, però, sorrise eccitato e si cambiò immediatamente, facendomi ridere di gusto.
Ovviamente, lui mi fissò dubbioso, non comprendendo di certo che, quel mio strano tossire, era in realtà una risata.
Beh, a quel punto, avevo tutto il tempo di spiegarglielo.
A turno, io e Jerome ci recammo in bagno per mutare forma – non era il caso di sporcare la moquette – e, quando fummo pronti per uscire,  noi due sgusciammo dalla finestra per attenderli accanto all’auto di Mary B.
“Mary ha davvero occhio! Ha centrato persino le scarpe ” commentò Jerome, rimirandosi con un sorriso stampato in faccia, soddisfatto degli acquisti fatti a suo nome.
E in effetti stava bene, con la camicia bianca a righe gialle, i jeans a vita bassa e le Nike grigie ai piedi.
Mary B e Gordon uscirono venti minuti dopo e, guardandoci vicendevolmente con aria dubbiosa, chiesero quasi assieme: “E ora?”
Fissai per un momento Jerome, prima di vederlo annuire, così dichiarai senza remore: “Verrete con noi al Sud. Qui non siete al sicuro, ma con noi non potrà succedervi nulla.”
“Sei sicura che saremo ben accolti?” chiese Mary B, ansiosa.
Ammiccai a Jerome, e chiosai: “Stavolta, non credo ci saranno problemi.”
“Già, credo anch’io” annuì Jerome, ridendo di gusto.
Mary B, a quel punto, chiamò l’ospedale per prendere un’aspettativa sul lavoro, spiegando succintamente quello che era successo la notte precedente.
Dopo aver ascoltato numerosi attestati di stima e di affetto da parte dei suoi colleghi, salimmo in auto e ci mettemmo in strada per raggiungere Matlock.
Il mio secondo viaggio verso il Derbyshire fu decisamente più tranquillo rispetto al primo, anche se più noioso.
L’auto di Mary B, una BMW serie 3 color fumo, era comoda e silenziosa, dagli interni in pelle chiara e i sedili avvolgenti e morbidi come poltrone.
In compenso, però, non dava di certo le stesse sensazioni che avevo provato a vagare da sola con Duncan nel bosco, scoprendo poco alla volta tutto di lui, e di me stessa.
Dubitavo fortemente avrei mai più provato tante e tali sensazioni in vita mia, ma mi astenni dal dirlo ad alta voce, sicura che ci fosse qualcuno ben disposto a smentirmi, e solo per farmi un dispetto.
 Dopo un’ora di viaggio, mi ritrovai a fissare con occhi persi la campagna, che si susseguiva dinanzi a un ritmo costante.
Pensai a cosa avrei trovato al mio ritorno, a come avrei affrontato tutti e che spiegazioni avrei fornito per giustificare le mie azioni.
Forse, Duncan aveva già in parte spiegato i motivi che mi avevano spinta ad andarmene – se li aveva compresi lui stesso, ovvio – ma, in ogni caso, una spiegazione era d’obbligo.
La dovevo a tutti loro. Erano il mio branco, e io la loro wicca. Avrebbero ricevuto da me tutte le delucidazioni ritenute opportune.
Verso mezzogiorno, ci fermammo per una sosta a Carlisle –  dove pranzammo all’ombra di un bel porticato, mangiando pizza fino a scoppiare – riprendendo poco dopo la marcia verso la nostra destinazione finale.
Non ero stata via neppure una settimana, eppure mi sembrava di mancare da secoli.
Non avrei davvero resistito molto lontano da loro, ora lo sapevo, e sorrisi di me stessa per aver pensato di poter fare a meno del mio branco.
Non solo di Duncan, ma di ognuno di loro. Beh, quasi ognuno di loro.
Non ero così ansiosa di rivedere Sheoban e Connor, specialmente coi rischi che mi avevano fatto correre, e con quello che era successo alla mia famiglia, per colpa loro.
Come non ero ansiosa di rivedere Marjorie.
Sicuramente, avrebbe avuto da ridire sulla mia presenza nel branco, ma ero pronta a sfidarla, come ero pronta a sfidare chiunque avesse avuto qualcosa da ridire sul mio ritorno.
Non pretendevo di averli tutti dalla mia parte, ma erano molti quelli che avevano imparato a stimarmi, perciò non partivo con le spalle scoperte. Avrei fatto affidamento su di loro, una volta giunti a destinazione.
Potevo farcela.

***

Fu nel primo pomeriggio, che oltrepassammo l’hinterland di Matlock per dirigerci direttamente a Farley, dove Jerome era sicuro ci stesse aspettando Duncan.
Deglutii a fatica all’idea di rivederlo e, quando i miei occhi sfiorarono quelle campagne a me così care e familiari, le mani cominciarono a formicolarmi per l’ansia.
Jerome ridacchiò, vedendomi così agitata e io, facendogli la lingua, mugugnai: “Fai il furbo, tu. Non dovrai sorbirti la sua manfrina come dovrò fare io.”
“Di sicuro, non dovrò sorbirmi quello che lui ha in mente per te. La cosa mi disgusterebbe a morte” ridacchiò, facendomi preoccupare.
Al mio fianco, seduto come me sui sedili posteriori, Gordon borbottò torvo: “Non vorrà mica farle del male? Perché sennò…”
Risi del suo strenuo tentativo di difendermi – del tutto inutile, contro un licantropo, – e Jerome, ammiccando, gli raccomandò: “Tu stai tranquillo e non sbranarlo, ragazzo. Lascia fare al nostro capo. Sarà… equo.
“Tremo al pensiero, allora” brontolai, torcendomi le mani per l’impazienza.
Che aveva in mente, Duncan, per me?
Quando finalmente scorsi i contorni ameni e da me tanto adorati della sua casa, sorrisi spontaneamente.
La siepe di pini non era cambiata, così come i lussureggianti cespugli di rose e gelsomini.
Nulla era mutato, eppure tutto lo era.
L’auto entrò lentamente nell’ampio cortile e lì si bloccò, permettendomi di uscire e ritrovandomi a piegarmi a terra per raccogliere Jasmine che, correndo come una matta, si era avvicinata a noi per scoprire chi fossero i nuovi venuti.
Lei mi accolse con le sue fusa rumorose, leccandomi più volte il viso.
Stringendomela al petto, dissi commossa: “Oh, Jasmine… tesoro… che bello rivederti. A quanto pare, ti piaccio anche così, eh?”
Jasmine continuò a miagolare e leccarmi, confermandomi che il mio nuovo status, per lei, non voleva dire molto.
Pur trovando la cosa sciocca e puerile, mi ritrovai a sorridere di gioia per quell’evento.
Pochi attimi dopo il nostro arrivo e il mio abbraccio a Jasmine, la porta d’ingresso della casa si aprì e, bello e fiero come lo ricordavo, Duncan apparve sulla soglia. Mi fissò per un momento, come se non credesse ai propri occhi, prima di scendere di corsa dai gradini per raggiungermi.
Lasciai scendere Jasmine dalle mie braccia per fronteggiarlo, già pronta al suo rimbrotto ma, prima ancora di riuscire a dire qualsiasi cosa, lui esalò un sofferto Brie e mi strinse a sé con le possenti braccia per calare sulla mia bocca in un bacio divorante.
Sgranai gli occhi, sorpresa e confusa oltre l’immaginabile, mentre le sue labbra a me dolorosamente familiari si impadronirono della mia bocca.
Parvero voler rinsaldare un legame che non si era mai spezzato realmente, ma che lui desiderò suggellare con la sua forza.
La sua lingua si fece strada fino a sfiorare la mia e, a quel punto, tralasciando ogni dubbio o confusione, lasciai che il desiderio prendesse il sopravvento sulla mia mente e, con altrettanta foga, risposi al suo bacio.
Presi e diedi in egual misura, mentre le sue mani mi sfioravano la schiena e i capelli, come a voler riprendere confidenza con un corpo di cui – a quanto pareva – avevano tremendamente sentito la mancanza.
Fu solo il tossire imbarazzato di Gordon a farci separare di colpo, tanto quell’incontro ci aveva fatto perdere di vista il mondo che gravitava intorno a noi.
Ridendo imbarazzatissima, affondai il viso nel suo petto, più che mai confusa ma ben lieta di essere stata accolta a quel modo, quando mi ero aspettata una sgridata coi fiocchi.
Gordon, guardandoci con ironia, celiò all’indirizzo di Jerome: “Ora capisco perché non volevi ricevere la sua punizione.”
Sköll ammiccò complice a mio fratello mentre io, scostandomi quel poco per guardare Duncan in viso, gli chiesi confusa: “Ti ringrazio per il benvenuto, ma…”
Scoppiando a ridere, Duncan scrutò un momento Gordon e Mary B, che sorridevano tentando di non ridacchiare a loro volta e, carezzandomi il viso con tenerezza, mi chiese: “Perdonerai un vecchio sciocco per la sua follia?”
Sbattei le palpebre una, due, tre volte, prima di cominciare a comprendere cosa volesse dirmi e, facendo tanto d’occhi, esalai: “Mi stai dicendo che…”
“… che è stato l’amore per te a portarmi a baciarti, non qualcosa di oscuro e del tutto privo di forma” mi sussurrò lui, dandomi un bacio possessivo sulla fronte prima di rivolgersi alla mia famiglia. “Scusate se ci siamo dovuti conoscere così. Io sono Duncan McKalister. Molto piacere.”
Mary B strinse la sua mano, sorridendomi e ammiccando, prima di dire: “Io sono Mary Beth Smithson, piacere mio.”
“E tu devi essere Gordon” disse poi Duncan, sempre tenendomi stretta a sé, quasi avesse paura potessi svanire da un momento all’altro.
Beh, di sicuro avrebbero dovuto usare una leva Halligan per separarmi da lui, a quel punto.
Io, di certo, non mi sarei più mossa dal suo fianco, checché ne avessero detto gli altri.
Stringendo la mano di Duncan, mio fratello domandò con ironia: “Piacere… ma non puoi farla respirare, ora?”
Risi assieme a Duncan che, dandomi un bacio sui capelli, si limitò a tenermi per mano, pur non lasciando il mio fianco.
 Come me, sembrava restio ad abbandonare il contatto. Avremmo avuto tutto il tempo di parlare di noi ma, per il momento, quello poteva bastarmi.

***

Sfiorandomi i capelli con dita leggere, un sorriso che aleggiava sul suo viso in ombra, mentre il mio era inondato dai raggi deboli della luna, Duncan sussurrò: “Jerome mi ha detto quel che è successo. Quando ho sentito il suo odore su di te, non riuscivo a capire. Ma ero così contento di vederti, che ho lasciato perdere le domande per un altro momento.”
Assaporai il suo tocco, bramosa di lui, delle sue parole, dei suoi sguardi, del suo calore.
Ogni cosa, in Duncan, mi era mancata, ma ora non l’avrei più lasciato andare. Niente si sarebbe frapposto tra noi. Mai più.
“Non potevo lasciare che Patrick colpisse Jerome. So che è stato sciocco, però… beh, sono contenta che sia successo, perché ora sono come te” sussurai lieta, afferrando la sua mano per baciarne i contorni.
Ora capivo tremendamente bene cosa avesse voluto dire Duncan, parlandomi di riconoscimento.
Non era solo l’aspetto sensuale della cosa, a interessarmi.
Volevo conoscerlo in quanto membro del branco, perciò continuavo a toccarlo, sfiorarlo, accarezzarlo, baciarlo, anche se il mio desiderio fisico non veniva minimamente sfiorato.
Lui mi lasciò fare, chiedendomi titubante: “Sei sicura di poterlo accettare? I primi mesi sarà dura.”
“Ho notato… ho fatto una tremenda fatica a non azzannare Patrick. Sentivo il desiderio del sangue scorrermi dentro come un fuoco, ma ho resistito.” Sorrisi, guardandolo negli occhi con sicurezza e fiducia.
 I suoi mi apparvero foschi, adombrati dall’oscurità che ci circondava, ma io ricordavo bene il loro colore smeraldino.
“Il branco sarà incuriosito da questa novità. Non si è mai sentito di una wicca che fosse anche licantropo.” Socchiudendo gli occhi, rispose al mio sorriso e sfiorò il mio fianco con le dita.
Pur coperta dal tessuto dei jeans, avvertii il suo tocco direttamente dentro la carne e, non volendo, mi sfuggì un gemito di piacere che mi fece arrossire copiosamente.
Lui accentuò il suo sorriso – soddisfatto, eh? – prima di dirmi: “Lo sento anch’io, anche se continuo a darmi dell’idiota ogni volta che vorrei strapparti di dosso i vestiti e farti mia.”
Ridacchiai, e  gli chiesi maliziosamente: “Quante volte ti è capitato di pensarlo?”
“Ogni minuto, da quando ti ho baciata la prima volta” ammise, sorprendendomi.
“E… e hai impiegato tutto questo tempo per chiarirti le idee? Sei tardo, o che?” esalai, facendolo sogghignare divertito.
“Mi sono mancate le tue battutine.” Nel dirlo, i suoi occhi brillarono di gioia.
Io allargai il mio sorriso e lui, con voce suadente, continuò dicendo: “Ho dato testardamente la colpa al nostro legame per ciò che sentivo dentro quando, invece, era la nostra differenza d’età a crearmi difficoltà…” Bloccando sul nascere una mia protesta, aggiunse: “… non perché ti credevo troppo giovane per capire cosa significasse amare, nonostante ti abbia accusata di questo, ma perché pensavo che io fossi troppo vecchio per te.”
“Idiota” sussurrai. “Sarebbe bastato che me ne parlassi.”
“Ricordi cosa ti dissi? Che non credevo possibile che la grazia di una libera scelta fosse capitata anche a me?” mi rammentò, scivolando più vicino a me, tanto che i suoi fianchi sfiorarono i miei.
Al mio assenso, lui proseguì dicendo: “Quando ti vidi baciare Jerome, persi la testa. Pensai che tu mi avessi preso in giro, che il legame che ci teneva uniti mi avesse preso in giro, convincendomi dei tuoi buoni propositi quando il mio buon senso mi diceva altro.”
“Hai fantasia da vendere, caro” celiai, facendolo ridacchiare.
“Quando, però, vidi le tue lacrime sincere, il tuo dolore, capii. E Jerome non fece che confermarmi tutto. Ti aveva baciata solo per confortarti, come avrebbe fatto con sua sorella. E io avevo frainteso tutto, facendoti soffrire, e ferendo lui” sospirò, reclinando il capo. “Ti cercammo invano per tutto il giorno, non immaginando neppure lontanamente che saresti arrivata a rivolgerti a Marjorie, per scappare.”
“Mai sottovalutare una donna sconvolta” ammiccai.
Lui annuì, proseguendo nel suo racconto. “Verso sera, Erika ci raccontò ogni cosa, e dovetti sorbirmi il più brutto rimprovero di cui ho memoria. Persino Lance si infuriò con me, spalleggiando Erika nella sua reprimenda. Fu davvero un brutto quarto d’ora.”
Sghignazzai, immaginandomi la scena e lui, ammiccando, terminò il suo racconto. “Mandai Jerome a cercare te e Abraham non appena finirono di insultarmi, dopodiché inviai in missione Sarah e Branson perché tenessero sotto custodia Sheoban e Connor. Da quel giorno, non ho fatto che pensare al modo in cui chiederti scusa per la mia stupidità.”
Annuendo, asserii: “Credimi, il modo che hai scelto andava benissimo.”
Rise piano, sfiorandomi le guance con due baci leggerissimi, prima di sussurare roco: “Avrei voluto continuare per ore, ma mi sarebbe sembrato abbastanza imbarazzante per entrambi, visto che la tua famiglia ci stava guardando, giustamente confusa.”
“Piaci molto a Mary B” gli confidai, e un sospiro languido seguì le mie parole. “Pensa che abbia avuto davvero buon gusto.”
“E Gordon? Che mi dici di lui?”
“Oh, lui è un uomo, quindi gli starai antipatico per i prossimi mesi poi, con calma, gli passerà e comincerà ad apprezzarti per quello che sei” scrollai le spalle, tranquilla.
“E chi sono?” volle sapere Duncan, fissandomi curioso.
Sorridendo, gli sfiorai il viso con una mano mormorando: “Un uomo buono, devoto e maledettamente stupido, ma ti amo lo stesso.”
Ridacchiò, attirandomi a sé e sussurrandomi all’orecchio: “Ti amo anch’io.”
Chiusi gli occhi, affondando nella sua mente ora libera da barriere e, sorridendo, sussurrai sulle sue labbra: “Mi piace quel che vorresti fare.”
“Anche a me piace quel che vorresti fare” mi rispose, facendomi sdraiare sulle tegole del tetto, dove ci eravamo rifugiati, e schiacciandomi sotto il suo peso.
I suoi occhi erano fissi nei miei, come se volesse penetrarli a forza, come se ogni molecola di lui volesse penetrare nelle mie, e lì rimanere per l’eternità.
Avrei tanto voluto che una cosa del genere fosse possibile.
“Corri con me” si limitò a dirmi, sorridendo.
Io annuii, lasciando che sollevasse il suo corpo dal mio, facendomi provare un’improvvisa sensazione di vuoto.
Anche lui parve provarla, perché si sfiorò il petto per un momento, sussurrando: “Non permetterò mai più che ci separi qualcuno, fossi anche io a commettere quest’errore.”
“Te lo ricorderò, la prima volta che litigheremo di brutto” ammiccai, facendolo ridere.
Non perdemmo tempo a scendere dabbasso, dove Jerome si era gentilmente prestato a fare da padrone di casa, per intrattenere la mia famiglia.
Loro sapevano quanto tempo dovevamo recuperare, e non si sarebbero offesi se, per quella sera, non fossimo riapparsi.
Con un balzo, volammo a terra atterrando con delicatezza sulla ghiaia, che quasi non percepì il nostro peso.
L’uno al fianco dell’altra, corremmo in direzione della foresta che nascondeva il Vigrond, affondando in essa e nei suoi sussurri notturni.
Correre al suo fianco fu un’esperienza unica, bellissima.
Avevo colto solo fuggevolmente, quando ancora ero umana, cosa significasse correre, per un licantropo.
Ora che potevo commisurare quel piacere dentro di me, capii di aver solo sfiorato la beatitudine.
I nostri passi erano leggeri nel sottobosco, niente più che aliti di vento nella notte.
I nostri muscoli, che si flettevano e si tendevano a un ritmo febbricitante, sembravano incapaci di stancarsi, pur sapendo che era assurdo pensarlo.
L’energia sprigionata dal nostro potere sfrigolava tra noi, creando reti di energia così forti da essere quasi visibili.
Io, in ogni caso, potevo vederle.
Ero ancora una wicca, dopotutto, e quella parte dei miei doni era ancora presente in me.
Mutammo tra un balzo e l’altro e Duncan mi fissò curioso, scrutando la mia chiara livrea e la mia gorgiera maculata – Jerome stava diventando un asso a mantenere i segreti! – rifulgere alla luce della luna.
Si fermò a guardarmi, gli occhi ambrati carichi di un’ammirazione tale che, se avessi potuto arrossire, l’avrei fatto.
Con voce carezzevole, mi disse: “Sei la creatura più bella che abbia mai visto.”
“Non ho una livrea originale come la tua.”
“Forse, ma credimi, è davvero bellissima… tu, sei bellissima.”
Mi mossi verso di lui per sfiorare il suo muso con il mio, infilando poi il naso nella morbidezza della sua gorgiera nivea.
Lì, inspirai il suo profumo selvatico e ricco di aromi. “Mi dicesti che il mio potere è una droga, per te… beh, il tuo odore lo è per me.”
Rise deliziato – la cosa gli fece piacere in un modo molto mascolino – prima di rimettersi a correre.
Procedendo l’uno a fianco dell’altra per la maggior parte del tempo, giungemmo infine alla quercia sacra, dove lui si fermò e tornò uomo.
Lo imitai, fissandolo senza paura e senza imbarazzo nella sua perfezione mentre lui, guardandomi con tenerezza, si avvicinò a me per stringermi in un abbraccio carezzevole.
L’aria era greve dei profumi dell’estate ormai al termine, e l'aroma della terra umida e fredda si univa a quello delle foglie secche, in decomposizione, e delle piccole creature del bosco che tra esse vivevano.
Inspirai a pieni polmoni, nuova a quelle sensazioni inebrianti e dirompenti come marea e, assieme a quegli odori, il familiare sentore di Duncan surclassò ogni cosa, inondandomi e rendendomi preda di lui.
“Continuo a pensare di stare facendo la cosa sbagliata” sussurrò, baciandomi dietro un orecchio con labbra leggere e setose.
Mi inarcai all’indietro, replicando: “Meno male che ci sono io. Penserò agevolmente per tutt’e due.”
Rise divertito, continuando nel suo percorso esplorativo mentre io, stringendomi a lui per non scivolare a terra – le mie gambe non mi avrebbero retto ancora per molto – sussurrai: “Ripensandoci, non so se riuscirò a pensare molto bene, di qui a un po’.”
Si bloccò, catturando la mia bocca in un bacio che mi lasciò senza fiato poi, imprigionandomi nel suo sguardo d’ambra e di smeraldo, asserì rauco: “Non dovrai mai temere nulla, da me.”
“Lo so” annuii, tranquilla.
Era quello che volevo, quindi, perché averne paura?

***

Mi risvegliai in uno stato di profondo intorpidimento, le membra apparentemente liquefatte e il corpo caldo che non sembrava avere sostanza.
Intorno a me, il cinguettio degli uccelli e il tepore del sole al mattino, unito a una brezza leggera e fresca, mi solleticava la pelle nuda.
Pelle nuda?
Mi riscossi immediatamente, non appena formulai quel pensiero.
Al colmo della sorpresa, mi ritrovai su un letto di foglie di quercia, con nient’altro a proteggermi se non la chioma lussureggiante della quercia sacra e… beh, e lui.
Un sorriso spontaneo mi sorse sul viso, non appena i ricordi della notte precedente tornarono a galla assieme alla veglia, riconsegnandomi le piacevoli sensazioni provate tra le sue braccia.
Quando Duncan era scivolato dentro di me la prima volta, ne avevo avuto paura, non sapendo esattamente cosa aspettarmi, ma tutto era andato ben oltre le mie più rosee aspettative.
Non solo si era comportato da amante gentile e premuroso, ma mi aveva fatto conoscere livelli di piacere che mai, nella mia breve vita, avevo immaginato di poter toccare.
Il solo pensiero che quel corpo perfetto fosse stato asservito al mio piacere, non più tardi della notte precedente, mi fece sorgere un debole rossore alle gote.
Desiderosa di far riemergere quelle sensazioni in me, sfiorai la sua pelle calda e abbronzata con le dita, indugiando sui suoi fianchi morbidi e sulla pelle dalla grana sottile.
Due occhi smeraldini si schiusero lentamente, soffermandosi a fissare il mio viso prima di sorridermi e, sollevandosi a mezzo, Duncan disse roco: “Buongiorno.”
“Buongiorno a te” sussurrai di rimando.
Mi diede un bacio leggero, niente più di uno sfiorarsi di labbra.
Si alzò qualche attimo dopo, distendendosi in tutta la sua adamitica bellezza, e mi chiese: “Andiamo a cercarci la colazione?”
Ridacchiai all’idea della mia prima caccia e, annuendo, mi alzai in piedi prima di abbracciarlo strettamente. “Oddio, è stato splendido, stanotte.”
“Sicura di essere abbastanza in forze per potermi tenere testa, stamattina?” mi canzonò.
Io mi guardai, arrossendo leggermente di fronte ai segni che aveva lasciato il nostro amplesso sul mio corpo.
Sorridendomi benevolo, Duncan allora mi domandò: “Preferisci andare a casa a farti un bagno?”
“No, va bene così” scossi il capo. “Voglio cacciare con te.”
Annuendo, lui mi diede un tenero bacio sulla fronte prima di farsi serio e asserire: “Ti voglio come mia Prima Lupa, ma…”
Lo fissai, seria al pari suo, cercando di non esultare come una sciocca di fronte alla sua richiesta – non l’avevo mai sentito parlare in tono così deciso e sicuro, e la cosa mi fece piacere – e attesi che mi spiegasse cosa significasse quel ma.
Sperai ardentemente non volesse propinarmi nuovamente la storia dell’età ma, a giudicare dalla sua espressione, il suo timore non dipendeva da quello.
I suoi pensieri erano piuttosto cupi, come se non sapesse come esprimerli ad alta voce.
“Se mi parli, capirò. Non avere paura” lo incitai, afferrandolo gentilmente per le braccia.
“Sei l’unica donna che voglio e vorrò mai, di questo sono sicuro…” mi sorrise un attimo, prima di aggiungere: “… ma, nel branco, potrebbero esserci delle lupe non d’accordo con me.”
“Pensavo che…” tentennai dubbiosa.
Mi zittì poggiando un dito sulle mie labbra e disse: “Avrebbero il diritto di sfidarti. Io posso decidere chi voglio ma, nel branco, potrebbero chiedere l’Ordalia, se ritenessero che la mia scelta non fosse la migliore.”
“Un altro esame?” esalai, sgranando gli occhi.
“Non del genere che hai già passato. Qui si tratta di un combattimento vero e proprio. E solo chi vince può decidere delle sorti dello sconfitto, nessun altro” mi spiegò Duncan, carezzandomi il viso con espressione ansiosa.
Cominciavo a capire perché fosse così scosso.
Mi voleva con una determinazione che mi commuoveva nel profondo, ma questo avrebbe significato altri guai per me. Guai che potevano voler dire anche morire.
Annuii, sorridendo nonostante tutto, e gli ricordai: “Avevo già specificato una volta che, per te, sarei anche morta. Se non erro, ben prima di innamorarmi del qui presente.”
“Con Alec” assentì, sorridendomi pur essendo ancora turbato.
“Non ho cambiato idea. So quanto valgo, e so quanto vali tu. E vali il rischio” dichiarai, più che convinta del mio dire.
Mi strinse forte a sé, inspirando il mio profumo attraverso i capelli e, baciandomeli con tenerezza, mormorò: “Capirò se non vorrai accettare, non devi farlo solo per me.”
Voglio essere la tua Prima Lupa, Duncan, e ammazzerò chiunque si metta tra me e te. Ho già rischiato una volta di perderti. Non commetterò due volte lo stesso errore. Sarò anche giovane e inesperta, ma imparo in fretta” decretai, scostandomi da lui per fissare i miei occhi nei suoi, in modo tale che il  messaggio fosse più chiaro.
“Lascerai che ti aiuti? Posso insegnarti come si lotta. Il tuo potere è grande, ma durante l’Ordalia non potrai usarlo, e dovrai affidarti solo alle tue capacità e alla tua destrezza di lupo” mi spiegò Duncan.
“Insegnami. Sarò la tua migliore allieva di sempre” gli sorrisi, pur tremando dentro.
Senza i miei poteri, potevo davvero sconfiggere chi si sarebbe rivoltato contro di me?
“La mia unica allieva” precisò, allontanandosi per mutare.
Non era ancora finita. Dovevo combattere ancora, per averlo.
Ma, di certo, chiunque si fosse schierato contro di me, avrebbe trovato pane per i propri denti.

***

Dopo aver fatto una doccia e aver salutato con un cenno del capo Mary B e Gordon – che avevano dormito rispettivamente nella stanza di Duncan e mia – preparai il caffè ascoltando distrattamente lo sciacquio dell’acqua al piano di sopra. Mio fratello, ghignante come una iena ridens, mi chiese: “Divertita, stanotte?”
“Molto” ammisi distrattamente.
Mary B gli diede una gomitata nel fianco, giusto per rimetterlo al suo posto.
Consegnando loro latte, corn-flakes e scodelle, ci misi del mio e minacciai ironicamente mio fratello. “Attento a con chi scherzi, lattante.”
Gordon mi fece la lingua per diretta conseguenza e Mary B, sorridendomi lieta, mi informò dei programmi per la serata.
“Abbiamo saputo da Jerome che stasera siamo invitati a cena a casa sua, ...ma siamo sicuri che non saremo di disturbo?”
Ingollando un bicchiere di latte, esalai sorpresa: “Da Sarah e John? Affatto. Scoprirai quanto sono ospitali e tu, fratellino, ti innamorerai follemente di Erika. E’ una ragazza davvero affascinante.”
“Se lo dici tu… non mi fido dei tuoi gusti” brontolò, ingoiando una cucchiaiata di cereali.
“Ah, no? Dici che l’omaccione che c’è al piano di sopra non è abbastanza, per me?” ridacchiai, riconoscendo in Gordon i chiari segni della gelosia.
“Bah. E chi può dirlo? Mica lo conosco. Papà, sicuramente, si sarebbe ben guardato dal farlo entrare in casa al tuo primo appuntamento. Avrebbe aspettato almeno un mese” sbuffò accigliato.
Sollevai ironica un sopracciglio, replicando: “Tra lupi le cose sono un po’ diverse, Gordon.”
“Sei lupa da quanto… due giorni, e già pensi di essere cambiata così tanto?” ribatté scettico.
Sorrisi comprensiva, e mi spiegai meglio. “Vivo in questo branco da più di due mesi, e so cosa voglio. Sapevo già cosa volevo fin da prima di essere trasformata, Gordon. Per me non è un evento tragico o che altro, io mi trovo bene nei miei panni.”
Tossicchiando per mandar giù i cereali, Gordon si affrettò a replicare: “No, hai capito male, non voglio dire che mi da fastidio il tuo essere … beh, così… volevo solo dire che… non è un po’ presto per ragionare come loro? Come funziona? Cambi genere, e la tua mente lavora in modo diverso?”
Risi sollevata, di fronte al suo imbarazzo – temeva davvero di avermi offesa – e, dandogli una pacca sulla spalla, asserii: “No, ma da quando sono entrata a far parte del branco come wicca, ho imparato i loro schemi mentali, per cui non mi pare così strano adottarli, adesso.”
“Paese che vai…” iniziò col dire Gordon.
“… usanza che trovi” terminò per lui Duncan, entrando in cucina in camicia e jeans e un asciugamano sulle spalle. “E’ di certo tuo fratello, Brie.”
Assentii con un risolino, accogliendolo con un sorriso.
Datomi un bacio leggero sul capo prima di togliere il caffè dalla macchina, Duncan si rivolse a Gordon e Mary B, dicendo loro: “Scusate se ieri sera non mi sono intrattenuto con voi,... sono stato un pessimo padrone di casa. Jerome si è preso buona cura di voi?”
Mary B sorrise e lo rincuorò immediatamente. “Ottima cura, grazie. E poi, vista la situazione così particolare, abbiamo capito la vostra necessità di rimanere soli.”
“Grazie. Ugualmente, oggi sarò a vostra completa disposizione” promise Duncan, sorridendole.
Anche se sapevo che ora Duncan era mio – almeno sulla carta – , quel sorriso aveva ancora un effetto micidiale, su di me.
Sospirai, nel sedermi di fronte alla consolle, e dichiarai ammaliata: “Scioglieresti anche un ghiacciaio, con quel sorriso.”
Lui rise divertito e, sì, compiaciuto e Mary B, ammiccando al mio indirizzo, ammise: “E’ sicuramente un sorriso affascinante.”
“Vi prego, signore, c’è chi potrebbe essere abbastanza disgustato dal vostro sbavare in pubblico” commentò aspro Gordon, facendoci ridere ancor di più.
Duncan non poté che unirsi a noi, e decretare: “E’ sicuramente tuo fratello.”





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N.d.A.: spero di avervi fatti/e felici...ma non è ancora finita. Anche se manca pochissimo. :)

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Capitolo 30
*** XXX. ***


XXX.



 


 

Rivedere Erika fu un sollievo.
Fin da quando l’avevo abbandonata di fronte alla casa di Marjorie, mi ero sentita in colpa nei suoi confronti.
La celerità con cui mi ero dovuta separare da lei, non aveva certo aiutato il mio cuore a non piangere.
Rendermi personalmente conto che stava bene, e non ce l’aveva con me, fu perciò una gioia.
Rimasi stupita nel trovare anche Lance ad attenderci e, abbracciandolo con foga, esalai contro il suo petto robusto: “Scusa se ho fatto stare in pensiero anche te!”
Lance mi sorrise calorosamente, stringendomi in un abbraccio stritolante e sussurrandomi all’orecchio: “Erika mi ha spiegato i tuoi motivi, e mi sono sfogato per bene su Duncan, quindi ora sono solo felice di vederti. Bentornata, principessa.”
“Grazie” mormorai, sogghignando in direzione di Duncan, che ammiccò.
“Sono stati molto loquaci, questi due, con me. Se si fossero messi d’accordo, non avrebbero potuto essere più terrificanti” celiò Duncan all’indirizzo di Erika e Lance, che ridacchiarono complici.
Lance scrollò le spalle all'indirizzo di Duncan e fece finta di snobbarlo, dedicandosi completamente a Mary B e Gordon, che avevano osservato l’intera scena con un sorrisino sul volto.
Di sicuro, erano in attesa di qualche spiegazione in merito.
Allungando la sua enorme mano, Lance si presentò con entusiasmo: “Tanto piacere, Mary Beth. Finalmente ci incontriamo di persona. Io sono Lance. E tu sei Gordon, vero?”
“Il piacere è mio, Lance” replicò Mary B, stringendogli la mano con un sorriso abbastanza sereno in viso.
“Lance” disse poi, Gordon, stringendo a sua volta la mano di Hati.
“Non dovete badare a questo piccolo battibecco. Sapete, quando Brianna se n’è andata di colpo, lasciandoci con un palmo di naso, ce la siamo presa con l’unico responsabile e abbiamo fatto un po’ di … confusione” spiegò loro Lance, tornando a lanciare a Duncan un’occhiata divertita.
Serafico, Duncan si volse in direzione di Mary B, che lo stava scrutando comprensiva e, sogghignando, ci tenne a precisare: “E’ stata più di un po’ di confusione, Mary, ma non starò qui a mettere in imbarazzo il mio Hati, dicendo come mi ha trattato.”
“Troppo gentile” lo ringraziò Lance, inchinandosi ironicamente al suo cospetto.
Sorrisi, nel vedere Lance così lieto e libero da fantasmi.
Sapere che il mio ritorno lo aveva reso così felice, mi convinse una volta di più che, restare nel branco, era un imperativo primario, per me.
Non solo per diventare Prima Lupa e compagna di Duncan, ma anche per Lance, Jerome ed Erika, i miei insostituibili amici.
Per loro, mi sarei battuta fino alle stremo delle forze.
Sarah e John, comparendo dalla cucina, interruppero quel flusso di pensieri.
Con grandi sorrisi e strette di mano, si presentarono a loro volta, dando un benvenuto più che caloroso alla mia famiglia, cosa di cui fui più che grata.
Mentre l’intero gruppo si dirigeva verso il salone, io e Sarah restammo in coda al gruppo – era evidente che voleva parlarmi di qualcosa.
Sorridendomi compiaciuta, chiosò: “Visto che si è risolto tutto?”
“Non proprio… Mary B ha dovuto perdere suo marito e la casa, per salvarmi” replicai con un piccolo sospiro. “E, da quel che ho capito, dovrò sudare sette camicie per avere Duncan tutto per me.”
Sarah si adombrò subito in viso, mormorando: “Non avevo saputo del suo lutto. Mi spiace immensamente.”
“Sembra l’abbia presa bene, nonostante tutto…” ammisi, scivolando in cucina con Sarah, mentre gli altri si accomodavano a tavola. “… anche se non so quanto di quel che vedo sia vero, e quanto sia scena.”
“Avere te e Gordon vicino, la aiuterà, e ci sarò anch’io, se vorrà parlare con me” sorrise un momento Sarah, prima di chiedermi: “E così, Duncan ti vuole come sua Prima Lupa? Pensavo che avrebbe aspettato un po’, prima di presentarti al clan come Prescelta.”
“Nessuno dei due vuole aspettare, a dir la verità” borbottai, arrossendo mio malgrado. “Anche se ammetto che non immaginavo ci sarebbe stato bisogno di battermi, per averlo.”
“Pensavi davvero che un Fenrir potesse prendere per sé la prima donna che gli venisse in mente?” mi irrise bonariamente Sarah. “Lui può scegliere, è un suo diritto inalienabile, ma le lupe del branco possono ribattere. Funziona così. Sua è solo la scelta, ma tutto il resto deve passare attraverso il benestare del branco.”
“Ha un che di logico, o potrebbe capitarvi una Prima Lupa non adatta al ruolo” ammisi cauta.
Sorridendomi calorosamente, Sarah mi rassicurò subito. “Sei forte a sufficienza per vincere contro chiunque ti si metterà contro, con o senza poteri. Il tuo amore per lui è profondo, quindi non teme rivali.”
“Dici?” mugugnai, dubbiosa.
Lei annuì, sicura, prima di aggiungere in un sussurro: “Il suo odore su di te permarrà ancora per molti giorni. Già questo farà sbarellare molte lupe, distraendole. E’ una buona cosa.”
Arrossii tremendamente, esalando sconcertata: “Lo fai apposta, vero?”
“Ammetto che è divertente” ammiccò, prima di tornare seria e chiedermi: “E’ stato gentile, con te? Non ti ha forzata, vero?”
Scossi il capo, sussurrando: “Non avrebbe potuto essere più … beh, più…”
Sorridendo divertita, Sarah sollevò una mano come a volermi fermare, e asserì: “Okay, ho capito. Non voglio conoscere le doti amatorie di mio nipote. Mi basta sapere che non è stato cafone con te. Sai, dopotutto, è un po’ come se fossi sua madre, e mi fa piacere sapere che si comporta bene.”
Ammiccando, celiai: “Bene? Ottimamente, direi!”
Sarah rise divertita di quella mia uscita e, insieme, portammo le pietanze nel salone dove, curiosamente, notai un leggero rossore sulle gote di Duncan e un ghigno beffardo sul viso di Jerome.
Posato che ebbi il piatto degli antipasti sul tavolo in stile Chippendale, fissai curiosa Duncan prima di spalancare lentamente gli occhi e arrossire a mia volta.
Solo in quel momento, mi resi conto dei motivi del suo imbarazzo e del sogghigno del cugino. 
Mi ero completamente dimenticata, che loro potevano sentirci anche dalla cucina!
Ridacchiai, facendo la lingua con aria birichina e John, ammiccando nella mia direzione, mi rassicurò con il suo tono di voce mansueto e calmo. “Ti ci abituerai, ne sono sicuro.”
“Lo spero!” esalai, sedendomi al fianco di Duncan. Gli diedi una pacca su una gamba, a mo’ di scuse.
“Non fa nulla. Dopotutto sei stata lusinghiera” sussurrò, baciandomi per un attimo.
Gordon tossicchiò – era seduto al mio fianco – , richiamandoci all’ordine e io, dandogli di gomito, lo minacciai ironicamente. “Fallo un’altra volta e ti appendo al muro.”
Lui si limitò a ghignare beffardo mentre Duncan, piegandosi verso Sarah, sussurrava: “Sheoban e Connor?”
“Sono ben sorvegliati. Branson e Talulah li controllano e, fuori casa loro, ci sono dieci Mánagarmr di alto rango. Non possono scappare” sussurrò a sua volta Sarah, lo sguardo sicuro di sé, degno di una Freki con i fiocchi.
Ero più che certa che avere Sarah, come nemico, dovesse essere un vero incubo.
I suoi occhi, da gentili e premurosi che erano, si trasformavano in due pezzi di ghiaccio non appena il suo ruolo veniva chiamato in causa.
E, quando io vedevo gli occhi di Freki sul suo viso, sapevo che, di lei, i nostri nemici avrebbero sempre avuto rispetto e timore.
Averla in Consiglio era un sollievo.
Non dovevo dimenticarmi che, oltre alla mia prova di fronte al branco, avremmo prima di tutto dovuto giudicare Sheoban e Connor per il loro tradimento.
Non avevo parlato con Duncan delle reazioni del branco, di fronte a ciò che avevo scoperto, ma ero praticamente certa che le fazioni fossero spaccate.
Sheoban e Connor, dopotutto, avevano un seguito piuttosto nutrito, e dubitavo fortemente che il branco, pur di fronte alla realtà dei fatti, si fosse schierato all’unisono contro di loro.
In ogni caso, non avrei affrontato l’argomento di fronte alla mia famiglia. Non volevo rovinare quei momenti di pace appena ritrovata.
Sbirciando in direzione di Erika, che stava intrattenendo con un fiume di chiacchiere Mary B e Gordon – il cui sguardo era ben fissato su di lei – , le sorrisi di straforo e la ringraziai mentalmente. “Grazie, sorella, per la copertura. Non vorrei mai si preoccupassero, vedendo Sarah e Duncan confabulare.”
“Di nulla, Brie. Lo faccio volentieri” ammiccò Erika, senza mai perdere la concentrazione sul discorso che stava esponendo. Come ce la facesse, solo lei lo sapeva. Io mi sarei incartata subito.
Lance mi lanciò un sorriso da oltre la tavola, e asserì mentalmente: “Riuscirai anche tu, con un po’ di pratica, è solo questione di allenamento, esattamente come per il tuo dono. Allenamento e ancora allenamento.”
“Sembra non faccia altro, ultimamente.”
“Così è la vita” replicò, allargando il suo sorriso. “Non vedo l’ora di vederti nella tua seconda forma. Jerome ha detto che è splendida.”
“Oh, non ti ha detto come sono, eh? Ma che bravo, che è diventato” ridacchiai tra me, lanciando uno sguardo a Jerome, che stava servendo del vino a Mary B.
“Sì, ha voluto mantenere il segreto, e questo mi incuriosisce molto. Vuoi darmi qualche dritta tu?”
“Ti piacerò” sogghignai furba.
Lance si lasciò scappare una risatina, che soffocò dietro una sorsata di buon vino bianco mentre io, scrollando le spalle, mi dedicai alla tartina che tenevo in mano, notando al contempo l’occhiata curiosa di mio fratello.
Avrei dovuto dir loro qualcosa, in ogni caso.
Se malauguratamente fosse successo il peggio, avevano per lo meno il diritto di conoscere i motivi della mia fine prematura.
Aspettai però la fine del pasto per parlarne e, dopo aver attirato fuori casa Gordon con la scusa di dare un’occhiata all’auto di Jerome, lo guardai dubbiosa prima di dire: “Domani dovrò presentarmi di fronte al branco, e Duncan mi proclamerà sua Prima Lupa.”
Gordon, le mani in tasca e uno sguardo ammirato puntato sulla Alfa Romeo GT color rosso fiammante di Jerome, si irrigidì un poco prima di volgere gli occhi per fissarmi ombroso.
Turbato, mi domandò: “Sua… Prima Lupa? La sua compagna, intendi?”
“Esatto” annuii.
“E a te sta bene? Sì, insomma… non è che vi conoscete da tanto, e mi sembra un passo piuttosto impegnativo” tentennò, non sapendo bene come esprimersi.
Lanciai uno sguardo al cielo, coperto di nubi leggere che oscuravano la luna e le stelle, prima di prendere un respiro profondo e avvicinarmi maggiormente a lui.
Da quando ero diventata un licantropo, mi veniva istintivo cercare un contatto fisico con gli altri.
Gli sorrisi gentilmente, prendendo una delle sue mani tra le mie, e spiegai più approfonditamente ciò che gli avevo appena esposto.
“Non ci dobbiamo sposare domani, Gordon. E’ una cosa diversa. La Prima Lupa è, sì, la compagna per la vita di Fenrir, ma questo non vuol dire che convoleremo a nozze nel giro di una settimana.”
“Ma è che arriverete. Almeno, per quel che riguarda il mio mondo… che, mi sembra di capire, non è più il tuo” precisò Gordon, sfiorandosi il petto con la mano libera.
Lo guardai preoccupata, timorosa che non mi comprendesse più appieno come un tempo.
Con un sussurro turbato, gli chiesi: “Mi reputi tanto diversa da prima, Gordon? Non più… Brie?”
“Stupida” brontolò, dando una stretta alle mie dita, come per cancellare quel dubbio da me. “No, sei ancora mia sorella, anche se sei più forte di prima, e metti su pelo.”
Ridacchiai. Sì, Duncan aveva ragione. Avevamo lo stesso modo di fare battute.
Gordon accennò un sorrisino, e proseguì nel suo dire. “E' evidente, però, che ora dovrai vivere secondo regole diverse dalle mie, il più delle volte. Per questo ti chiedo; sei sicura di lui? Vuoi davvero legarti a un uomo tanto più vecchio di te, e appartenere a lui per tutta la vita? In fondo, hai conosciuto solo Leon, prima di Mister-Fisico-da-Paura.”
Ridacchiai a quel nomignolo, prima di replicare: “Conosciuto è una parola grossa. Soprattutto se la intendi come immagino tu voglia intenderla.”
“Oh… quindi non… non ci sei andata a letto? Con Leon, intendo” biascicò Gordon, diventando scarlatto in viso.
Arrossii anch’io.
Non erano certo argomenti di cui volessi parlare con lui, ma comprendevo bene la sua ansia – dopotutto, era l’unico uomo in famiglia che mi rimaneva – perciò preferii essere onesta con lui.
“No, non ho fatto nulla, con lui, a parte qualche strusciamento. Non mi sentivo pronta.”
“E con Duncan?” riuscì a chiedermi.
Sospirai, cercando di mettere a parole ciò che provavo per Duncan, ciò che il mio cuore sentiva quando ero con lui, ciò che il mio corpo provava quando le sue mani sfioravano la mia pelle.
“Con Duncan, c’è molto più che comprensione e desiderio reciproco. Le nostre anime sono legate, si sono scelte prima ancora della mia nascita. Anche se non fossimo diventati amanti, io, Duncan, Jerome e Lance avremmo sempre provato l’uno per gli altri un sentimento più profondo di qualsiasi altro, perché ci apparteniamo da sempre.”
Mi guardò confuso, quasi impaurito, così gli spiegai della quercia sacra, di ciò che avevo visto in lei, delle anime che tornavano alla Madre dopo la morte, e che da Lei venivano reindirizzate ad altrettanti nuovi nati, in un flusso continuo e senza interruzione.
Gli raccontai ciò che avevo visto nei suoi ricordi, il momento in cui la mia anima aveva sfiorato quelle di Duncan, Jerome e Lance ancora bambini e come, pur essendo contro natura, io fossi riemersa di mia spontanea volontà, certa di tornare proprio in quel branco, con quelle persone.
Forse era vero che qualcuno dava una spintarella alle nostre vite, visto come io e Duncan ci eravamo trovati, ma di questo non potei che esserne lieta.
Ero dove avevo deciso di essere ben prima della mia nascita, e ciò mi bastava.
Gordon mi fissò sbattendo le palpebre, trovando il mio discorso piuttosto empirico.
Rise nervosamente, dicendomi che solo io, che ero così razionale e con i piedi per terra, avrei potuto finire in un guaio così colossale e mistico.
Risi a mia volta, quando lo disse, e compresi che il suo sforzo di comprendere fatti che, anche a me, sembravano quasi impossibili, era solo il sintomo primo del suo grande amore per me.
Lo abbracciai, pur sapendo quanto questo lo mettesse in imbarazzo, e mormorai con calore: “Spero di avere il tempo di spiegarti con più calma tutto ciò che sono, che siamo. Ma sappi che ti vorrò bene per sempre.”
Gordon mi scostò da sé, ansioso, ed esalò: “Cosa vuoi dirmi?”
Gli carezzai il viso, di cui conoscevo ogni tratto, ogni pregio e ogni difetto.
Affettuosa, mormorai: “Il branco potrebbe non accettarmi come sua Prima Lupa, e potrei dover affrontare uno o più scontri, contro coloro che non mi ritenessero all’altezza di tale compito.”
“Ma… ma se hai detto che hai questi… beh, questi poteri con cui… con cui puoi fare quel che vuoi?” biascicò Gordon, balbettando spaventato, gli occhi enormi e colmi di una paura che avrei voluto dissipare con il mio affetto.
“Non si tratta di giudicare la wicca. Ho già ricevuto la mia Iniziazione, e tutti riconoscono il mio titolo. Si tratta di riconoscere la Prima Lupa, che è un’altra cosa. Neppure sanno che sono diventata un licantropo e, visto che ho ancora addosso l’odore di Duncan, nessuno se ne accorgerà finché non muterò di fronte a loro” mormorai con un sospiro.
“Odore?” borbottò Gordon, la confusione nei suoi occhi.
“L’odore di Fenrir è più persistente degli altri” annuii. “Mi ha marchiata come sua, per così dire, e di questo si renderanno conto tutti, e subito. Ma, prima di poter dare libero sfogo alle loro recriminazioni, c’è un’altra cosa di cui dobbiamo occuparci. Hai sentito ciò che ho detto ad Abraham, prima di aprire la sua mente ai ricordi, no?”
Lui annuì, attento a ciò che stavo dicendogli.
Seria in viso, proseguii dicendo: “Domani processeremo per falso, e condotta incresciosa, la vecchia coppia dominante del branco, rei di aver tenuto all’oscuro di tutti il fatto che Abraham fosse vivo, nonostante le colpe da lui commesse, colpe per cui avrebbe dovuto essere ucciso dal Freki del branco."
Sospirai, ma riuscii comunque a proseguire nel mio resoconto. "Lui uccise sua madre, una wicca come me, e scappò. Suo padre, il vecchio Fenrir di questo branco, non lo fece uccidere come avrebbe dovuto, e tenne nascosta la cosa al clan. Beh, hai visto cos’ha combinato, no, Abraham, spifferando quel che sapeva sulle wiccan a Patrick e i suoi cugini?”
Aggrottando la fronte, Gordon ringhiò: “Sì, ha rischiato di farti ammazzare. Per questo, papà ci portò in America, allora! Per proteggere te, la mamma e la nonna.”
“Esatto. Fu per il timore di ciò che avrebbe potuto accaderci se Abraham, o Patrick, avessero scoperto quali famiglie portavano con sé il dono delle wiccan” spiegai, scura in volto. “La famiglia della madre di Abraham, i Vaughan, è imparentata con noi, e questo legame di sangue li ha portati fino a me, la mamma e la nonna.”
Reclinando il capo, Gordon esalò: “Ti avrebbero uccisa solo perché… perché…”
Annuendo, dissi per lui: “…perché ero legata ai loro più acerrimi nemici? Sì.”
Sgomento, Gordon mi chiese: “E la mamma? Mamma e papà sono morti perché… per causa loro?”
Gli sorrisi tristemente, scuotendo il capo. “No. Quando ho toccato la mente di Abraham, ho cercato anch’io quel genere di informazione. All’epoca, ancora non sapevano dei McKenna, per cui fu solo un tragico incidente. Ma, quando Patrick ci prese con sé, sapevano, e attesero che io mi mostrassi per quella che ero, perché fossi in qualche modo d’aiuto per catturare i licantropi. Non sapevano che, senza licantropi nei dintorni, io non potevo destarmi al potere.”
Lo dissi con una punta di ironia nella voce e Gordon, sorridendomi appena, commentò: “Davvero pensavano che li avresti aiutati?”
Scrollando le spalle, borbottai: “Visto quel che volevano fare a Duncan quando lo trovai, immagino avrebbero usato sistemi di persuasione molto simili.”
Gordon rabbrividì, ed esalò scandalizzato: “Credi davvero ti avrebbero torturata?!”
“Sì” dissi senza mezzi termini. “Abraham pensava che avrei potuto condurli direttamente ai capi, grazie alle mie capacità di riconoscere i licantropi. Era questo il suo intento ma, finché non avesse avuto la certezza che il mio potere esisteva sul serio, non mi avrebbe mai portato al cospetto della loro cricca. Temeva lo avrebbero preso per un idiota.”
“E tu non avresti mai potuto esibirti in nulla, senza un licantropo nelle vicinanze. Ha un che di ironico. Probabilmente, se ti avessero condotta con loro durante una delle loro battute di caccia, avresti dato loro ciò che volevano, e senza accorgertene” commentò Gordon, sardonico.
“Già. Hanno giocato male le loro carte” annuii, scrollando le spalle. “Spero solo che, ora che Patrick e Abraham sono morti per cause apparentemente naturali, smettano di tenerci d’occhio. Ho cancellato i loro ricordi, perciò non dovremmo più essere di nessun interesse, per loro. Visto soprattutto che Mary B non faceva parte della cricca dei Cacciatori.”
“Io, fossi in te, dormirei con un occhio aperto, per intenderci” ammiccò Gordon, prima di tornare serio e aggiungere: “Presterai attenzione, vero, domani? Sono stanco di perdere i membri della mia famiglia.”
Sorrisi, e annuii convinta. “La posta in gioco è alta, ma io sono una che non si tira indietro. Mi batterò con tutta la forza che ho, per tornare da te, Mary B e Duncan.”
“Naturalmente, noi non potremo assistere?” osservò Gordon, scrollando le spalle come se fosse ovvia la mia risposta negativa.
“No. E’ una cosa che riguarda il branco. E onestamente, se tu fossi presente, mi sentirei male per te, e questo mi distrarrebbe” ammisi candidamente.
Annuì, forse soddisfatto dalla mia risposta, e mi promise: “Aspetterò qui con Mary B, e pregherò per te.”
“Grazie, Gordon” mormorai, sollevando poi gli occhi a scrutare il cielo, pregando che il giorno seguente non piovesse.

***

Raggiungemmo il Vigrond con passo tranquillo, impegnati a rimuginare su quanto sarebbe successo di lì a poco e, soprattutto, su come il branco avrebbe preso la notizia che io ero diventata, a tutti gli effetti, una di loro.
Prima di qualsiasi altra cosa, però, dovevamo portare a termine la faccenda legata a Sheoban e Connor. Loro dovevano essere il nostro obiettivo principe.
Poiché la maggior parte del Consiglio era composta di Anziani che avevano avuto a che fare – teoricamente – con l’insabbiamento operato da Connor, i Mánagarmr presenti sarebbero stati davvero tanti, cosa che mi angustiava non poco.
Speravo davvero non si arrivasse allo scontro perché, altrimenti, sarebbe corso più sangue di quanto avrei sopportato.
Quando infine arrivammo a costeggiare la radura del Vigrond, scorsi i due schieramenti nettamente separati tra loro.
I membri più anziani erano raggruppati nell’ombra, come se temessero lo sguardo di qualcuno in particolare, mentre i più giovani componenti della falange consigliare erano in attesa, riuniti in prossimità della quercia sacra.
A giudicare dai loro volti irritati, erano desiderosi di sapere cosa sarebbe successo alla vecchia guardia del Consiglio.
Tra essi, scorsi sopra a tutti Johnathan, che ammiccò, salutandomi.
Sorrisi, lieta che fosse in prima linea tra i consiglieri giunti al Vigrond per quell’adunata.
Scrutai uno a uno i volti degli altri membri, tra cui vidi anche una seria e rigida Marjorie, a cui però feci poco caso, dopodiché puntai il mio sguardo sugli imputati, fermi in mezzo alla radura circolare del Vigrond.
Lì, notai Sarah nelle oscure vesti di Freki, ferma accanto a Connor, un’espressione talmente glaciale sul viso che rabbrividii.
Ora era un sicario, non la dolce Sarah che conoscevo.
Accanto a Sheoban, che mi fissò con occhi velenosi, notai un uomo mastodontico, dai possenti bicipiti messi in evidenza dalla stretta maglia nera a maniche corte che indossava.
Ai lati del torace enorme, portava una doppia fondina da spalla con due pesanti pistole a portata di mano, quasi sicuramente caricate ad argento.
Agli avambracci erano legati due foderi di pelle nera dove splendevano, sinistri, un paio di coltelli da lancio dall’elsa metallica piatta e allungata.
Provai istintivamente un brivido di terrore salirmi lungo la schiena, all’idea di cosa avrebbero potuto farmi quegli affari, se mi avessero colpita.
Quel sicario dall’aria poco rassicurante non poteva che essere Geri.
Distogliendo lo sguardo da quelle armi letali, puntai gli occhi sul suo viso abbronzato e circondato da ricci capelli castano chiari, segnato da una cicatrice sottile che tagliava di netto il sopracciglio destro.
La sua espressione era non meno fredda e calcolatrice di quella di Sarah tanto che, per qualche motivo, la sua presenza mi fece ancor più impressione rispetto a quella di Freki.
Dietro di loro, controllati a vista da un numero non indifferente di alfa, si trovavano coloro che avevamo ritenuto in combutta con Sheoban e Connor.
Nel complesso, l’atmosfera era più tesa di una corda di violino ben accordata, e non me ne stupii.
Quella doveva essere una scena che non si vedeva tutti i giorni, al Vigrond. O almeno così sperai.
Duncan scrutò uno a uno i vecchi Gerarchi del branco assieme agli anziani Geri e Freki che, anni addietro, erano venuti meno al loro dovere.
Per un momento, l’astio dentro di lui parve consumarlo.
Il loro tradimento pesava sicuramente più di un insulto rivolto a lui personalmente, ma ero certa che non avrebbe mai permesso alla rabbia di cancellare dalla sua mente ciò che dovevamo fare.
Dopo aver preso un leggero respiro, come per chetarsi, si volse a fissare Geri per poi dirmi: “Lui è Branson Tyler.”
“L’avevo immaginato” rabbrividii, ghignando. “Quelle due specie di cannoni che ha addosso, sono caricate a…?”
“Ad argento, sì. E’ l’unico membro del branco a poterle usare. Essendo umano, Geri deve possedere qualche arma per poterci braccare con efficacia” ammiccò Duncan, salutando con un cenno rispettoso del capo i suoi due sicari.
Ci avvicinammo per diretta conseguenza e, dopo aver stretto la mano a Sarah, mi rivolsi finalmente a Branson. Sorridendomi per un attimo, lui fece un cortese cenno del capo e mormorò: “E’ un onore conoscerti, wicca.”
“L’onore è mio, Geri. Spero che la tua mano sia veloce, e lesto il tuo passo” replicai a mezza voce, cercando di non apparire impaurita dalle sue armi.
Ammiccò, battendo una mano su una delle pistole, e chiosò: “Li sono entrambi, wicca, non dubitare. Occhio e mano opereranno all’unisono per portare la giustizia.”
“Ne sono lieta” annuii soddisfatta, prima di guardare Sheoban e aggiungere: “Alla fine, giungiamo alla verità.”
“Non avresti dovuto impicciartene” mi sibilò contro.
Sollevai un sopracciglio con ironia e dichiarai divertita: “E lasciarti fare quel che volevi? No, grazie. Non mi faccio dire da nessuno come comportarmi, men che meno da una traditrice come te. Hai ottenuto il potere di fare quel che volevi grazie a Lionors, e desideravi fare altrettanto con me e Duncan, ma stavolta ti è andata male.”
Detto ciò, avanzai con Duncan per portarci in mezzo al cerchio di licantropi presenti, seguiti dalle occhiate curiose di tutti – e dallo sguardo astioso di Marjorie che, presumibilmente, aveva già compreso cosa fosse successo tra di noi.
Una volta raggiunto il centro esatto della radura, esclamai a gran voce: “Miei compagni e amici, come già Fenrir ha provveduto a comunicarvi in questi giorni, le prove della colpevolezza dei membri Anziani del Consiglio, schierati di fronte a voi, sono state portate qui per essere sottoposte alla vostra attenzione e al vostro giudizio!”
Jerome estrasse da una carpetta le foto incriminanti – che aveva tenuto saldamente in mano fino a quel momento – oltre ai documenti sulle wiccan che avevamo prelevato dai computer dei Cacciatori di Glasgow.
Serio e dignitoso, degno dello Skoll quale lui era, procedette a mostrare a tutti i licantropi ciò che avevamo scoperto.
Per diretta conseguenza, un brusio violento si levò tra i presenti.
Zittendoli con un gesto, aggiunsi: “Ho avuto modo di parlare con Abraham, figlio di Connor e Lionors, la nostra precedente wicca, , e ho scoperto cosa successe nell’infausto giorno della sua dipartita."
Attesi di avere la loro completa attenzione, prima di riprendere a parlare. "La paura per il sangue che scorreva nelle sue vene lo spinse all’omicidio, e questo scatenò nella sua mente il seme della follia. Dimenticò volontariamente il nome di suo padre, di cui non aveva saputo nulla fino all’età di sedici anni, e in lui rimase solo l’atavica paura nei confronti di quell’uomo, la cui colpa era di essere un mostro, ai suoi occhi. Oltre a ciò, portò con sé, nella mente e nel cuore, l’odio imperituro per la figura della madre, che lo aveva messo al mondo solo per il bene del branco, e non per amore.”
Nel dirlo, lanciai un’occhiata inferocita a Sheoban che, per contro, non calò minimamente lo sguardo, sostenendo la mia accusa con una faccia tosta che mi fece infuriare ancora di più.
Mi volsi verso di lei, domandandole formalmente: “Hai nulla da dire a tua discolpa, Lupa Madre?”
Pur non volendo, quel titolo onorifico le spettava ancora. Almeno, fino al verdetto definitivo del branco.
“Non ho nulla da dire a una ragazzina senza nervo come te, anche se nelle sue vene scorre sangue ancestrale” mi rimbeccò aspra. “Se fossi veramente degna del titolo che è in te fin dal momento della tua nascita, allora capiresti che ciò che feci fu giusto!”
Aggrottai la fronte ma non dissi nulla, ben decisa a non mostrare alcun segno di cedimento di fronte a lei, ma Duncan non fu di quell’avviso.
Mi oltrepassò fino a giungere di fronte a Sheoban e, con una rabbia che non gli avevo mai visto negli occhi, sibilò pericolosamente: “Tu risponderai alla nostra wicca… ORA!”
Quell’imposizione, urlata a denti stretti, oltre all'uso della Voce, fece paralizzare tutti, me compresa, che ora potevo comprendere fino in fondo il potere contenuto nel suo timbro vocale.
Rabbrividendo leggermente, gli sorrisi per un attimo quando lo vidi tornare da me, e mormorai: “Grazie, ma non era necessario.”
“E’ una legge del branco, wicca. Chi ti manca di rispetto, deve essere messo in buon ordine. Subito” mi spiegò, serio in viso.
Era ben lungi dall’essersi calmato, lo potevo notare dai pugni stretti lungo i fianchi e dagli occhi che, con mio timore malcelato, stavano colorandosi d’ambra.
Annuendo, proseguii dicendo: “Ti ripeto la domanda, Lupa Madre. Hai nulla da dire in merito?”
La vidi digrignare i denti, lottare con tutta se stessa per non abbassarsi ad accettare l’imposizione di Duncan, ma dovette cedere, non meno degli altri licantropi, al potere di Fenrir.
Forse era la prima volta in vita sua che doveva soccombere a un trattamento simile, lei, l’orgogliosa Lupa Madre di Matlock.
La fissai senza provare pietà – e sentendomi male per questo – mentre lei si mordeva un labbro a sangue per non parlare.
La gola vibrava, desiderosa di gettare fuori le parole che lei non avrebbe mai voluto dire, soprattutto non di fronte a tutte quelle persone, riunite per vederla crollare sotto il peso del suo stesso impero.
Parlò con il fiele nella voce, fissandomi come se avesse voluto tagliarmi la testa con lo sguardo – e cercò di farlo, in effetti.
Innalzando una barriera sufficiente per respingere il suo attacco mentale, ascoltai con attenzione ciò che la sua mente, contaminata dal potere oscuro, l’aveva spinta a desiderare.
“Tu non puoi capire, stupida ragazzina, cosa voglia dire venire dal niente e vedere la guerra approssimarsi alla tua casa, a quel poco di tuo che hai ottenuto con il sudore della fronte” mi sputò addosso, gli occhi grigi ridotti a due esuli fessure di fuoco. “Dovevo farlo! Il potere di Lionors ci avrebbe protetti tutti!”
“Non metto in dubbio questo, Lupa Madre, ma ciò che avvenne dopo” replicai gelida.
Levò il mento, fiera e superba come poche altre persone avevo conosciuto nella mia breve vita e, sfidandomi con lo sguardo, ringhiò: “Fenrir serve il branco più degli altri; era dovere  di Connor fare quanto dovuto per la sua protezione.”
“Ed era dovere tuo sfruttare i poteri di Lionors, una volta ottenuto da lei ciò che volevi, e cioè il figlio che l’avrebbe legata a vita al clan, o meglio, a te?!” le ritorsi contro, accigliandomi.
Non abbassò lo sguardo, né fece nulla per negarlo, e molti bisbigli inorriditi si levarono tra gli alfa presenti.
Avrei tanto voluto unirmi al loro disgusto, ma avevo quel processo da portare avanti. Mi sarei concessa in seguito di provare raccapriccio per ciò che stavo leggendo nel suo sguardo.
Fissando un momento Duncan, gli chiesi: “Puoi obbligarla a dire la verità, qualsiasi sia la domanda da me posta?”
“Sì, wicca” annuì, fissando Sheoban con una sorta di sadica soddisfazione.
Sheoban se ne accorse, perché disse sprezzante: “Fai il prepotente fin da quando lei è giunta qui e, a giudicare dall’odore ha su di sé, non ha impiegato molto per irretirti. Eri e rimani un debole, Duncan, esattamente come tuo padre!”
Cercai di non scagliarmi contro di lei come invece avrei voluto – la luna piena era passata, ma ero ancora troppo vicina al plenilunio per non sentire la bestia digrignare i denti e raspare con gli artigli, decisa a cercare giusta soddisfazione.
Serafica, mi limitai a dire: “Quel che riguarda me e Fenrir lo discuteremo più tardi.”
“Quanto a definirmi prepotente, penso di aver semplicemente aperto gli occhi su una cosa che andava avanti da fin troppo tempo, e ringrazio la Madre Terra per aver condotto sulla mia strada Brianna, perché ho finalmente compreso quanto stavi facendo a tutti noi” proseguì al posto mio Duncan, ammiccando nella mia direzione.
“Lo vedi? Sei sottomesso a lei!” ringhiò Sheoban, rivolgendosi poi ai presenti per esclamare con enfasi: “Non vedete come questa ragazzina sta plagiando il nostro Fenrir? Non dovreste permetterle di agire in questo modo! Uccidetela, e liberateci da questo spirito maligno!”
Oh, non faticavo a comprendere i motivi di un potere così duraturo, vista la veemenza e il sentimento contenuti nelle parole di Sheoban.
Se non avessi conosciuto perfettamente la verità, avrei dubitato anch’io di me stessa, temendo di aver spinto Duncan a fare cose in cui non credeva realmente.
Scorsi diversi sguardi puntati su di me, prima di vederli passare a Duncan, dubbiosi e indecisi.
Sospirando leggermente, distolsi lo sguardo da Sheoban per replicare infastidita: “Vi basta davvero così poco, per perdere fiducia nel vostro Fenrir? Bastano quattro parole dette di una donna dichiaratamente colpevole, per mettere in dubbio il potere e la forza della vostra guida?”
Nessuno parlò, ma molti si guardarono in viso, confusi, e Sheoban ne approfittò per continuare scaltramente nel suo piano.
“Deve addirittura farsi difendere da lei. Non vi rendete conto che non è in grado di governarvi?”
Duncan, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad ascoltare i suoi insulti, le si rivoltò contro. Ringhiò feroce, mettendo in mostra una fila di denti che stavano pericolosamente diventando zanne acuminate.
Con occhi saettanti d'odio, sibilò: “Di’ la verità su ciò che mi imponesti, una volta assurto al ruolo di Fenrir, donna, e mostra un po’ di rispetto verso il tuo capo, una volta tanto!”
Tutti rabbrividimmo, nel sentire il tono della sua voce.
Mi passai le mani sulle braccia, per scacciare il senso di gelo e di privazione sensoriale che ne seguì, e fissai sgomenta il volto di Sheoban, divenuto una maschera di autentico terrore.
Ora vedeva Duncan per quello che era, e ne era terrorizzata a morte. Fenrir si era finalmente mostrato, azzittendola.
Sheoban aveva infine perso il suo potere su di lui.
Il capobranco che tanto aveva tenuto a bada negli anni, ora le si rivoltava giustamente contro, chiedendo, bramando la sua giusta libertà, e lei ne era spaventata. Annientata.
“Prego, wicca. Prosegui pure” mi disse a quel punto Duncan, tornando cheto in pochi attimi, gli occhi ambrati gli unici testimoni della rabbia che, solo a stento, stava controllando.
Lo fissai leggermente stordita, ma assentii e, con voce non proprio sicura, dissi: “Rispondi a Fenrir, Lupa Madre.”
Ma Sheoban non mi stava ascoltando.
Il suo sguardo era ancora fisso su Duncan, che la squadrava con aperta ribellione, non più il suo fido cagnolino, ma un uomo adulto, libero di pensare con la propria testa. Un vero leader.
Le sue labbra tremarono, prima di lasciar sgorgare una verità che in pochissimi sapevano.
“Ti obbligai a prendere sulle spalle il peso delle colpe dei tuoi genitori, costringendoti a essere succube del potere del Consiglio, del mio potere sul Consiglio. Non ti ritenevo pronto, e perciò facilmente manipolabile. E lo sei stato, per lungo tempo. Ma poi…” voltandosi verso di me, i suoi occhi si fecero di ghiaccio e sale, “…poi hai condotto questa ragazzina qui da noi, e tu sei cambiato. Davi retta a lei, e non a me, così cercai di riprendere le redini del potere attraverso quella sciocca che, così ciecamente, si era innamorata di te.”
La fissai, odiandola con ogni fibra del mio corpo e lei, ridendo istericamente, esclamò: “Pensavi non me ne fossi accorta? I tuoi occhi erano così limpidi e sinceri! Non potevi nasconderlo a una come me! Sono troppo forte, per te! Sarebbe stato fin troppo facile far cedere Duncan al mio volere e metterti tra le sue braccia, portandomi così nuova linfa a cui attingere.”
Ci fissò con odio smisurato, misto a un desiderio feroce di riottenere la libertà, che ormai vedeva svanire inesorabilmente dinanzi ai suoi occhi.
Le sue iridi bruciarono fameliche quando, ghignando malignamente, mi fissò il ventre e ringhiò feroce: “Già adesso potresti portare in grembo il suo seme, ingenua e ignara del mondo come sei. Ma io saprò guidarti, se mi lascerai andare, e tutto si sistemerà.”
Lo disse con una convinzione tale che mi sconcertò. Non si rendeva conto di essere al capolinea?
Fissai Connor, che la stava guardando con un dolore negli occhi pari a quello di coloro che, per tanti anni, l’avevano sostenuta.
Provando un briciolo di pietà per loro, mormorai: “Non hai davvero rispetto per te stessa, Lupa Madre? Ti rendi ridicola, con questa affermazione. Pensi sul serio che io cederei me stessa a te, dopo quello che ho saputo?”
“L’ho fatto solo per il bene del branco. Io sola posso guidarlo. Come l’ho sempre guidato!” inveì contro di me Sheoban.
Connor sospirò, scuotendo il capo, e dichiarò affranto: “Sapevo che avresti voluto prendere il mio posto ogni giorno che abbiamo passato insieme, ma solo ora mi rendo conto che, attraverso me e il mio amarti troppo e troppo profondamente, hai ottenuto comunque ciò che volevi.”
Sheoban lo fulminò con lo sguardo, sibilando furiosa: “Sei sempre stato debole. Non meritavi il manto niveo!”
Nel vederla muoversi per avvicinarsi a Connor, Geri bloccò immediatamente Sheoban, mettendo mano a una delle pistole nelle fondine ascellari.
Con gelidi occhi da killer, ringhiò: “Non un passo di più, Lupa Madre, o giuro che la userò.”
Marjorie, facente parte dei membri più giovani del Consiglio, avanzò di un passo e asserì: “Non hai reso onore al branco, agendo come hai fatto. E meno ancora lo fai ora, mostrandoti per quello che sei realmente.”
Potevo gioire delle sue parole? Per il momento, mi dissi di sì.
La ringraziai con un cenno leggero del capo, cui lei rispose con un ringhio basso e di gola – no, non saremmo mai state amiche – dopodiché, fissando gli altri membri Anziani del Consiglio, che noi ritenevamo colpevoli, chiesi senza mezzi termini: “Sapevate del complotto ordito da Connor e Sheoban per nascondere la scomparsa di Abraham?”
Duncan ripetè la domanda usando la Voce del Comando e, con un brivido, gli imputati reclinarono colpevoli il capo, come liberati da un peso gravoso che, per troppi anni, avevano dovuto portare.
Non sarebbe stata necessaria la Voce, poiché avrei avvertito comunque le loro menzogne, ma era giusto che Fenrir fosse spietato, in quel momento.
Il branco doveva sentire, percepire sulla pelle, la forza di Duncan, o non avremmo mai vinto le loro reticenze.
Il vecchio Hati, passandosi una mano tremante sulla nuca, annuì mormorando: “Fui il primo a essere avvisato della morte di Lionors. Mi occupai in prima persona della sua sepoltura qui al Vigrond.”
Lance sbuffò, infastidito di fronte alla confessione del suo antico mentore mentre Jerome, fissando il proprio, lo vide reclinare a sua volta il viso, dichiarandosi colpevole di aver conosciuto tutto nei minimi dettagli, e di aver taciuto su espresso ordine di Connor.
“Usasti la Voce per bloccare i loro pensieri e obbligarli a eseguire i tuoi ordini?” chiese a quel punto Duncan, irritato e, sì, disgustato dal modo di agire della sua antica guida.
Era un gesto di per sé orrendo. Era come ingabbiare qualcuno a vita. Come tarpare le ali a un uccello. Un abominio.
Connor annuì, mentre Sheoban si esibiva in un’espressione così colorita da stupirmi oltremodo – neppure ero certa che sapesse cosa stava dicendo.
Duncan non la degnò minimamente di attenzione, e proseguì nella sua arringa domandando: “Salvasti Abraham perché era il tuo unico figlio?”
“Sì” gracchiò in un sussurro, prima di alzare lo sguardo e guardarmi spiacente. “Mi rendo conto solo ora del rischio che abbiamo corso, che tu e la tua famiglia avete corso, lasciandolo vivere.”
Aggrottai la fronte, cercando di contenere la rabbia che mi graffiava le pareti del cervello. “Avete rischiato di mettere in mano ai Cacciatori un’arma ben più che pericolosa. Se persone come me, in possesso del dono ma ignare di esso, fossero finite nelle mani dei nostri nemici, avete idea di quel avrebbe potuto succedere? Avete condannato alla fuga i miei genitori, messo a rischio la famiglia di Kate Alexander e quella di tutte le potenziali altre wiccan d’Inghilterra pur sapendo che, tenendo in vita Abraham, stavate commettendo un grave reato. Spero vi rendiate conto di dove, la vostra ricerca ossessiva del potere, ci ha portati.”
Sentii chiaramente le parole morte e vendetta, tra il brulicare di voci alle mie spalle e, ancora una volta, dovetti tenere a freno la bestia dentro di me perché non uscisse allo scoperto, obbedendo alla fiera rabbia del clan.
Presi un profondo respiro, passandomi una mano sul viso madido di sudore e Duncan, accigliato, chiese in un sussurro: “Riesci a contenerla?”
“Sì” dissi soltanto, a stento.
Alzai gli occhi per incrociare quelli di Sheoban solo quando fui sicura di non smascherarmi – preferivo tenere quella chicca il più possibile nascosta, almeno finché Duncan non mi avesse presentata come sua Prima Lupa.
Dura come il granito, a quel punto, dichiarai: “Sappiamo già del coinvolgimento di Geri e Freki, poiché su di loro avrebbe dovuto calare il peso del compito che Connor non affidò mai ai sicari del clan. Vuoi nominare qualcun altro che era in combutta con voi, o possiamo procedere?”
Non parlò, fissandomi come se non esistessi realmente, come se fossi un essere insignificante.
Lasciai perdere, poiché mi avrebbe solo indebolito, quando non ne avevo affatto bisogno. Ma Duncan la pensò diversamente.
Avanzò verso Sheoban, che rabbrividì e indietreggiò di un passo, andando a cozzare contro il torace muscoloso di Geri.
Scuotendo il capo, spaventata, esalò: “Non c’è nessun altro… wicca… nessuno.”
Ammissione totale. Anche del mio titolo.
Avevamo terminato.
Sospirai stancamente nello scrutare Duncan che, in qualità di Fenrir, avrebbe dovuto emettere la sentenza.
Sapevo già che sarebbe stata la morte per i traditori, ma sentirla scaturire dalle sue labbra, che solo poche ore prima avevano elargito parole d’amore, sarebbe stato uno shock per me.
Ritto e fiero in mezzo al Vigrond, imponente e maestoso come forse non era mai stato – e anche gli altri lo notarono, piegando rispettosi il capo e fissandolo di straforo con timore sempre crescente – declamò con voce possente: “Sia la morte, per coloro che hanno tradito il clan! Nessuna pietà per alcuno di loro, che su di noi e sugli altri branchi hanno portato pericolo e sofferenza! Un segreto, che non avrebbe dovuto essere svelato, è giunto alle orecchie dei nostri più acerrimi nemici perché la legge non è stata rispettata, perciò non mi mostrerò magnanimo nei confronti di chi ha violato il codice!”
Volgendosi verso i diretti interessati, la sua voce si fece roca, pervasa da un odio e un amore così profondi che percepii il mio cuore andare in pezzi per lui.
Quando lo udii parlare, ebbi chiara nella mia mente la portata del suo dolore. “Ritenevo voi mio padre e mia madre. Per amore, vi ho seguiti e ascoltati in questi anni, spesso non condividendo le vostre scelte, ma sempre rispettandovi come miei genitori putativi. E questo è stato il ringraziamento. Sapere dalle vostre labbra che, non meno di coloro che mi generarono, io non ero servito che a un solo scopo, non può che farmi provare un odio sconfinato nei vostri confronti. Volevate solo detenere il potere attraverso le mie mani, ma ora non vi sarà più concesso!”
Mi avvicinai per afferrargli una mano e lui, stringendomela con forza, proseguì con tono ancor più duro, ringhiando: “I miei genitori vennero divorati dal branco, perché i loro spiriti non potessero rinascere, ma io esigo ben di peggio, per voi, che due volte avete tradito.”
Lo fissai attonita, perché conoscevo solo una cosa ben più tremenda dello scomparire definitivamente da qualsiasi dimensione conosciuta.
Sheoban sbiancò in viso, crollando in ginocchio mentre Connor, ormai sconfitto, chiuse gli occhi per non dover sopportare oltre lo sguardo incollerito di Duncan.
Gelido come un mattino invernale, Duncan decretò: “Siano le vostre anime incatenate in eterno sulla Terra, vagabonde erranti senza una meta e senza la possibilità di reincarnarsi, mute testimoni di cosa hanno perso a causa della stupidità, e della sete di potere, di coloro in cui si sono incarnate.”
I brusii si fecero sussurri e gli occhi si sgranarono sgomenti, di fronte a una punizione che pochissime volte, nei clan, era stata comminata.
“Quanto al vostro corpo mortale, io vi condanno a vivere, a scorgere giorno dopo giorno ciò che le vostre azioni hanno prodotto, a riconoscere quanto avete perso e quanto mai otterrete. Le vostre anime irose sapranno tenervi giusta compagnia, facendovi vivere nell'incubo e nella tenebra fino all'ultimo respiro.”
A sorpresa, Connor sollevò fieramente il capo, sorridendogli – gli occhi stranamente pacificati – e sentenziò: “Sei Fenrir. E’ giusto.”
Non per Sheoban.
Lei fece per muoversi e scagliarsi contro Duncan in un estremo tentativo – o piuttosto, folle  tentativo – di difendersi da quella punizione definitiva.
Geri, però, estrasse una delle sue letali Smith&Wesson e la puntò sulla tempia della donna, sibilando: “Dammi un motivo anche minimo per fare fuoco, coraggio. Non vedo l’ora, traditrice.”
La Lupa Madre era sparita, soffocata dall’onta del tradimento e di una scomoda verità che era venuta a galla.
Non potevo, però, esserne felice poiché, in fin dei conti, quella condanna avrebbe ridotto lei a una larva, e la sua anima a niente più di uno spirito errante, di lì a pochi anni.
Stanca, mormorai: “Dimmi, Sheoban, è valso il sacrificio?”
“Non capirai mai quanto” mi sputò contro. “Spero che il suo seme non attecchisca mai in te!”
Sobbalzai, impietrita di fronte a quell’orrenda maledizione e Duncan, avvolgendomi le spalle con un braccio, mi scostò da lei, protettivo.
“Non darle retta. Non è in grado di lanciare malie. E’ solo alla disperata ricerca di un modo per renderti infelice.”
Annuii, pur non piacendomi lo sguardo di Sheoban, e ordinai: “Geri, conducila lontano dal mio sguardo. Il suo odio mi ferisce.”
“Con estremo piacere, wicca” annuì Branson, sogghignando e ammiccandomi complice, prima di strattonare per un braccio una Sheoban ormai ridotta al silenzio.
Sospirai, guardando Duncan che, rivolto al branco in attesa, ammise: “Il clan è stato riunito anche per un altro motivo.”
Marjorie si fece tesa, già presagendo quel che sarebbe seguito entro breve e Duncan, senza timore alcuno, proseguì dicendo: “Questa sera ho condotto qui al vostro cospetto colei che ho scelto come mia Prima Lupa.”
Mi guardò, l’amore che provava per me ben evidente nel suo sguardo.
Sorridendogli sicura, strinsi maggiormente la sua mano, mentre Duncan terminava il suo dire con voce tonante: “Brianna Ann Smithson sarà la nuova Prima Lupa del clan!”
Il ringhio furioso di Marjorie non avrebbe potuto essere più gelido e furibondo.









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N.d.A.:E dopo un bel processo alla "Forum", preparatevi con pop corn e bibite, perchè nel prossimo capitolo ci sarà da divertirsi nel vedere due donne accapigliarsi per un uomo. :)
Naturalmente, un grazie a tutti/e coloro che hanno letto e/o recensito!

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Capitolo 31
*** XXXI. ***


XXXI.








 

Non avevo avuto dubbi, fin dall’inizio. Lei sarebbe stata la mia nemesi, finché una di noi due non avesse ceduto.
Mi fissò con una rabbia pari, se non superiore, a quella che avevo letto negli occhi di Sheoban, quando si era resa conto di essere stata sconfitta.
Sospirai, già sapendo che non si sarebbe tirata indietro, e mi feci avanti per chiedere: “Qualcuno ha motivo di non volermi al fianco di Duncan?”
Parlottii, brusii più o meno concitati, occhiate di straforo, dubbi, proteste dette a mezza bocca, assensi, aperto consenso.
C’era tutto questo, e molto altro, nelle menti e sulle bocche dei presenti al Vigrond.
Marjorie, però, fu l’unica a esprimersi direttamente, protestando: “Non sei un licantropo. Per quanto tu possa essere forte come wicca, e su questo non metto voce, non potrai mai capirci realmente, neppure in una vita passata al nostro fianco.”
Scambiai uno sguardo d’intesa con Duncan, prima di replicare: “E’ il tuo unico problema? Il fatto che io non sia una di voi?”
“Non è l’unico. Rivendico il diritto di detenere quel ruolo, perché sono il Mánagarmr femmina di più alto grado nel branco, perciò spetterebbe a me il titolo di Prima Lupa” aggiunse Marjorie, tenendo lo sguardo fisso su di me.
Sarah mi scrutò per un momento, rivolgendosi poi alla mia nemesi con tono stentoreo: “Proponi una sfida, dunque, Marjorie?”
Marjorie rise, di fronte a quella richiesta. “E come potrei accettare io stessa, visto che Brianna non potrebbe usare i suoi poteri di wicca per difendersi? Conosco le regole, Freki, e vincere così mi disgusterebbe. Oltretutto, mi inimicherei Fenrir che, a quanto pare, è piuttosto preso dalla ragazza. No, non propongo una sfida, ma un ritiro della proposta.”
Scossi il capo, ben decisa a non cedere.
Duncan, allora, intervenne con decisione. “Non ritiro nulla. Apprezzo il fatto che tu non voglia batterti contro Brianna per i motivi appena accennati. Rendi onore a te stessa e alla tua famiglia, Marjorie, ma Brianna non avrà problemi ad accettare la tua sfida, poiché è licantropo non meno di te.”
Quel commento fece fiorire un vociare prepotente tra i presenti e io, sorridendo complice a Jerome - che mi strizzò l’occhio - spiegai loro i motivi di quella novità.
“E’ successo pochi giorni fa, quando Jerome giunse a Glasgow per riportarmi in seno al branco. Ci fu una colluttazione, in cui sia io che Jerome fummo feriti dalla stessa lama. Il suo sangue venne in contatto con il mio, mutandomi.”
“E’ troppo giovane per sostenere una sfida, Fenrir!” protestò vibratamente uno dei giovani membri  del Consiglio. “Non è Mánagarmr!”
“Secondo le vostre regole, mi è possibile combattere da almeno un anno a questa parte” replicai serena. “So che Duncan non permette a nessun lupo di sfidare alcun membro del branco, fino alla maggiore età, ma io ho già superato quello scoglio.”
“Non hai ancora sostenuto nessuno scontro, perciò il tuo primo combattimento non può essere per un ruolo così importante all’interno del branco” replicò un altro licantropo, fissandomi a metà tra il preoccupato e l’ansioso.
Gli sorrisi grata, comprendendo quanto quelle parole fossero dettate dall’unico desiderio di difendermi in modo legittimo, ma io replicai: “Ho già sostenuto un combattimento, ma grazie per l'interessamento.”
A quel punto, la sorpresa fu tale che il vocio si spense, e tutti si chiesero confusi contro chi avessi potuto lottare in quel breve lasso di tempo.
Ma, soprattutto, chi si fosse prestato per darmi l’opportunità di accedere a quella disfida.
“Sì è battuta con mia figlia” spiegò Sarah, orgogliosa. “E’ Mánagarmr a sua volta da poche settimane. Hanno lottato al primo sangue proprio ieri notte, e io ne sono testimone, così come Fenrir. Ciò che intende fare la nostra wicca è perciò del tutto regolare.”
L’uomo che era intervenuto in mio soccorso – Anthony, rammentai – annuì rabbonito, e asserì: “Allora auguro a te, wicca, un equo combattimento.”
“Te ne sono grata” ribattei con un sorriso. “Oltre a Marjorie, c’è qualcun altro che vuole mettere in discussione la proposta di Duncan?”
Nessuno parlò e Marjorie, storcendo il naso, commentò sprezzante: “I tuoi poteri li intimoriscono, a quanto pare.”
Scrollai le spalle, serafica. “Ma non intimoriscono te.”
Marjorie si limitò a sorridere, chiosando: “Perché ti ho capita meglio degli altri, e so che non abuseresti mai del tuo dono.”
Annuii con un gesto ossequioso del capo, rendendole merito, e dissi: “Accetto la tua sfida, dunque, e stanne pur certa che, se vincerò io, non avrai di che temere da me.”
Se, hai detto bene” sogghignò Marjorie, assottigliando gli occhi per fissarmi con astio.
Duncan si avvicinò a me, afferrandomi alle braccia e, piegatosi sul mio orecchio, sussurrò: “Ricorda, nessuno sfoggio dei poteri. Solo tu e lei, come semplici licantropi. Vince la prima che dice basta. O la prima a morire.”
Quelle ultime parole mi fecero rabbrividire, ma annuii.
Lui allora mi baciò dietro l’orecchio, fuggevolmente, e aggiunse: “Sai che il mio amore è con te, vero?”
“Lo so” assentii, allontanandomi da lui per portarmi lontano dai licantropi, sul limitare del Vigrond, dove ci saremmo scontrate di lì a qualche minuto.
Marjorie lanciò uno sguardo colmo di desiderio a Duncan che, lentamente, si stava allontanando da me per portarsi accanto agli altri membri del branco.
Mi fissò subito dopo con aria rabbiosa, e dichiarò: “Sai di avere preso per te qualcosa che era mio, vero?”
“Non ho preso nulla. Mi è stato donato tutto” precisai, allungando una mano verso di lei. “Niente mosse proibite, okay?”
Marjorie allontanò la mia mano con la propria, sospingendola via di malagrazia per poi replicare piccata: “Solo gli umani lotterebbero disonorevolmente.”
“Beh, è una fortuna, allora, che nessuna delle due lo sia” la rimbeccai, allontanandomi di un passo per spogliarmi.
Marjorie sogghignò, facendo lo stesso e dimostrando molta più disinvoltura di me, nel farlo.
Beh, dopotutto, lei era davvero ben più abituata di me!
Mi confortò, in ogni modo, notare come nessuno dei licantropi ci stesse guardando con interesse sessuale. Tutti erano unicamente concentrati su quanto stava per accadere.
Mi piegai su un ginocchio, scrutando Marjorie mentre eseguiva con grazia gli stessi movimenti e, sorridendole sardonica, celiai: “Ti ho preparato una sorpresina che, forse, apprezzerai.”
“Non vedo l’ora di vederla” ribatté, ghignante.
Sorrisi con maggiore enfasi e, trionfante, esclamai: “Ammira chi sono diventata!”
Lo so. Fu vanagloria allo stato puro, ma dovevo pure distrarla in qualche modo, almeno per i primi dieci secondi!
Il pelo chiaro del mio manto cominciò a fluire attraverso i pori della pelle, ricoprendo il mio corpo mutevole mentre un caldo liquido ambrato si liberò dalle carni, favorendo il cambiamento da donna a lupa.
Sentii le mie ossa spezzarsi per poi assumere nuova forma, i miei muscoli tendersi e delinearsi attorno allo scheletro quasi pronto, mentre il mio muso assumeva una forma allungata.
Gli occhi, puntati sulla mia nemica, acquisirono una prospettiva più schiacciata, ma infinitamente più dettagliata.
Un licantropo in fase umana, ci vedeva bene. In fase animale, di più.
Mi scrollai, avvertendo il dimenarsi della folta coda scura e lunga, mentre mormorii di sorpresa e di sgomento si levavano tra i presenti.
Marjorie mi fissò con una rabbia che, ben poche volte, avevo scorto nello sguardo di qualcuno.
Ero più grande di tutti gli altri lupi, imponente esattamente come Duncan. Nessuno di noi sapeva il perché, ma tant’era.
Forse, il mio potere superiore mi permetteva di correre alla pari con i Gerarchi, ma non potevo esserne certa. Questo particolare, però, non fu cosa gradita per lei.
Per niente.
Mi attaccò non appena i suoi artigli affondarono nel terreno, a mutamento ultimato.
Piegandomi un poco sulle zampe posteriori per assorbire l’aggressione, avvertii dentro di me una scarica tremenda di energia, non appena i nostri corpi cozzarono l’uno contro l’altro, al pari delle prue di due navi.
Vi fu un rimbombo nel Vigrond, e subito Marjorie si rimise in piedi e mi affrontò, snudando le zanne e puntando al mio collo, desiderosa di mettere la parola fine a quel combattimento appena iniziato.
La schivai di un nulla, niente più di una bava di tela di ragno e, con una zampa, cercai di toglierle appoggio sull’anteriore. Invano.
Balzò indietro, ringhiando e raspando a terra mentre io, scrutando lesta attorno a me, cercai di comprendere gli stati d’animo delle persone che mi circondavano.
Sentivo i loro pensieri, vorticosi dubbi misti a cori speranzosi, e percepivo le loro auree, in un misto di poteri che mi diedero l’ebbrezza, per un momento.
Erano dentro di me, come fuori, fasci palpitanti di energia che sfrigolavano attorno al campo di battaglia, come a formare una rete di protezione, tale da inglobare la forza mia e di Marjorie, così da impedire che essa debordasse oltre i confini del Vigrond.
Quando ci scontrammo nuovamente, in aria, capii che era proprio così.
Non come l’innocuo scontro tra me ed Erika, servito solo a dare il via al mio stato di Mánagarmr a tutti gli effetti, ma una vera, sanguinosa battaglia in cui le nostre auree si scontravano ogni volta che i nostri corpi erano troppo vicini.
Da lì, i rombi che avevo udito – prodotti dallo scontro delle due auree – e che i membri del branco tenevano a bada con i loro poteri.
Se il riverbero delle nostre auree fosse rimbalzato fuori dal Vigrond, con tutta probabilità avremmo abbattuto mezza foresta.
Uggiolai, quando gli artigli di Marjorie affondarono nella carne della spalla destra, ferendomi.
Preoccupata, notai lo sguardo affranto di Duncan, le sue mani strette a pugno e i suoi muscoli tesi allo spasimo.
Non volevo che soffrisse per me, ma Marjorie era dannatamente brava a combattere, e non era facile tenere a bada i suoi affondi.
“Pensi troppo a lui, e poco a me, Brianna! Guardami e combatti, invece di limitarti a difenderti, oppure ti ucciderò al prossimo assalto!” gridò nella mia testa, Marjorie.
Aveva ragione. Mi stavo limitando a difendermi, con il terrore che qualsiasi mia mossa potesse mettere in ansia Duncan, ma stavo sbagliando.
Lui era forte abbastanza per sopportare tutto questo, o non si sarebbe mai preso la libertà di chiedermi di partecipare a quest’ordalia.
Si fidava di me e della mia forza, perciò io dovevo fidarmi della sua, e lasciare che mi vedesse combattere davvero e, eventualmente, mi vedesse a terra ferita. O morta.
Ringhiai, rialzandomi dopo l’ennesimo capitombolo che mi fece fare Marjorie e, slanciandomi verso di lei a zanne snudate, le afferrai malamente una zampa posteriore, prima di sentirmela scivolare da sotto i denti aguzzi.
Non uggiolò, ma notai il suo sguardo adirato fisso su di me; le avevo procurato una ferita. Non esaltante, ma pur sempre una ferita.
Lance annuì lieto e Jerome si esibì in un grido di giubilo ben poco sportivo mentre Duncan, sorridendo orgoglioso, mi disse: “Pensa solo a combattere, e non a me. Posso sopportare di vederti lottare, perché so che lo hai deciso di tua spontanea volontà. Perciò stupiscimi, Figlia della Luna.”
Annuii col muso e mi lanciai a testa bassa contro Marjorie che, colta di sorpresa da quella mia tecnica del tutto inusitata, per un lupo, venne colpita in pieno petto dalla mia testata, finendo rovinosamente a terra.
Sfuggì un risolino a parecchi di loro, a causa della mia carica non proprio ortodossa - e più adatta ad una partita di rugby.
La mia mossa sgraziata, però, mi permise di azzannarla a una zampa anteriore e, con tutta la forza che riuscii a trovare, affondai i denti nella sua carne, facendo sgorgare il suo sangue.
Questo mi inondò la cavità orale, dilaniando il mio autocontrollo e spingendomi ad aumentare la pressione sulla sua zampa che, in uno scricchiolio di ossa e muscolo e pelo, cedette, spezzandosi.
A quel punto, Marjorie ululò per il dolore, cercando di mordermi a sua volta, pur trovandosi distesa a terra, e perciò in netto svantaggio rispetto a me, che la sovrastavo.
La luna si incuneò tra le rade nubi alte in cielo, lasciando scivolare la sua luce tra le fronde spesse della foresta.
Quel chiarore d'argento illuminò il sangue scarlatto di Marjorie, che stava scivolando dalla ferita aperta che le avevo procurato.
Mollai a stento la presa, faticando a dominare la parte più animalesca della mia mente che, a gran voce, chiedeva il suo sangue sparso sul terreno del Vigrond.
Indietreggiando di un paio di passi, esclamai al suo indirizzo: “Stavolta ti è andata bene, ma non so cosa potrà succedere, se continuiamo. Arrenditi!”
“Tu sei folle!” mi gridò contro, lasciando che ogni particella di umanità scomparisse dai suoi occhi.
Senza più alcun controllo, si alzò a stento da terra e, reggendosi a fatica sulle tre zampe buone, mentre la quarta sanguinava copiosamente, balzò contro di me per azzannarmi alla gola.
La colpii come un ariete, usando tutta la mia forza fisica per mandarla a terra.
Aprii poi la bocca, facendo scintillare i denti affilati e infine strinsi le mie zanne attorno al suo collo, affondando finché non sentii la carne sotto di me.
Lì mi fermai, ansimante per lo sforzo di mantenere bloccati i miei istinti primari – la caccia, il sangue, la carne calda nella bocca – e urlai con foga: “Arrenditi! Pensa a Sean!”
Gli occhi di Marjorie si dilatarono, sconvolti, e la sua testa ricadde sul terreno, il corpo divenuto flaccido e inerme. Ritirando le fauci per allontanarmi da lei, le chiesi: “Ti arrendi?”
“Ti prenderai cura di lui, se dovesse succedermi qualcosa?”
“Sì, è ovvio, ma…” cominciai col dire, confusa dalla sua richiesta, prima di vederla riprendere vigore in un battito di ciglia e aggredirmi proditoriamente.
Mi atterrò, sollevando un coro di ‘ah’ tra la folla di licantropi presenti mentre io, divincolandomi sotto la sua stretta ferale, cercavo di liberarmi dai suoi denti, piantati nella carne del mio collo.
“Non devi mai abbassare la guardia! Mai!” mi gridò nella mente, affondando ancora di più i denti.
Sentii un dolore immane riverberare nel mio corpo, attraverso la miriade di terminazioni nervose che si estendevano in ogni parte del mio essere e, con tutta la forza che fui in grado di trovare dentro di me, gridai: “Duncan!”
Lui rabbrividì, percependo il mio grido, i suoi occhi a incrociare i miei, terrorizzati.
Quando li incontrai, lessi in loro tutta la fiducia che ancora serbava in me, e ne fui lieta.
Non era triste, o addolorato. Ma fiero. Non lo stavo facendo soffrire. Era orgoglioso di me.
Strinsi i denti, gonfiando i muscoli del collo così come ogni altra parte del mio corpo steso a terra e, con un poderoso colpo di reni, mi risollevai, facendo caracollare Marjorie quel tanto che bastò per liberarmi dalla sua presa micidiale.
Questo atto di pura forza mi permise di replicare al suo attacco.
Azzannai con così tanta ferocia da farla guaire.
Senza alcuna pietà, la spinsi verso terra per averla sotto di me in posizione di sottomissione, e le urlai nella mente: “Non rinuncerò mai a lui! Non lo avrai mai! Cedi! Non voglio ucciderti! Ma non te lo lascerò mai e poi mai!”
Lei mi ringhiò contro, pur provando un dolore sordo e pungente dove i miei denti affondavano nella carne.
Sentito tutto ciò che provava, e questo contribuiva a rendermi sia più furiosa che più triste.
Ritentando, aggiunsi: “Dici di amarlo, ma non ti rendi conto di volere qualcosa che non avrai mai?! Lui mi ama, come io amo lui. Non potrai mai fargli cambiare idea, neppure in mille anni!”
Marjorie volse il muso a fatica, mentre io continuavo a stringere furiosamente
Duncan, allora, la fissò con occhi inespressivi, accettò quel confronto silenzioso e mormorò nella sua mente: “Cosa speri di ottenere, Marja, con questa ordalia? Se anche vincessi, e non mi pare sia questo il caso, pensi ti amerei? Pensi che la tua ennesima dimostrazione di forza bruta possa farmi cambiare idea?”
“Non mi chiamavi Marja da quando avevamo dodici anni.”
Le sorrise appena, dimostrando un’antica amicizia che si era annullata nel corso degli anni, quando entrambi erano diventati adulti.
Dolcemente, le disse: “Ti volevo bene ma, da quando sono diventato Fenrir, tu sei cambiata. Ti sono sempre interessati di più il potere e l’orgoglio, rispetto a qualsiasi altra cosa… me compreso.”
Quelle parole mi sorpresero, come sorpresero Marjorie. Duncan l’aveva amata, in gioventù? Era questo che voleva dire?
“Lasciami andare, Brianna. Hai vinto. L’ordalia è terminata” sussurrò all’improvviso Marjorie, la voce pacificata dall’odio e colma soltanto di un profondo senso di sconfitta e prostrazione.
Ma che era successo?
Mollai la presa, leccandomi le zanne e assaporando con un po’ troppa soddisfazione il suo sangue – benedetta gioventù lupesca! Mi sembrava di essere un vampiro, non un licantropo.
Guardandola dubbiosa mentre si rimetteva dolorosamente sulle quattro zampe, le chiesi: “Come mai questo voltafaccia improvviso?”
“Hai ragione” ammise, sgomentandomi al punto da farmi uggiolare sorpresa. “Come ha ragione Duncan. Ho puntato sulle cose sbagliate, e ho perso l’amore di chi volevo al mio fianco prima ancora di rendermene conto. Ora lui ama te, glielo si legge negli occhi. E adesso posso riconoscere quello sguardo perché anch’io lo vidi, anni fa, ma non seppi riconoscerlo.”
Una lieve fitta di gelosia mi colpì il cuore, pensando a un giovanissimo Duncan innamorato della bella Marjorie.
Lei si limitò a ridere divertita, esalando: Tu, gelosa di me, Brianna? Mi sembra che, alla fine, la meglio l’abbia avuta tu, o sbaglio? Tu hai saputo risvegliare in lui l’amore, mentre io l’ho ucciso. Perciò, merito di perdere l’ordalia, poiché i motivi della sfida si basavano appunto su questo, e su null’altro. Accetterò qualsiasi tua punizione, Prima Lupa.”
La fissai seria per diversi minuti, mentre il branco in attesa ci scrutava dubbioso, desideroso come Duncan di conoscere la mia scelta.
Mi aveva riconosciuta come Prima Lupa, accettando la sconfitta con onore, perciò non meritava di essere bollata come traditrice, o peggio.
E io non me la sentivo di infierire su chi si era battuto onestamente contro di me.
Non avrei mai amato Marjorie, e nessuno avrebbe potuto farmene una colpa, soprattutto dopo aver scoperto quanto aveva fatto a Duncan in tenera età, ma neppure me la sarei presa con lei per come si era comportata.
Aveva sfruttato il diritto di battersi con me e aveva perso, riconoscendo i propri errori. Era sufficiente.
Chiusi gli occhi, e lentamente tornai umana.
La mia nudità non mi diede alcun fastidio, quando mi ritrovai a fissare Marjorie con i miei occhi di donna, mentre lei mi fissava con altrettanta serietà.
Non che i membri del branco avessero molto da guardare, in quel momento.
Eravamo entrambe coperte di lividi bluastri e ferite più o meno profonde, che lasciavano scie di sangue scarlatto sulla nostra pelle sporca di fogliame e terriccio.
Eravamo tutto tranne che belle, o interessanti.
Mi avvicinai a lei di un passo, e decretai: “Non ho motivi di punirti, visto che ti sei limitata a usare un diritto acquisito all’interno del branco. Hai accettato di aver commesso un errore, e tanto mi basta. Ma non potrai restare in seno al clan di Matlock, poiché non posso fidarmi ciecamente di te, e dobbiamo cominciare fin d’ora ad avere intorno a noi persone di cui non doverci preoccupare a ogni minuto che passa” nel dirlo, lanciai un’occhiata veloce a Duncan, che annuì.
Jerome e Lance annuirono a loro volta, e tanto mi bastò. Avevo il loro supporto. Quello del branco, sarebbe venuto a tempo debito.
“Ti bandisco dal clan di Matlock e, se per te va bene, chiederemo a Bright di Aberdeen di prenderti in seno al suo clan, assieme a tuo fratello. Avrai un salvacondotto e una lettera di referenze, ovviamente, e il tuo grado sociale non verrà annullato. Sarai alfa anche là.”
La cosa la stupì non poco.
Non ero obbligata a chiedere a Bright un simile favore, ma mi sembrava il minimo, visto che avrei costretto Sean ad allontanarsi da casa per un disguido di cui lui non era colpevole.
Marjorie me lo lesse nella mente e sogghignò, chiosando: “Mi sembrava strano che lo facessi per me.”
Scrollando le spalle, ammisi: “Tuo fratello mi piace e, se tu entrerai nel nuovo branco come alfa, avrà meno problemi anche lui. Non dovrà essere costretto a vederti combattere ogni santo giorno, per  scalare la vetta del potere all’interno del clan di Aberdeen. Naturalmente, ci saranno delle lupe che storceranno il naso, ma sono sicura che farai loro abbassare la cresta. O sbaglio?”
Lei sorrise, chiudendo gli occhi un momento e, reclinando ossequiosa il capo, mormorò: “Accetto con onore la tua decisione, Prima Lupa. Sei stata generosa e onesta, e nessuno potrà contestare questo.”
Come prevedeva il rito dell’Ordalia, poggiai una mano sul capo chino di Marjorie e dichiarai: “Possa il vento condurti in una nuova foresta brulicante di vita, Figlia della Luna, e che il tuo passo possa essere lesto. Io qui chiudo la disfida, e che nessuno abbia a ridire su ciò che è stato deciso.”
Marjorie annuì, replicando: “Il vento gioisca per la tua ascesa, Prima Lupa, e la luna brilli al tuo passaggio. Sei Prima Lupa di fronte a tutti, e che nessuno abbia a ridire su ciò che è stato deciso.”
Uno dopo l’altro, i membri del branco si inginocchiarono intorno a noi, Duncan compreso e, in un coro sommesso di voci, sentii loro dire: “Sei Prima Lupa. Sei Alfa. Sei la nostra Signora.”
Sospirai stremata. Non ce la facevo più. Era tutto finito, finalmente, ma io non potei gioire di questo.
Chiudendo lentamente le palpebre, la mano scivolò via dai capelli di Marjorie mentre le mie ginocchia cedevano sotto il peso della stanchezza.
Sgranando gli occhi nel vedermi crollare a terra, fu lesta a prendermi prima che potessi cadere rovinosamente, accompagnandomi sul letto di foglie del sottobosco mentre un coro di 'oh' si levava tra il branco.
Duncan fu subito da me, mentre Marjorie mi scostava una ciocca di capelli, madida di sudore.
Scrutando il viso ansioso di Fenrir, Marjorie lo rassicurò immediatamente sulle mie condizioni. “E’ solo stanca, Fenrir. Si riprenderà dopo un buon riposo. Che mi prenderò anch’io, se posso. Combattere contro di lei mi ha stremata.”
Duncan si sfilò la camicia per farmela indossare – durante la lotta, i nostri vestiti erano stati calpestati così tante volte da essersi ridotti a brandelli – e, annuendo a Marjorie, asserì: “Sì, riposa Marjorie. La decisione di Brianna richiederà qualche settimana per essere messa a punto, perciò hai tutto il tempo che ti necessita.”
“Grazie… Fenrir” annuì, reclinando ossequiosa il capo.
“Duncan?” sussurrai, allo stremo.
Lui mi sollevò da terra, sorridendomi, e mormorò: “Ti riporto a casa, mia compagna. Ora, nessuno oserà più sfidarti. D’ora in poi, potrò difenderti da ogni male.”
“Voglio solo una doccia calda e il mio letto” brontolai.
Una risatina collettiva sciolse le ansie del branco e Duncan, rivolgendosi a loro, esclamò: “La riunione è terminata. La Prima Lupa ha bisogno di riposo, ora. Tornate alle vostre case, e che la luna sia vostra protettrice.”
Con inchini e benedizioni, il branco si allontanò mentre Sarah, Branson e gli alfa preposti al controllo dei condannati, riportavano alle loro case gli Anziani del Consiglio ormai deposti.
Ci sarebbero state altre decisioni da prendere, poteri da usare, un Consiglio da smantellare, ma non quel giorno.
Ora, dovevo solo riposare. Ora che ero Prima Lupa, tutto sarebbe andato bene.

***

Riaprii gli occhi quando sentii dei passi concitati intorno a me, oltre al singulto strozzato di Mary B.
Sbattendo le palpebre un paio di volte, fissai il viso rilassato di Duncan, biascicando: “Siamo già a casa?”
“Sì. Ti sei addormentata appena usciti dal Vigrond, così ti ho lasciata riposare” mi spiegò Duncan prima di sorridere a Mary B, che mi stava sfiorando la testa con una mano. “Stia tranquilla. Sta bene. E’ solo un po’ acciaccata.”
“Ma è… è ricoperta di lividi e sangue” tentennò Mary B, dubbiosa.
Gordon, che saltellava al suo fianco senza sapere bene cosa dire - gli occhi percorsi dal dubbio e dalla paura - riuscì a brontolare un ‘cavoli che roba!’, prima di sogghignare e chiedermi: “I tuoi vestiti li hai venduti, sorella?”
“Sbriciolati” sussurrai. “Puoi portarmi di sopra, Duncan? Voglio farmi un bagno, prima di lasciarmi sistemare da Lance. Credo che una costola si stia saldando male.”
A quella menzione, Gordon sbuffò disgustato e io, ghignando, borbottai: “Vorrei vedere te, se avessi le ossa che ti si sistemano nel giro di poche ore.”
“Non c’è nulla che possa fare?” si offrì Mary B, sempre più in ansia.
Lance entrò in quel momento dalla porta e, sorridendole, le disse: “Se vuole darmi una mano, Mary, ne sarei lieto. Di certo, Brie si divertirà ben poco quando le sistemerò quella costola e, credo, anche la caviglia. Ha una piega davvero strana, sai, principessa? Sembri passata sotto un TIR.”
Nel vederlo ridacchiare in maniera assurdamente orgogliosa, esalai: “Stai godendo come poche altre volte, eh?”
“Sì” ammise candidamente, dando un colpo sulla spalla di Duncan per poi dirgli: “Vieni anche tu, Duncan. Avrò bisogno anche del tuo aiuto, per tenerla ferma.”
“E io? Non posso fare nulla?” si offrì Gordon.
“Prepara del caffè per tutti. Ne avremo bisogno” lo pregò Lance, sfiorandogli un braccio con la mano, per consolarlo. “Specialmente tua sorella. Oggi ha lottato come una tigre, e merita una razione doppia di caffeina.”
Gordon sorrise e ammise: “Non stento a crederlo. E’ sempre stata isterica come una gatta.”
Jasmine, che era trotterellata in casa dopo di noi, soffiò all’indirizzo di Gordon quando gli sentì dire quelle parole e il ragazzo, ridacchiando, la prese in braccio per rabbonirla. “Non intendevo te, Jasmine. Solo mia sorella.”
Tutti risero, tranne la sottoscritta – provate a ridere con una costola rotta, e poi mi saprete dire – e Duncan, con le lacrime agli occhi per l’ilarità, decretò: “Su, andiamo di sopra, prima che la nostra Brie estragga di nuovo gli artigli.”
“Non sia mai!” esalò Lance, ridendo ancora.
Mary si lasciò andare a un sorrisino più tranquillo e, insieme, ci dirigemmo al piano superiore per permettere ai miei dottori di darmi una rattoppata.
Ero Prima Lupa. Il mio regno al fianco di Duncan era iniziato con un’espulsione e il crollo del Consiglio.
Non sapevo se questa fosse una cosa buona o meno ma, di certo, io e Duncan non ci saremmo fatti scoraggiare da quel cambiamento improvviso delle gerarchie di potere.
Potevamo guidare il branco, e l’avremmo fatto. Insieme.





______________
N.d.A.: Mi scuso ancora per il tremendo ritardo, ma purtroppo la vacanza del mio PC è perdurata più del pensabile. Manca solo un tassello alla fine di questa prima avventura, per i nostri eroi. Tra qualche mese, posterò il seguito.
Nel frattempo, per chi di voi avesse letto "Occhi di Lupo" e "L'eredità del Lupo", non appena terminerò questo racconto, posterò il terzo e ultimo capitolo di quest'altra saga, e si intitolerà "Artiglio di Lupo".

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Capitolo 32
*** Epilogo. ***


Epilogo.




 


 

La luna piena era alta in cielo, brillante come un diamante sfaccettato. Il freddo pungente e l’umidità della notte, più che marcati.
La neve copiosa, caduta in quei giorni, rilasciava nuvole di vapore gelido, creando sul Vigrond una nebbiolina fluttuante.
Il Consiglio era stato smantellato definitivamente, lasciando che il potere tornasse nelle mani di Fenrir, come era stato fin dall’inizio dei tempi e come sarebbe stato da quel momento in avanti, nel clan di Matlock.
Il branco, vista la recente scoperta delle menzogne perpetrate dai membri Anziani dell’ormai deposto Consiglio, non aveva mosso obiezioni di alcun genere, e la mozione era passata senza colpo ferire.
Restava solo una cosa da fare.
Il potere della Luna Blu mi avrebbe permesso di sigillare le anime dei rei confessi, impedendo loro di tornare alla Madre Terra, come Fenrir aveva sentenziato.
Questo, le avrebbe intrappolate tra i viventi fino alla fine dei loro giorni.
I corpi mortali di Connor e gli altri non avrebbero avuto sorte migliore.
Le loro anime dannate avrebbero fatto perdere loro il lume della ragione, divorando la loro sanità mentale come spregio per ciò a cui erano state condannate.
Avrebbero camminato tra i mortali fino al loro ultimo respiro senza avere più padronanza di sé, più simili a vegetali che altro e, nell’intimo delle loro menti perdute, avrebbero urlato inutilmente di essere liberati dai tormenti.
Il solo pensarci mi fece rabbrividire, e non per il freddo.
Era la punizione più brutale e tremenda che un Fenrir potesse comminare, ma era infinitamente giusta, secondo la legge del branco.
Il fatto di dover essere io a metterla in pratica, però, mi fece venire le lacrime agli occhi.
Volgendo lo sguardo verso la mia Triade di Potere, i miei amici, il mio compagno, chiusi il cerchio che avevamo creato innanzi all’enorme quercia sacra del Vigrond, e decretai: “In questa notte di luna piena, tutto avrà un termine.”
“E un inizio” aggiunse Duncan, sorridendomi incoraggiante.
Annuii e, penetrando all’interno delle menti della Triade, raccolsi il loro potere per amplificarlo e unirlo a quello della quercia.
Per diretta conseguenza, la mia pelle iniziò a irradiare bagliori argentati tutt’intorno a me, tingendo la neve che ci circondava.
Gli alfa più potenti del branco – chiamati per sostenere e incrementare ulteriormente il mio potere –  sospirarono di stupore nel ritrovarsi davanti a quello spettacolo davvero singolare e, in ginocchio intorno a noi, offrirono anch’essi la loro energia per ampliarne la banda.
Quando la percepii dentro di me, pura, forte e devastante come una tempesta, eseguii quanto mi ero ripromessa di fare e cercai, nei meandri dell’inconscio, le menti di coloro che dovevano essere puniti.
Non fu difficile.
Conoscevo quegli spettri mentali e, trovarli nel mare di luci multicolori di cui era composto l’inconscio collettivo, non richiese molto tempo.
Mi spiacque scoprire che Sheoban ancora non avesse compreso di aver commesso un errore, come mi spiacque scoprire quanto ritenesse sciocca e puerile la mia scelta di lasciar vivere Marjorie.
Lei l’avrebbe sgozzata di fronte a tutti, divorandola.
Ma io non ero lei, e non mi sarei mai comportata come una folle senza senno, spinta dall’unico desiderio di dimostrare l’ampiezza del mio potere.
Ne avevo fin troppo, che mi scorreva nelle vene come fuoco, senza doverlo mostrare a chicchessia.
E forse era quello ad averla inaridita dentro. La mancanza totale di potere personale.
Una Prima Lupa non aveva doti speciali, a parte quelli già insiti in qualsiasi licantropo. Non possedeva la Voce come Fenrir, né i doni delle wiccan.
Era solo la compagna del capo, e una madre spirituale per il branco. Né più, né meno. Forse era la femmina più forte fisicamente, ma niente di più.
Questo aveva sempre ferito i sentimenti di Sheoban, fino a far inacidire la sua anima ormai perduta, al punto di desiderare ciò che non avrebbe mai dovuto essere suo.
Bloccai senza indugio la sua anima tra le mie mani metapsichiche, avvolte attorno alla luminosità fioca che si trovava all'interno della sua mente turbata, e ammisi con candore: “Mi spiace tu non sia stata capace di capire i tuoi errori.”
“Tieni per te la tua pietà, sciocca. Non avrai il tempo di goderti il tuo titolo, Prima Lupa, perché siete troppo deboli per mantenere saldo il branco, e vi divoreranno subito, distruggendo quel che io ho costruito con tanta fatica.”
Lo disse con un disprezzo tale che, istintivamente, digrignai i denti e ringhiai.
La stretta della mano di Duncan si fece più salda e io mi calmai immediatamente, tornando con la mente al mio compito, e tacitando il lupo dentro di me.
Non le avrei più permesso di interferire.
“Pensala come vuoi, e muori in solitudine e disperazione.”
Non mi rispose, sprezzante fino all’ultimo. Non potendo far altro per lei, cinsi la sua anima con il mio potere e la bloccai all’interno del suo corpo umano, sentendola gridare impazzita sotto le mie dita inconsistenti mentre le impedivo, di fatto, qualsiasi fuga da quella gabbia di carne, sangue e ossa.
La vidi perdere di intensità luminosa, quasi che le catene psichiche che le avevo imposto le impedissero di risplendere e, nell’andarmene, la sentii piangere.
Fu come se il cuore mi si spezzasse in due.
Singhiozzai, riaprendo un momento gli occhi per scrutare ansiosa Duncan ma lui, serio, mormorò: “Dobbiamo essere inflessibili, Brie. Non possiamo mostrare debolezza, in questi momenti. La punizione è stata impartita, e va eseguita.”
Annuii, trovando il sostegno della mia Triade e degli alfa presenti nel Vigrond. Nei loro occhi c’era fiducia, non timore.
Riprendendo, così, da dove avevo terminato, scivolai lentamente nell’anima di Connor, trovando odio e disperazione, ma interamente diretti verso la moglie.
Sfiorai quell’anima con dita gentili, e mormorai: “Mi sarebbe piaciuto non arrivare a questo.”
“Mi sarebbe piaciuto capire prima mia moglie e fermarla. Ma l’amore, a volte, ti rende più che cieco, ti rende sciocco.”
“Devo agire, Connor. Mi spiace.”
“Fai quel che devi, wicca. E’ tuo dovere. Sarai una buona Prima Lupa per il branco. Sai essere generosa quanto implacabile, se l’occasione lo richiede. E sono doti che un capo deve avere. Io ho cercato di sopire queste doti in Duncan, ma il tuo amore per lui le ha fatte riemergere. Sono sicuro che non fallirete.”
“Grazie” sussurrai stancamente, prima di imprigionare anche lui.
La sua anima fu più remissiva, e il suo bagliore si affievolì con lentezza, quasi che quella punizione non la cogliesse impreparata.
Nell’andarmene, lasciai che una lacrima si abbandonasse leggera sulle mie gote.
Punire i vecchi Hati, Sköll, Freki e Geri non fece che provocare in me ulteriori ferite nello spirito e, quando infine tornai in me, le lacrime che mi colavano dagli occhi erano copiose quanto le stelle alte in cielo.
Mi addossai a Duncan continuando a piangere, mentre la mia Triade di Potere si stringeva intorno a me per consolarmi, racchiudendomi in un bozzolo caldo e protettivo.
Sei Prima Lupa, Figlia della Luna, e questo era il tuo compito. L’hai solo portato a termine.
La voce della quercia mi inondò con il suo coro di arpeggi e di flauti dolci, chetando un poco le mie ansie.
Con l’animo in pezzi, singhiozzai: “E’ stato tremendo, però.”
Il tuo spirito è forte. E non è un caso che sia giunto qui, e in questo momento.
Naturalmente, la quercia non disse nulla di più esauriente – amava fare l’evasiva, a volte – così, accontentandomi di quell’appunto, mi sciolsi da quell’abbraccio collettivo gracchiando con voce roca: “Andiamo a casa.”
Duncan annuì, baciandomi sul naso mentre Jerome, controllando l’orologio, ci informò sull’approssimarsi della mezzanotte. “Siamo in tempo per il brindisi.”
“Come?” esalai confusa, sbattendo le palpebre con aria intontita.
Mi mostrò il suo orologio, sogghignando, e aggiunse: “Le undici e mezza. Se ci sbrighiamo, saremo a casa in tempo per festeggiare con i miei, Mary B e Gordon.”
Sorrisi all’idea di svagarmi un po’ – se avessi concesso a me stessa del tempo per pensare a quello che avevo appena fatto, sarei impazzita di sicuro – e annuii.
“Sì, andiamo pure” assentii con foga dopodiché, lanciando un’occhiata ai sei alfa che ci avevano aiutati in quella tragica sera, aggiunsi: “Venite con noi. Penso proprio che Sarah abbia fatto pasticcini e tortine in abbondanza per tutti.”
“Con vero piacere. Mangiare i manicaretti di Sarah è sempre un piacere” asserì Anthony –  l’alfa che mi aveva difeso prima dell’ordalia – ammiccando.
Gli altri cinque licantropi si mostrarono d’accordo con lui e Duncan, prendendomi per mano, mi propose: “A chi arriva prima?”
“Mangerai la mia polvere” gli promisi, lasciando la sua mano dopo avergliela baciata e, con un balzo, mi gettai in avanti, cominciando a correre per il bosco.
La corsa si fece sempre più frenetica, al ritmo con i nostri cuori che pompavano sangue ed energia nei muscoli tesi in quella gara improvvisata e, sotto le nostre falcate leggere, il sottobosco quasi non si accorse del nostro passaggio.
In questo, nessuna creatura da pelliccia o da piuma, poteva batterci.
Nel sorvolare letteralmente un torrentello ricoperto di candida neve, sorrisi a Duncan, che non aveva abbandonato il mio fianco fin da quando avevamo cominciato a correre.
Divertita, gli chiesi: “L’avresti detto, quando mi vedesti la prima volta in quella cantina?”
Lui rise, prima di ammettere candidamente: “Tutto avrei pensato, tranne questo. Ma di certo, ringrazio la Madre da quel giorno. Sei stata davvero un dono del Cielo, per me.”

***

Entrammo in casa senza badare troppo agli abiti gocciolanti, sporchi di fanghiglia e neve schiacciata e Sarah, storcendo il naso nel vederci così conciati, poggiò spazientita le mani sui fianchi ed esalò: “Siete diabolici, ragazzi!”
Gordon rise nello sbucare dal salotto e, vedendoci, commentò ironico: “Bel regalo di Capodanno che ti hanno lasciato, Sarah!”
“Ah, ma la pagheranno cara, credimi Gordon, la pagheranno molto cara” replicò la donna, sogghignando all’indirizzo di mio fratello.
“Prometto che puliremo tutto dopo, Sarah, ma non volevamo perderci il brindisi” le promisi ossequiosa, intrecciando le mani dinanzi al viso con espressione penitente.
Sarah mi fissò scettica, ma assentì. Sorridendole grata, le domandai curiosa: “Erika dov’è? Non la vedo”
Gordon, per assurdo, arrossì copiosamente e tornò di filata in salotto – dove una sdolcinata musica natalizia giungeva dalla televisione accesa – e Sarah, ridacchiando, indicò il piano superiore. “E’ di sopra. Valla a chiamare, prima che si perda il meglio della serata.”
“D’accordo. Corro” annuii, fiondandomi al piano superiore, facendo gli scalini a due a due.
Dopo aver bussato e aver ricevuto una risposta affermativa da parte di Erika, entrai salutandola con un ampio gesto della mano ma, nel notare quel che stava facendo, le chiesi confusa: “Beh, come mai questa mise tutta elegante?”
Erika ridacchiò allegra, non badando minimamente al mio aspetto trasandato e ben poco adatto a quella serata di festeggiamenti. “Dopo il brindisi, io e Gordon usciamo.”
Sollevai un sopracciglio con evidente sorpresa, ed esalai: “Tu… e Gordon? E… beh, e Lance? Scusa, non capisco.”
Scrollò le spalle, dicendomi con imbarazzata ironia: “Mi sono resa conto che si trattava solo di una stupida cotta. Fin da piccola, lui è sempre stato qui con noi, sempre presente a casa nostra, una presenza fissa nella mia vita, e così ho finito per credere che il mio affetto per lui fosse qualcosa di più.”
“Ma…” Ero sempre più stordita, lo ammetto.
“Beh, ho capito che stavo ingannando me stessa nel momento stesso in cui mi sono ritrovata addosso a Lance. Sai, quella volta che lo hai fatto inciampare in camera tua?” mi fece rammentare, sorridendo divertita.
“Sì, lo ricordo” annuii ridacchiando. “Ebbene?”
“Insomma, mi è piaciuto, lo ammetto” ridacchiò a sua volta prima di aggiungere: “Ma è stata una cosa così passeggera e fuggevole che ho cominciato a capire. Non mi è rimasta impressa come a te era rimasto impresso il bacio di Duncan. Non mi sentivo… ossessionata all’idea di toccarlo di nuovo, per capirci. Da lì, ho cominciato ad aprire gli occhi. Ho iniziato a guardarmi dentro con più attenzione e a guardare Lance con occhi più obiettivi, e non più velati dal mio affetto incondizionato. Quando, poi, te ne sei andata e io e Lance ci siamo coalizzati contro Duncan, ho capito ogni cosa. Gli voglio bene, e gliene vorrò sempre, ma come a mio fratello. Mi ci è voluto  un po’ per capirlo,  ma ho compreso.”
“Mi fa piacere. Ma Gordon?” domandai allora io, sempre più curiosa.
Arrossendo, Erika mormorò: “Oh, con lui sento le farfalle nello stomaco.”
“Mannare?” ironizzai, ricevendo per diretta conseguenza una sberla su un braccio.
“E piantala!” rise imbarazzata, sorridendomi. Le sue gote erano purpuree, ormai. “Davvero! E poi, abbiamo un sacco di cose in comune!”
“Di sicuro, la musica” assentii con un risolino, prima di aggiungere: “Sono contenta che tu ti trovi bene con Gordon.”
“Di sicuro, la mamma è più contenta. Sapeva della mia cotta per Lance, e mi mise in guardia sui miei reali sentimenti ma io, da brava adolescente testarda, non volli darle retta. Ora, è tutto diverso” ammise, scrollando le spalle con noncuranza.
“Credimi, mi sarei comportata alla stessa maniera. Con Leon, pensavo di aver trovato il ragazzo perfetto per me. Mi ci sono voluti un bel po’ di mesi per capire che mi ero illusa bonariamente e che, in realtà, avevo visto cose che non c’erano ma, soprattutto, che non ero pronta per un rapporto serio” le confidai, sorridendole comprensiva. “Gordon mi ha presa in giro per tutto il tempo, mentre stavo con Leon, dicendomi che uscivo con la reincarnazione di un troglodita, anche se poi non era vero. Volevamo cose... diverse.”
Erika ridacchiò nell’infilarsi le belle scarpe di velluto nero e, annuendo, ammise: “Lo so, ci si sente delle stupide, dopo. Ma credo serva, in qualche modo, no?”
“Oh, sì. Tutto serve. E’ sempre esperienza. E poi, con un tipo come Lance, chi non si lascerebbe tentare?” sorrisi divertita. “Andiamo giù? O ci daranno per disperse.”
“Sì, scendiamo. Ma prima, augurami buona fortuna” mi pregò Erika, sorridendomi con occhi scintillanti.
La baciai sulle guance stando ben attenta a non sporcarla, e sussurrai: “Qualsiasi cosa succeda, noi due saremo sempre amiche, Erika, e avrai sempre il mio affetto incondizionato.”
“Grazie. Sei la migliore amica in cui potessi sperare” sussurrò Erika, aprendo la porta. “Pronta per il nuovo anno?”
“Come potrei non esserlo più” annuii, prendendola per mano mentre dabbasso, tra risa e battute di spirito, tutti erano pronti per quel nuovo inizio.
Con un sorriso, scendemmo dalle scale con passo lesto e, una volta raggiunta la sala da pranzo, mi addossai a Duncan per  baciarlo su una guancia.
All’esterno, i fuochi d’artificio cominciarono a esplodere nel cielo terso e luminoso di stelle, mentre le campane suonavano a festa.
Stringendomi maggiormente al mio lupo, dopo aver brindato assieme alla mia famiglia, sussurrai: “Buon anno, Duncan.”
“Buon anno, principessa.”
 
 
 
 
 
 

FINE

 

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N.d.A.: E questa prima avventura si è conclusa. Per il secondo racconto, ci rivedremo a febbraio/marzo, direi.
Nel frattempo, come già preannunciato, posterò l'ultimo capitolo della saga di Occhi di Lupo.
Grazie a tutti/e coloro che mi hanno seguito in questo mio mondo di licantropi e wiccan, sperando vi sia piaciuto leggerne come a me è piaciuto scriverne. ^_^

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