Lost and Found di SAranel (/viewuser.php?uid=43644)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una notte particolare ***
Capitolo 2: *** Dimmi il tuo nome ***
Capitolo 3: *** Non capisci, John? ***
Capitolo 4: *** No place like home ***
Capitolo 5: *** Infrangibile come diamante ***
Capitolo 1 *** Una notte particolare ***
Ciao adorato fandom!
Dopo varie vicissitudini
con l’ultimo capitolo dell’altra long in corso (lo
sto riscrivendo, sarà prossimamente
sui vostri schermi) posto una cosina scritta prima di partire, che
dividerò in
più capitoli per questione di lunghezza, ma che è
già conclusa. Contavo di
pubblicarla prima (è passato TROPPO tempo
dall’ultima storia!) ma sono stata
impossibilitata, quindi ho optato per oggi, con calma!
E’ sicuramente un’AU e capirete certamente
perchè, e per quanto per gran parte
della storia i nostri beniamini siano bambini/ragazzi, non credo si
possa
definire una Teen, dato che alla fine il fulcro della faccenda li
coinvolge da
‘adulti’.
Comunque, bando alle
ciance!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
Lost and
found
*
John sapeva benissimo che
era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe
dovuto
reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro
sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento,
sarebbe
scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva
ormai ben dodici anni, e non
avrebbe avuto più il
coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era
stato necessario.
Peccato però che in quel momento se
ne stesse pentendo amaramente, al diavolo il coraggio e altre
stupidaggini simili.
Il parco era buio ormai,
più buio delle altre volte in cui vi aveva giocato
accompagnato dai suoi genitori
a sera tarda, e quando non udì più rumore di
passi o le voci dei bambini e dei
passanti in lontananza, cominciò seriamente a temere di
essere rimasto nascosto
tanto a lungo da non aver sentito l’avviso di chiusura dei
cancelli.
Quatto quatto, uscì dal
suo nascondiglio di cespugli e foglie secche e si guardò
intorno, allarmato,
cercando di scorgere una luce, un rumore di passi, una qualche voce che
lo
rassicurasse di non essere rimasto solo in quello spazio immenso.
L’unico
rumore che attirò la sua attenzione però, fu solo
l’inquietante cigolio di un’altalena
spinta dal vento notturno.
John mugolò, spaventato,
con la mente in frenetica attività, alla ricerca di un modo
per uscire da lì al
più presto possibile. Strinse gli occhi e i pugni, pregando
tra sé e sé e promettendo,
giurando, che non avrebbe mai
più
fatto una cosa del genere, che avrebbe accettato le decisioni dei suoi
genitori
e tollerato il comportamento di Harry senza fiatare, se solo fosse
riuscito a
uscire illeso da quel brutto guaio.
Stava testando la
resistenza della solida, solidissima
cancellata di ferro, quando qualcosa lo fece bruscamente voltare,
spaventato.
“E’ fiato sprecato,
credimi” una voce tranquilla lo fece sobbalzare.
“Non cederà mai, nemmeno se ti
ci appendi con tutte le tue forze.”
“Chi sei?” domandò John
sospettoso, il cuore che batteva all’impazzata al pensiero
delle mille
raccomandazioni di sua madre sul non parlare con gli sconosciuti. E in
quel
momento era solo, in un parco deserto, a parlare con qualcuno che non
aveva mai
visto in vita sua.
Quando però il proprietario di quella voce si fece avanti,
rischiarato dalla
pallida luce di un lontano lampione, John tirò un sospiro di
agognato sollievo.
Sua madre non gli aveva mai detto di non parlare con sconosciuti bambini, e quello lì davanti
non poteva
avere più di nove anni, uno scricciolo alto e allampanato
per la sua età, con
una zazzera di riccioli scuri che gli ricadevano buffamente sugli
occhi. E
qualcosa, in quegli occhi, troppo lontani da John perché lui
potesse cogliervi
quella profonda sfumatura dorata, tranquillizzava John enormemente.
“Posso dirti quello che non sono, piuttosto. Non sono un
ragazzino che cerca di
sradicare l’inferriata di un parco giochi perché
per la sua sbadataggine ci è
rimasto chiuso dentro.” disse sicuro, con lingua fin troppo
sciolta per un
mocciosetto della sua età.
John era senza parole,
preso completamente in contropiede da quella risposta. Decise di
difendersi
come meglio poteva, cominciava leggermente a sentirsi in apprensione
nei
confronti del nuovo arrivato, anche se era solo un piccoletto arrogante.
“Anche tu sei qui, però!”
sbottò John, pensando di aver centrato nel segno.
“E
non mi sembra che ti stia dando molto da fare per trovare una via
d’uscita.”
L’altro sbuffò,
scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi con fare annoiato.
“Ti sfugge un piccolo dettaglio, piccoletto. Io sono
esattamente dove
desideravo essere, e non ho alcun desiderio di trovarmi in altro posto
che
questo”.
“Piccoletto? Piccoletto a me?”
disse John sbigottito, abbandonando l’idea del cancello e
decidendo di scoprire
qualcosa sul suo misterioso e strambo interlocutore. “E cosa
cavolo vuol dire
che sei dove vorresti essere?”
L’altro sbarrò gli occhi, come se la risposta
dovesse essere ovvia anche al più
idiota degli idioti.
“Che sono rimasto volontariamente chiuso qui dentro, al
contrario di te. E se
mi permetti un commento, sembri grandicello per questo genere di
ripicche a
mamma e papà”.
La risposta che John stava
pensando di sbattere in faccia al piccolo insolente saputello,
morì sulle sue
labbra alla realizzazione di quello che aveva appena detto. John
boccheggiò
come un pesce fuor d’acqua prima di articolare una frase di
senso compiuto.
“Come…come cavolo fai a
sapere…?”
L’altro ridacchiò,
sarcastico.
“E’ ovvio.”
“Non è ovvio per me.”
“Questo è chiaro.”
Il ragazzino andò a
sedersi su una delle due altalene arancioni poco lontano, su quella che
fino a
poco prima cigolava cupamente e che era la preferita di John. Con un
cenno
quasi impercettibile della testa, fece segno a John di occupare quella
vicina.
Sospettoso, si avvicinò, e senza interrompere il contatto
visivo con il suo
nuovo strambo amico, si sedette sulla rigida seduta di legno.
“Allora, hai intenzione di dire qualcosa, piccolo genio
pazzoide?”
L’altro rise ancora
seppure con una nota malinconica, nella voce.
“Siete tutti così prevedibili, anche nei
soprannomi.”
“Forse perché sei
una specie di pazzoide.”
“Comunque non vedo il
motivo per cui sottolinearlo in continuazione. Insomma, qualcuno ti
chiama mai adorabile bambino diligente e
studioso?”.
“Perché non ce n’è
bisogno! Perché non è fuori dal
normale!” rispose John, infervorato. Odiava non
riuscire a controbattere adeguatamente a quella lingua lunga.
“E comunque, stai
cambiando argomento. Devi dirmi come fai a saperlo” aggiunse,
deciso a mettere
luce su quella storia.
“Come faccio a sapere che sei scappato?”
domandò retoricamente lo sconosciuto.
“Bruttini quegli strappi sulla tua maglietta. Deve essere
stato faticoso
procurarteli. Cos’hai usato? Le unghie? Cavolo.”
John rimase ancora di più
a bocca aperta.
“Non c’era nessuno con me! Come hai
fatto?”
“Logica. Strappi troppo
regolari perché tu possa esserteli procurati come avevi
intenzione di riferire
ai tuoi, e hai del tessuto rosso intorno alle dita e ancora infilato
sotto le
unghie. E se posso aggiungere un piccolo dettaglio, quelle macchie di
fango sul
tuo pantalone sono visibilmente auto-procurate. Ci vedo le tue dita
impresse
sopra”.
John non aveva più parole.
Sentì un qualcosa di indefinito, frustrazione per
l’essere stato miseramente
scoperto misto all’inquietudine e la paura di trovarsi in
quel luogo con quello
strano compagno, crescergli velocemente nel petto.
“Io non…io…”
“E comunque trovo
abbastanza stupido far preoccupare tua madre rifilandogli una storiella
simile.
Posso dire la mia?” domandò, come se fino a quel
momento fosse rimasto in
religioso silenzio.
“No” disse seccamente
John, amareggiato.
“…Chi avevi intenzione di
mettere in mezzo? Uno sconosciuto che ti ha caricato in macchina
durante una passeggiata?
Un passante che ti ha offerto caramelle? Un po’ infantile.”
John lo guardò sottecchi.
“Tu non sai che vuol dire.
Tu non mi conosci ed io non conosco te”
“Questo non vuol dire che
io non possa capirti.”
“Beh io non capisco te. E
tu non sai cosa vuol dire avere una sorella come Harry”.
Si morse la lingua subito
dopo. Non capiva il motivo per il quale continuasse ad assecondarlo, a
continuare a parlare con lui mettendosi alla mercé delle sue
puntigliose
deduzioni. E adesso aveva anche menzionato Harry davanti a lui, con la
chiara
intenzione di raccontargli tutta la faccenda, come fosse un vecchio
amico a cui
chiedere consiglio.
“Dimmi di questa Harry. E’ per lei che sei
fuggito?”
John gli rivolse un
sorrisetto amaro.
“Sì. E per i miei, come hai detto prima”
cominciò a spiegare John, sempre più
allibito dal suo stesso comportamento. Quel ragazzo però,
nonostante fosse
irritante e supponente, gli ispirava una strana e istintiva fiducia.
“Cosa ti ha fatto lei?” chiese l’altro,
con voce quasi comprensiva.
“Lei beve” disse, e si sentì trafiggere
da mille invisibili spilli.
“Oh” fu tutto ciò che
disse il ragazzino, dandosi una spinta con le gambe e lasciandosi
dondolare
dolcemente dall’altalena. John lo imitò,
desideroso di una sferzata d’aria
fresca sul suo volto accaldato.
“Io dovevo andare a
Brighton con il mio amico Robbie, quest’estate. E’
una vacanza che
programmavamo da secoli e per cui ho impiegato mesi a convincere i
miei. Poi
ieri Harry torna completamente fuori di testa a casa e tutto salta per
sempre.
Tutti i miei sforzi completamente andati in malora”.
Il ragazzo sull’altra
altalena annuì, pensoso, come se stesse elaborando i dati
appena ottenuti.
“Soldi?”
“Soldi” annuì John, senza nemmeno
più sorprendersi di quanto veloce e
intelligente fosse quella persona. “Devono mandarla via per
un po’, da una
vecchia zia nel Devon a farle cambiare aria. E ovviamente la signora non vuole accollarsi le spese di
un’adolescente piena di problemi. Hanno detto di essere
dispiaciuti,
mortificati e tutto, ma non me la danno a bere. Ecco tutto.
Contento?”.
Il ragazzino non parlò,
nonostante John avesse concluso il racconto e cominciasse a sentirsi a
disagio
e decisamente stupido. Perché gliel’aveva detto?
Perché non aveva girato i
tacchi per continuare a cercare una via d’uscita?
“Beh, continua a sembrarmi
una reazione abbastanza infantile. Se fossi dovuto scappare ogni volta
che i
miei hanno preferito mio fratello a me, avrei passato metà
della mia esistenza
fuori di casa”.
John non sapeva
esattamente cosa rispondere a quell’affermazione.
Così si mise sulla difensiva.
“Io aspettavo quella vacanza da mesi!” disse a sua
discolpa. “Harry non può
sempre rovinare i miei piani!”.
“Pensi che i tuoi lo
abbiano fatto apposta? Pensi che a loro faccia piacere che la loro
figlia adolescente
beva fino a star male?”.
John si ammutolì. Arrossì
furiosamente alla logica del discorso e ringraziò che non ci
fosse abbastanza
illuminazione perché il ragazzino potesse accorgersene.
“Io non… io non credo, no”
affermò, con voce instabile. “Anche tu
però hai
detto che i tuoi fanno preferenze, no? Cos’ha tuo fratello in
più di te?”.
Il ragazzino si bloccò,
puntellando i piedi sul terreno.
“E’ semplicemente come tutti gli altri, o almeno
così fa sembrare. E questo i
miei lo trovano più rassicurante di…qualcuno come
me”.
John sorrise, sinceramente
divertito.
“E’ perché sei una specie di cervellone?
Perché sembri e parli come qualcuno
più grande della tua età? I miei pagherebbero per
un figlio come te”.
Fu il turno dell’altro per
ridacchiare, ma non c’era alcuna allegria in lui.
“Questo è quello che si
dice” esclamò, la voce per la prima volta afflitta
da una nota triste. “Alla
fine però, non è mai vero”.
John non sapeva cosa
rispondere così si limitò a darsi
un’altra spinta sull’altalena. Percepiva qualcosa
in quel ragazzo, qualcosa che non riusciva a spiegare; era come se
dietro
quella corazza di sicurezza si celasse un animo tormentato, una
profonda
tristezza. Per qualche secondo, l’unico suono udibile nel
parco fu il lamentoso
cigolio delle molle sotto il suo peso.
“Mi dispiace, comunque” disse poi, per non sembrare
poco solidale nei suoi
confronti. L’altro si limitò ad accennargli un
piccolo sorriso, che scomparve
nel giro di un secondo.
“Non fa niente”.
Silenzio.
“Perché sei qui, comunque?
Perché sei rimasto qui dentro di tua spontanea
volontà?” si ricordò poi di
chiedergli, sinceramente curioso di scoprirlo. L’altro
sembrò illuminarsi a
quella domanda, come se non avesse aspettato altro che quella, fino a
quel
momento.
“E’ un posto tranquillo. Mi aiuta a pensare. A
liberare la mente dalle cose
inutili” spiegò, come se fosse perfettamente
normale. “Ci vengo spesso.”
“E i tuoi?”
“I miei cosa?”
“I tuoi ti lasciano
andare? Oppure scappi anche tu?” lo provocò, con
sguardo complice. Il ragazzino
scosse la testa.
“Oh no. Dico loro che dormo da un amico. E questo spiega
largamente il loro
vivo interesse per me”.
John si sforzò di capire,
senza riuscirci.
“Che vuoi dire?” chiese, sperando di non essere
troppo invadente. Guardandosi
intorno però, decise che forse la situazione poteva
giustificare un minimo di
curiosità in più da parte sua. Quanto spesso
avrebbe incontrato un altro quasi
- coetaneo fuggiasco con cui parlare?
“Che io non ho amici”
affermò, guardando davanti a sé. “Non
ne ho mai avuti.”
“Oh” fu tutto ciò che
riuscì a dire John. Sapeva di dover cercare di essere
comprensivo, amichevole,
solidale con lui, ma non trovava nulla di abbastanza convincente da
poter dire.
Avrebbe dovuto consolarlo, confortarlo,
dirgli che c’era tempo per farsi amici a volontà
ma qualcosa nello sguardo
sicuro e riflessivo del suo nuovo compare sembrava dirgli che una pacca
sulla
spalla era l’ultima delle cose che avrebbe desiderato. Quel
ragazzino sembrava
perfettamente felice così com’era.
“Beh mi… mi dispiace”
disse soltanto, sperando che fosse la cosa giusta da dire.
“A me no. Una distrazione in meno.”
“Gli amici non sono una
distrazione” disse John, ripensando a Robbie e alle serate
passate con lui.
“Sono una bella cosa, invece.”
“Perdita di tempo
prezioso. Un’ora spesa a giocare a, non so, Cluedo
potrebbe essere impiegata per qualcosa di più
utile” affermò.
John decise di non insistere. Aveva l’impressione che non
sarebbe servito a
nulla.
“Vedila come vuoi” disse, diplomatico.
Un lungo silenzio seguì
anche quel discorso, prima che John si accorgesse che tra una parola e
l’altra,
il cielo, da nero pece puntellato di stelle che era, aveva cominciato a
schiarire nel roseo pallore dell’alba. L’alba
più bella che John avesse mai
visto in vita sua.
“Bella eh?” disse il
piccolo straniero, con il naso puntato all’insù.
“E non devi nemmeno pagare il
biglietto.”
“O fare file chilometriche
ai botteghini del National Theatre” scherzò John,
provocando la prima vera
risata allegra nel suo compagno. “E poi vuol dire che fra
poco gli autobus
riprenderanno a circolare ed io potrò tornarmene a
casa”.
John sollevò sorpreso un
sopracciglio quando vide il viso particolare del ragazzo, adesso molto
più
nitido nel pallido chiarore, rabbuiarsi improvvisamente.
Abbassò lo sguardo,
senza poter evitare di sentirsi un po’ in colpa.
“Allora è meglio che ti
aiuti a scavalcare, no? Non corri rischio di ruzzolare giù,
adesso che è
giorno” propose il ragazzino, cercando di nascondere al
meglio l’ombra
sconsolata nei suoi occhi azzurri. John lo studiò per un
po’, domandandosi se
fosse il caso di chiedergli come stava o se c’era qualcosa
che non andava, ma
gli sembrava che l’altro non fosse molto propenso a esternare
il suo stato
d’animo.
“Grazie mille, davvero” si limitò a
dire, con entusiasmo.
Arrivati davanti al
cancello, il ragazzino salì sul muretto di marmo e porse una
mano a John, che
lo seguì quasi immediatamente. Incrociò le dita
delle mani e John vi poggiò il
piede e, aiutandosi con entrambe le mani, si diede la spinta necessaria
per
issarsi sul cancello e atterrare agilmente dal lato opposto.
John si sistemò gli abiti
e i capelli, pettinandoli con le dita della mano destra. Poi rivolse un
sorriso
grato allo straniero.
“Ehi, grazie ancora,
davvero. Anche per… per la compagnia di stanotte”
disse John al ragazzino,
infilando il viso tra due sbarre tinte di verde. L’altro
annuì, arrossendo in
viso per un motivo a John sconosciuto, e infilandosi le mani in tasca.
“Vai dai tuoi, saranno…in pensiero”
disse, e si toccò le labbra, come se non
credesse che parole del genere fossero uscite dalla sua bocca.
“Fai il bravo
bambino e torna immediatamente a casa” scherzò,
con gli occhi ancora più
tristi, nonostante cercasse ancora di mascherarli.
“Si” disse John, con il
cuore che batteva all’impazzata. “Lo
farò.”
“Alla prossima fuga” si
congedò il ragazzino, arruffandosi i capelli con una mano e
facendo per
voltarsi. John rise e girò anche lui i tacchi, accennando un
saluto con il
capo. Dopo due passi però, gli venne in mente una cosa
importantissima.
“Ehi, non mi hai detto il tuo…” fece per
dire ma si bloccò immediatamente, con
le labbra socchiuse. Dalla parte opposta del cancello, dove poco prima
il
ragazzino gli stava rivolgendo un saluto con la mano, non
c’era più nessuno. Il
vento spinse di nuovo l’altalena, e John se ne
andò, con uno strano peso sul
cuore.
§
Nonostante il passare del
tempo, quel ragazzino rimase sempre nei pensieri di John.
Pensò spesso a lui nel
corso degli anni, alla strana conversazione avuta con lui quella notte,
ai suoi
occhi sicuri ma tristi, a quella sicurezza ostentata, a quella lingua
capace di
distruggere le tue convinzioni più solide. Non lo aveva
più rivisto da quel
giorno di tanti anni prima, nonostante fosse tornato più
volte in quel parco
giochi nella speranza di rivederlo, di sentire nuovamente la sua voce,
di
incrociare nuovamente il suo viso. Non lo aveva incontrato per strada,
o al
cinema, al teatro, nella folla natalizia nelle piazze di Londra. Era
semplicemente sparito, svanito come una voluta di fumo in un soffio di
vento.
John però non aveva dimenticato nessun
particolare di lui.
Non era mai stato particolarmente fisionomista, o meglio ricordava
certamente i
tratti di una persona in grandi linee, ma il viso di quel ragazzino gli
era
rimasto impresso in ogni suo particolare. Aveva ben stampata in testa
la forma
spigolosa e particolare del suo viso, i capelli scuri e mossi, gli
zigomi
taglienti nel viso leggermente paffuto e la figura alta e sottile,
quasi
signorile nonostante la giovane età, e soprattutto i suoi occhi, i più particolari che
avesse mai visto.
E di una cosa era più che sicuro: lo avrebbe riconosciuto
tra mille anche dopo
tutti quegli anni.
Così,
si ritrovò a pensare
a lui una mattina dei suoi vent’anni, un’afosa
giornata di luglio, mentre
usciva da casa sua sbattendo la porta dietro di sé con
veemenza, pieno di
rabbia.
Harry. Ancora Harry. Per
l’ennesima volta Harry.
E quella volta, John ne
era sicuro, le paroline dolci di
scuse che sua sorella gli avrebbe certamente propinato al suo ritorno,
non
sarebbero servite a nulla.
John
corse a perdifiato
nell’aria soffocante, quasi dimenticandosi di respirare,
respingendo il dolore
alle gambe, che si faceva sempre più pressante, in un angolo
remoto della sua
mente. Cercò di chiudere il flusso dei suoi pensieri, di non
pensare a nulla,
di arginare la rabbia che provava verso sua sorella fino ad annullarla,
a
giustificarla, a relegarla nella stessa piccola stanza del suo cervello
dove
albergava il dolore, la sofferenza, il sacrificio, ma non
servì a nulla, non in
quel momento.
John continuò la sua corsa
frenetica fin quando nemmeno i suoi sforzi più intensi
riuscirono a fargli
ignorare il suo bisogno d’ossigeno, e fu costretto a
fermarsi, riprendendo
fiato in avide boccate, chino con le mani sulle ginocchia.
Era arrivato da qualche
parte, sul fiume, in un vecchio molo abbandonato che non conosceva. Un
vecchio
palazzo in rovina, forse un'antica fabbrica, troneggiava cupamente
sulla riva
con le sue finestre rotte e scure che lo facevano sembrare
un’enorme faccia
piena di orbite vuote.
John si lasciò cadere
sulla rena asciutta, chiudendo gli occhi e ascoltando per qualche
minuto il
solo rumore dello sciabordio stanco della corrente fluviale.
“Rilassante, vero?” una
voce lo distolse dal suo tanto agognato relax. John aprì gli
occhi
svogliatamente, con zero voglia di intavolare una conversazione con un
passante
curioso, cercando mentalmente una scusa per sottrarsi.
Quando però rivolse lo
sguardo al disturbatore, represse per un pelo un gemito sbalordito.
Non era possibile. No davvero.
“Sei tu” disse, mettendosi
in ginocchio, con i sassolini che pungevano le ginocchia come spilli.
“Sei…davvero tu” ripeté, come
se non fosse del tutto sicuro che quella fosse la
realtà. Magari era solo uno strano sogno o una bislacca
proiezione della sua
mente.
Quegli occhi, però, li
avrebbe riconosciuti tra mille, anche se adesso avevano perso
quell’aria malinconica
di tanto tempo prima. Era diventato ancora più alto, i
capelli erano ancora un
cespuglio ordinato di ciocche scure e il viso aveva perso ogni parvenza
della
pinguedine infantile, dandogli un aspetto etereo, come fosse una
creatura di un
altro mondo. Era davvero il ragazzo più bello,
non trovava altro termine, che John avesse mai visto in vita sua.
“Capita spesso che io sia
davvero io” lo prese in
giro l’altro con un sorriso. “Come credo che capiti
spesso anche a te di essere davvero te.”
John ignorò il gioco di
parole, troppo preso dall’eccitazione di
quell’incontro. Quante volte
inconsciamente aveva quasi sperato di ricontrarlo un giorno, senza
spiegarsi
minimamente il perché?
“Non ti ho più visto al
parco. Non ti ho più visto in nessun altro posto”
gli disse, desideroso di
conoscerne il motivo. L’altro abbassò lo sguardo,
stringendosi nelle spalle.
“Ci siamo trasferiti. Il parco non era decisamente nei
paraggi ed io… io non
amo molto frequentare posti troppo affollati”.
John rise, sperando solo
un secondo dopo di non averlo offeso.
“Scusa, è che…io…lascia
perdere. E’ ok, va bene”.
L’altro si accigliò, come
se non capisse esattamente il motivo di quelle scuse.
“Cosa è ok?”
“Questo…il fatto che tu non sia…ecco,
così socievole. Lo avevo capito. Insomma,
va bene che non ci siamo incontrati prima, capito?
E’…è tutto ok.”
“Se lo dici tu, è ok”
disse lo straniero con un’espressione sul viso che sembrava
gridare qualcosa
come ‘meglio assecondare questo
matto’.
John si morse la lingua, sentendosi un perfetto idiota.
“Lascia stare” liquidò poi, cercando di
lasciarsi alle spalle
quell’imbarazzante benvenuto. “Io
sono…sono contento di rivederti, comunque.”
Il moro annuì, stringendosi nella sua camicia scura.
“Trovo anch’io che la coincidenza
sia…piacevole” disse, e John cercò
d’interpretarlo come un segnale positivo.
“Come mai sei qui?” gli
domandò, prima che un altro particolare gli tornasse in
mente. “No, aspetta,
voglio indovinare. Anche questo posto stimola la tua mente e ti aiuta a
pensare?” buttò li, scherzoso.
Il ragazzo assunse
un’espressione compiaciuta e sorpresa, come se le parole di
John lo avessero
riempito di una sorta di gratificante soddisfazione.
“Vedo che ricordi perfettamente” si
complimentò, con un’altra ombra di sorriso.
“E’ proprio così, comunque.”
“Di certo questo posto non
è affollato” John cercò di rompere
ulteriormente il ghiaccio.
L’altro fece un versetto
d’approvazione.
“Questo è sicuro.”
John tacque, cercando le
parole giuste per esprimere quello che voleva.
“Sai, io ho… ho un bel
ricordo di quella notte. Ricordo tutto, ogni cosa” decise,
alla fine.
L’altro sembrò arrossire,
ma annuì ancora con un movimento rigido del collo, come se
quel gesto gli
costasse uno sforzo immane. John si sentì lievemente a
disagio per un secondo,
temendo di essere il motivo di quel comportamento.
“Anch’io ci ho pensato. A lungo” ammise
però, e John si aprì in un sorriso
incoraggiante. “E tu sei scappato di nuovo”
aggiunse poi l’altro, serio, in un
tono affermativo che sembrava non tollerare repliche.
Il sorriso di John si affievolì quando quella frase gli
riportò alla mente il
motivo della sua presenza lì.
“Strana la vita eh?” disse, abbassando gli occhi
alla sabbia sollevata dal
vento davanti a sé.
“E’ sempre Harry?” chiese
poi lo sconosciuto, provocando in John un sussulto.
“Ti ricordi di Harry?”
“Te l’ho detto che ricordo
tutto.”
John era sbalordito.
“E’…bene” disse, cercando
di venire a patti con quella realtà. Non era stata solo una
sua fissazione
allora. Anche lui aveva avuto un certo impatto su quel ragazzo.
“Comunque sì, è per Harry”
esclamò, afferrando un sasso poco lontano e gettandolo nel
fiume con un plop quasi comico. Lo
sconosciuto si
sedette accanto a lui.
“Cos' è successo
stavolta?” gli domandò, con sguardo attento e
scrutatore, come se davvero gli
interessasse fortemente di John e del suo sfogo. Il ragazzo dai capelli
biondi
lo guardò negli occhi e gli sorrise amaramente, prima di
rispondere.
“Avevo un esame
importantissimo, oggi. Biochimica. E’ una delle materie di
base per Medicina ed
è un esame che ho rimandato il più possibile per
stare con lei” cominciò a
raccontare, con voce instabile. “Nei giorni scorsi non
è stata tanto bene”
disse, come a scusarsi di essere un buon fratello.
“E allora? Com’è andata?”
gli occhi dello sconosciuto si assottigliarono in due mezzelune azzurre.
“E’ andata che ieri Harry
ha bevuto ancora. Con quell’idiota della sua nuova ragazza,
Alice” cominciò a
raccontare, sentendo nuovamente l’astio risalirgli fino in
gola. “I miei non ci
sono e lei è tornata a casa stravolta. Ho passato tutta la
notte a occuparmi di
lei, a sentire i suoi pianti, le sue scuse, a sostenerla mentre
sveniva,
vomitava e… si lamentava su quanto faccia schifo la sua
vita. Mi sono
addormentato verso le sei, e… mi sono risvegliato quando il
mio appello era
passato da almeno due ore” disse, il più veloce
possibile, come se buttando
tutto fuori tutto, la rabbia potesse passare. Via il dente, via il
dolore. Se
solo fosse stato veramente possibile.
“Oh” rispose il ragazzo
dai capelli scuri, donandogli una perfetta riproduzione di se stesso
otto anni
prima. John sorrise, suo malgrado.
“Si cresce, e con noi crescono i problemi” disse
John, come un vecchio saggio
che dispensa consigli ai nipotini. L’altro volse lo sguardo
al fiume,
pensieroso.
“Mi dispiace, davvero” gli disse, e a John parve
sincero nonostante il tono
neutro e senza alcun calore. “Adesso cosa farai?”
John scosse la testa.
“Non lo so. Mi toccherà riprovarci fra qualche
mese e…ricominciare”.
Il ragazzo gli rivolse
un’occhiata confusa, come se non gli fosse chiaro qualcosa.
“Quindi nulla è perduto,
non è così?
John lo guardò,
accigliato.
“No, questo è vero, ma io
contavo di mettermi alla pari, di fare tutto in regola, tutto in
ordine, tutto
secondo…la mia tabella di marcia. E Harry ha sconvolto i
miei piani.”
L’altro ragazzo rise,
senza allegria.
“Non esistono tabelle di marcia.
La
vita non segue una regola, uno schema, un qualcosa di programmato o
già
scritto. La vita ti manovra a suo piacimento e tu, ed io e tutti siamo
solo marionette nelle sue
mani” esclamò, con
voce tagliente, osservando ancora l’acqua che scorreva
veloce. “Quindi faresti
bene a toglierti certe convinzioni dalla testa”.
Continuò a fissare il
fiume ma qualcosa diceva a John che non stesse davvero guardando.
Sembrava
immerso in un mondo tutto suo.
John rifletté su quelle
parole indubbiamente significative, dubitando però che
sarebbe mai riuscito a
ignorare i suoi schemi e i suoi ritmi, per quanto avrebbe cercato di
sforzarsi.
“Forse hai ragione. Anche stavolta” convenne, suo
malgrado. “Ci proverò.”.
Poi un altro ricordo lo
colpì e John parlò, senza poterne fare a meno.
“Problemi con tuo
fratello, già che siamo in
tema? Ti vedo…teso, sull’argomento.”
Il ragazzo rise, ironico,
lanciando anche lui un sasso nel fiume che rimbalzò un paio
di volte prima di
affondare.
“Mio fratello non crea problemi. Lui è
un problema, uno di quelli che ti porti dietro per tutta la
vita” rispose seccamente,
ma John sapeva che non era a causa della sua domanda.
Si scostò un ciuffo
capriccioso dagli occhi e sospirò, cercando qualcosa per
confortarlo almeno un
po’.
“Sono sicuro che in fondo lui…lui ti vuole
bene.”
L’altro accennò una risatina divertita, tornando a
guardare John negli occhi,
visibilmente interessato.
“Beh, allora potrei dire lo stesso di Harry. Sicuramente ti
vuole bene,
sicuramente si odia per averti fatto saltare quell’esame e
per averti
costretto, suo malgrado, a farle da infermiere”
esclamò. “A questo punto
potresti passare avanti e perdonarla, ma sono sicuro che adesso mi
dirai che non è la stessa cosa.”
John sbuffò e portò le
ginocchia al petto, circondandole con le braccia e accoccolandosi
meglio nel
suo giaciglio di sabbia. Il discorso del suo vecchio amico
non faceva una piega, come quello di tanti anni prima, e
proprio come quel giorno al parco giochi John si sentì
sopraffatto dalla verità
di quelle parole, pronunciate da qualcuno che aveva incontrato soltanto
due
volte in tutta la sua vita ma che sembrava conoscerlo come nessun altro.
“Sei insopportabile quando
fai così” sbuffò John, fingendosi
stizzito, ma sorridendo al ragazzo subito
dopo. “Sei bravo a farmi sentire in colpa.”
L’altro piegò le labbra in
un ghigno soddisfatto.
“E’ uno dei miei tanti talenti.”
“Un talento piuttosto
antipatico.”
“E’ pur sempre un
talento.”
John non gli diede
ulteriormente corda ma rimase a guardarlo, anche se cercando di non
sembrare
inopportuno. Quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo, abbassava
la
testa imbarazzato ma poi tornava alla carica, studiando i suoi
lineamenti
particolari, la sua figura tutt’altro che comune. Ovviamente,
il ragazzo se ne
accorse.
“Qualcosa d’interessante?”
domandò, ma certamente conoscendo la risposta.
John avvampò e si strofinò il viso con le mani
cercando di attribuire il
rossore a quello sfregamento, ma senza troppe speranze di successo.
“No, niente è che… mi sembra
così strano averti ritrovato” disse, semplicemente
esternando il suo pensiero. L’altro fece spallucce.
“Non è così strano. Capita ogni giorno,
ma nessuno ci fa caso".
“Io intendevo averti
ritrovato in questa…situazione. Ricordi cosa mi dicesti,
prima di sparire?”.
Il ragazzo dai capelli
scuri chiuse gli occhi, unendo le punte delle dita e sfiorandosi le
labbra con
gli indici.
“Alla prossima fuga.”
“Alla prossima fuga.”
“Evidentemente fuggi così
spesso che è straordinariamente facile incontrarti mentre
scappi da qualcosa.”
John lo fulminò
scherzosamente con lo sguardo.
“Antipatico.”
“E’ solo la realtà dei
fatti.”
“Io avevo bisogno di
cambiare aria.”
“Beh, l’hai cambiata.”
“Vuoi che vada via?”
“Non mettermi in bocca
cose che non ho detto.”
“Beh, è come se me lo
stessi dicendo.”
“Ti sbagli” disse ancora,
e John si accorse di quanto il ragazzo si fosse arcuato verso di lui,
come
pronto a fermarlo nel caso fosse scappato via offeso.
“Comunque dovresti
tornare. Sarà in pena per te, almeno credo.”
John emise un verso
sprezzante, stringendo un pugno di sabbia nel palmo, tenendolo stretto.
“Dubito. Stasera uscirà di nuovo e
tornerà a casa ancora più sbronza, lo
so”.
“Non puoi saperlo.”
“Tu sai sempre tutto.”
“Tu non sei me” rispose
l’altro, con un ragionamento impeccabile che fece ridere John
di gusto.
“Già” sussurrò John, a bassa
voce. “Io sono quello idiota.”
“Lo sono tutti.”
“Tranne te.”
“Tranne me.”
Il silenzio che seguì, fu
interrotto da un incessante bip bip bip
che avvisava John di un SMS in arrivo. Svogliatamente prese in mano il
cellulare e lo sbloccò, immaginando chi fosse il mittente
del messaggio e senza
alcuna voglia di rispondere o anche solo leggere quello che aveva da
dire.
Almeno aveva avuto la decenza di non chiamarlo e fare una scenata
melodrammatica al telefono. Guardò lo schermò e
scosse la testa, seccato.
“E’ lei?” domandò il
ragazzo.
“Sì.”
“Cosa dice?”
John mostrò lo schermo del
telefono al ragazzo, che lesse immediatamente la frase sgrammaticata,
colpa
certamente della fretta concitata con cui era stato scritto, ma
ugualmente
comprensibile.
“Mi dispiace tanto John”
ripeté John
con un sorrisetto beffardo. “Si è sprecata, anche
stavolta.”
Il ragazzo accanto a lui
sollevò un sopracciglio, sorpreso.
“Non ti aspetterai che sia in grado di articolare un poema di scuse dopo la notte che ha
passato?”
John boccheggiò, cercando
qualcosa a cui appigliarsi per non dargliela vinta di nuovo.
“No, ma…”
“Non c’è nessun
‘ma’. Va da lei, adesso.”
“Io non posso. Non sono
ancora pronto a tornare” disse con voce non troppo convinta.
Stava cercando di
fare il duro, di non cedere, di non ammettere che in realtà
era lui a essere in pena per sua
sorella,
dopo il messaggio. Si era ripromesso di non lasciarsi abbindolare
ancora dalle
scuse di Harry, dai suoi mille ‘mi
dispiace’ di ogni volta, ma non poteva farci nulla.
Harry era la sua
debolezza.
“Riesco a leggere i tuoi
pensieri. Sei un libro aperto per me sai?” disse il ragazzo,
guardandolo
intensamente, come se gli stesse davvero leggendo dentro.
“Sulla copertina
posso leggere quanta ansia tu sia provando in questo momento, nella
prima
pagina posso vedere la tua frustrazione nel non riuscire a resistere
nemmeno
un’ora lontano da lei nonostante tu ci abbia provato in tutti
i modi, e nella
seconda pagina, lo sforzo sovrumano che stai compiendo per cercare di
capire
dove tu possa trovare la fermata dell’autobus più
vicina” concluse, tutto di un
fiato, lasciando John a bocca aperta. “Sull’ultima
posso aiutarti. Segui la
stradina in cima a quelle scale lì in fondo, per un
centinaio di metri” indicò
una scalinata di roccia poco lontana.
“Dovresti fare il
detective. O qualcosa del genere” fu tutto quello che John
riuscì a dire, con
una risatina allegra. “Sei spaventoso, senza
offesa.”
Il ragazzo si infilò le
mani in tasca e si sollevò, giocherellando con un ramoscello
secco tra le scarpe.
“E’ un lavoro troppo…noioso”
rispose,
provocatorio.
John fece spallucce, alzandosi anch’egli, senza staccare gli
occhi di dosso al
suo compagno di chiacchierate.
“Dovresti inventartene uno, allora” propose John,
sorridendo.
L’altro lo guardò divertito.
“Potrei farlo, sì.”
John arrossì e lo guardò,
cercando qualcosa di buono da dire e da fare, quando sarebbe stato il
momento
di congedarsi. Voleva chiedergli se avrebbe potuto rivederlo, se
sarebbero
passati altri otto anni prima di incontrarlo ancora. Si
domandò se era il caso
di chiedergli dove abitasse, se gli andasse una passeggiata di tanto in
tanto,
o perlomeno il suo numero di telefono, ma nulla uscì dalla
sua bocca. Era come
bloccato, ammutolito, incapace di formulare anche solo una di quelle
domande.
Si lasciò accompagnare
sulla strada principale, in silenzio, fino alla fermata del bus che il
suo
compagno gli aveva indicato e si fermò sotto la pensilina,
in attesa.
Un bus rosso rombò in
lontananza, annunciando il suo arrivo, e John si piegò in
avanti, felice e
rammaricato allo stesso tempo nel costatare che fosse proprio quello
che a lui
occorreva. Voleva tornare da Harry al più presto, ma allo
stesso tempo non
voleva lasciar andare lui.
“E’ giunto il momento dei
saluti, a quanto pare” esordì il ragazzo, rompendo
il silenzio, mentre il bus
avanzava lentamente lungo la strada.
“A quanto pare” convenne
John e del tutto inaspettatamente, vide il suo braccio muoversi di sua
spontanea volontà, tendendo la mano al ragazzo di fronte a
lui. Questi lo
guardò stupito, come se non si aspettasse un gesto simile,
ma strinse la mano a
John, con presa salda. La sua mano era calda, liscia, per niente
ruvida.
L’autobus arrivò alla
fermata e John salì, cercando di non interrompere il
contatto visivo con il
ragazzo rimasto in strada, cercandolo attraverso il vetro aperto di uno
dei
finestrini.
“Alla prossima fuga, John” il ragazzo
mormorò, ma John riuscì a sentirlo
chiaramente. John sorrise e lo salutò con un gesto della
mano prima di sedersi.
Il suo cuore prese a battere furiosamente quando si accorse che quella
di poco
prima era stata la prima volta che quel ragazzo aveva pronunciato il
suo nome,
anche se lui non gliel’aveva mai detto.
Poi, un ricordo del molo,
una chiara immagine di nemmeno dieci minuti prima, lo colpì
come uno schiaffo
in pieno viso.
“Il messaggio di Harry”
bisbigliò a se stesso, rimuginando.
Quel ragazzo conosceva il
suo nome e John invece ignorava completamente quello di lui. Che
stupido era
stato a non chiederglielo prima? Perché era stato tanto
distratto da ignorare
un particolare tanto importante?
Prima che potesse affacciarsi nuovamente per poterlo chiamare, per
rubare
quella piccola ma fondamentale informazione, l’autobus
partì, facendolo
atterrare nuovamente sulla sedia. Quando il mezzo prese
velocità e John poté
nuovamente mettersi in piedi e sporgersi dal vetro, sotto la pensilina
non
c’era più nessuno.
Continua...
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Capitolo 2 *** Dimmi il tuo nome ***
Secondo capitolo! Un
grazie enorme a chi segue, recensisce o anche soltanto legge! Grazie
mille!
*
Una mattina di metà
gennaio, John ripensò a lui ancora una volta.
La spalla faceva male,
quasi troppo male per poterlo sopportare, e le fitte lancinanti alla
gamba non
facevano che peggiorare la sua situazione. Si trascinò dal
letto fino al tavolo
della colazione, cercando di rimuovere le immagini
dell’incubo di quella notte,
cercando di dimenticare il rumore acuto degli spari, delle urla, delle
voci che
chiamavano incessantemente il suo nome invocando aiuto.
Aprì il suo
portatile ed
esitò sui tasti, indeciso su cosa dire, senza realmente
alcuna voglia di
scrivere effettivamente qualcosa. Senza pensare, batté le
dita sui tasti
nemmeno osservando lo schermo, buttando giù qualcosa per
dovere, per il gusto
di farlo, per evitare che Ella lo rimproverasse al loro prossimo
incontro.
Quando rialzò gli
occhi e
lesse quello che sovrappensiero era uscito dalla sua mente, per poco
non verso
la tazza di tè poggiata accanto al computer su tutto il
tavolo.
21 gennaio 8.03
Mi manca una persona. Una
persona che ho visto
soltanto due volte in tutta la mia vita.
Voglio rivedere i suoi occhi, voglio sentire di
nuovo la sua voce dirmi che sono un idiota a scappare da tutto
ciò che non mi
va giù. Vorrei dirgli quello che provo adesso, quello che
provo ora che ho
smesso di scappare. Vorrei dirgli quanto mi piacerebbe che la mia vita
fosse
un’altra, non questa.
Sono un idiota davvero, perché credo di provare una
sorta di…amore, per lui. E non so nemmeno il suo nome, ma so
che ha un
fratello, è un sociopatico e che non ha amici. Oh, e che ama
pensare in luoghi
bui, deserti e isolati. Potrebbe essere chiunque, e soprattutto
potrebbe essere
ovunque, adesso. Potrebbe essere morto.
Qualcuno può aiutare questo povero matto?
John cominciò a
ridere,
dopo lo stupore iniziale, a ridere senza allegria, senza che realmente
lo
desiderasse. Forse stava davvero impazzendo, in quel vecchio e angusto
appartamento, e forse la solitudine lo avrebbe consumato completamente
un
giorno, e probabilmente sarebbe stato meglio così. Almeno
avrebbe smesso di
commiserarsi, di continuare a chiedersi perché
la sua vita avesse preso quella piega inaspettata.
Scuotendo la testa, chiuse
il portatile e si infilò in bagno per una rinfrescata,
sperando che l’acqua
fredda riuscisse a lavare via quei ricordi, pregando
che il rumore scrosciante della doccia permettesse a quegli
occhi di lasciare al più presto i suoi pensieri.
Passeggiando per il parco,
zoppicando sulla sua stampella, non riuscì ad allontanare
ancora il flusso dei
ricordi da quel ragazzo.
Non l’aveva mai davvero dimenticato, anzi, dopo
l’ultimo incontro aveva pensato
a lui quasi ogni giorno. Era arrabbiato, infuriato con se stesso per
non aver
mai chiesto il suo nome, o una qualunque cosa che potesse permettergli
di
rintracciarlo. Ogni tanto sentiva la sua mancanza così tanto
da sentirsi quasi
male, da costringersi ad affondare la testa nel cuscino per non
lasciarsi
andare. E la cosa peggiore è che non si spiegava il perché. Non erano amici, non
c’era stato il tempo di costruire un
vero e proprio rapporto, avevano passato insieme meno di due ore in
tutto, non
sapevano quasi nulla delle loro rispettive vite, eppure John era
rimasto
indelebilmente segnato da quel
ragazzo.
Era stato il primo, la prima
persona a mettere davvero in discussione le sue idee, il suo
comportamento, il
suo atteggiamento nei confronti di Harry e i suoi. La prima persona che
non si
era limitata ad un ‘sì,
hai perfettamente
ragione’ detto solo per far piacere e senza un
reale interesse, il primo
che pur non conoscendolo gli aveva detto quello che realmente pensava.
Aveva
aperto davanti a John un mondo che lui non conosceva.
Se solo fosse stato
possibile poterlo rivedere, ancora una volta.
Se solo la sua vita fosse
stata come una favola, dove sarebbe bastato uno schioccare di dita o lo
sfregamento di una lampada per avverare un suo desiderio, sarebbe stato
tutto
più facile, per John. Si ritrovò a pensare che
gli sarebbe bastato quel
desiderio, soltanto quello. Non soldi, non fama, non ville lussuose o
cose del
genere. Il solo pensiero di quel ragazzo, di quel meraviglioso
sconosciuto cui
sentiva di dovere così tanto di nuovo accanto a lui, lo
avrebbe reso un uomo
migliore. Gli sarebbe bastato anche solo il suo nome. Soltanto quello.
“John! John
Watson” una
voce lo distolse dal suo viaggio mentale.
John si voltò verso
la
voce e riconobbe quasi immediatamente un suo vecchio collega del Barts,
anche
se al momento il nome non faceva che sfuggirgli dalla mente, satura di
altri
pensieri.
“Mike! Mike
Stamford!
Eravamo insieme al Barts” disse l’altro con voce
entusiasta, come se fosse
sinceramente felice di aver rincontrato il vecchio amico. John gli
sorrise,
lieto che quell’uomo gli avesse concesso anche una sola
minima distrazione.
Mike gli offrì un
caffè e
parlarono del più e del meno, dei vecchi anni
all’Università, il tirocinio, e
ovviamente dell’Afghanistan. Mike gli fece una valanga di
domande trite e
ritrite, tra cui una memorabile affermazione su come si
fosse fatto sparare, come se l’avesse voluto lui, a
cui John
cercò di rispondere il più gentilmente possibile,
nonostante non fosse
decisamente in vena. Quando poi la conversazione arrivò ai
soldi, al suo
appartamento, e alle possibilità che John continuasse a
vivere a Londra, John
desiderò non aver lasciato il suo letto, quella mattina.
Stare sdraiato a
compatirsi fino a mezzogiorno inoltrato sarebbe stato meglio che
continuare su
quell’argomento, girando il coltello in una piaga ancora
aperta.
Disse a Mike che non lo
sapeva, che la pensione dell’esercito non sarebbe
più bastata per permettersi
di vivere in città e ascoltò il suo vecchio amico
chiedergli che fine avesse
fatto il vecchio John Watson, se Harry potesse aiutarlo, ipotesi
utopica quanto
il genio della lampada di poco prima, e se avesse mai pensato alla
possibilità
di cercare un coinquilino.
John sorrise, a
quell’affermazione. Chi avrebbe mai voluto un ex soldato
tormentato, depresso e
vittima di incubi notturni come coinquilino?
John guardò Mike e
sorrise, con un cipiglio sarcastico.
“Andiamo, chi mi
vorrebbe
come coinquilino?” disse, sicuro. Quello che non si sarebbe
mai aspettato però,
fu la risatina divertita di Mike che seguì la sua
affermazione.
“Cosa
c’è?” domandò,
sorpreso.
“Sei la seconda persona che me lo dice, oggi.”
John era davvero, davvero
curioso di conoscere il primo. Qualcosa, nell’immediatezza,
gli disse che
qualcosa sarebbe successo, quella mattina.
Fecero una passeggiata
fino al St. Bartholomew e Mike lo fece entrare a dare
un’occhiata al luogo dove
aveva passato praticamente metà della sua giovinezza, che
adesso era
completamente diverso, più moderno e inevitabilmente
più freddo rispetto ai
suoi tempi.
Passarono davanti alla
biblioteca e John sorrise ai ricordi dei mille pomeriggi passati a quel
tavolo,
sotto la luce calda della lampada che lo faceva sudare anche in agosto,
nascosto dal resto degli studenti da pile altissime di libri e appunti.
Arrivarono alla vecchia
mensa, alla grande sala d’aspetto, attraversarono le aule e
le fila numerate
degli ambulatori, fino ad arrivare all’ultima tappa, il
laboratorio.
E quando Mike aprì
quella
porta, la giacca sul braccio e un sorriso compiaciuto sul viso, John
entrò
nell’ampio ambiente illuminato da luci al neon bluastre, e
incrociò lo sguardo
con l’unico uomo presente nella stanza.
E per poco, John non si accasciò sul freddo e asettico
pavimento come un peso
morto.
Strinse il bastone con
tanta forza che credette di poter far esplodere il legno in mille
piccole
schegge e strinse la mano libera in un pugno tanto saldo da riuscire a
sentire le
unghie corte penetrargli nella carne del palmo. John, però,
non sentì alcun
dolore.
Perché lui era
lì, davanti a sé.
Era davanti ad un
microscopio, e John vide le sue pupille dilatarsi
nell’istante preciso in cui i
loro occhi s’incontrarono, le labbra leggermente dischiuse in
un’espressione di
sorpresa e stupore.
“Mike, mi presti il
cellulare, per favore? Il mio non prende” fu,
inaspettatamente, la prima cosa
che uscì dalla sua bocca. E non era rivolta a lui. John lo
guardò a bocca
aperta, stringendo ancora più forte il bastone, nervosamente.
“Perché
non usi un fisso?”
rispose Mike, infastidito.
“Preferisco gli
SMS.”
Mike gettò gli
occhi al
cielo, e sbuffò.
“Mi dispiace,
è nel mio
giubbotto” replicò, svogliato. John ebbe
l’impressione che non fosse la verità,
ma colse la palla al balzo, con quella risposta. Desiderava
disperatamente
rompere il ghiaccio, parlare con lui, infrangere quella barriera di
silenzio e
indifferenza che sembrava essersi creata, e quella era la giusta
occasione.
“Ecco, tenga” provò così a
dire, ma la voce uscì dalle sue labbra incerta,
tremolante. “Usi il mio.”
L’uomo
tornò a guardarlo,
una ciocca di capelli a oscurargli lo sguardo, identico a tanti anni
prima. Allungò
una mano e accettò il cellulare di John.
“Lui è un
mio vecchio
amico, John Watson” lo presentò Mike, senza troppe
cerimonie.
L’uomo piegò le labbra in un ghigno.
“Qualcosa mi diceva
che il
suo nome fosse John” disse, con ancora quel sorrisetto in
viso.
“Afghanistan o Iraq?” fu la domanda che gli
rivolse, poi.
Mike rise, cercando di
mascherarlo coprendosi con una mano.
“Vi lascio a fare un po’ di…conoscenza,
allora” disse l’uomo, rinfilandosi la
giacca. “Non spaventarti troppo John. A volte fa
quest’effetto”.
“Non lo
farò” disse John,
sicuro. Ormai lo conosceva. Sentiva
di conoscerlo.
L’uomo chiuse la
porta
dietro di sé e l’attenzione di John
tornò all’altro uomo.
“Non dirmelo.
E’ qualcosa
nei miei capelli, vero? O nella gamba, o qualcosa di simile?”
domandò John,
poggiandosi sulla sua stampella, senza staccare un secondo gli occhi di
dosso
all’uomo più alto. Questi lo guardò con
uno strano bagliore a illuminargli il
volto, come se John gli avesse detto qualcosa di assolutamente
straordinario.
“Mio Dio, John, spero non comincerai ad esternare questa tua
abilità deduttiva
in giro” scherzò l’uomo, con un
sorrisetto ironico. “O rischierei di perdere il
lavoro.”
John rise, scuotendo la
testa davanti all’assurdità di quella situazione.
Stavano di nuovo parlando del
più e del meno come se niente fosse, come se quello fosse
un’incontro casuale
al bar di due vecchi amici.
“Dovremmo smetterla
di
incontrarci così” disse poi, passandosi una mano
in viso.“Insomma, ho più una
decina d’anni di argomenti arretrati di cui
aggiornarti.”
L’altro sorrise,
armeggiando col cellulare di John ma lanciandogli occhiate furtive
sempre più
frequenti, come se non volesse dargli l’impressione che non
lo ascoltasse.
“Dieci anni di
litigi con
tua sorella da sorbirmi” l’uomo dai capelli scuri
chiuse gli occhi, come se
stesse pregustando qualcosa di infinitamente dolce. “Oh, cosa
mi sono perso.”
John mise le mani sui
fianchi, come a volerlo rimproverare.
“Fai poco lo
spiritoso. Sei
sempre stato tu a chiedermi di raccontare”.
“Oh ma io ero serio,
John”
l’uomo lo guardò con sguardo palesemente beffardo.
“Cosa ti fa credere che
fossi sarcastico?”
John rise di nuovo, con il
cuore che batteva all’impazzata, sentendosi totalmente a suo
agio per la prima
volta dopo quelli che sembravano secoli, ai suoi occhi.
“Noto con piacere
che sei
ancora un insopportabile sotuttoio”
esclamò, fingendo indifferenza. “Avevo quasi
temuto che tu fossi diventato un
rispettabile cittadino con, uh, l’hobby del
giardinaggio.”
L’uomo accanto a lui
rabbrividì a quella prospettiva.
“No John. Grazie per la pittoresca visione” lo
schernì. “Comunque, se sono qui
è perché ho seguito il tuo consiglio.”
John osservò il set
di
provette, vetrini e strani liquidi davanti a lui e cercò di
ricordare a quale
consiglio si riferisse. Non ci mise molto a riportare alla mente
l’immagine di
quel giorno e le parole precise.
“Oh”
disse, sinceramente
stupito. “Sei diventato una specie di…
chimico-investigatore?”
L’altro
arricciò il naso e
scosse la testa, contrariato dalla definizione poco fantasiosa
attribuitagli da
John.
“Consulente Investigativo”
spiegò,
con una certa fierezza nella voce. “L’unico al
mondo. Quando la polizia
brancola nel buio, cioè sempre, si appoggia a
me”.
John fischiettò, in
tono
d’approvazione.
“Però.
Hai fatto strada”
si complimentò, sinceramente. “E…tuo
fratello?” gli domandò, chiedendosi
nemmeno due secondi dopo perché diavolo l’avesse
messo in mezzo.
La bocca dell’uomo assunse una piega disgustata, come se
avesse gli avessero
appena fatto ingollare un cucchiaio di sale.
“Mio fratello
continua
ancora ad atteggiarsi a Dio Onnipotente,
grazie per l’interessamento” liquidò
lì l’argomento. Poi alzò gli occhi a
John,
con una visibile frase sospesa sulle labbra.
“Mi dispiace per il divorzio di tua sorella,
comunque” disse, alla fine.
John aprì la bocca
senza
che ne uscisse alcun suono. Come aveva fatto a sapere di Harry?
“Come…”
boccheggiò. “Come
fai a sapere…?”
L’altro si
rigirò il
cellulare di John tra le dita, giocherellandoci come fosse una specie
di buffa
pallina e facendolo passare da una mano all’altra.
“Il cellulare. Gli oggetti parlano,
John, e il tuo cellulare è un gran chiacchierone”.
John si accigliò.
“Spiegami come il
cellulare ha fatto a parlarti di
Harriet e Clara” disse John, categorico.
L’uomo
più giovane assunse
un’espressione confusa.
“Harriet?”
“Certo, Harriet, mia
sorella.”
“Pensavo fosse
‘Harry’”
“Pensavi che il nome
di
mia sorella fosse Harry?”
rise John,
assolutamente divertito da quella faccenda. L’uomo
sembrò non prendere bene
l’allegria di John.
“Pensavo che i tuoi
fossero di quelli fissati con i nomi maschili, come Ashley,
o Sasha o cose
del genere.”
John rise ancora
più
forte, poggiando una mano sul tavolo del laboratorio e dimenticandosi
completamente del bastone e della gamba dolorante.
“Oh mio Dio, esiste qualcosa che non sai!” gli
puntò contro il dito, con fare
teatrale.“Che soddisfazione.”
L’uomo lo trafisse
con uno
sguardo tagliente, assassino.
“Ora sei tu quello
antipatico.”
“Oh, non
m’importa. E’
talmente soddisfacente…” lo stuzzicò il
medico.
“Ti basta poco per
entusiasmarti” sbuffò il moro, senza guardarlo.
“Non è
poco per me”
puntualizzò John. “E non cambiare argomento.
Forza, dimmelo.”
L’altro non rispose
ma si
alzò dalla sedia e andò a riporre tutto il
materiale sparso che aveva davanti, nel
mobile dietro di lui. John tossì per attirare la sua
attenzione e l’uomo si
voltò a guardarlo con aria innocente.
“Cosa c’è?” gli
domandò, come se non lo sapesse.
John strinse gli occhi,
riducendoli a due fessure.
“Hai ancora una
risposta
in sospeso” gli ricordò il medico, tamburellando
con le dita sul tavolo.
L’altro
sbuffò.
“Non ti ho pedinato
per
tutti questi anni, nel caso te lo stessi chiedendo. Non ti sto
rispondendo
soltanto per evitare una penuria di argomenti durante il nostro primo
giorno di
convivenza” annunciò, semplicemente.
John non comprese e gli si
avvicinò, in cerca di spiegazioni.
“Convivenza?”
ripeté John, confuso. Chi aveva mai parlato di
convivenza?
“Stamattina ho detto
a
Mike che sarebbe stato difficile trovare un coinquilino, e dopo pranzo
eccolo
di ritorno con un suo vecchio amico, chiaramente congedato
dall’Afghanistan”
spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del
mondo, come sempre. “Non era così
difficile da capire. Ho adocchiato un appartamento in centro che
insieme
potremmo permetterci”.
John si bloccò,
ammutolito
e sconvolto da quell’affermazione. Fino a quella mattina
aveva sperato in un
miracolo come quello con tutte le sue forze, dandosi dello sciocco e
dell’idiota per credere ancora in quelle favole,
in quello stupido e fantascientifico affetto
per un’ombra del suo passato, e adesso eccolo lì a
parlare con lui di una
possibile e futura vita insieme. John si morse la lingua fino a farla
sanguinare, cercando un segno tangibile che quella fosse davvero la
realtà e
non un sogno bellissimo e fin troppo realistico
che lo avrebbe distrutto al risveglio. Il sapore metallico del sangue
nella sua
bocca gli sembrò dolce come miele.
“E chi ti fa credere
che
io voglia condividere un appartamento con te, uomo del
mistero?”
L’altro
afferrò il
cappotto dalla sedia vicina e lo infilò, sistemandosi i
guanti e il bavero,
senza distogliere gli occhi da John. Si avvicinò al medico e
gli sorrise,
vicino, fin troppo vicino, con i loro nasi prossimi a sfiorarsi. Il
respiro di
John divenne irregolare mentre seguiva con lo sguardo la curva insolita
delle
labbra di lui.
“Io lo so”
fu la sua
risposta, enigmatica come sempre.
“Tu…lo
sai?” disse John
incredulo, cercando di non ridere. “Davvero?”
“Certo.”
“E come fai a
saperlo, di
grazia?”
Il viso dell’uomo si
spostò, fino a chinarsi di più verso John,
appoggiandosi al tavolo, così da
portare i loro visi alla stessa altezza. Il suo respirò
accarezzò le guance di
John fino al suo orecchio, prima che l’uomo parlasse, in un
sussurro, come se
avesse paura che qualcuno potesse sentirli.
“Perché
non sei più un ragazzino
spaventato, John. Perché hai compreso che saltare uno
stupido esame non è nulla
in confronto alla perdita di un commilitone, di un
amico. Perché hai capito che una vacanza andata a
monte non è un
vero problema, non è doloroso, non fa male come un
proiettile in una spalla”
bisbigliò. John non fiatò, rimanendo ad
ascoltare, come rapito dalla voce
profonda e piena di verità di quell’uomo.
“Perché
sei cresciuto
John, e la guerra è stata la tua ultima fuga”
esclamò ancora e stavolta il suo
tono di voce crebbe. “Perché adesso non scapperai
più, tu resterai. E mi
piacerebbe che tu restassi con me.”
Lasciando un completamente
sbigottito John Watson appoggiato al tavolo di marmo, con le mani che
stringevano la superficie fino a farsi sbiancare le nocche,
l’uomo si avviò
verso la porta. John non voleva che le loro strade si separassero
ancora, John
non voleva lasciarlo andare, ma ancora una volta non riusciva a
parlare, a
esprimere al meglio quello che aveva nel cuore.
Quando lo vide afferrare
la maniglia della porta però, qualcosa scattò
dentro di lui. Doveva farlo,
questa volta. Doveva chiederlo. Sapere.
“Non so dove dovremo
incontrarci” gridò, bloccando l’uomo sul
posto. “E soprattutto, io non conosco
il tuo nome” concluse, e quella frase sembrò
alleviare il petto di John di un
peso gigantesco, opprimente.
L’uomo chiuse gli
occhi,
come se John gli avesse finalmente dato la soddisfazione che cercava, e
poggiò
la fronte allo stipite della porta prima di rivolgere nuovamente lo
sguardo al
medico.
“Domani sera.
L’indirizzo
è il 221B di Baker Street” disse, con voce
tranquilla ma smossa da una profonda
e tacita eccitazione. “E
il mio nome
è Sherlock Holmes” aggiunse, prima di sparire
lungo il corridoio.
Dopo un iniziale silenzio, John scoppiò a ridere, tenendosi
la testa tra le
mani come una ragazzina eccitata al suo primo appuntamento.
Scivolò lungo la
parete del laboratorio ancora ridendo, sentendosi euforico,
soddisfatto,
pervaso da una scarica d’adrenalina pura che lo faceva
sentire in grado di
affrontare qualsiasi cosa.
“Oh mio
Dio” sussurrò a se
stesso, incredulo. “Tutto questo è
assurdo.”
Si risollevò, quasi
completamente dimentico della gamba, della spalla e di qualunque altro
malanno
o preoccupazione lo avesse tormentato prima di quel giorno.
Uscì anche lui
nella fresca aria di quel mattino, il mattino del suo miracolo,
il mattino in cui John aveva finalmente smesso di
fuggire, gettando la sua ancora in un porto sicuro che adesso aveva un nome.
Sarebbe andato tutto bene
d’ora in avanti. John lo sentiva. John ne era sicuro.
Continua…
|
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Capitolo 3 *** Non capisci, John? ***
Terzo capitolo! Sono
‘solo’ cinque pagine, per non
appesantire troppo la lettura!
Grazie a tutti per le recensioni! Risponderò a ognuna,
giurin giurello!
*
E
quella convivenza si stava
rivelando essere anche migliore del
previsto, oltre ogni previsione di John.
Pistole, inseguimenti e
tassisti psicopatici a parte.
Sherlock non era una
persona facile, tutt’altro, con la sua totale avversione per
i sentimenti e per
il normale rapportarsi con le altre persone, ma John sentiva
di essere diverso, per lui.
Non si era mai reputato
speciale, non nel senso vero e proprio del termine, prima che Sherlock
piombasse nella sua esistenza a farlo sentire tale.
Certo, a volte, o meglio quasi sempre, il detective era
intrattabile, pungente, assolutamente sgradevole,
ma John era una sorta di panacea per tutti i suoi mali. Tutto era
diverso,
quando lui era con Sherlock.
Se era arrabbiato, una
parola di John poteva rasserenarlo quasi immediatamente, se era
annoiato, cosa
tristemente frequente, Sherlock abbandonava di buon grado il martirio
dei muri
se l’alternativa era la compagnia del suo coinquilino.
Il detective non aveva mai
detto espressamente a John quanto fosse importante
per lui, men che meno gliel’aveva dimostrato con un
gesto fisico come un abbraccio, un
bacio o
anche solo una pacca sulla spalla, ma sapeva farsi intendere anche
rimanendo in
silenzio. Sapeva che John avrebbe capito.
E John capiva sempre, ogni volta.
Un giorno però,
scendendo
le scale dalla sua camera alla cucina, appena sveglio, John si
ritrovò davanti alla
scena più inverosimile, impossibile e impensabile che avesse
mai visto in tutta
la sua vita. Lasciò cadere l’asciugamano che aveva
tra le mani sull’ultimo
gradino, quasi scivolandoci sopra, e continuò ad osservare
con occhi spalancati
il quadretto idilliaco davanti a sé come se non riuscisse
più a distogliere lo
sguardo.
Sua sorella teneva
Sherlock avvinghiato a sé in un abbraccio talmente stretto
da spingere John a
pensare che il povero detective faticasse seriamente a respirare. Il
suo
colorito, che stava variando da un rosa pallido ad un rosso acceso,
sembrò
confermare la sua teoria.
Era qualcosa di agghiacciante
nella sua assurdità.
“Sto ancora
dormendo”
disse a voce alta, così che i due potessero sentirlo.
“E questa è una qualche
stramba proiezione del mio subconscio malato”.
Harry lasciò la
presa su
Sherlock, che si massaggiò il collo, ansimante, sporgendosi
da dietro la spalla
dell’uomo con un sorriso radioso. Quel giorno era molto
carina, con i capelli
biondi raccolti da un cerchietto rosso e un vestitino dello stesso
colore che
le svolazzava intorno come una nuvoletta, e sembrava decisamente di
buon umore.
“Ciao John! Ho
pensato di
fare un’improvvisata!” squillò con voce
allegra, correndo verso suo fratello ad
abbracciare anche lui. John vide Sherlock fissarla con lo stesso
sguardo con
cui si guarderebbe un pazzo armato di coltello. O meglio, come un uomo qualunque guarderebbe un pazzo
armato di coltello.
“Ho
notato” disse John,
tornando a respirare, con gli occhi che vagavano da lei a Sherlock.
“E hai
pensato bene di aggredire il mio coinquilino, giusto per rendere la
conoscenza
più interessante”.
Harry non sembrò
particolarmente colpita dall’insinuazione. Fece un gesto con
la mano come a
dirgli di lasciar perdere.
“Oh, ero solo
contenta di
conoscerlo, finalmente! Se avessi aspettato che me lo presentassi
tu…” guardò
John con espressione severa.
Il dottore grugnì,
senza
molta voglia di intavolare quel discorso.
“Era per evitare
tutto
questo…amore a profusione. Mi metti in imbarazzo”
si giustificò John, guardando
altrove e sentendo le guance andare in fiamme. Harry mise le mani sui
fianchi.
“Oh quanto esageri
fratellino!” sbottò. “Sempre a
rinfacciarmi di essere troppo espansiva! E poi a
Sherlock non è dispiaciuto, vero?”.
Sherlock sussultò
sul
posto, come risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti, sentendosi
chiamato in
causa. Stava assistendo al battibeccare dei due fratelli come se fosse
uno
spettacolo incredibilmente interessante.
“Oh affatto. Adoro i
sani
abbracci mattutini. John non lo fa mai” insinuò,
sfoggiando una delle sue migliori
espressioni di delusione, come se fosse davvero rammaricato dalla
mancanza
d’affetto del coinquilino. Il dottore lo fissò,
sbigottito, meditando se
assalirlo lì sulle scale o se aspettare che Harry andasse
via.
“Non mi sei mai
sembrato
il tipo, Sherlock” puntualizzò, acido.
“Tu non me lo hai
mai
chiesto, John”.
“Forse
perché mi hai
sempre dato l’impressione di preferire un proiettile in un
piede piuttosto che
un abbraccio”.
“Questo è
perché vedi ma
non osservi, John” spiegò Sherlock scuotendo la
testa. “E poi io non sono il
tipo da proiettili. Quella è la tua
area di competenza” sorrise, mellifluo.
John lo fulminò con
lo
sguardo.
Poi Sherlock si rivolse a
Harry.
“Devi scusarlo,
è un tale
musone. Ha paura di esternare i suoi sentimenti. Tu sentiti pure libera
di
dimostrare liberamente il tuo affetto” sorrise a Harry con
uno sguardo melenso
maledettamente convincente. Harry batté le mani, deliziata.
John non aveva più
parole.
Forse stava sognando davvero. Forse tutta quella situazione era solo
frutto
della sua mente instabile. Non trovava altra spiegazione.
“Sei davvero un
amore,
Sherlock!” squittì Harry, stridula.
“Avrei davvero voluto conoscerti mesi fa!”.
“Ha
ragione!” le diede corda
il detective.
John si prese la testa tra
le mani, con sguardo esasperato, fissando Sherlock con espressione
assassina.
“Se avessi saputo
che tra
voi sarebbe nato quest’amore sconfinato, vi avrei fatto
incontrare prima,
davvero, al diavolo l’imbarazzo. Perdonami,
Sherlock” esclamò, sarcastico.
Sherlock guardò il
dottore
come se non capisse perché gli stesse parlando con quel tono
acido.
“Colpa della solita
mancanza di fiducia nei miei confronti, John. Pensavi che la tua
adorabile
sorellina potesse darmi un qualche fastidio?”.
John strinse i pugni,
incrociando le braccia e scoprendo i denti come un predatore pronto
alla
caccia.
“Oh, scusami per
averlo
anche solo pensato. Credevo di conoscerti bene, e
invece…”.
“Ci conosciamo da
soli
quattro mesi, John. Non è abbastanza”.
John rise, ironico,
guardando Sherlock con gli occhi ridotti a fessure.
“Oh, ma tu sai che a
me
sembra di conoscerti da anni”
lo
stuzzicò.
Sherlock, inaspettatamente
ammiccò, senza farsi scorgere da Harry. John non
riuscì a trattenere un sorriso.
“Non posso darti
torto. E’
la stessa impressione che ho sempre anch’io”
asserì il detective, e il suo viso
sembrò illuminarsi.
Harry guardava i due con spiccatissimo interesse, come se comprendesse
la
presenza di un messaggio nascosto che lei non riusciva a cogliere.
“E dicevo proprio
poco fa
alla cara Harry di quanto mi sembra di…conoscerla
a fondo, nonostante questo sia il nostro primo
incontro”.
Harry annuì,
vigorosamente, prendendo un braccio di Sherlock e intrecciandolo al suo.
John portò una mano
alla
bocca, per mascherare la risata che stava per sfuggire dalle sue
labbra.
Sarebbe stata abbastanza inopportuna, in quella situazione.
“Ma
davvero?” domandò al
detective, pregando di riuscire a trattenersi.
“Davvero.
E’ fantastico,
non credi?”.
“Grandioso”.
“Non mi era mai
capitato”
ribadì Sherlock, senza staccare un secondo gli occhi da
quelli di John.
“Abbiamo davvero un feeling”.
“Ma non mi
dire” John
strabuzzò gli occhi, fingendo, con un certo talento,
un’enorme sorpresa.
“Tutto
vero”.
“Straordinario.
Senza che
io te ne abbia mai
parlato” lo prese
in giro John, ancora mantenendo quell’espressione.
Harry, ancora sospettosa
ma probabilmente non troppo incline ad indagare a fondo,
continuò ad annuire,
come se pendesse dalle labbra di Sherlock.
“E’
verissimo, sì. Sento un
legame, Johnny. Andremo
d’amore e
d’accordo, già lo sento”.
John sorrise, quasi
intenerito.
“Che idillio” mugolò, sarcastico.
Harry arricciò il
naso.
“Sei sempre il
solito” lo
accusò, incrociando le braccia.
“Sono fatto
così”.
“Beh, sei fatto
male” lo
prese in giro Harry, bonaria.
“Tu mi ami
così come sono”
rispose poi a tono John, ma senza alcuna cattiveria.
Harry gli si avvicinò, ancora sorridendo e lo
abbracciò nuovamente. John la
cinse con le sue braccia, gettando ogni tanto un’occhiata a
Sherlock che li
guardava curioso, ma con un certo divertimento.
“Beh, mi dispiace
davvero
ma devo scappare. E’ stato un enorme piacere,
Sherlock!” Harry si liberò dalla
presa su John e si gettò nuovamente tra le braccia di
Sherlock che non mancò di
ricambiare la stretta. John continuava a rimanere allibito da quel
comportamento.
“Lo stesso per me,
Harry”
asserì Sherlock, ricevendo come risposta un altro sorriso
raggiante.
“Sei davvero un
ragazzo
così carino”
John sentì dire a sua
sorella, come se stesse parlando con un bambino di tre anni che muove i
primi
traballanti passi sui suoi piedini.
“Carinissimo”
rincarò
John, in una grottesca imitazione della voce di sua sorella.
Harry gli fece la
linguaccia.
“Tornerò
presto. Dobbiamo
raccontarci un sacco di cose, noi tre!” disse allegra, ma a
John sembrò più una
minaccia che una piacevole prospettiva. Si sforzò di
dimostrare un minimo di
entusiasmo.
“Non vediamo
l’ora” si
costrinse a dire, e Sherlock, senza farsi vedere, scoppiò a
ridere.
Harry rise, sinceramente
deliziata, e dopo un ultimo abbraccio corse verso la porta, chiudendola
dietro
di sé e sparendo in uno svolazzo di stoffa rossa.
John crollò sul
divano,
respirando profondamente come se si stesse riprendendo da un incontro
di boxe
particolarmente violento.
Sherlock si sedette
accanto a lui, senza parlare. Quando John si riprese completamente,
decise che
era il caso di chiarire la faccenda con il coinquilino.
“Si può
sapere che ti è
preso? Abbracci mattutini?”
ripeté,
come fosse qualcosa di inconcepibile.
Sherlock sospirò.
“Beh, è vero. Non me ne dai mai.”
puntualizzò il detective, stringendo a sé un
cuscino, come a dargli dimostrazione di un forte bisogno di affetto.
John rise.
“Forse
perché so che se solo
ci provassi potrei trovarmi…non so, accoltellato?”
suggerì.
Sherlock mugolò, scuotendo la testa, pensoso.
“No, sangue crea
confusione e sai quanto questo urti la Signora Hudson. Forse dovresti
preoccuparti del tè a colazione”
ribatté.
John fece un versetto
d’assenso.
“Molto
più pulito”.
“Decisamente”.
Silenzio.
“Che ti è
preso,
Sherlock?” domando poi, finalmente. “Seriamente,
perché?”.
Il detective si
voltò
lentamente verso di lui e gli rivolse un altro dei suoi sguardi di
delusione,
uno di quelli che John aveva catalogato sotto la voce ‘guardi
ma non capisci’.
“Pensavo fosse
chiaro”.
John sbuffò.
“Ecco che ci risiamo”.
Sherlock si
puntellò sulla
seduta soffice del sofà e incrociò le braccia.
“John, dovresti
applicarti
di più”.
“Prometto che lo
farò. Ora
parla”.
“John,
davvero…”.
“Parla,
Sherlock!” lo
esortò, con un tono più simile a
un’intimidazione che a un incoraggiamento. Il
detective sembrò non essere in vena di contraddirlo
ulteriormente.
Sospirò e
unì le punte
delle dita, sfiorandosi il mento.
“Non mi andava
di…trattarla
come tutti gli altri” ammise, con un certo sforzo,
distogliendo momentaneamente
lo sguardo da John.
Il dottore lo
guardò,
senza capire. Da quando lo conosceva, non aveva mai visto Sherlock
riservare un
trattamento di favore a chicchessia.
“E cosa ha fatto per
meritarsi un tale onore?” domandò John con fare
pomposo.
L’altro
tornò a rivolgere
gli occhi verso di lui, con espressione concentrata, come se quello che
stava
per dire richiedesse una costante concentrazione.
“Perché
sono in debito con
lei” ammise, e John lo vide arrossire, anche se Sherlock non
lo avrebbe mai
ammesso.
Il dottore lo
fissò,
stranito.
“In
debito?”.
Sherlock annuì e
sorrise,
come se fosse divertito dalla sua incapacità di inquadrare
la situazione.
“Lei ti ha costretto
a
scappare, quella notte” disse poi, a fugare ogni dubbio di
John. “E grazie a
lei che ti ho incontrato”.
John non rispose,
rimanendo semplicemente lì accanto a lui, con la bocca semi
aperta e
un’espressione che doveva sembrare tutt’altro che
furba o intelligente.
Sherlock non disse nient’altro e si alzò dal
divano, tornando in cucina a
dedicarsi all’esperimento che Harry lo aveva costretto ad
abbandonare al suo
arrivo.
John sorrise, ancora senza
parlare, senza una vera necessità di dire qualcosa, in
fondo. Sherlock lo
guardò di sfuggita, da sopra il suo microscopio, e il
dottore lo vide
mascherare uno sguardo compiaciuto, felice. John annuì e il
suo coinquilino
distolse lo sguardo, soddisfatto.
A Sherlock non servivano
parole, e in fondo, a John andava bene anche così.
Continua…
|
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Capitolo 4 *** No place like home ***
Arriva il quarto capitolo!
Lieve cambio di atmosfere, vi do solo questo piccolo avviso.
Sperando in bene, vi
auguro buona lettura!
S.
Can
miles truly separate you from friends?
If you want to be with someone you love, aren't you
already there?
-Richard
Bach
*
La vita con Sherlock era
stata una liberazione, per John.
Ogni giorno passato
accanto a lui era stato pregno di una qualcosa di sempre nuovo,
piacevole,
adrenalinico, vivo. Ogni momento
passato in sua compagnia gli aveva donato qualcosa di liberatorio, una
sensazione simile al tornare a respirare dopo ore
di apnea.
Era stato tutto quasi
irreale, come in un sogno. La sua vita aveva cominciato a sembrare
così simile
a quella che aveva sempre desiderato che a volte si svegliava nella sua
stanza
credendo fosse tutto svanito, che una volta aperte le persiane, la luce
avrebbe
invaso l’angusta stanza in affitto dove aveva vissuto prima
di Baker Street,
lasciandolo con l’amarezza di un obiettivo mai raggiunto, di
un desiderio
irrealizzabile.
Invece, era stato tutto vero.
Era nelle mani di Sherlock che ogni mattina aveva poggiato la prima
tazza di
tè, seguita immediatamente dalla propria; era sulle spalle
di Sherlock che
aveva rimboccato la coperta quando il detective crollava sul divano
dopo ore di
lavoro senza sosta, ed era stato Sherlock, sempre e inevitabilmente
Sherlock a
occupare ogni suo pensiero, ogni singolo giorno della sua nuova vita.
Non avevano mai parlato
dei loro incontri precedenti. Non avevano mai accennato a quei momenti,
al
tempo passato, al fatto che fosse trascorso così tanto
tempo, o anche
semplicemente discusso del perché non avessero mai cercato
un modo per tenersi
in contatto. Forse non ne avevano sentito il bisogno, o forse John non
aveva
desiderato rivangare momenti della sua vita che avrebbe voluto
dimenticare. Non
era rimasto più spazio per i ricordi in quella vita, i
cassetti della sua mente
erano diventati colmi fino all’orlo e John non aveva sentito
alcun bisogno di
riaprirli.
Adesso
però, ora che tutto
ciò che rimaneva di quell’anno e mezzo insieme non
era altro che una macchia di
sangue rappreso su di un marciapiede, John era stato costretto a ricordare.
Non aveva dormito per
giorni dopo la caduta, e quelle poche volte che era riuscito a
scivolare in un
tormentato dormiveglia non aveva fatto che sognare lui.
Ed erano sogni, incubi,
completamente diversi da quelli
che avevano tormentato il suo sonno tempo prima.
Una guerra diversa.
Era come tornare indietro
nel tempo ogni volta, rivivendo sempre la stessa scena, sempre gli
stessi attimi
che di volta in volta cambiavano in un unico piccolo particolare.
In quei sogni Sherlock gli
parlava, gli parlava sempre, gli
diceva di rimanere fermo, di non muoversi. Sherlock gli diceva che
quello era
il suo biglietto, che era quello che la
gente faceva, e che era un impostore e tutti dovevano
saperlo. E alla fine,
il suo commiato.
Quello che cambiava ogni
volta, erano le parole che seguivano quella lacerante frase
d’addio, che diventavano
ogni notte più crude, piene di risentimento e colpa,
sentimenti che
costringevano John a mordere con forza il cuscino per non gridare, per
non
esplodere dalla frustrazione pressante.
Una volta sentiva chiaramente Sherlock chiedergli di fermarlo, di
aiutarlo a
scendere, di impedirgli di compiere qualcosa che non desiderava
davvero.
Un'altra volta lo vedeva chiaramente piangere, dando
un’immagine alla voce
rotta dalle lacrime che aveva sentito al telefono, e altre volte,
quelle
peggiori che lo facevano risvegliare madido di sudore e con una morsa
allo
stomaco, Sherlock lo accusava di non aver nemmeno provato
a salvarlo.
Ed era vero, in fondo, e
quel pensiero per John era come una lama affilata che gli dilaniava il
petto
ogni volta che vi si soffermava.
Sapeva che non avrebbe
potuto fare nulla in quei pochi minuti, Sherlock era stato chiaro sul non muoversi, e sapeva che se gli avesse
disobbedito avrebbe vissuto con ancora più rimorso, ma non
riusciva a darsi
pace.
Avrebbe tanto voluto avere dodici anni, come la prima volta che
l’aveva
incontrato, con la speranza infantile che tutto potesse succedere, che
nulla
fosse completamente impossibile.
Aveva pensato tante volte
a quanto sarebbe stato meglio non averlo più incontrato dopo
la mattina al molo,
anche se pentendosi subito dopo di avere anche solo immaginato una
prospettiva
simile.
Sherlock aveva portato colore al suo mondo grigio, spento. Sherlock gli
aveva
dato tutto, e John aveva ricambiato in ogni modo possibile, grato,
riconoscente
alla vita per quella possibilità.
Forse avrebbe dovuto
litigare con Harry, quel pomeriggio di agosto. Poi sarebbe scappato in
un posto
solitario, tranquillo, lontano dal resto del mondo e magari lo avrebbe
trovato
lì ad aspettarlo. Magari Sherlock avrebbe potuto concedergli
quel piccolo
miracolo.
Sherlock avrebbe potuto. Sherlock avrebbe potuto fare ogni
cosa.
John non aveva voglia di
rimanere in casa, quella sera.
L’afa era diventata
opprimente, nemmeno il calar del sole sembrava poter offrire il
refrigerio
tanto agognato, e il nuovo appartamento di John era un vero e proprio
forno a
causa del condizionamento difettoso.
Non aveva una meta ben
precisa, non gliene serviva una, ma girovagò per il
quartiere a passo lento,
con la testa china e immerso nei suoi pensieri.
Entrò in un pub e
bevve un
paio di birre per scacciar via una malinconia che si
dimostrò più resistente
del previsto e continuò per la sua strada, costeggiando
appartamenti illuminati
e chiassosi e casette più tranquille, con coppie
d’anziani seduti l’uno accanto
all’altro sul patio.
Il Big Ben risuonò
in
lontananza, avvisandolo dell’avvicinarsi della mezzanotte,
quando John si
accorse di essere quasi in prossimità del suo vecchio
quartiere natale.
Sorrise e osservò
con
nostalgia i palazzi alti, le colonne bianche davanti agli ingressi, i
cancelli
smaltati e perfettamente ridipinti che da piccolo si divertiva a
scavalcare e
le aiuole fiorite ben tenute dalle vecchine del piano terra.
Avrebbe dovuto portarci
Sherlock, anni prima, anche se forse il suo amico non avrebbe
apprezzato al
massimo il sentimentalismo estremo di quel gesto, ma poco importava.
Avrebbe dovuto renderlo
partecipe della sua vita passata, magari portarlo a quel vecchio parco
giochi
dove si erano visti la prima volta. Sarebbe stata un gran bel gesto, se
solo…
se solo le cose non fossero andate com’erano andate.
E a proposito di quel
parco giochi, il lento cammino di John lo portò
inevitabilmente in prossimità
dei suoi cancelli, a costeggiare il lato ovest a pochi metri di
distanza, con
le chiome dei due alti faggi ad abbellire ulteriormente il cancello
d’entrata decorato
in ferro battuto.
Le labbra si piegarono
inevitabilmente in un sorriso, e cominciò, senza che se ne
rendesse conto, ad
avvicinarsi sempre di più alla cancellata ripida che
recintava il parco, dello
stesso identico colore di vent’anni prima, che rifletteva
perfettamente lo
spirito di quel luogo dove il tempo sembrava quasi non essere passato.
Senza riflettere
più di
tanto, sfiorò una delle sbarre, stringendola nella mano
destra e usando la
sinistra per puntellarsi su una delle travi verticali.
Magari con la leva
giusta…
Si diede lo slancio con il
piede destro e saltò sul muretto in pietra, dandosi
un’ulteriore spinta su di
esso, e con un notevole sforzo riuscì a salire cavalcioni
sulla parte superiore
fino a scendere con un balzo agile sull’erba del prato
dall’altro lato.
John non sapeva
esattamente perché l’avesse fatto, in
verità.
Si immaginò gli
sguardi di
Greg, la Donovan o Anderson se lo avessero visto sgattaiolare in un
vecchio
parco giochi, per di più chiuso,
ma a
John in quel momento non poteva importare di meno del giudizio degli
altri.
Si diresse a passo sicuro
verso il parchetto delle altalene, il suo favorito quand’era
bambino, e fu
felice di notare che le sue preferite, quelle arancioni dove aveva
passato ore
ed ore a dondolare senza mai stancarsi, erano ancora lì
dov’erano sempre state.
John quasi si commosse davanti a quell’oggetto, alla fine
soltanto una struttura
di ferro, corda e legno, ma che per lui significava tantissimo.
La sfiorò come se
quella
potesse sentirla, come se potesse effettivamente godere della sua
carezza, e
John sorrise quando quella cigolò sonoramente, come a dargli
un segno
d’apprezzamento.
Dopo una piccola iniziale
esitazione John la fermò, afferrandola per le corde e
sedendosi piano, quasi
come se temesse di romperla. Per fortuna, quella resistette.
Cominciò a
dondolarsi
lentamente, dandosi la spinta con i piedi allineati, e
lasciò la mente vagare a
quella notte dei suoi dodici anni, la notte in cui aveva visto
Sherlock, che a
quel tempo era solo un mocciosetto arrogante senza nome, per la prima
volta in
assoluto.
Ricordava ogni piccola sfumatura di voce, ogni suo sguardo, ogni
movimento che
aveva potuto vedere nella flebile luce, e John non smetteva mai di
stupirsi
davanti a quell’evidenza. Soltanto quegli istanti, i momenti
passati con
Sherlock, rimanevano vividi nella sua mente a quel modo, come se
fossero scene
di film viste e riviste incise su una pellicola immaginaria nella sua
testa.
Avrebbe voluto dimenticare, da un lato, ma dall’altro era
felice, grato, incredibilmente
sollevato dal fatto di avere quei ricordi così chiari ben
impressi in mente.
Dimenticarlo sarebbe stato come tradirlo, e John avrebbe preferito morire, piuttosto.
“Vorrei tornare a
quel
giorno, Sherlock” disse al vento e all’erba mossa
da esso, davanti a sé.
“Vorrei chiudere gli occhi e risvegliarmi bambino.”
Il silenzio che
seguì posò
una coltre scura, triste, intorno al cuore di John. Poi
però, qualcosa improvvisamente
cambiò. Un rumore secco, come di rami spezzati, lo costrinse
a voltarsi verso
il boschetto.
“Lo vorrei
anch’io, John”
qualcuno, alla fine, gli rispose.
Preso completamente dal
panico, John sussultò, all’erta. Guardò
davanti a sé, da dove la voce era
venuta, senza però vedere nulla, all’inizio. Dopo
qualche secondo però i cespugli
cominciarono a muoversi in maniera innaturale, e una mano, o almeno
tale
sembrava sotto la flebile luce, spuntò dalle foglie e dai
rami, precedendo
l’intera figura imponente di un uomo sconosciuto.
“Chi sei?”
gridò John,
alzandosi dall’altalena e cercando intorno a sé
una qualunque cosa da poter
usare per difendersi in caso ce ne fosse stato bisogno.
“Non ce
n’è bisogno, John.
Non ti farò nulla” la voce parlò ancora
e questa volta, John la riconobbe
all’istante.
“Chi sei, ho
detto?” gridò
ancora più forte, credendo di poter svenire lì in
quel momento, il respiro
diventato affannoso, frenetico e
il
cuore che sembrava voler uscire dal petto aprendosi un varco con la
violenza
del suo battito.
“Non fare domande di
cui
conosci la risposta, John” esclamò ancora
l’uomo, scivolando sotto l’unica
lontana fonte di luce.
E quello che John vide, gli diede il colpo di grazia.
Si tenne lo stomaco con le
braccia, stringendolo forte per cercare di bloccare la nausea terribile
che
ormai non gli dava tregua. La vista gli si annebbiò per
qualche secondo,
soltanto lampi di luci e ombre davanti agli occhi, e sentì
le gambe cedere e il
suo corpo accasciarsi ai piedi dell’altalena, con il sapore
terroso dei fili d’erba
secchi sulle labbra.
Nei pochi attimi di
lucidità che precedettero l’incoscienza totale,
John scorse una figura china su
di lui intenta a parlargli e sentì il tocco di mani che
cercavano in tutti i
modi di sostenerlo, senza successo.
Dopo qualche secondo poi,
tutto divenne buio.
Quando John rinvenne,
tutto attorno a lui era ancora scuro, confuso e silenzioso, a parte un
rumore
cadenzato e monotono proveniente da sopra di lui.
Facendo attenzione, si
puntellò sulle braccia instabili, mettendosi seduto e
guardandosi intorno.
Quando si girò verso la fonte del rumore, fu costretto
nuovamente a sostenersi
stringendo la sbarra dell’altalena, pressandola
così forte da rischiare di sgretolarsi
qualche falange.
“Cosa cazzo sei
tu?”
domandò in un sussurro simile a un sibilo. “Sono
morto, o sono impazzito?”
L’uomo seduto sull’altalena, intento in un lieve
dondolio avanti e indietro, lo
guardò con espressione difficile da decifrare.
“Nessuna delle due, John” disse, secco.
John rise, nervosamente,
cercando di concentrare la stretta della sua mano sulla sbarra per
respingere
la tentazione di stringerla attorno al collo dell’uomo.
Si sollevò e rimase
in
piedi davanti alla figura seduta.
“Mi sembra di averti
fatto
una cazzo di domanda.”
“E a me sembra di
averti
risposto.”
“No che non
l’hai fatto!”
sbraitò John, con l’odio che cresceva dentro di
sé a ogni sillaba.
“Ti ho detto di non
farmi
domande di cui conosci la risposta” spiegò
l’altro, come se stessero parlando
del caldo afoso di Londra di quell’agosto.
“Dio Santo Sherlock, smettila di fare lo
stronzo!”
gridò ancora, incurante del fatto che non dovesse
assolutamente trovarsi in
quel posto e che magari qualcuno avrebbe potuto sentirlo. Si
lasciò cadere
sull’altalena vicina e abbassò lo sguardo,
tenendosi la testa con le mani,
distrutto dentro e fuori. Che stava succedendo? Stava impazzendo
davvero? Al
momento sembrava l’unica ipotesi plausibile.
Continua...
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Capitolo 5 *** Infrangibile come diamante ***
Ultimo capitolo!
Grazie a tutti quelli che hanno recensito, seguito e anche soltanto
letto
questa storia! Il sostegno che mi date significa tantissimo per me,
soprattutto
in un periodo per me non troppo facile come questo, che spero passi in
fretta!
Un
bacio a tutti!
*
“Visto John? Non era
difficile.”
John scosse la testa,
sprezzante.
“Avrei preferito non saperlo.”
Il silenzio che seguì fu
pregno di un disagio palpabile, un malessere che contagiava il cuore e
la
mente.
“Preferiresti che non
fossi qui, John.”
Un’affermazione. Non una
domanda.
“Io non voglio sapere. Tu
non sei davvero qui. Tu sei morto, cazzo” disse John, con la
voce ovattata,
parlando contro il palmo della sua mano.
“L’evidenza dice il
contrario, ho il dubbio.”
Finalmente, John alzò gli
occhi e lo guardò, tenendo lo sguardo fisso su di lui a
studiarne ogni
particolare, ogni dettaglio che potesse dirgli che non era lui, che era
un
impostore, un maledetto e perfetto chiunque
deciso a fargli un macabro scherzo.
Anche con quella
pettinatura diversa però, con le ciocche scure
più corte e meno folte e un
accenno di barba incolta, John non aveva il minimo dubbio che
quell’uomo fosse
davvero il suo migliore amico. Il suo tutto.
Il suo Sherlock.
“Perché?” domandò, senza
urlare questa volta. Non aveva più forza dentro di
sé, ne voglia di proseguire
con quell’astio che lo stava consumando.
“Perché?”
“Perché dovevo” rispose
Sherlock, senza indugio.
“Tu dovevi.”
“Dovevo, John.”
John rise, pieno di
risentimento, stringendo le mani l’una nell’altra.
“E ovviamente non ti è
minimamente passato per la testa che avrei…preferito
sapere…” si bloccò,
stringendo gli occhi per impedire in tutti i modi alle lacrime di
scendere. “…tutto
questo, cazzo? Oppure il tuo stupido, schifoso ego trovava una qualche
soddisfazione perversa nel vedermi…distrutto?”.
Sherlock si adombrò, per
un secondo, in un visibile e tangibile disagio.
“Non puoi dire una cosa simile, John”
esclamò, sconcertato. “Tu non
sai…”
“E’ vero, io non so. Io
sono sempre l’ultimo a sapere. Io sono sempre
l’ultima ruota del carro, quello
troppo stupido per stare dietro all’intelligentissimo
Sherlock Holmes!” si
sfogò John, sputando addosso a Sherlock tutta la sua
frustrazione, tutto il suo
dolore, tutta la pena accumulata in quegli orribili tre anni. Come
aveva potuto
fargli una cosa del genere? Come aveva potuto lasciarlo così?
“Questo non è vero. Lo sai.”
“I fatti dicono altro.”
“I fatti si sbagliano,
John. Io non ho mai voluto farti del male in nessun modo. Se ho fatto
quello
che ho fatto è perché è stato
necessario. Perché ne andava della tua
vita.”
John lo fissò, senza
capire. In che modo c’entrava, la sua vita?
“Che vuoi dire?” chiese,
esitante. Forse però, avrebbe preferito non sapere.
L’altro non rispose.
John chiuse gli occhi,
spingendosi le nocche contro la fronte, per cercare di non perdere
nuovamente
la calma.
“Sherlock. Tu mi devi una
spiegazione.”
Sherlock boccheggiò,
cercando il modo migliore di dire qualunque cosa avesse intenzione di
confessargli.
“Tre proiettili. Uno per
te, uno per Lestrade, e uno per la Signora Hudson. Se non mi fossi ucciso, sareste voi quelli in una tomba
ora. E voi per davvero”
sottolineò,
in una sorta di macabro umorismo.
John rimase in silenzio,
senza sapere esattamente cosa dire, con una quantità
mostruosa d’informazioni,
immagini, fatti, ritagli di giornale che si avvicendavano nella sua
mente come
una sorta di vorticoso film, come se qualcuno avesse premuto il tasto fast forward sull’immaginario
telecomando dei suoi pensieri.
“Proiettili. Moriarty”
disse John, come se tentasse di riepilogare quel sovraccarico di
informazioni
in due sole parole.
Sherlock annuì,
guardandolo grave.
“Moriarty. Ha capito dove
colpire per essere sicuro di affondarmi” spiegò, e
il cuore di John mancò un
battito. Il dottore guardò Sherlock, senza parlare, e poi
chinò lo sguardo.
Sentì Sherlock agitarsi.
“L’ho fatto solo per voi, John. Per te. Per noi”
Sherlock si alzò dall’altalena e
s’inginocchio davanti a John, prendendogli le
mani nelle sue, nel gesto più sincero, più intimo
che il detective gli avesse
mai riservato.
Le mani di John tremarono
per un secondo al contatto, come se avessero appena toccato acqua
bollente, ma
non si ritrassero.
“Tu sei scappato, però”
gemette John all’improvviso, cercando di ignorare la figura
rannicchiata di
fronte a lui, cercando di ignorare il sentimento di profonda pena che
gli stava
afferrando il cuore. Lui era arrabbiato, lui era furioso. Lui doveva esserlo.
“L’ho fatto” ammise Sherlock a bassa
voce, intrecciando le sue dita con quelle
di John, che però non strinse la presa.
“Non sono stato io questa volta. Stavolta tu sei fuggito, tu sei andato via da tutto
quanto. Da me” sussurro
il dottore. “Quando mi avevi chiesto di smettere di
farlo, quando mi avevi chiesto di rimanere con te”.
Sherlock annuì, grave. Portò
poi la mano di John alle sue labbra e la baciò, in un gesto
pieno di dolcezza e
tenerezza che John non si sarebbe mai aspettato dal detective ma che lo
fece
letteralmente tremare.
“Io avrei voluto dirti
ogni cosa. Io avrei voluto che tu sapessi.”
“Non l’hai fatto, però.”
“Non ho potuto. Volevo che
tu fossi al sicuro, il più possibile”.
John deglutì, con ancora
un groppo enorme in gola.
“Lontano da me. Per tre anni.”
“Per il tempo necessario.”
“Necessario per
cosa?”
Sherlock sussultò,
allentando la presa sulle mani di John e sistemandosi meglio nella sua
scomoda
posizione. John avrebbe voluto dirgli di alzarsi, di sedersi, ma vedere
Sherlock in quel modo, così dolcemente sottomesso da un sentimento, gli donava una dolce parvenza
di sollievo.
“Per…neutralizzare il
pericolo. Definitivamente” disse, evasivo. John
capì che quello era un
argomento su cui Sherlock non avrebbe voluto soffermarsi.
“Hai…ucciso?” domandò John,
senza nemmeno sapere perché. Era qualcosa che sentiva,
dentro.
Sherlock lo guardò per un
secondo con un lampo quasi spaventato, nei suoi begli occhi chiari.
“Ho fatto cose di cui non
vado fiero, John.”
John lo interpretò come un
sì. Chiuse gli occhi e finalmente strinse le mani di
Sherlock a sua volta. Il
detective lo interpretò come un segnale positivo e sorrise a
John, portando
l’altra mano ad accarezzargli una guancia dolcemente. John
fece lo stesso con
Sherlock, ma le sue dita mapparono a fondo ogni frammento del suo viso,
dai
capelli corti alla fronte, dalla curva del naso all’arco di
cupido delle
labbra; accarezzò gli zigomi taglienti, la curva armoniosa
del mento e la
superficie liscia del lungo collo come per assicurarsi che fosse
realmente lì,
che quella non fosse solo una fantasia o un’allucinazione.
E il calore sotto le sue
dita e la carezza del respiro di Sherlock sulla sua mano, gli dissero
che lui
era davvero lì, davvero con lui, vivo e vegeto.
“E la cosa di cui vado
meno fiero è l’averti lasciato solo,
John.”
John tirò su col naso,
facendo sempre più fatica a trattenersi.
“E anche per avermi fatto
desiderare di seguirti, maledetto pazzo?”
Sherlock piegò le labbra
in un sorriso esitante.
“Non pensavo che ti avrebbe fatto quest’effetto,
John. Vederti così è
stato…è
stato...non so dire cosa
è stato. Non
piacevole, comunque”.
Inaspettatamente, quella
frase provocò in John una risatina divertita.
“Tu non pensavi che sarei
stato distrutto dalla tua perdita?”
Sherlock sembrò arrossire,
preso in contropiede.
“Non pensavo…così.
Insomma, hai
vissuto una guerra, io credevo di trovarti…preparato. Invece
mi hai sorpreso”
ammise, guardandolo sottecchi. John rise ancora.
“Eppure tu sai sempre
tutto.”
Fu il turno di Sherlock di
ridere, poi.
“Non è vero. Me lo dicevi
sempre” esclamò, immerso in un vivido ricordo.
John strinse la sua mano ancora
più forte.
“Oh è vero. Il Sistema
Solare.”
“E il Primo Ministro... ”
“L’ultimo scandalo al
Matrimonio Reale… ”
“O il fatto che Harry fosse il diminutivo di
Harriet” ricordò Sherlock, allargando ancora di
più il
suo sorriso.
“Quella è stata veramente divertente,
Sherlock” convenne John, con una nota incredibilmente dolce,
nella voce.
Rimasero poi in silenzio, godendosi solo il rumore del vento che
scivolava tra
le fronde, scuotendole come fossero corde di un’arpa.
“Perché qui, Sherlock?”
domandò poi John, all’improvviso. Era giunto il
momento di abbattere quel muro
di omertà. Voleva sapere, ne aveva il diritto. Doveva.
“Perché qui è cominciato
tutto” spiegò Sherlock guardandosi intorno.
“Perché qui la mia vita è cambiata
senza che io nemmeno lo sapessi.”
John non parlò, non ce
n’era bisogno. Aveva capito perfettamente quello che Sherlock
intendeva.
“So che ti sei chiesto
perché io… perché io non ti abbia mai
detto nulla per permetterti di rivederci”
bisbigliò, e il cuore di John fece un balzo. “So
che ti sei domandato perché
non ti abbia mai detto prima il mio nome, o una qualunque altra cosa su
di me”.
John annuì, il cuore ormai
simile ad un tamburo. Fissò Sherlock negli occhi, senza
staccare nemmeno per un
secondo gli occhi da lui, senza prestare più attenzione a
nulla se non al viso
del detective. Sarebbe potuta scoppiare una guerra attorno a loro e lui
non se
ne sarebbe minimamente accorto.
“Avevo paura di questo, in
realtà” ammise Sherlock con una certa
difficoltà. “Avevo paura che potesse
succedermi quello che poi è successo” si
fermò, come bloccato da qualcosa.
Pensieri, parole inespresse, timore.
“Di affezionarmi a
qualcuno talmente tanto da cominciare a tenere a lui più che
a me stesso.”
Le mani di John tremarono
ancora, e stavolta tanto forte da preoccuparlo per un momento. Una
lacrima
scivolò inevitabilmente lungo la sua guancia fino a finire
sul dorso della mano
di Sherlock, che guardò quella goccia solitaria come se
fosse un tesoro
inestimabile, con lo stesso sguardo che riservava di solito a un
esperimento
particolarmente riuscito. Con un dito, percorse il tragitto di quella
lacrima,
accarezzando la guancia di John e raccogliendo quella scia bagnata e
salata
fino a portarla alla bocca, appoggiando appena la punta del dito sulle
labbra.
Poi chiuse gli occhi.
“Ed è stata una cosa tanto
brutta quando alla fine hai…ceduto?” chiese John,
sicuro di sé, anche se con
voce leggermente rotta dall’emozione. Perché
Sherlock alla fine aveva ceduto, e
lui, John, era stato colui che aveva infranto quella corazza.
“No, non lo è stata. Io
non potevo saperlo, però” spiegò e John
accennò un sorriso triste e dolce allo
stesso tempo. “Non volevo legami perché ho sempre
saputo che quello che avrei
fatto un giorno, che quello che sarei diventato
avrebbe potuto comportare rinunce, sacrifici, perdite. E non volevo che
qualcun
altro patisse a causa mia”.
John gemette,
riconoscendosi perfettamente in quelle parole. Poi, inaspettatamente,
rise, sentendo
una strana felicità cominciare a pervaderlo.
“Già da ragazzino
immaginavi che avresti avuto un arcinemico,
qual è il termine…oh, psicopatico
che ti avrebbe costretto a un gesto drastico?” chiese John,
godendosi il calore
di quella sensazione nuova. “E’ proprio da
te, Sherlock, indubbiamente. Io da bambino al massimo pensavo
a come, da
grande, l’avrei fatta pagare a Terry Boones per avermi rotto
la bicicletta”.
Sherlock rise anch’egli,
con gli occhi spalancati, accesi, visibilmente colmi di sollievo nel
vedere
John riprendersi, a poco a poco.
“Perché siete tutti degli
idioti, John” disse, poggiando la fronte sulle mani
intrecciate.
John poggiò il capo sulla
testa di Sherlock, posandovi un bacio dolce, spontaneo.
“Tutti quanti, è vero”
convenne John, sollevandosi e ritraendo una mano dalla stretta di
quelle di
Sherlock per sollevare il mento dell’amico. Portò
il suo viso alla sua altezza,
così che i loro volti fossero vicini, vicinissimi, tanto da
sentire il calore
dei loro rispettivi respiri.
“Ed io sono pazzo”
aggiunse poi John, in un sussurro. Sherlock sembrò agitarsi.
“No, non lo sei. Te l’ho detto, sono
vero” esclamò ancora il detective, con
timore, come se avesse paura che John non fosse ancora convinto.
“Non per quello, Sherlock”
lo corresse poi il dottore, avvicinandosi ancora. “Per
questo.”
Sherlock non riuscì a
prevedere l’arrivo di quel bacio, ma non si sottrasse, e non
desiderò affatto farlo,
neppure per un momento. Le labbra di John erano morbide, leggermente
screpolate
ma indaffarate in una danza leggera e amorevole dalla quale Sherlock si
sarebbe
lasciato trasportare per sempre, una danza di cui conosceva i passi e i
movimenti ma alla quale era sempre mancata la musica, la più
dolce, la più
perfetta. E quella musica, era John.
John era su un altro
pianeta ormai, e gli sembrava di librarsi almeno dieci centimetri dal
terreno.
Non percepiva più nulla intorno a lui se non la bocca di
Sherlock, la sua
lingua che sfiorava esitante la propria con fare timido ma coraggioso,
le mani
che vagavano per i loro visi come se non necessitassero
d’altro che il contatto
pelle contro pelle. Sarebbe potuto finire il mondo in quel momento, e
John lo
avrebbe accettato, di buon grado.
“John” sussurrò Sherlock
sulle sue labbra con fiato corto, come dopo una lunga corsa.
“Sei pazzo
davvero.”
John sogghignò, felice,
appagato dopo tanto, troppo tempo. Lo aveva baciato. Aveva baciato
Sherlock ed
era stata la sensazione più bella e meravigliosa che avesse
mai provato. Non
era stato affatto come lo aveva immaginato. Era stato dieci, cento, mille volte migliore.
“Bisogna essere pazzi per
innamorarsi di te” disse, con sguardo eloquente.
“ma non sono mai stato così
felice di esserlo in vita mia”.
E fu la cosa più
vera, sincera, sentita che
avesse mai pronunciato in tutta la sua vita.
Lo amava, lo amava in
maniera viscerale, profonda, totale. E tornando indietro nel tempo,
scorrendo i
ricordi come pagine di un libro, si accorse di amarlo da sempre, dal
primo
giorno in cui aveva posato i suoi ingenui occhi di bambino su di lui.
“Ed io sono felice che tu
lo sia” Sherlock lo strinse a sé con forza, come a
catturarlo in una stretta
dalla quale non sarebbe mai potuto fuggire. “Più
di quanto tu possa
immaginare.”
John ricambiò il suo
abbraccio, allacciando le braccia intorno al detective con la stessa
intensità.
“Ricominceremo, Sherlock?”
gli domandò, pregando che le labbra di Sherlock
pronunciassero le parole
sperate. Il detective sorrise, allentando la presa e allontanandosi.
“Solo se tu lo vuoi quanto
me”.
John annuì.
“Lo voglio con tutto il
cuore.”
Sherlock si sistemò la
camicia e si mise in piedi, con un sospiro profondo, come se si stesse
preparando a declamare un discorso davanti ad una folla. Poi porse la
mano
destra a John, con un sorriso.
“Sono Sherlock Holmes.
Consulente investigativo e sociopatico ad alta
funzionalità” disse, muovendo la
mano verso John, attendendo una sua risposta. John sorrise.
“Sono John Watson, medico,
ex soldato e…assistente-consulente”.
“Fratello di un membro minore
del Governo Britannico con manie
di grandezza” riprese Sherlock, attento.
“Fratello della donna più
inaffidabile e problematica del mondo che però, mio
malgrado, amo follemente”
continuò John, divertito.
“E dimentichi ‘completamente
pazzo’ ” Sherlock sussurrò,
avvicinandosi di nuovo alla bocca di John.
“Questo è evidente” John
catturò
nuovamente quelle labbra perfette in un bacio veloce, intenso.
Si guardarono a lungo,
senza parlare, senza che ce ne fosse bisogno. La sola presenza
l’uno dell’altro
bastava, ad entrambi. E sarebbe potuta bastare per tutta la vita.
“John Watson ha smesso di
scappare tanto tempo fa, sai?” John ruppe in silenzio con un
bisbiglio, sulla
bocca di Sherlock. “Perché Sherlock Holmes gli ha
fatto capire che non era più
necessario.”
Il detective lo guardò
negli occhi intensamente, come se cercasse di parlare con il suo solo
sguardo.
“Sherlock Holmes invece è
fuggito, anni fa. E’ fuggito, andando contro ogni suo ideale,
dopo aver detto
tante volte a John Watson che scappare era da stupidi, da deboli” Sherlock
sussurrò lentamente, come se stesse raccontando
una fiaba a un bambino sulla soglia di un sonno profondo.
“Ora però è tornato. E il
suo ritorno potrebbe cancellare ogni dolore passato, per John Watson.
Adesso
però c’è da chiedersi se Sherlock
Holmes rimarrà”
John lo imitò e le loro fronti si sfiorarono, appoggiandosi
l’una all’altra,
come se necessitassero l’una del sostegno
dell’altra. “Sherlock Holmes ha
smesso di scappare?” domandò infine John,
trepidante, ponendogli finalmente
quella domanda piena di responsabilità, timori, paure.
Quella domanda di cui
temeva terribilmente la risposta.
Sherlock sorprese John una
volta ancora, con la reazione a quella domanda. Pensava di aver visto
il suo
migliore amico in tutte le diverse sfumature del suo carattere, in ogni
possibile travestimento, in ogni sua minima sfaccettatura umana. Quello
che
John non aveva mai visto fare a Sherlock era piangere,
e il viso del nuovo Sherlock, quello Sherlock Holmes
rinato che ora aveva davanti, si stava rigando pian piano di lacrime
sottili.
E non erano lacrime di dolore.
“Lui non fuggirà mai più,
mai” disse al medico, che dolcemente aveva preso a
raccogliere quelle lacrime
con piccoli baci. “Lui ha trovato il suo porto sicuro, ora. E
spera che John
gli creda perché lui è sincero”.
John annuì, con occhi
socchiusi, come se le iridi azzurre di Sherlock fossero gemme dal
bagliore
accecante.
“Io gli credo. Dio mi aiuti”
scherzò, e Sherlock rise, asciugandosi gli occhi umidi con
il polsino della
camicia.
“Bisogna suggellare il
patto, adesso” propose poi il detective, fingendosi serio,
con voce ancora
instabile. John ridacchiò.
“Mi basta la tua parola,
anche se non dovrei fidarmi”.
Sherlock scosse la testa.
“Per questo insisto.
Voglio fare le cose per bene”.
A quel punto John si
avvicinò ancora di più a Sherlock, tanto da poter
quasi percepire sulla pelle
le vibrazioni della voce baritonale dell’uomo di fronte a lui.
“Allora se insisti, ti
accontenterò” gli accordò, sorridente.
“Voglio solo un altro bacio”.
Sherlock alzò un
sopracciglio, come se fosse sorpreso dalla richiesta del dottore.
“Che scarsa fantasia,
John”.
John arricciò il naso.
“Ora ti riconosco
Sherlock”.
“Dico solo che ti ho
baciato fino ad ora. Mi sarei aspettato qualcosa di più significativo”.
John gli diede uno
schiaffetto sulla nuca, scherzosamente.
“Un bacio è
significativo!”
Il detective sbuffò.
“Pensavo più a qualcosa
messo per iscritto, non so un…contratto?”
propose, per poi pentirsene davanti all’espressione
sbigottita di John. “Ma
dimenticavo che sei un inguaribile romantico”.
John scoppiò a ridere.
“E tu sei
irrimediabilmente troppo serio! Un contratto!”
ripeté, come se non concepisse
nemmeno l’idea. “Cento volte meglio il mio
bacio”.
“Se lo dici tu”, liquidò
la cosa Sherlock.
“Vai a quel paese,
Sherlock”.
Sherlock schioccò le labbra.
“Va bene, va bene, va
bene. Farò questo sacrificio”
esclamò
Sherlock, accondiscendente. “Spero che basti davvero solo un
bacio”.
John rise, ripensando al
battibecco giocoso appena conclusosi, proiettato in un passato che
credeva
ormai perso e adesso miracolosamente riplasmatosi.
“Giuro che basterà. Su
tutto ciò che amo”.
Sherlock sorrise e John
chiuse gli occhi, lasciando che le dita del suo migliore amico tra i
suoi
capelli lo attirassero dolcemente a sé, approfondendo un
bacio dapprima
delicato e poi sempre più intenso, dolce, appassionato. Non
aveva bisogno di
nient’altro, se non che quel contatto continuasse ancora e
ancora, senza alcun
limite, senza fine. Era completo,
ormai.
Forse era veramente
qualcosa di piccolo, comune, l’atto più spontaneo
di tutti gli innamorati del
mondo, ma per il dottore non poteva esistere gesto più
significativo di quello,
per il loro patto.
E a John, bastò davvero.
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