Lost and Found

di SAranel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una notte particolare ***
Capitolo 2: *** Dimmi il tuo nome ***
Capitolo 3: *** Non capisci, John? ***
Capitolo 4: *** No place like home ***
Capitolo 5: *** Infrangibile come diamante ***



Capitolo 1
*** Una notte particolare ***


Ciao adorato fandom!
Dopo varie vicissitudini con l’ultimo capitolo dell’altra long in corso (lo sto riscrivendo, sarà prossimamente sui vostri schermi) posto una cosina scritta prima di partire, che dividerò in più capitoli per questione di lunghezza, ma che è già conclusa. Contavo di pubblicarla prima (è passato TROPPO tempo dall’ultima storia!) ma sono stata impossibilitata, quindi ho optato per oggi, con calma!
E’ sicuramente un’AU e capirete certamente perchè, e per quanto per gran parte della storia i nostri beniamini siano bambini/ragazzi, non credo si possa definire una Teen, dato che alla fine il fulcro della faccenda li coinvolge da ‘adulti’.
Comunque, bando alle ciance!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.


Lost and found

*


John sapeva benissimo che era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe dovuto reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento, sarebbe scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva ormai ben dodici anni, e non avrebbe avuto più il coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era stato necessario.
Peccato però che in quel momento se ne stesse pentendo amaramente, al diavolo il coraggio e altre stupidaggini simili.
Il parco era buio ormai, più buio delle altre volte in cui vi aveva giocato accompagnato dai suoi genitori a sera tarda, e quando non udì più rumore di passi o le voci dei bambini e dei passanti in lontananza, cominciò seriamente a temere di essere rimasto nascosto tanto a lungo da non aver sentito l’avviso di chiusura dei cancelli.
Quatto quatto, uscì dal suo nascondiglio di cespugli e foglie secche e si guardò intorno, allarmato, cercando di scorgere una luce, un rumore di passi, una qualche voce che lo rassicurasse di non essere rimasto solo in quello spazio immenso. L’unico rumore che attirò la sua attenzione però, fu solo l’inquietante cigolio di un’altalena spinta dal vento notturno.
John mugolò, spaventato, con la mente in frenetica attività, alla ricerca di un modo per uscire da lì al più presto possibile. Strinse gli occhi e i pugni, pregando tra sé e sé e promettendo, giurando, che non avrebbe mai più fatto una cosa del genere, che avrebbe accettato le decisioni dei suoi genitori e tollerato il comportamento di Harry senza fiatare, se solo fosse riuscito a uscire illeso da quel brutto guaio.
Stava testando la resistenza della solida, solidissima cancellata di ferro, quando qualcosa lo fece bruscamente voltare, spaventato.
“E’ fiato sprecato, credimi” una voce tranquilla lo fece sobbalzare. “Non cederà mai, nemmeno se ti ci appendi con tutte le tue forze.”
“Chi sei?” domandò John sospettoso, il cuore che batteva all’impazzata al pensiero delle mille raccomandazioni di sua madre sul non parlare con gli sconosciuti. E in quel momento era solo, in un parco deserto, a parlare con qualcuno che non aveva mai visto in vita sua.
Quando però il proprietario di quella voce si fece avanti, rischiarato dalla pallida luce di un lontano lampione, John tirò un sospiro di agognato sollievo. Sua madre non gli aveva mai detto di non parlare con sconosciuti bambini, e quello lì davanti non poteva avere più di nove anni, uno scricciolo alto e allampanato per la sua età, con una zazzera di riccioli scuri che gli ricadevano buffamente sugli occhi. E qualcosa, in quegli occhi, troppo lontani da John perché lui potesse cogliervi quella profonda sfumatura dorata, tranquillizzava John enormemente.
“Posso dirti quello che non sono, piuttosto. Non sono un ragazzino che cerca di sradicare l’inferriata di un parco giochi perché per la sua sbadataggine ci è rimasto chiuso dentro.” disse sicuro, con lingua fin troppo sciolta per un mocciosetto della sua età.
John era senza parole, preso completamente in contropiede da quella risposta. Decise di difendersi come meglio poteva, cominciava leggermente a sentirsi in apprensione nei confronti del nuovo arrivato, anche se era solo un piccoletto arrogante.
“Anche tu sei qui, però!” sbottò John, pensando di aver centrato nel segno. “E non mi sembra che ti stia dando molto da fare per trovare una via d’uscita.”
L’altro sbuffò, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi con fare annoiato.
“Ti sfugge un piccolo dettaglio, piccoletto. Io sono esattamente dove desideravo essere, e non ho alcun desiderio di trovarmi in altro posto che questo”.
Piccoletto? Piccoletto a me?” disse John sbigottito, abbandonando l’idea del cancello e decidendo di scoprire qualcosa sul suo misterioso e strambo interlocutore. “E cosa cavolo vuol dire che sei dove vorresti essere?”
L’altro sbarrò gli occhi, come se la risposta dovesse essere ovvia anche al più idiota degli idioti.
“Che sono rimasto volontariamente chiuso qui dentro, al contrario di te. E se mi permetti un commento, sembri grandicello per questo genere di ripicche a mamma e papà”.
La risposta che John stava pensando di sbattere in faccia al piccolo insolente saputello, morì sulle sue labbra alla realizzazione di quello che aveva appena detto. John boccheggiò come un pesce fuor d’acqua prima di articolare una frase di senso compiuto.
“Come…come cavolo fai a sapere…?”
L’altro ridacchiò, sarcastico.
“E’ ovvio.”
“Non è ovvio per me.
“Questo è chiaro.”
Il ragazzino andò a sedersi su una delle due altalene arancioni poco lontano, su quella che fino a poco prima cigolava cupamente e che era la preferita di John. Con un cenno quasi impercettibile della testa, fece segno a John di occupare quella vicina. Sospettoso, si avvicinò, e senza interrompere il contatto visivo con il suo nuovo strambo amico, si sedette sulla rigida seduta di legno.
“Allora, hai intenzione di dire qualcosa, piccolo genio pazzoide?”
L’altro rise ancora seppure con una nota malinconica, nella voce.
“Siete tutti così prevedibili, anche nei soprannomi.”
“Forse perché sei una specie di pazzoide.”
“Comunque non vedo il motivo per cui sottolinearlo in continuazione. Insomma, qualcuno ti chiama mai adorabile bambino diligente e studioso?”.
“Perché non ce n’è bisogno! Perché non è fuori dal normale!” rispose John, infervorato. Odiava non riuscire a controbattere adeguatamente a quella lingua lunga. “E comunque, stai cambiando argomento. Devi dirmi come fai a saperlo” aggiunse, deciso a mettere luce su quella storia.
“Come faccio a sapere che sei scappato?” domandò retoricamente lo sconosciuto. “Bruttini quegli strappi sulla tua maglietta. Deve essere stato faticoso procurarteli. Cos’hai usato? Le unghie? Cavolo.”
John rimase ancora di più a bocca aperta.
“Non c’era nessuno con me! Come hai fatto?”
“Logica. Strappi troppo regolari perché tu possa esserteli procurati come avevi intenzione di riferire ai tuoi, e hai del tessuto rosso intorno alle dita e ancora infilato sotto le unghie. E se posso aggiungere un piccolo dettaglio, quelle macchie di fango sul tuo pantalone sono visibilmente auto-procurate. Ci vedo le tue dita impresse sopra”.
John non aveva più parole. Sentì un qualcosa di indefinito, frustrazione per l’essere stato miseramente scoperto misto all’inquietudine e la paura di trovarsi in quel luogo con quello strano compagno, crescergli velocemente nel petto.
“Io non…io…”
“E comunque trovo abbastanza stupido far preoccupare tua madre rifilandogli una storiella simile. Posso dire la mia?” domandò, come se fino a quel momento fosse rimasto in religioso silenzio.
“No” disse seccamente John, amareggiato.
“…Chi avevi intenzione di mettere in mezzo? Uno sconosciuto che ti ha caricato in macchina durante una passeggiata? Un passante che ti ha offerto caramelle? Un po’ infantile.
John lo guardò sottecchi.
“Tu non sai che vuol dire. Tu non mi conosci ed io non conosco te”
“Questo non vuol dire che io non possa capirti.
“Beh io non capisco te. E tu non sai cosa vuol dire avere una sorella come Harry”.
Si morse la lingua subito dopo. Non capiva il motivo per il quale continuasse ad assecondarlo, a continuare a parlare con lui mettendosi alla mercé delle sue puntigliose deduzioni. E adesso aveva anche menzionato Harry davanti a lui, con la chiara intenzione di raccontargli tutta la faccenda, come fosse un vecchio amico a cui chiedere consiglio.
“Dimmi di questa Harry. E’ per lei che sei fuggito?”
John gli rivolse un sorrisetto amaro.
“Sì. E per i miei, come hai detto prima” cominciò a spiegare John, sempre più allibito dal suo stesso comportamento. Quel ragazzo però, nonostante fosse irritante e supponente, gli ispirava una strana e istintiva fiducia.
“Cosa ti ha fatto lei?” chiese l’altro, con voce quasi comprensiva.
“Lei beve” disse, e si sentì trafiggere da mille invisibili spilli.
“Oh” fu tutto ciò che disse il ragazzino, dandosi una spinta con le gambe e lasciandosi dondolare dolcemente dall’altalena. John lo imitò, desideroso di una sferzata d’aria fresca sul suo volto accaldato.
“Io dovevo andare a Brighton con il mio amico Robbie, quest’estate. E’ una vacanza che programmavamo da secoli e per cui ho impiegato mesi a convincere i miei. Poi ieri Harry torna completamente fuori di testa a casa e tutto salta per sempre. Tutti i miei sforzi completamente andati in malora”.
Il ragazzo sull’altra altalena annuì, pensoso, come se stesse elaborando i dati appena ottenuti.
“Soldi?”
“Soldi” annuì John, senza nemmeno più sorprendersi di quanto veloce e intelligente fosse quella persona. “Devono mandarla via per un po’, da una vecchia zia nel Devon a farle cambiare aria. E ovviamente la signora non vuole accollarsi le spese di un’adolescente piena di problemi. Hanno detto di essere dispiaciuti, mortificati e tutto, ma non me la danno a bere. Ecco tutto. Contento?”.
Il ragazzino non parlò, nonostante John avesse concluso il racconto e cominciasse a sentirsi a disagio e decisamente stupido. Perché gliel’aveva detto? Perché non aveva girato i tacchi per continuare a cercare una via d’uscita?
“Beh, continua a sembrarmi una reazione abbastanza infantile. Se fossi dovuto scappare ogni volta che i miei hanno preferito mio fratello a me, avrei passato metà della mia esistenza fuori di casa”.
John non sapeva esattamente cosa rispondere a quell’affermazione. Così si mise sulla difensiva.
“Io aspettavo quella vacanza da mesi!” disse a sua discolpa. “Harry non può sempre rovinare i miei piani!”.
“Pensi che i tuoi lo abbiano fatto apposta? Pensi che a loro faccia piacere che la loro figlia adolescente beva fino a star male?”.
John si ammutolì. Arrossì furiosamente alla logica del discorso e ringraziò che non ci fosse abbastanza illuminazione perché il ragazzino potesse accorgersene.
“Io non… io non credo, no” affermò, con voce instabile. “Anche tu però hai detto che i tuoi fanno preferenze, no? Cos’ha tuo fratello in più di te?”.
Il ragazzino si bloccò, puntellando i piedi sul terreno.
“E’ semplicemente come tutti gli altri, o almeno così fa sembrare. E questo i miei lo trovano più rassicurante di…qualcuno come me”.
John sorrise, sinceramente divertito.
“E’ perché sei una specie di cervellone? Perché sembri e parli come qualcuno più grande della tua età? I miei pagherebbero per un figlio come te”.
Fu il turno dell’altro per ridacchiare, ma non c’era alcuna allegria in lui.
“Questo è quello che si dice” esclamò, la voce per la prima volta afflitta da una nota triste. “Alla fine però, non è mai vero”.
John non sapeva cosa rispondere così si limitò a darsi un’altra spinta sull’altalena. Percepiva qualcosa in quel ragazzo, qualcosa che non riusciva a spiegare; era come se dietro quella corazza di sicurezza si celasse un animo tormentato, una profonda tristezza. Per qualche secondo, l’unico suono udibile nel parco fu il lamentoso cigolio delle molle sotto il suo peso.
“Mi dispiace, comunque” disse poi, per non sembrare poco solidale nei suoi confronti. L’altro si limitò ad accennargli un piccolo sorriso, che scomparve nel giro di un secondo.
“Non fa niente”.
Silenzio.
“Perché sei qui, comunque? Perché sei rimasto qui dentro di tua spontanea volontà?” si ricordò poi di chiedergli, sinceramente curioso di scoprirlo. L’altro sembrò illuminarsi a quella domanda, come se non avesse aspettato altro che quella, fino a quel momento.
“E’ un posto tranquillo. Mi aiuta a pensare. A liberare la mente dalle cose inutili” spiegò, come se fosse perfettamente normale. “Ci vengo spesso.”
“E i tuoi?”
“I miei cosa?”
“I tuoi ti lasciano andare? Oppure scappi anche tu?” lo provocò, con sguardo complice. Il ragazzino scosse la testa.
“Oh no. Dico loro che dormo da un amico. E questo spiega largamente il loro vivo interesse per me”.
John si sforzò di capire, senza riuscirci.
“Che vuoi dire?” chiese, sperando di non essere troppo invadente. Guardandosi intorno però, decise che forse la situazione poteva giustificare un minimo di curiosità in più da parte sua. Quanto spesso avrebbe incontrato un altro quasi - coetaneo fuggiasco con cui parlare?
“Che io non ho amici” affermò, guardando davanti a sé. “Non ne ho mai avuti.”
“Oh” fu tutto ciò che riuscì a dire John. Sapeva di dover cercare di essere comprensivo, amichevole, solidale con lui, ma non trovava nulla di abbastanza convincente da poter dire. Avrebbe dovuto consolarlo, confortarlo, dirgli che c’era tempo per farsi amici a volontà ma qualcosa nello sguardo sicuro e riflessivo del suo nuovo compare sembrava dirgli che una pacca sulla spalla era l’ultima delle cose che avrebbe desiderato. Quel ragazzino sembrava perfettamente felice così com’era.
“Beh mi… mi dispiace” disse soltanto, sperando che fosse la cosa giusta da dire.
“A me no. Una distrazione in meno.”
“Gli amici non sono una distrazione” disse John, ripensando a Robbie e alle serate passate con lui. “Sono una bella cosa, invece.”
“Perdita di tempo prezioso. Un’ora spesa a giocare a, non so, Cluedo potrebbe essere impiegata per qualcosa di più utile” affermò.
John decise di non insistere. Aveva l’impressione che non sarebbe servito a nulla.
“Vedila come vuoi” disse, diplomatico.
Un lungo silenzio seguì anche quel discorso, prima che John si accorgesse che tra una parola e l’altra, il cielo, da nero pece puntellato di stelle che era, aveva cominciato a schiarire nel roseo pallore dell’alba. L’alba più bella che John avesse mai visto in vita sua.
“Bella eh?” disse il piccolo straniero, con il naso puntato all’insù. “E non devi nemmeno pagare il biglietto.”
“O fare file chilometriche ai botteghini del National Theatre” scherzò John, provocando la prima vera risata allegra nel suo compagno. “E poi vuol dire che fra poco gli autobus riprenderanno a circolare ed io potrò tornarmene a casa”.
John sollevò sorpreso un sopracciglio quando vide il viso particolare del ragazzo, adesso molto più nitido nel pallido chiarore, rabbuiarsi improvvisamente. Abbassò lo sguardo, senza poter evitare di sentirsi un po’ in colpa.
“Allora è meglio che ti aiuti a scavalcare, no? Non corri rischio di ruzzolare giù, adesso che è giorno” propose il ragazzino, cercando di nascondere al meglio l’ombra sconsolata nei suoi occhi azzurri. John lo studiò per un po’, domandandosi se fosse il caso di chiedergli come stava o se c’era qualcosa che non andava, ma gli sembrava che l’altro non fosse molto propenso a esternare il suo stato d’animo.
“Grazie mille, davvero” si limitò a dire, con entusiasmo.
Arrivati davanti al cancello, il ragazzino salì sul muretto di marmo e porse una mano a John, che lo seguì quasi immediatamente. Incrociò le dita delle mani e John vi poggiò il piede e, aiutandosi con entrambe le mani, si diede la spinta necessaria per issarsi sul cancello e atterrare agilmente dal lato opposto.
John si sistemò gli abiti e i capelli, pettinandoli con le dita della mano destra. Poi rivolse un sorriso grato allo straniero.
“Ehi, grazie ancora, davvero. Anche per… per la compagnia di stanotte” disse John al ragazzino, infilando il viso tra due sbarre tinte di verde. L’altro annuì, arrossendo in viso per un motivo a John sconosciuto, e infilandosi le mani in tasca.
“Vai dai tuoi, saranno…in pensiero” disse, e si toccò le labbra, come se non credesse che parole del genere fossero uscite dalla sua bocca. “Fai il bravo bambino e torna immediatamente a casa” scherzò, con gli occhi ancora più tristi, nonostante cercasse ancora di mascherarli.
“Si” disse John, con il cuore che batteva all’impazzata. “Lo farò.”
“Alla prossima fuga” si congedò il ragazzino, arruffandosi i capelli con una mano e facendo per voltarsi. John rise e girò anche lui i tacchi, accennando un saluto con il capo. Dopo due passi però, gli venne in mente una cosa importantissima.
“Ehi, non mi hai detto il tuo…” fece per dire ma si bloccò immediatamente, con le labbra socchiuse. Dalla parte opposta del cancello, dove poco prima il ragazzino gli stava rivolgendo un saluto con la mano, non c’era più nessuno. Il vento spinse di nuovo l’altalena, e John se ne andò, con uno strano peso sul cuore.

 

 

§

 

 

Nonostante il passare del tempo, quel ragazzino rimase sempre nei pensieri di John.
Pensò spesso a lui nel corso degli anni, alla strana conversazione avuta con lui quella notte, ai suoi occhi sicuri ma tristi, a quella sicurezza ostentata, a quella lingua capace di distruggere le tue convinzioni più solide. Non lo aveva più rivisto da quel giorno di tanti anni prima, nonostante fosse tornato più volte in quel parco giochi nella speranza di rivederlo, di sentire nuovamente la sua voce, di incrociare nuovamente il suo viso. Non lo aveva incontrato per strada, o al cinema, al teatro, nella folla natalizia nelle piazze di Londra. Era semplicemente sparito, svanito come una voluta di fumo in un soffio di vento.
John però non aveva dimenticato nessun particolare di lui.
Non era mai stato particolarmente fisionomista, o meglio ricordava certamente i tratti di una persona in grandi linee, ma il viso di quel ragazzino gli era rimasto impresso in ogni suo particolare. Aveva ben stampata in testa la forma spigolosa e particolare del suo viso, i capelli scuri e mossi, gli zigomi taglienti nel viso leggermente paffuto e la figura alta e sottile, quasi signorile nonostante la giovane età, e soprattutto i suoi occhi, i più particolari che avesse mai visto.
E di una cosa era più che sicuro: lo avrebbe riconosciuto tra mille anche dopo tutti quegli anni.

Così, si ritrovò a pensare a lui una mattina dei suoi vent’anni, un’afosa giornata di luglio, mentre usciva da casa sua sbattendo la porta dietro di sé con veemenza, pieno di rabbia.
Harry. Ancora Harry. Per l’ennesima volta Harry.
E quella volta, John ne era sicuro, le paroline dolci di scuse che sua sorella gli avrebbe certamente propinato al suo ritorno, non sarebbero servite a nulla.

John corse a perdifiato nell’aria soffocante, quasi dimenticandosi di respirare, respingendo il dolore alle gambe, che si faceva sempre più pressante, in un angolo remoto della sua mente. Cercò di chiudere il flusso dei suoi pensieri, di non pensare a nulla, di arginare la rabbia che provava verso sua sorella fino ad annullarla, a giustificarla, a relegarla nella stessa piccola stanza del suo cervello dove albergava il dolore, la sofferenza, il sacrificio, ma non servì a nulla, non in quel momento.
John continuò la sua corsa frenetica fin quando nemmeno i suoi sforzi più intensi riuscirono a fargli ignorare il suo bisogno d’ossigeno, e fu costretto a fermarsi, riprendendo fiato in avide boccate, chino con le mani sulle ginocchia.
Era arrivato da qualche parte, sul fiume, in un vecchio molo abbandonato che non conosceva. Un vecchio palazzo in rovina, forse un'antica fabbrica, troneggiava cupamente sulla riva con le sue finestre rotte e scure che lo facevano sembrare un’enorme faccia piena di orbite vuote.
John si lasciò cadere sulla rena asciutta, chiudendo gli occhi e ascoltando per qualche minuto il solo rumore dello sciabordio stanco della corrente fluviale.
“Rilassante, vero?” una voce lo distolse dal suo tanto agognato relax. John aprì gli occhi svogliatamente, con zero voglia di intavolare una conversazione con un passante curioso, cercando mentalmente una scusa per sottrarsi.
Quando però rivolse lo sguardo al disturbatore, represse per un pelo un gemito sbalordito.
Non era possibile. No davvero.
“Sei tu” disse, mettendosi in ginocchio, con i sassolini che pungevano le ginocchia come spilli. “Sei…davvero tu” ripeté, come se non fosse del tutto sicuro che quella fosse la realtà. Magari era solo uno strano sogno o una bislacca proiezione della sua mente.
Quegli occhi, però, li avrebbe riconosciuti tra mille, anche se adesso avevano perso quell’aria malinconica di tanto tempo prima. Era diventato ancora più alto, i capelli erano ancora un cespuglio ordinato di ciocche scure e il viso aveva perso ogni parvenza della pinguedine infantile, dandogli un aspetto etereo, come fosse una creatura di un altro mondo. Era davvero il ragazzo più bello, non trovava altro termine, che John avesse mai visto in vita sua.
“Capita spesso che io sia davvero io” lo prese in giro l’altro con un sorriso. “Come credo che capiti spesso anche a te di essere davvero te.”
John ignorò il gioco di parole, troppo preso dall’eccitazione di quell’incontro. Quante volte inconsciamente aveva quasi sperato di ricontrarlo un giorno, senza spiegarsi minimamente il perché?
“Non ti ho più visto al parco. Non ti ho più visto in nessun altro posto” gli disse, desideroso di conoscerne il motivo. L’altro abbassò lo sguardo, stringendosi nelle spalle.
“Ci siamo trasferiti. Il parco non era decisamente nei paraggi ed io… io non amo molto frequentare posti troppo affollati”.
John rise, sperando solo un secondo dopo di non averlo offeso.
“Scusa, è che…io…lascia perdere. E’ ok, va bene”.
L’altro si accigliò, come se non capisse esattamente il motivo di quelle scuse.
“Cosa è ok?”
“Questo…il fatto che tu non sia…ecco, così socievole. Lo avevo capito. Insomma, va bene che non ci siamo incontrati prima, capito? E’…è tutto ok.”
“Se lo dici tu, è ok” disse lo straniero con un’espressione sul viso che sembrava gridare qualcosa come ‘meglio assecondare questo matto’. John si morse la lingua, sentendosi un perfetto idiota.
“Lascia stare” liquidò poi, cercando di lasciarsi alle spalle quell’imbarazzante benvenuto. “Io sono…sono contento di rivederti, comunque.”
Il moro annuì, stringendosi nella sua camicia scura.
“Trovo anch’io che la coincidenza sia…piacevole” disse, e John cercò d’interpretarlo come un segnale positivo.
“Come mai sei qui?” gli domandò, prima che un altro particolare gli tornasse in mente. “No, aspetta, voglio indovinare. Anche questo posto stimola la tua mente e ti aiuta a pensare?” buttò li, scherzoso.
Il ragazzo assunse un’espressione compiaciuta e sorpresa, come se le parole di John lo avessero riempito di una sorta di gratificante soddisfazione.
“Vedo che ricordi perfettamente” si complimentò, con un’altra ombra di sorriso. “E’ proprio così, comunque.”
“Di certo questo posto non è affollato” John cercò di rompere ulteriormente il ghiaccio.
L’altro fece un versetto d’approvazione.
“Questo è sicuro.”
John tacque, cercando le parole giuste per esprimere quello che voleva.
“Sai, io ho… ho un bel ricordo di quella notte. Ricordo tutto, ogni cosa” decise, alla fine.
L’altro sembrò arrossire, ma annuì ancora con un movimento rigido del collo, come se quel gesto gli costasse uno sforzo immane. John si sentì lievemente a disagio per un secondo, temendo di essere il motivo di quel comportamento.
“Anch’io ci ho pensato. A lungo” ammise però, e John si aprì in un sorriso incoraggiante. “E tu sei scappato di nuovo” aggiunse poi l’altro, serio, in un tono affermativo che sembrava non tollerare repliche.
Il sorriso di John si affievolì quando quella frase gli riportò alla mente il motivo della sua presenza lì.
“Strana la vita eh?” disse, abbassando gli occhi alla sabbia sollevata dal vento davanti a sé.
“E’ sempre Harry?” chiese poi lo sconosciuto, provocando in John un sussulto.
“Ti ricordi di Harry?”
“Te l’ho detto che ricordo tutto.”
John era sbalordito.
“E’…bene” disse, cercando di venire a patti con quella realtà. Non era stata solo una sua fissazione allora. Anche lui aveva avuto un certo impatto su quel ragazzo.
“Comunque sì, è per Harry” esclamò, afferrando un sasso poco lontano e gettandolo nel fiume con un plop quasi comico. Lo sconosciuto si sedette accanto a lui.
“Cos' è successo stavolta?” gli domandò, con sguardo attento e scrutatore, come se davvero gli interessasse fortemente di John e del suo sfogo. Il ragazzo dai capelli biondi lo guardò negli occhi e gli sorrise amaramente, prima di rispondere.
“Avevo un esame importantissimo, oggi. Biochimica. E’ una delle materie di base per Medicina ed è un esame che ho rimandato il più possibile per stare con lei” cominciò a raccontare, con voce instabile. “Nei giorni scorsi non è stata tanto bene” disse, come a scusarsi di essere un buon fratello.
“E allora? Com’è andata?” gli occhi dello sconosciuto si assottigliarono in due mezzelune azzurre.
“E’ andata che ieri Harry ha bevuto ancora. Con quell’idiota della sua nuova ragazza, Alice” cominciò a raccontare, sentendo nuovamente l’astio risalirgli fino in gola. “I miei non ci sono e lei è tornata a casa stravolta. Ho passato tutta la notte a occuparmi di lei, a sentire i suoi pianti, le sue scuse, a sostenerla mentre sveniva, vomitava e… si lamentava su quanto faccia schifo la sua vita. Mi sono addormentato verso le sei, e… mi sono risvegliato quando il mio appello era passato da almeno due ore” disse, il più veloce possibile, come se buttando tutto fuori tutto, la rabbia potesse passare. Via il dente, via il dolore. Se solo fosse stato veramente possibile.
“Oh” rispose il ragazzo dai capelli scuri, donandogli una perfetta riproduzione di se stesso otto anni prima. John sorrise, suo malgrado.
“Si cresce, e con noi crescono i problemi” disse John, come un vecchio saggio che dispensa consigli ai nipotini. L’altro volse lo sguardo al fiume, pensieroso.
“Mi dispiace, davvero” gli disse, e a John parve sincero nonostante il tono neutro e senza alcun calore. “Adesso cosa farai?”
John scosse la testa.
“Non lo so. Mi toccherà riprovarci fra qualche mese e…ricominciare”.
Il ragazzo gli rivolse un’occhiata confusa, come se non gli fosse chiaro qualcosa.
“Quindi nulla è perduto, non è così?
John lo guardò, accigliato.
“No, questo è vero, ma io contavo di mettermi alla pari, di fare tutto in regola, tutto in ordine, tutto secondo…la mia tabella di marcia. E Harry ha sconvolto i miei piani.”
L’altro ragazzo rise, senza allegria.
“Non esistono tabelle di marcia. La vita non segue una regola, uno schema, un qualcosa di programmato o già scritto. La vita ti manovra a suo piacimento e tu, ed io e tutti siamo solo marionette nelle sue mani” esclamò, con voce tagliente, osservando ancora l’acqua che scorreva veloce. “Quindi faresti bene a toglierti certe convinzioni dalla testa”.
Continuò a fissare il fiume ma qualcosa diceva a John che non stesse davvero guardando. Sembrava immerso in un mondo tutto suo.
John rifletté su quelle parole indubbiamente significative, dubitando però che sarebbe mai riuscito a ignorare i suoi schemi e i suoi ritmi, per quanto avrebbe cercato di sforzarsi.
“Forse hai ragione. Anche stavolta” convenne, suo malgrado. “Ci proverò.”.
Poi un altro ricordo lo colpì e John parlò, senza poterne fare a meno.
“Problemi con tuo fratello, già che siamo in tema? Ti vedo…teso, sull’argomento.”
Il ragazzo rise, ironico, lanciando anche lui un sasso nel fiume che rimbalzò un paio di volte prima di affondare.
“Mio fratello non crea problemi. Lui è un problema, uno di quelli che ti porti dietro per tutta la vita” rispose seccamente, ma John sapeva che non era a causa della sua domanda.
Si scostò un ciuffo capriccioso dagli occhi e sospirò, cercando qualcosa per confortarlo almeno un po’.
“Sono sicuro che in fondo lui…lui ti vuole bene.”
L’altro accennò una risatina divertita, tornando a guardare John negli occhi, visibilmente interessato.
“Beh, allora potrei dire lo stesso di Harry. Sicuramente ti vuole bene, sicuramente si odia per averti fatto saltare quell’esame e per averti costretto, suo malgrado, a farle da infermiere” esclamò. “A questo punto potresti passare avanti e perdonarla, ma sono sicuro che adesso mi dirai che non è la stessa cosa.
John sbuffò e portò le ginocchia al petto, circondandole con le braccia e accoccolandosi meglio nel suo giaciglio di sabbia. Il discorso del suo vecchio amico non faceva una piega, come quello di tanti anni prima, e proprio come quel giorno al parco giochi John si sentì sopraffatto dalla verità di quelle parole, pronunciate da qualcuno che aveva incontrato soltanto due volte in tutta la sua vita ma che sembrava conoscerlo come nessun altro.
“Sei insopportabile quando fai così” sbuffò John, fingendosi stizzito, ma sorridendo al ragazzo subito dopo. “Sei bravo a farmi sentire in colpa.”
L’altro piegò le labbra in un ghigno soddisfatto.
“E’ uno dei miei tanti talenti.”
“Un talento piuttosto antipatico.”
“E’ pur sempre un talento.”
John non gli diede ulteriormente corda ma rimase a guardarlo, anche se cercando di non sembrare inopportuno. Quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo, abbassava la testa imbarazzato ma poi tornava alla carica, studiando i suoi lineamenti particolari, la sua figura tutt’altro che comune. Ovviamente, il ragazzo se ne accorse.
“Qualcosa d’interessante?” domandò, ma certamente conoscendo la risposta.
John avvampò e si strofinò il viso con le mani cercando di attribuire il rossore a quello sfregamento, ma senza troppe speranze di successo.
“No, niente è che… mi sembra così strano averti ritrovato” disse, semplicemente esternando il suo pensiero. L’altro fece spallucce.
“Non è così strano. Capita ogni giorno, ma nessuno ci fa caso".
“Io intendevo averti ritrovato in questa…situazione. Ricordi cosa mi dicesti, prima di sparire?”.
Il ragazzo dai capelli scuri chiuse gli occhi, unendo le punte delle dita e sfiorandosi le labbra con gli indici.
“Alla prossima fuga.”
“Alla prossima fuga.”
“Evidentemente fuggi così spesso che è straordinariamente facile incontrarti mentre scappi da qualcosa.”
John lo fulminò scherzosamente con lo sguardo.
“Antipatico.”
“E’ solo la realtà dei fatti.”
“Io avevo bisogno di cambiare aria.”
“Beh, l’hai cambiata.”
“Vuoi che vada via?”
“Non mettermi in bocca cose che non ho detto.”
“Beh, è come se me lo stessi dicendo.”
“Ti sbagli” disse ancora, e John si accorse di quanto il ragazzo si fosse arcuato verso di lui, come pronto a fermarlo nel caso fosse scappato via offeso. “Comunque dovresti tornare. Sarà in pena per te, almeno credo.”
John emise un verso sprezzante, stringendo un pugno di sabbia nel palmo, tenendolo stretto.
“Dubito. Stasera uscirà di nuovo e tornerà a casa ancora più sbronza, lo so”.
“Non puoi saperlo.”
“Tu sai sempre tutto.”
“Tu non sei me” rispose l’altro, con un ragionamento impeccabile che fece ridere John di gusto.
“Già” sussurrò John, a bassa voce. “Io sono quello idiota.”
“Lo sono tutti.”
“Tranne te.”
“Tranne me.”
Il silenzio che seguì, fu interrotto da un incessante bip bip bip che avvisava John di un SMS in arrivo. Svogliatamente prese in mano il cellulare e lo sbloccò, immaginando chi fosse il mittente del messaggio e senza alcuna voglia di rispondere o anche solo leggere quello che aveva da dire. Almeno aveva avuto la decenza di non chiamarlo e fare una scenata melodrammatica al telefono. Guardò lo schermò e scosse la testa, seccato.
“E’ lei?” domandò il ragazzo.
“Sì.”
“Cosa dice?”
John mostrò lo schermo del telefono al ragazzo, che lesse immediatamente la frase sgrammaticata, colpa certamente della fretta concitata con cui era stato scritto, ma ugualmente comprensibile.
Mi dispiace tanto John” ripeté John con un sorrisetto beffardo. “Si è sprecata, anche stavolta.”
Il ragazzo accanto a lui sollevò un sopracciglio, sorpreso.
“Non ti aspetterai che sia in grado di articolare un poema di scuse dopo la notte che ha passato?”
John boccheggiò, cercando qualcosa a cui appigliarsi per non dargliela vinta di nuovo.
“No, ma…”
“Non c’è nessun ‘ma’. Va da lei, adesso.”
“Io non posso. Non sono ancora pronto a tornare” disse con voce non troppo convinta. Stava cercando di fare il duro, di non cedere, di non ammettere che in realtà era lui a essere in pena per sua sorella, dopo il messaggio. Si era ripromesso di non lasciarsi abbindolare ancora dalle scuse di Harry, dai suoi mille ‘mi dispiace’ di ogni volta, ma non poteva farci nulla. Harry era la sua debolezza.
“Riesco a leggere i tuoi pensieri. Sei un libro aperto per me sai?” disse il ragazzo, guardandolo intensamente, come se gli stesse davvero leggendo dentro. “Sulla copertina posso leggere quanta ansia tu sia provando in questo momento, nella prima pagina posso vedere la tua frustrazione nel non riuscire a resistere nemmeno un’ora lontano da lei nonostante tu ci abbia provato in tutti i modi, e nella seconda pagina, lo sforzo sovrumano che stai compiendo per cercare di capire dove tu possa trovare la fermata dell’autobus più vicina” concluse, tutto di un fiato, lasciando John a bocca aperta. “Sull’ultima posso aiutarti. Segui la stradina in cima a quelle scale lì in fondo, per un centinaio di metri” indicò una scalinata di roccia poco lontana.
“Dovresti fare il detective. O qualcosa del genere” fu tutto quello che John riuscì a dire, con una risatina allegra. “Sei spaventoso, senza offesa.”
Il ragazzo si infilò le mani in tasca e si sollevò, giocherellando con un ramoscello secco tra le scarpe.
“E’ un lavoro troppo…noioso” rispose, provocatorio.
John fece spallucce, alzandosi anch’egli, senza staccare gli occhi di dosso al suo compagno di chiacchierate.
“Dovresti inventartene uno, allora” propose John, sorridendo.
L’altro lo guardò divertito.
“Potrei farlo, sì.”
John arrossì e lo guardò, cercando qualcosa di buono da dire e da fare, quando sarebbe stato il momento di congedarsi. Voleva chiedergli se avrebbe potuto rivederlo, se sarebbero passati altri otto anni prima di incontrarlo ancora. Si domandò se era il caso di chiedergli dove abitasse, se gli andasse una passeggiata di tanto in tanto, o perlomeno il suo numero di telefono, ma nulla uscì dalla sua bocca. Era come bloccato, ammutolito, incapace di formulare anche solo una di quelle domande.
Si lasciò accompagnare sulla strada principale, in silenzio, fino alla fermata del bus che il suo compagno gli aveva indicato e si fermò sotto la pensilina, in attesa.
Un bus rosso rombò in lontananza, annunciando il suo arrivo, e John si piegò in avanti, felice e rammaricato allo stesso tempo nel costatare che fosse proprio quello che a lui occorreva. Voleva tornare da Harry al più presto, ma allo stesso tempo non voleva lasciar andare lui.
“E’ giunto il momento dei saluti, a quanto pare” esordì il ragazzo, rompendo il silenzio, mentre il bus avanzava lentamente lungo la strada.
“A quanto pare” convenne John e del tutto inaspettatamente, vide il suo braccio muoversi di sua spontanea volontà, tendendo la mano al ragazzo di fronte a lui. Questi lo guardò stupito, come se non si aspettasse un gesto simile, ma strinse la mano a John, con presa salda. La sua mano era calda, liscia, per niente ruvida.
L’autobus arrivò alla fermata e John salì, cercando di non interrompere il contatto visivo con il ragazzo rimasto in strada, cercandolo attraverso il vetro aperto di uno dei finestrini.
“Alla prossima fuga, John” il ragazzo mormorò, ma John riuscì a sentirlo chiaramente. John sorrise e lo salutò con un gesto della mano prima di sedersi. Il suo cuore prese a battere furiosamente quando si accorse che quella di poco prima era stata la prima volta che quel ragazzo aveva pronunciato il suo nome, anche se lui non gliel’aveva mai detto.
Poi, un ricordo del molo, una chiara immagine di nemmeno dieci minuti prima, lo colpì come uno schiaffo in pieno viso.
“Il messaggio di Harry” bisbigliò a se stesso, rimuginando.
Quel ragazzo conosceva il suo nome e John invece ignorava completamente quello di lui. Che stupido era stato a non chiederglielo prima? Perché era stato tanto distratto da ignorare un particolare tanto importante?
Prima che potesse affacciarsi nuovamente per poterlo chiamare, per rubare quella piccola ma fondamentale informazione, l’autobus partì, facendolo atterrare nuovamente sulla sedia. Quando il mezzo prese velocità e John poté nuovamente mettersi in piedi e sporgersi dal vetro, sotto la pensilina non c’era più nessuno.

Continua...

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Capitolo 2
*** Dimmi il tuo nome ***


Secondo capitolo! Un grazie enorme a chi segue, recensisce o anche soltanto legge! Grazie mille!
*

 

 

 

 

 

 

Una mattina di metà gennaio, John ripensò a lui ancora una volta.

La spalla faceva male, quasi troppo male per poterlo sopportare, e le fitte lancinanti alla gamba non facevano che peggiorare la sua situazione. Si trascinò dal letto fino al tavolo della colazione, cercando di rimuovere le immagini dell’incubo di quella notte, cercando di dimenticare il rumore acuto degli spari, delle urla, delle voci che chiamavano incessantemente il suo nome invocando aiuto.

Aprì il suo portatile ed esitò sui tasti, indeciso su cosa dire, senza realmente alcuna voglia di scrivere effettivamente qualcosa. Senza pensare, batté le dita sui tasti nemmeno osservando lo schermo, buttando giù qualcosa per dovere, per il gusto di farlo, per evitare che Ella lo rimproverasse al loro prossimo incontro.

Quando rialzò gli occhi e lesse quello che sovrappensiero era uscito dalla sua mente, per poco non verso la tazza di tè poggiata accanto al computer su tutto il tavolo.

 

21 gennaio 8.03

 

Mi manca una persona. Una persona che ho visto soltanto due volte in tutta la mia vita.
Voglio rivedere i suoi occhi, voglio sentire di nuovo la sua voce dirmi che sono un idiota a scappare da tutto ciò che non mi va giù. Vorrei dirgli quello che provo adesso, quello che provo ora che ho smesso di scappare. Vorrei dirgli quanto mi piacerebbe che la mia vita fosse un’altra, non questa.
Sono un idiota davvero, perché credo di provare una sorta di…amore, per lui. E non so nemmeno il suo nome, ma so che ha un fratello, è un sociopatico e che non ha amici. Oh, e che ama pensare in luoghi bui, deserti e isolati. Potrebbe essere chiunque, e soprattutto potrebbe essere ovunque, adesso. Potrebbe essere morto.
Qualcuno può aiutare questo povero matto?

 

John cominciò a ridere, dopo lo stupore iniziale, a ridere senza allegria, senza che realmente lo desiderasse. Forse stava davvero impazzendo, in quel vecchio e angusto appartamento, e forse la solitudine lo avrebbe consumato completamente un giorno, e probabilmente sarebbe stato meglio così. Almeno avrebbe smesso di commiserarsi, di continuare a chiedersi perché la sua vita avesse preso quella piega inaspettata.

Scuotendo la testa, chiuse il portatile e si infilò in bagno per una rinfrescata, sperando che l’acqua fredda riuscisse a lavare via quei ricordi, pregando che il rumore scrosciante della doccia permettesse a quegli occhi di lasciare al più presto i suoi pensieri.

 

Passeggiando per il parco, zoppicando sulla sua stampella, non riuscì ad allontanare ancora il flusso dei ricordi da quel ragazzo.
Non l’aveva mai davvero dimenticato, anzi, dopo l’ultimo incontro aveva pensato a lui quasi ogni giorno. Era arrabbiato, infuriato con se stesso per non aver mai chiesto il suo nome, o una qualunque cosa che potesse permettergli di rintracciarlo. Ogni tanto sentiva la sua mancanza così tanto da sentirsi quasi male, da costringersi ad affondare la testa nel cuscino per non lasciarsi andare. E la cosa peggiore è che non si spiegava il perché. Non erano amici, non c’era stato il tempo di costruire un vero e proprio rapporto, avevano passato insieme meno di due ore in tutto, non sapevano quasi nulla delle loro rispettive vite, eppure John era rimasto indelebilmente segnato da quel ragazzo.

Era stato il primo, la prima persona a mettere davvero in discussione le sue idee, il suo comportamento, il suo atteggiamento nei confronti di Harry e i suoi. La prima persona che non si era limitata ad un ‘sì, hai perfettamente ragione’ detto solo per far piacere e senza un reale interesse, il primo che pur non conoscendolo gli aveva detto quello che realmente pensava. Aveva aperto davanti a John un mondo che lui non conosceva.

Se solo fosse stato possibile poterlo rivedere, ancora una volta.

Se solo la sua vita fosse stata come una favola, dove sarebbe bastato uno schioccare di dita o lo sfregamento di una lampada per avverare un suo desiderio, sarebbe stato tutto più facile, per John. Si ritrovò a pensare che gli sarebbe bastato quel desiderio, soltanto quello. Non soldi, non fama, non ville lussuose o cose del genere. Il solo pensiero di quel ragazzo, di quel meraviglioso sconosciuto cui sentiva di dovere così tanto di nuovo accanto a lui, lo avrebbe reso un uomo migliore. Gli sarebbe bastato anche solo il suo nome. Soltanto quello.

“John! John Watson” una voce lo distolse dal suo viaggio mentale.

John si voltò verso la voce e riconobbe quasi immediatamente un suo vecchio collega del Barts, anche se al momento il nome non faceva che sfuggirgli dalla mente, satura di altri pensieri.

“Mike! Mike Stamford! Eravamo insieme al Barts” disse l’altro con voce entusiasta, come se fosse sinceramente felice di aver rincontrato il vecchio amico. John gli sorrise, lieto che quell’uomo gli avesse concesso anche una sola minima distrazione.

Mike gli offrì un caffè e parlarono del più e del meno, dei vecchi anni all’Università, il tirocinio, e ovviamente dell’Afghanistan. Mike gli fece una valanga di domande trite e ritrite, tra cui una memorabile affermazione su come si fosse fatto sparare, come se l’avesse voluto lui, a cui John cercò di rispondere il più gentilmente possibile, nonostante non fosse decisamente in vena. Quando poi la conversazione arrivò ai soldi, al suo appartamento, e alle possibilità che John continuasse a vivere a Londra, John desiderò non aver lasciato il suo letto, quella mattina. Stare sdraiato a compatirsi fino a mezzogiorno inoltrato sarebbe stato meglio che continuare su quell’argomento, girando il coltello in una piaga ancora aperta.

Disse a Mike che non lo sapeva, che la pensione dell’esercito non sarebbe più bastata per permettersi di vivere in città e ascoltò il suo vecchio amico chiedergli che fine avesse fatto il vecchio John Watson, se Harry potesse aiutarlo, ipotesi utopica quanto il genio della lampada di poco prima, e se avesse mai pensato alla possibilità di cercare un coinquilino.

John sorrise, a quell’affermazione. Chi avrebbe mai voluto un ex soldato tormentato, depresso e vittima di incubi notturni come coinquilino?

John guardò Mike e sorrise, con un cipiglio sarcastico.

“Andiamo, chi mi vorrebbe come coinquilino?” disse, sicuro. Quello che non si sarebbe mai aspettato però, fu la risatina divertita di Mike che seguì la sua affermazione.

“Cosa c’è?” domandò, sorpreso.
“Sei la seconda persona che me lo dice, oggi.”

John era davvero, davvero curioso di conoscere il primo. Qualcosa, nell’immediatezza, gli disse che qualcosa sarebbe successo, quella mattina.

Fecero una passeggiata fino al St. Bartholomew e Mike lo fece entrare a dare un’occhiata al luogo dove aveva passato praticamente metà della sua giovinezza, che adesso era completamente diverso, più moderno e inevitabilmente più freddo rispetto ai suoi tempi.

Passarono davanti alla biblioteca e John sorrise ai ricordi dei mille pomeriggi passati a quel tavolo, sotto la luce calda della lampada che lo faceva sudare anche in agosto, nascosto dal resto degli studenti da pile altissime di libri e appunti.

Arrivarono alla vecchia mensa, alla grande sala d’aspetto, attraversarono le aule e le fila numerate degli ambulatori, fino ad arrivare all’ultima tappa, il laboratorio.

E quando Mike aprì quella porta, la giacca sul braccio e un sorriso compiaciuto sul viso, John entrò nell’ampio ambiente illuminato da luci al neon bluastre, e incrociò lo sguardo con l’unico uomo presente nella stanza.
E per poco, John non si accasciò sul freddo e asettico pavimento come un peso morto.

Strinse il bastone con tanta forza che credette di poter far esplodere il legno in mille piccole schegge e strinse la mano libera in un pugno tanto saldo da riuscire a sentire le unghie corte penetrargli nella carne del palmo. John, però, non sentì alcun dolore.
Perché lui era lì, davanti a sé.

Era davanti ad un microscopio, e John vide le sue pupille dilatarsi nell’istante preciso in cui i loro occhi s’incontrarono, le labbra leggermente dischiuse in un’espressione di sorpresa e stupore.

“Mike, mi presti il cellulare, per favore? Il mio non prende” fu, inaspettatamente, la prima cosa che uscì dalla sua bocca. E non era rivolta a lui. John lo guardò a bocca aperta, stringendo ancora più forte il bastone, nervosamente.

“Perché non usi un fisso?” rispose Mike, infastidito.

“Preferisco gli SMS.”

Mike gettò gli occhi al cielo, e sbuffò.

“Mi dispiace, è nel mio giubbotto” replicò, svogliato. John ebbe l’impressione che non fosse la verità, ma colse la palla al balzo, con quella risposta. Desiderava disperatamente rompere il ghiaccio, parlare con lui, infrangere quella barriera di silenzio e indifferenza che sembrava essersi creata, e quella era la giusta occasione.
“Ecco, tenga” provò così a dire, ma la voce uscì dalle sue labbra incerta, tremolante. “Usi il mio.”

L’uomo tornò a guardarlo, una ciocca di capelli a oscurargli lo sguardo, identico a tanti anni prima. Allungò una mano e accettò il cellulare di John.

“Lui è un mio vecchio amico, John Watson” lo presentò Mike, senza troppe cerimonie.
L’uomo piegò le labbra in un ghigno.

“Qualcosa mi diceva che il suo nome fosse John” disse, con ancora quel sorrisetto in viso.
“Afghanistan o Iraq?” fu la domanda che gli rivolse, poi.

Mike rise, cercando di mascherarlo coprendosi con una mano.
“Vi lascio a fare un po’ di…conoscenza, allora” disse l’uomo, rinfilandosi la giacca. “Non spaventarti troppo John. A volte fa quest’effetto”.

“Non lo farò” disse John, sicuro. Ormai lo conosceva. Sentiva di conoscerlo.

L’uomo chiuse la porta dietro di sé e l’attenzione di John tornò all’altro uomo.

“Non dirmelo. E’ qualcosa nei miei capelli, vero? O nella gamba, o qualcosa di simile?” domandò John, poggiandosi sulla sua stampella, senza staccare un secondo gli occhi di dosso all’uomo più alto. Questi lo guardò con uno strano bagliore a illuminargli il volto, come se John gli avesse detto qualcosa di assolutamente straordinario.
“Mio Dio, John, spero non comincerai ad esternare questa tua abilità deduttiva in giro” scherzò l’uomo, con un sorrisetto ironico. “O rischierei di perdere il lavoro.”

John rise, scuotendo la testa davanti all’assurdità di quella situazione. Stavano di nuovo parlando del più e del meno come se niente fosse, come se quello fosse un’incontro casuale al bar di due vecchi amici.

“Dovremmo smetterla di incontrarci così” disse poi, passandosi una mano in viso.“Insomma, ho più una decina d’anni di argomenti arretrati di cui aggiornarti.”

L’altro sorrise, armeggiando col cellulare di John ma lanciandogli occhiate furtive sempre più frequenti, come se non volesse dargli l’impressione che non lo ascoltasse.

“Dieci anni di litigi con tua sorella da sorbirmi” l’uomo dai capelli scuri chiuse gli occhi, come se stesse pregustando qualcosa di infinitamente dolce. “Oh, cosa mi sono perso.”

John mise le mani sui fianchi, come a volerlo rimproverare.

“Fai poco lo spiritoso. Sei sempre stato tu a chiedermi di raccontare”.

“Oh ma io ero serio, John” l’uomo lo guardò con sguardo palesemente beffardo. “Cosa ti fa credere che fossi sarcastico?”

John rise di nuovo, con il cuore che batteva all’impazzata, sentendosi totalmente a suo agio per la prima volta dopo quelli che sembravano secoli, ai suoi occhi.

“Noto con piacere che sei ancora un insopportabile sotuttoio” esclamò, fingendo indifferenza. “Avevo quasi temuto che tu fossi diventato un rispettabile cittadino con, uh, l’hobby del giardinaggio.”

L’uomo accanto a lui rabbrividì a quella prospettiva.
“No John. Grazie per la pittoresca visione” lo schernì. “Comunque, se sono qui è perché ho seguito il tuo consiglio.”

John osservò il set di provette, vetrini e strani liquidi davanti a lui e cercò di ricordare a quale consiglio si riferisse. Non ci mise molto a riportare alla mente l’immagine di quel giorno e le parole precise.

“Oh” disse, sinceramente stupito. “Sei diventato una specie di… chimico-investigatore?”

L’altro arricciò il naso e scosse la testa, contrariato dalla definizione poco fantasiosa attribuitagli da John.
Consulente Investigativo” spiegò, con una certa fierezza nella voce. “L’unico al mondo. Quando la polizia brancola nel buio, cioè sempre, si appoggia a me”.

John fischiettò, in tono d’approvazione.

“Però. Hai fatto strada” si complimentò, sinceramente. “E…tuo fratello?” gli domandò, chiedendosi nemmeno due secondi dopo perché diavolo l’avesse messo in mezzo.
La bocca dell’uomo assunse una piega disgustata, come se avesse gli avessero appena fatto ingollare un cucchiaio di sale.

“Mio fratello continua ancora ad atteggiarsi a Dio Onnipotente, grazie per l’interessamento” liquidò lì l’argomento. Poi alzò gli occhi a John, con una visibile frase sospesa sulle labbra.
“Mi dispiace per il divorzio di tua sorella, comunque” disse, alla fine.

John aprì la bocca senza che ne uscisse alcun suono. Come aveva fatto a sapere di Harry?

“Come…” boccheggiò. “Come fai a sapere…?”

L’altro si rigirò il cellulare di John tra le dita, giocherellandoci come fosse una specie di buffa pallina e facendolo passare da una mano all’altra.
“Il cellulare. Gli oggetti parlano, John, e il tuo cellulare è un gran chiacchierone”.

John si accigliò.

“Spiegami come il cellulare ha fatto a parlarti di Harriet e Clara” disse John, categorico.

L’uomo più giovane assunse un’espressione confusa.

“Harriet?”

“Certo, Harriet, mia sorella.”

“Pensavo fosse ‘Harry’”

“Pensavi che il nome di mia sorella fosse Harry?” rise John, assolutamente divertito da quella faccenda. L’uomo sembrò non prendere bene l’allegria di John.

“Pensavo che i tuoi fossero di quelli fissati con i nomi maschili, come Ashley, o Sasha o cose del genere.”

John rise ancora più forte, poggiando una mano sul tavolo del laboratorio e dimenticandosi completamente del bastone e della gamba dolorante.
“Oh mio Dio, esiste qualcosa che non sai!” gli puntò contro il dito, con fare teatrale.“Che soddisfazione.”

L’uomo lo trafisse con uno sguardo tagliente, assassino.

“Ora sei tu quello antipatico.”

“Oh, non m’importa. E’ talmente soddisfacente…” lo stuzzicò il medico.

“Ti basta poco per entusiasmarti” sbuffò il moro, senza guardarlo.

“Non è poco per me” puntualizzò John. “E non cambiare argomento. Forza, dimmelo.”

L’altro non rispose ma si alzò dalla sedia e andò a riporre tutto il materiale sparso che aveva davanti, nel mobile dietro di lui. John tossì per attirare la sua attenzione e l’uomo si voltò a guardarlo con aria innocente.
“Cosa c’è?” gli domandò, come se non lo sapesse.

John strinse gli occhi, riducendoli a due fessure.

“Hai ancora una risposta in sospeso” gli ricordò il medico, tamburellando con le dita sul tavolo.

L’altro sbuffò.

“Non ti ho pedinato per tutti questi anni, nel caso te lo stessi chiedendo. Non ti sto rispondendo soltanto per evitare una penuria di argomenti durante il nostro primo giorno di convivenza” annunciò, semplicemente.

John non comprese e gli si avvicinò, in cerca di spiegazioni.

Convivenza?” ripeté John, confuso. Chi aveva mai parlato di convivenza?

“Stamattina ho detto a Mike che sarebbe stato difficile trovare un coinquilino, e dopo pranzo eccolo di ritorno con un suo vecchio amico, chiaramente congedato dall’Afghanistan” spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, come sempre. “Non era così difficile da capire. Ho adocchiato un appartamento in centro che insieme potremmo permetterci”.

John si bloccò, ammutolito e sconvolto da quell’affermazione. Fino a quella mattina aveva sperato in un miracolo come quello con tutte le sue forze, dandosi dello sciocco e dell’idiota per credere ancora in quelle favole, in quello stupido e fantascientifico affetto per un’ombra del suo passato, e adesso eccolo lì a parlare con lui di una possibile e futura vita insieme. John si morse la lingua fino a farla sanguinare, cercando un segno tangibile che quella fosse davvero la realtà e non un sogno bellissimo e fin troppo realistico che lo avrebbe distrutto al risveglio. Il sapore metallico del sangue nella sua bocca gli sembrò dolce come miele.

“E chi ti fa credere che io voglia condividere un appartamento con te, uomo del mistero?”

L’altro afferrò il cappotto dalla sedia vicina e lo infilò, sistemandosi i guanti e il bavero, senza distogliere gli occhi da John. Si avvicinò al medico e gli sorrise, vicino, fin troppo vicino, con i loro nasi prossimi a sfiorarsi. Il respiro di John divenne irregolare mentre seguiva con lo sguardo la curva insolita delle labbra di lui.

“Io lo so” fu la sua risposta, enigmatica come sempre.

“Tu…lo sai?” disse John incredulo, cercando di non ridere. “Davvero?”

“Certo.”

“E come fai a saperlo, di grazia?”

Il viso dell’uomo si spostò, fino a chinarsi di più verso John, appoggiandosi al tavolo, così da portare i loro visi alla stessa altezza. Il suo respirò accarezzò le guance di John fino al suo orecchio, prima che l’uomo parlasse, in un sussurro, come se avesse paura che qualcuno potesse sentirli.

“Perché non sei più un ragazzino spaventato, John. Perché hai compreso che saltare uno stupido esame non è nulla in confronto alla perdita di un commilitone, di un amico. Perché hai capito che una vacanza andata a monte non è un vero problema, non è doloroso, non fa male come un proiettile in una spalla” bisbigliò. John non fiatò, rimanendo ad ascoltare, come rapito dalla voce profonda e piena di verità di quell’uomo.

“Perché sei cresciuto John, e la guerra è stata la tua ultima fuga” esclamò ancora e stavolta il suo tono di voce crebbe. “Perché adesso non scapperai più, tu resterai. E mi piacerebbe che tu restassi con me.

Lasciando un completamente sbigottito John Watson appoggiato al tavolo di marmo, con le mani che stringevano la superficie fino a farsi sbiancare le nocche, l’uomo si avviò verso la porta. John non voleva che le loro strade si separassero ancora, John non voleva lasciarlo andare, ma ancora una volta non riusciva a parlare, a esprimere al meglio quello che aveva nel cuore.

Quando lo vide afferrare la maniglia della porta però, qualcosa scattò dentro di lui. Doveva farlo, questa volta. Doveva chiederlo. Sapere.

“Non so dove dovremo incontrarci” gridò, bloccando l’uomo sul posto. “E soprattutto, io non conosco il tuo nome” concluse, e quella frase sembrò alleviare il petto di John di un peso gigantesco, opprimente.

L’uomo chiuse gli occhi, come se John gli avesse finalmente dato la soddisfazione che cercava, e poggiò la fronte allo stipite della porta prima di rivolgere nuovamente lo sguardo al medico.

“Domani sera. L’indirizzo è il 221B di Baker Street” disse, con voce tranquilla ma smossa da una profonda e tacita eccitazione. “E il mio nome è Sherlock Holmes” aggiunse, prima di sparire lungo il corridoio.
Dopo un iniziale silenzio, John scoppiò a ridere, tenendosi la testa tra le mani come una ragazzina eccitata al suo primo appuntamento. Scivolò lungo la parete del laboratorio ancora ridendo, sentendosi euforico, soddisfatto, pervaso da una scarica d’adrenalina pura che lo faceva sentire in grado di affrontare qualsiasi cosa.

“Oh mio Dio” sussurrò a se stesso, incredulo. “Tutto questo è assurdo.”
Si risollevò, quasi completamente dimentico della gamba, della spalla e di qualunque altro malanno o preoccupazione lo avesse tormentato prima di quel giorno. Uscì anche lui nella fresca aria di quel mattino, il mattino del suo miracolo, il mattino in cui John aveva finalmente smesso di fuggire, gettando la sua ancora in un porto sicuro che adesso aveva un nome.
Sarebbe andato tutto bene d’ora in avanti. John lo sentiva. John ne era sicuro.

 

Continua…

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Capitolo 3
*** Non capisci, John? ***


Terzo capitolo! Sono ‘solo’ cinque pagine, per non appesantire troppo la lettura!
Grazie a tutti per le recensioni! Risponderò a ognuna, giurin giurello!

 

 

 
*

 
E quella convivenza si stava rivelando essere anche migliore del previsto, oltre ogni previsione di John.

Pistole, inseguimenti e tassisti psicopatici a parte.

Sherlock non era una persona facile, tutt’altro, con la sua totale avversione per i sentimenti e per il normale rapportarsi con le altre persone, ma John sentiva di essere diverso, per lui.

Non si era mai reputato speciale, non nel senso vero e proprio del termine, prima che Sherlock piombasse nella sua esistenza a farlo sentire tale.

Certo, a volte, o meglio quasi sempre, il detective era intrattabile, pungente, assolutamente sgradevole, ma John era una sorta di panacea per tutti i suoi mali. Tutto era diverso, quando lui era con Sherlock.

Se era arrabbiato, una parola di John poteva rasserenarlo quasi immediatamente, se era annoiato, cosa tristemente frequente, Sherlock abbandonava di buon grado il martirio dei muri se l’alternativa era la compagnia del suo coinquilino.

Il detective non aveva mai detto espressamente a John quanto fosse importante per lui, men che meno gliel’aveva dimostrato con un gesto fisico come un abbraccio, un bacio o anche solo una pacca sulla spalla, ma sapeva farsi intendere anche rimanendo in silenzio. Sapeva che John avrebbe capito.

E John capiva sempre, ogni volta.

 

Un giorno però, scendendo le scale dalla sua camera alla cucina, appena sveglio, John si ritrovò davanti alla scena più inverosimile, impossibile e impensabile che avesse mai visto in tutta la sua vita. Lasciò cadere l’asciugamano che aveva tra le mani sull’ultimo gradino, quasi scivolandoci sopra, e continuò ad osservare con occhi spalancati il quadretto idilliaco davanti a sé come se non riuscisse più a distogliere lo sguardo.

Sua sorella teneva Sherlock avvinghiato a sé in un abbraccio talmente stretto da spingere John a pensare che il povero detective faticasse seriamente a respirare. Il suo colorito, che stava variando da un rosa pallido ad un rosso acceso, sembrò confermare la sua teoria.

Era qualcosa di agghiacciante nella sua assurdità.

“Sto ancora dormendo” disse a voce alta, così che i due potessero sentirlo. “E questa è una qualche stramba proiezione del mio subconscio malato”.

Harry lasciò la presa su Sherlock, che si massaggiò il collo, ansimante, sporgendosi da dietro la spalla dell’uomo con un sorriso radioso. Quel giorno era molto carina, con i capelli biondi raccolti da un cerchietto rosso e un vestitino dello stesso colore che le svolazzava intorno come una nuvoletta, e sembrava decisamente di buon umore.

“Ciao John! Ho pensato di fare un’improvvisata!” squillò con voce allegra, correndo verso suo fratello ad abbracciare anche lui. John vide Sherlock fissarla con lo stesso sguardo con cui si guarderebbe un pazzo armato di coltello. O meglio, come un uomo qualunque guarderebbe un pazzo armato di coltello.

“Ho notato” disse John, tornando a respirare, con gli occhi che vagavano da lei a Sherlock. “E hai pensato bene di aggredire il mio coinquilino, giusto per rendere la conoscenza più interessante”.

Harry non sembrò particolarmente colpita dall’insinuazione. Fece un gesto con la mano come a dirgli di lasciar perdere.

“Oh, ero solo contenta di conoscerlo, finalmente! Se avessi aspettato che me lo presentassi tu…” guardò John con espressione severa.

Il dottore grugnì, senza molta voglia di intavolare quel discorso.

“Era per evitare tutto questo…amore a profusione. Mi metti in imbarazzo” si giustificò John, guardando altrove e sentendo le guance andare in fiamme. Harry mise le mani sui fianchi.

“Oh quanto esageri fratellino!” sbottò. “Sempre a rinfacciarmi di essere troppo espansiva! E poi a Sherlock non è dispiaciuto, vero?”.

Sherlock sussultò sul posto, come risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti, sentendosi chiamato in causa. Stava assistendo al battibeccare dei due fratelli come se fosse uno spettacolo incredibilmente interessante.

“Oh affatto. Adoro i sani abbracci mattutini. John non lo fa mai” insinuò, sfoggiando una delle sue migliori espressioni di delusione, come se fosse davvero rammaricato dalla mancanza d’affetto del coinquilino. Il dottore lo fissò, sbigottito, meditando se assalirlo lì sulle scale o se aspettare che Harry andasse via.

“Non mi sei mai sembrato il tipo, Sherlock” puntualizzò, acido.

“Tu non me lo hai mai chiesto, John”.

“Forse perché mi hai sempre dato l’impressione di preferire un proiettile in un piede piuttosto che un abbraccio”.

“Questo è perché vedi ma non osservi, John” spiegò Sherlock scuotendo la testa. “E poi io non sono il tipo da proiettili. Quella è la tua area di competenza” sorrise, mellifluo.

John lo fulminò con lo sguardo.

Poi Sherlock si rivolse a Harry.

“Devi scusarlo, è un tale musone. Ha paura di esternare i suoi sentimenti. Tu sentiti pure libera di dimostrare liberamente il tuo affetto” sorrise a Harry con uno sguardo melenso maledettamente convincente. Harry batté le mani, deliziata.

John non aveva più parole. Forse stava sognando davvero. Forse tutta quella situazione era solo frutto della sua mente instabile. Non trovava altra spiegazione.

“Sei davvero un amore, Sherlock!” squittì Harry, stridula. “Avrei davvero voluto conoscerti mesi fa!”.

“Ha ragione!” le diede corda il detective.

John si prese la testa tra le mani, con sguardo esasperato, fissando Sherlock con espressione assassina.

“Se avessi saputo che tra voi sarebbe nato quest’amore sconfinato, vi avrei fatto incontrare prima, davvero, al diavolo l’imbarazzo. Perdonami, Sherlock” esclamò, sarcastico.

Sherlock guardò il dottore come se non capisse perché gli stesse parlando con quel tono acido.

“Colpa della solita mancanza di fiducia nei miei confronti, John. Pensavi che la tua adorabile sorellina potesse darmi un qualche fastidio?”.

John strinse i pugni, incrociando le braccia e scoprendo i denti come un predatore pronto alla caccia.

“Oh, scusami per averlo anche solo pensato. Credevo di conoscerti bene, e invece…”.

“Ci conosciamo da soli quattro mesi, John. Non è abbastanza”.

John rise, ironico, guardando Sherlock con gli occhi ridotti a fessure.

“Oh, ma tu sai che a me sembra di conoscerti da anni” lo stuzzicò.

Sherlock, inaspettatamente ammiccò, senza farsi scorgere da Harry. John non riuscì a trattenere un sorriso.

“Non posso darti torto. E’ la stessa impressione che ho sempre anch’io” asserì il detective, e il suo viso sembrò illuminarsi.
Harry guardava i due con spiccatissimo interesse, come se comprendesse la presenza di un messaggio nascosto che lei non riusciva a cogliere.

“E dicevo proprio poco fa alla cara Harry di quanto mi sembra di…conoscerla a fondo, nonostante questo sia il nostro primo incontro”.

Harry annuì, vigorosamente, prendendo un braccio di Sherlock e intrecciandolo al suo.

John portò una mano alla bocca, per mascherare la risata che stava per sfuggire dalle sue labbra. Sarebbe stata abbastanza inopportuna, in quella situazione.

“Ma davvero?” domandò al detective, pregando di riuscire a trattenersi.

“Davvero. E’ fantastico, non credi?”.

“Grandioso”.

“Non mi era mai capitato” ribadì Sherlock, senza staccare un secondo gli occhi da quelli di John. “Abbiamo davvero un feeling”.

“Ma non mi dire” John strabuzzò gli occhi, fingendo, con un certo talento, un’enorme sorpresa.

“Tutto vero”.

“Straordinario. Senza che io te ne abbia mai parlato” lo prese in giro John, ancora mantenendo quell’espressione.

Harry, ancora sospettosa ma probabilmente non troppo incline ad indagare a fondo, continuò ad annuire, come se pendesse dalle labbra di Sherlock.

“E’ verissimo, sì. Sento un legame, Johnny. Andremo d’amore e d’accordo, già lo sento”.

John sorrise, quasi intenerito.
“Che idillio” mugolò, sarcastico.

Harry arricciò il naso.

“Sei sempre il solito” lo accusò, incrociando le braccia.

“Sono fatto così”.

“Beh, sei fatto male” lo prese in giro Harry, bonaria.

“Tu mi ami così come sono” rispose poi a tono John, ma senza alcuna cattiveria.
Harry gli si avvicinò, ancora sorridendo e lo abbracciò nuovamente. John la cinse con le sue braccia, gettando ogni tanto un’occhiata a Sherlock che li guardava curioso, ma con un certo divertimento.

“Beh, mi dispiace davvero ma devo scappare. E’ stato un enorme piacere, Sherlock!” Harry si liberò dalla presa su John e si gettò nuovamente tra le braccia di Sherlock che non mancò di ricambiare la stretta. John continuava a rimanere allibito da quel comportamento.

“Lo stesso per me, Harry” asserì Sherlock, ricevendo come risposta un altro sorriso raggiante.

“Sei davvero un ragazzo così carino” John sentì dire a sua sorella, come se stesse parlando con un bambino di tre anni che muove i primi traballanti passi sui suoi piedini.

“Carinissimo” rincarò John, in una grottesca imitazione della voce di sua sorella.

Harry gli fece la linguaccia.

“Tornerò presto. Dobbiamo raccontarci un sacco di cose, noi tre!” disse allegra, ma a John sembrò più una minaccia che una piacevole prospettiva. Si sforzò di dimostrare un minimo di entusiasmo.

“Non vediamo l’ora” si costrinse a dire, e Sherlock, senza farsi vedere, scoppiò a ridere.

Harry rise, sinceramente deliziata, e dopo un ultimo abbraccio corse verso la porta, chiudendola dietro di sé e sparendo in uno svolazzo di stoffa rossa.

John crollò sul divano, respirando profondamente come se si stesse riprendendo da un incontro di boxe particolarmente violento.

Sherlock si sedette accanto a lui, senza parlare. Quando John si riprese completamente, decise che era il caso di chiarire la faccenda con il coinquilino.

“Si può sapere che ti è preso? Abbracci mattutini?” ripeté, come fosse qualcosa di inconcepibile.

Sherlock sospirò.
“Beh, è vero. Non me ne dai mai.” puntualizzò il detective, stringendo a sé un cuscino, come a dargli dimostrazione di un forte bisogno di affetto.

John rise.

“Forse perché so che se solo ci provassi potrei trovarmi…non so, accoltellato?” suggerì.
Sherlock mugolò, scuotendo la testa, pensoso.

“No, sangue crea confusione e sai quanto questo urti la Signora Hudson. Forse dovresti preoccuparti del tè a colazione” ribatté.

John fece un versetto d’assenso.

“Molto più pulito”.

“Decisamente”.

Silenzio.

“Che ti è preso, Sherlock?” domando poi, finalmente. “Seriamente, perché?”.

Il detective si voltò lentamente verso di lui e gli rivolse un altro dei suoi sguardi di delusione, uno di quelli che John aveva catalogato sotto la voce ‘guardi ma non capisci’.

“Pensavo fosse chiaro”.

John sbuffò.
“Ecco che ci risiamo”.

Sherlock si puntellò sulla seduta soffice del sofà e incrociò le braccia.

“John, dovresti applicarti di più”.

“Prometto che lo farò. Ora parla”.

“John, davvero…”.

“Parla, Sherlock!” lo esortò, con un tono più simile a un’intimidazione che a un incoraggiamento. Il detective sembrò non essere in vena di contraddirlo ulteriormente.

Sospirò e unì le punte delle dita, sfiorandosi il mento.

“Non mi andava di…trattarla come tutti gli altri” ammise, con un certo sforzo, distogliendo momentaneamente lo sguardo da John.

Il dottore lo guardò, senza capire. Da quando lo conosceva, non aveva mai visto Sherlock riservare un trattamento di favore a chicchessia.

“E cosa ha fatto per meritarsi un tale onore?” domandò John con fare pomposo.

L’altro tornò a rivolgere gli occhi verso di lui, con espressione concentrata, come se quello che stava per dire richiedesse una costante concentrazione.

“Perché sono in debito con lei” ammise, e John lo vide arrossire, anche se Sherlock non lo avrebbe mai ammesso.

Il dottore lo fissò, stranito.

“In debito?”.

Sherlock annuì e sorrise, come se fosse divertito dalla sua incapacità di inquadrare la situazione.

“Lei ti ha costretto a scappare, quella notte” disse poi, a fugare ogni dubbio di John. “E grazie a lei che ti ho incontrato”.

John non rispose, rimanendo semplicemente lì accanto a lui, con la bocca semi aperta e un’espressione che doveva sembrare tutt’altro che furba o intelligente. Sherlock non disse nient’altro e si alzò dal divano, tornando in cucina a dedicarsi all’esperimento che Harry lo aveva costretto ad abbandonare al suo arrivo.

John sorrise, ancora senza parlare, senza una vera necessità di dire qualcosa, in fondo. Sherlock lo guardò di sfuggita, da sopra il suo microscopio, e il dottore lo vide mascherare uno sguardo compiaciuto, felice. John annuì e il suo coinquilino distolse lo sguardo, soddisfatto.

A Sherlock non servivano parole, e in fondo, a John andava bene anche così.

 

 

Continua…

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Capitolo 4
*** No place like home ***


Arriva il quarto capitolo!
Lieve cambio di atmosfere, vi do solo questo piccolo avviso.
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.

 

 

 Can miles truly separate you from friends?
If you want to be with someone you love, aren't you already there?

-Richard Bach

 

 

 

*

 
La vita con Sherlock era stata una liberazione, per John.

Ogni giorno passato accanto a lui era stato pregno di una qualcosa di sempre nuovo, piacevole, adrenalinico, vivo. Ogni momento passato in sua compagnia gli aveva donato qualcosa di liberatorio, una sensazione simile al tornare a respirare dopo ore di apnea.

Era stato tutto quasi irreale, come in un sogno. La sua vita aveva cominciato a sembrare così simile a quella che aveva sempre desiderato che a volte si svegliava nella sua stanza credendo fosse tutto svanito, che una volta aperte le persiane, la luce avrebbe invaso l’angusta stanza in affitto dove aveva vissuto prima di Baker Street, lasciandolo con l’amarezza di un obiettivo mai raggiunto, di un desiderio irrealizzabile.
Invece, era stato tutto vero.
Era nelle mani di Sherlock che ogni mattina aveva poggiato la prima tazza di tè, seguita immediatamente dalla propria; era sulle spalle di Sherlock che aveva rimboccato la coperta quando il detective crollava sul divano dopo ore di lavoro senza sosta, ed era stato Sherlock, sempre e inevitabilmente Sherlock a occupare ogni suo pensiero, ogni singolo giorno della sua nuova vita.

Non avevano mai parlato dei loro incontri precedenti. Non avevano mai accennato a quei momenti, al tempo passato, al fatto che fosse trascorso così tanto tempo, o anche semplicemente discusso del perché non avessero mai cercato un modo per tenersi in contatto. Forse non ne avevano sentito il bisogno, o forse John non aveva desiderato rivangare momenti della sua vita che avrebbe voluto dimenticare. Non era rimasto più spazio per i ricordi in quella vita, i cassetti della sua mente erano diventati colmi fino all’orlo e John non aveva sentito alcun bisogno di riaprirli.

Adesso però, ora che tutto ciò che rimaneva di quell’anno e mezzo insieme non era altro che una macchia di sangue rappreso su di un marciapiede, John era stato costretto a ricordare.

Non aveva dormito per giorni dopo la caduta, e quelle poche volte che era riuscito a scivolare in un tormentato dormiveglia non aveva fatto che sognare lui.

Ed erano sogni, incubi, completamente diversi da quelli che avevano tormentato il suo sonno tempo prima.

Una guerra diversa.

Era come tornare indietro nel tempo ogni volta, rivivendo sempre la stessa scena, sempre gli stessi attimi che di volta in volta cambiavano in un unico piccolo particolare.

In quei sogni Sherlock gli parlava, gli parlava sempre, gli diceva di rimanere fermo, di non muoversi. Sherlock gli diceva che quello era il suo biglietto, che era quello che la gente faceva, e che era un impostore e tutti dovevano saperlo. E alla fine, il suo commiato.

Quello che cambiava ogni volta, erano le parole che seguivano quella lacerante frase d’addio, che diventavano ogni notte più crude, piene di risentimento e colpa, sentimenti che costringevano John a mordere con forza il cuscino per non gridare, per non esplodere dalla frustrazione pressante.
Una volta sentiva chiaramente Sherlock chiedergli di fermarlo, di aiutarlo a scendere, di impedirgli di compiere qualcosa che non desiderava davvero. Un'altra volta lo vedeva chiaramente piangere, dando un’immagine alla voce rotta dalle lacrime che aveva sentito al telefono, e altre volte, quelle peggiori che lo facevano risvegliare madido di sudore e con una morsa allo stomaco, Sherlock lo accusava di non aver nemmeno provato a salvarlo.

Ed era vero, in fondo, e quel pensiero per John era come una lama affilata che gli dilaniava il petto ogni volta che vi si soffermava.

Sapeva che non avrebbe potuto fare nulla in quei pochi minuti, Sherlock era stato chiaro sul non muoversi, e sapeva che se gli avesse disobbedito avrebbe vissuto con ancora più rimorso, ma non riusciva a darsi pace.
Avrebbe tanto voluto avere dodici anni, come la prima volta che l’aveva incontrato, con la speranza infantile che tutto potesse succedere, che nulla fosse completamente impossibile.

Aveva pensato tante volte a quanto sarebbe stato meglio non averlo più incontrato dopo la mattina al molo, anche se pentendosi subito dopo di avere anche solo immaginato una prospettiva simile.
Sherlock aveva portato colore al suo mondo grigio, spento. Sherlock gli aveva dato tutto, e John aveva ricambiato in ogni modo possibile, grato, riconoscente alla vita per quella possibilità.

Forse avrebbe dovuto litigare con Harry, quel pomeriggio di agosto. Poi sarebbe scappato in un posto solitario, tranquillo, lontano dal resto del mondo e magari lo avrebbe trovato lì ad aspettarlo. Magari Sherlock avrebbe potuto concedergli quel piccolo miracolo.
Sherlock avrebbe potuto. Sherlock avrebbe potuto fare ogni cosa.

 

John non aveva voglia di rimanere in casa, quella sera.

L’afa era diventata opprimente, nemmeno il calar del sole sembrava poter offrire il refrigerio tanto agognato, e il nuovo appartamento di John era un vero e proprio forno a causa del condizionamento difettoso.

Non aveva una meta ben precisa, non gliene serviva una, ma girovagò per il quartiere a passo lento, con la testa china e immerso nei suoi pensieri.

Entrò in un pub e bevve un paio di birre per scacciar via una malinconia che si dimostrò più resistente del previsto e continuò per la sua strada, costeggiando appartamenti illuminati e chiassosi e casette più tranquille, con coppie d’anziani seduti l’uno accanto all’altro sul patio.

Il Big Ben risuonò in lontananza, avvisandolo dell’avvicinarsi della mezzanotte, quando John si accorse di essere quasi in prossimità del suo vecchio quartiere natale.

Sorrise e osservò con nostalgia i palazzi alti, le colonne bianche davanti agli ingressi, i cancelli smaltati e perfettamente ridipinti che da piccolo si divertiva a scavalcare e le aiuole fiorite ben tenute dalle vecchine del piano terra.

Avrebbe dovuto portarci Sherlock, anni prima, anche se forse il suo amico non avrebbe apprezzato al massimo il sentimentalismo estremo di quel gesto, ma poco importava.

Avrebbe dovuto renderlo partecipe della sua vita passata, magari portarlo a quel vecchio parco giochi dove si erano visti la prima volta. Sarebbe stata un gran bel gesto, se solo… se solo le cose non fossero andate com’erano andate.

E a proposito di quel parco giochi, il lento cammino di John lo portò inevitabilmente in prossimità dei suoi cancelli, a costeggiare il lato ovest a pochi metri di distanza, con le chiome dei due alti faggi ad abbellire ulteriormente il cancello d’entrata decorato in ferro battuto.

Le labbra si piegarono inevitabilmente in un sorriso, e cominciò, senza che se ne rendesse conto, ad avvicinarsi sempre di più alla cancellata ripida che recintava il parco, dello stesso identico colore di vent’anni prima, che rifletteva perfettamente lo spirito di quel luogo dove il tempo sembrava quasi non essere passato.

Senza riflettere più di tanto, sfiorò una delle sbarre, stringendola nella mano destra e usando la sinistra per puntellarsi su una delle travi verticali.

Magari con la leva giusta…

Si diede lo slancio con il piede destro e saltò sul muretto in pietra, dandosi un’ulteriore spinta su di esso, e con un notevole sforzo riuscì a salire cavalcioni sulla parte superiore fino a scendere con un balzo agile sull’erba del prato dall’altro lato.

John non sapeva esattamente perché l’avesse fatto, in verità.

Si immaginò gli sguardi di Greg, la Donovan o Anderson se lo avessero visto sgattaiolare in un vecchio parco giochi, per di più chiuso, ma a John in quel momento non poteva importare di meno del giudizio degli altri.

Si diresse a passo sicuro verso il parchetto delle altalene, il suo favorito quand’era bambino, e fu felice di notare che le sue preferite, quelle arancioni dove aveva passato ore ed ore a dondolare senza mai stancarsi, erano ancora lì dov’erano sempre state.
John quasi si commosse davanti a quell’oggetto, alla fine soltanto una struttura di ferro, corda e legno, ma che per lui significava tantissimo.

La sfiorò come se quella potesse sentirla, come se potesse effettivamente godere della sua carezza, e John sorrise quando quella cigolò sonoramente, come a dargli un segno d’apprezzamento.

Dopo una piccola iniziale esitazione John la fermò, afferrandola per le corde e sedendosi piano, quasi come se temesse di romperla. Per fortuna, quella resistette.

Cominciò a dondolarsi lentamente, dandosi la spinta con i piedi allineati, e lasciò la mente vagare a quella notte dei suoi dodici anni, la notte in cui aveva visto Sherlock, che a quel tempo era solo un mocciosetto arrogante senza nome, per la prima volta in assoluto.
Ricordava ogni piccola sfumatura di voce, ogni suo sguardo, ogni movimento che aveva potuto vedere nella flebile luce, e John non smetteva mai di stupirsi davanti a quell’evidenza. Soltanto quegli istanti, i momenti passati con Sherlock, rimanevano vividi nella sua mente a quel modo, come se fossero scene di film viste e riviste incise su una pellicola immaginaria nella sua testa.
Avrebbe voluto dimenticare, da un lato, ma dall’altro era felice, grato, incredibilmente sollevato dal fatto di avere quei ricordi così chiari ben impressi in mente. Dimenticarlo sarebbe stato come tradirlo, e John avrebbe preferito morire, piuttosto.

“Vorrei tornare a quel giorno, Sherlock” disse al vento e all’erba mossa da esso, davanti a sé. “Vorrei chiudere gli occhi e risvegliarmi bambino.”

Il silenzio che seguì posò una coltre scura, triste, intorno al cuore di John. Poi però, qualcosa improvvisamente cambiò. Un rumore secco, come di rami spezzati, lo costrinse a voltarsi verso il boschetto.

“Lo vorrei anch’io, John” qualcuno, alla fine, gli rispose.

 

Preso completamente dal panico, John sussultò, all’erta. Guardò davanti a sé, da dove la voce era venuta, senza però vedere nulla, all’inizio. Dopo qualche secondo però i cespugli cominciarono a muoversi in maniera innaturale, e una mano, o almeno tale sembrava sotto la flebile luce, spuntò dalle foglie e dai rami, precedendo l’intera figura imponente di un uomo sconosciuto.

“Chi sei?” gridò John, alzandosi dall’altalena e cercando intorno a sé una qualunque cosa da poter usare per difendersi in caso ce ne fosse stato bisogno.

“Non ce n’è bisogno, John. Non ti farò nulla” la voce parlò ancora e questa volta, John la riconobbe all’istante.

“Chi sei, ho detto?” gridò ancora più forte, credendo di poter svenire lì in quel momento, il respiro diventato affannoso, frenetico e il cuore che sembrava voler uscire dal petto aprendosi un varco con la violenza del suo battito.

“Non fare domande di cui conosci la risposta, John” esclamò ancora l’uomo, scivolando sotto l’unica lontana fonte di luce.
E quello che John vide, gli diede il colpo di grazia.

Si tenne lo stomaco con le braccia, stringendolo forte per cercare di bloccare la nausea terribile che ormai non gli dava tregua. La vista gli si annebbiò per qualche secondo, soltanto lampi di luci e ombre davanti agli occhi, e sentì le gambe cedere e il suo corpo accasciarsi ai piedi dell’altalena, con il sapore terroso dei fili d’erba secchi sulle labbra.

Nei pochi attimi di lucidità che precedettero l’incoscienza totale, John scorse una figura china su di lui intenta a parlargli e sentì il tocco di mani che cercavano in tutti i modi di sostenerlo, senza successo.
Dopo qualche secondo poi, tutto divenne buio.



Quando John rinvenne, tutto attorno a lui era ancora scuro, confuso e silenzioso, a parte un rumore cadenzato e monotono proveniente da sopra di lui.

Facendo attenzione, si puntellò sulle braccia instabili, mettendosi seduto e guardandosi intorno. Quando si girò verso la fonte del rumore, fu costretto nuovamente a sostenersi stringendo la sbarra dell’altalena, pressandola così forte da rischiare di sgretolarsi qualche falange.

“Cosa cazzo sei tu?” domandò in un sussurro simile a un sibilo. “Sono morto, o sono impazzito?”
L’uomo seduto sull’altalena, intento in un lieve dondolio avanti e indietro, lo guardò con espressione difficile da decifrare.
“Nessuna delle due, John” disse, secco.

John rise, nervosamente, cercando di concentrare la stretta della sua mano sulla sbarra per respingere la tentazione di stringerla attorno al collo dell’uomo.

Si sollevò e rimase in piedi davanti alla figura seduta.

“Mi sembra di averti fatto una cazzo di domanda.”

“E a me sembra di averti risposto.”

“No che non l’hai fatto!” sbraitò John, con l’odio che cresceva dentro di sé a ogni sillaba.

“Ti ho detto di non farmi domande di cui conosci la risposta” spiegò l’altro, come se stessero parlando del caldo afoso di Londra di quell’agosto.

“Dio Santo Sherlock, smettila di fare lo stronzo!” gridò ancora, incurante del fatto che non dovesse assolutamente trovarsi in quel posto e che magari qualcuno avrebbe potuto sentirlo. Si lasciò cadere sull’altalena vicina e abbassò lo sguardo, tenendosi la testa con le mani, distrutto dentro e fuori. Che stava succedendo? Stava impazzendo davvero? Al momento sembrava l’unica ipotesi plausibile.



Continua...


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Capitolo 5
*** Infrangibile come diamante ***


Ultimo capitolo!
Grazie a tutti quelli che hanno recensito, seguito e anche soltanto letto questa storia! Il sostegno che mi date significa tantissimo per me, soprattutto in un periodo per me non troppo facile come questo, che spero passi in fretta!

Un bacio a tutti!                       

 

 

*

 

“Visto John? Non era difficile.”
John scosse la testa, sprezzante.
“Avrei preferito non saperlo.”
Il silenzio che seguì fu pregno di un disagio palpabile, un malessere che contagiava il cuore e la mente.
“Preferiresti che non fossi qui, John.”
Un’affermazione. Non una domanda.
“Io non voglio sapere. Tu non sei davvero qui. Tu sei morto, cazzo” disse John, con la voce ovattata, parlando contro il palmo della sua mano.
“L’evidenza dice il contrario, ho il dubbio.”
Finalmente, John alzò gli occhi e lo guardò, tenendo lo sguardo fisso su di lui a studiarne ogni particolare, ogni dettaglio che potesse dirgli che non era lui, che era un impostore, un maledetto e perfetto chiunque deciso a fargli un macabro scherzo.
Anche con quella pettinatura diversa però, con le ciocche scure più corte e meno folte e un accenno di barba incolta, John non aveva il minimo dubbio che quell’uomo fosse davvero il suo migliore amico. Il suo tutto. Il suo Sherlock.
“Perché?” domandò, senza urlare questa volta. Non aveva più forza dentro di sé, ne voglia di proseguire con quell’astio che lo stava consumando. “Perché?”
“Perché dovevo” rispose Sherlock, senza indugio.
“Tu dovevi.
“Dovevo, John.”
John rise, pieno di risentimento, stringendo le mani l’una nell’altra.
“E ovviamente non ti è minimamente passato per la testa che avrei…preferito sapere…” si bloccò, stringendo gli occhi per impedire in tutti i modi alle lacrime di scendere. “…tutto questo, cazzo? Oppure il tuo stupido, schifoso ego trovava una qualche soddisfazione perversa nel vedermi…distrutto?”.
Sherlock si adombrò, per un secondo, in un visibile e tangibile disagio.
“Non puoi dire una cosa simile, John” esclamò, sconcertato. “Tu non sai…”
“E’ vero, io non so. Io sono sempre l’ultimo a sapere. Io sono sempre l’ultima ruota del carro, quello troppo stupido per stare dietro all’intelligentissimo Sherlock Holmes!” si sfogò John, sputando addosso a Sherlock tutta la sua frustrazione, tutto il suo dolore, tutta la pena accumulata in quegli orribili tre anni. Come aveva potuto fargli una cosa del genere? Come aveva potuto lasciarlo così?
“Questo non è vero. Lo sai.”
“I fatti dicono altro.”
“I fatti si sbagliano, John. Io non ho mai voluto farti del male in nessun modo. Se ho fatto quello che ho fatto è perché è stato necessario. Perché ne andava della tua vita.
John lo fissò, senza capire. In che modo c’entrava, la sua vita?
“Che vuoi dire?” chiese, esitante. Forse però, avrebbe preferito non sapere.
L’altro non rispose.
John chiuse gli occhi, spingendosi le nocche contro la fronte, per cercare di non perdere nuovamente la calma.
“Sherlock. Tu mi devi una spiegazione.”
Sherlock boccheggiò, cercando il modo migliore di dire qualunque cosa avesse intenzione di confessargli.
“Tre proiettili. Uno per te, uno per Lestrade, e uno per la Signora Hudson. Se non mi fossi ucciso, sareste voi quelli in una tomba ora. E voi per davvero” sottolineò, in una sorta di macabro umorismo.
John rimase in silenzio, senza sapere esattamente cosa dire, con una quantità mostruosa d’informazioni, immagini, fatti, ritagli di giornale che si avvicendavano nella sua mente come una sorta di vorticoso film, come se qualcuno avesse premuto il tasto fast forward sull’immaginario telecomando dei suoi pensieri.
“Proiettili. Moriarty” disse John, come se tentasse di riepilogare quel sovraccarico di informazioni in due sole parole.
Sherlock annuì, guardandolo grave.
“Moriarty. Ha capito dove colpire per essere sicuro di affondarmi” spiegò, e il cuore di John mancò un battito. Il dottore guardò Sherlock, senza parlare, e poi chinò lo sguardo.
Sentì Sherlock agitarsi.
“L’ho fatto solo per voi, John. Per te. Per noi” Sherlock si alzò dall’altalena e s’inginocchio davanti a John, prendendogli le mani nelle sue, nel gesto più sincero, più intimo che il detective gli avesse mai riservato.
Le mani di John tremarono per un secondo al contatto, come se avessero appena toccato acqua bollente, ma non si ritrassero.
“Tu sei scappato, però” gemette John all’improvviso, cercando di ignorare la figura rannicchiata di fronte a lui, cercando di ignorare il sentimento di profonda pena che gli stava afferrando il cuore. Lui era arrabbiato, lui era furioso. Lui doveva esserlo.
“L’ho fatto” ammise Sherlock a bassa voce, intrecciando le sue dita con quelle di John, che però non strinse la presa.
“Non sono stato io questa volta. Stavolta tu sei fuggito, tu sei andato via da tutto quanto. Da me” sussurro il dottore. “Quando mi avevi chiesto di smettere di farlo, quando mi avevi chiesto di rimanere con te”.
Sherlock annuì, grave. Portò poi la mano di John alle sue labbra e la baciò, in un gesto pieno di dolcezza e tenerezza che John non si sarebbe mai aspettato dal detective ma che lo fece letteralmente tremare.
“Io avrei voluto dirti ogni cosa. Io avrei voluto che tu sapessi.”
“Non l’hai fatto, però.”
“Non ho potuto. Volevo che tu fossi al sicuro, il più possibile”.
John deglutì, con ancora un groppo enorme in gola.
“Lontano da me. Per tre anni.”
“Per il tempo necessario.”

“Necessario per cosa?”
Sherlock sussultò, allentando la presa sulle mani di John e sistemandosi meglio nella sua scomoda posizione. John avrebbe voluto dirgli di alzarsi, di sedersi, ma vedere Sherlock in quel modo, così dolcemente sottomesso da un sentimento, gli donava una dolce parvenza di sollievo.
“Per…neutralizzare il pericolo. Definitivamente” disse, evasivo. John capì che quello era un argomento su cui Sherlock non avrebbe voluto soffermarsi.
“Hai…ucciso?” domandò John, senza nemmeno sapere perché. Era qualcosa che sentiva, dentro.
Sherlock lo guardò per un secondo con un lampo quasi spaventato, nei suoi begli occhi chiari.
“Ho fatto cose di cui non vado fiero, John.”
John lo interpretò come un sì. Chiuse gli occhi e finalmente strinse le mani di Sherlock a sua volta. Il detective lo interpretò come un segnale positivo e sorrise a John, portando l’altra mano ad accarezzargli una guancia dolcemente. John fece lo stesso con Sherlock, ma le sue dita mapparono a fondo ogni frammento del suo viso, dai capelli corti alla fronte, dalla curva del naso all’arco di cupido delle labbra; accarezzò gli zigomi taglienti, la curva armoniosa del mento e la superficie liscia del lungo collo come per assicurarsi che fosse realmente lì, che quella non fosse solo una fantasia o un’allucinazione.
E il calore sotto le sue dita e la carezza del respiro di Sherlock sulla sua mano, gli dissero che lui era davvero lì, davvero con lui, vivo e vegeto.
“E la cosa di cui vado meno fiero è l’averti lasciato solo, John.”
John tirò su col naso, facendo sempre più fatica a trattenersi.
“E anche per avermi fatto desiderare di seguirti, maledetto pazzo?”
Sherlock piegò le labbra in un sorriso esitante.
“Non pensavo che ti avrebbe fatto quest’effetto, John. Vederti così è stato…è stato...non so dire cosa è stato. Non piacevole, comunque”.
Inaspettatamente, quella frase provocò in John una risatina divertita.
“Tu non pensavi che sarei stato distrutto dalla tua perdita?”
Sherlock sembrò arrossire, preso in contropiede.
“Non pensavo…così. Insomma, hai vissuto una guerra, io credevo di trovarti…preparato. Invece mi hai sorpreso” ammise, guardandolo sottecchi. John rise ancora.
“Eppure tu sai sempre tutto.”
Fu il turno di Sherlock di ridere, poi.
“Non è vero. Me lo dicevi sempre” esclamò, immerso in un vivido ricordo. John strinse la sua mano ancora più forte.
“Oh è vero. Il Sistema Solare.”
“E il Primo Ministro... ”
“L’ultimo scandalo al Matrimonio Reale… ”
“O il fatto che Harry fosse il diminutivo di Harriet” ricordò Sherlock, allargando ancora di più il suo sorriso.
“Quella è stata veramente divertente, Sherlock” convenne John, con una nota incredibilmente dolce, nella voce. Rimasero poi in silenzio, godendosi solo il rumore del vento che scivolava tra le fronde, scuotendole come fossero corde di un’arpa.
“Perché qui, Sherlock?” domandò poi John, all’improvviso. Era giunto il momento di abbattere quel muro di omertà. Voleva sapere, ne aveva il diritto. Doveva.
“Perché qui è cominciato tutto” spiegò Sherlock guardandosi intorno. “Perché qui la mia vita è cambiata senza che io nemmeno lo sapessi.”
John non parlò, non ce n’era bisogno. Aveva capito perfettamente quello che Sherlock intendeva.
“So che ti sei chiesto perché io… perché io non ti abbia mai detto nulla per permetterti di rivederci” bisbigliò, e il cuore di John fece un balzo. “So che ti sei domandato perché non ti abbia mai detto prima il mio nome, o una qualunque altra cosa su di me”.
John annuì, il cuore ormai simile ad un tamburo. Fissò Sherlock negli occhi, senza staccare nemmeno per un secondo gli occhi da lui, senza prestare più attenzione a nulla se non al viso del detective. Sarebbe potuta scoppiare una guerra attorno a loro e lui non se ne sarebbe minimamente accorto.
“Avevo paura di questo, in realtà” ammise Sherlock con una certa difficoltà. “Avevo paura che potesse succedermi quello che poi è successo” si fermò, come bloccato da qualcosa. Pensieri, parole inespresse, timore.
“Di affezionarmi a qualcuno talmente tanto da cominciare a tenere a lui più che a me stesso.”
Le mani di John tremarono ancora, e stavolta tanto forte da preoccuparlo per un momento. Una lacrima scivolò inevitabilmente lungo la sua guancia fino a finire sul dorso della mano di Sherlock, che guardò quella goccia solitaria come se fosse un tesoro inestimabile, con lo stesso sguardo che riservava di solito a un esperimento particolarmente riuscito. Con un dito, percorse il tragitto di quella lacrima, accarezzando la guancia di John e raccogliendo quella scia bagnata e salata fino a portarla alla bocca, appoggiando appena la punta del dito sulle labbra. Poi chiuse gli occhi.
“Ed è stata una cosa tanto brutta quando alla fine hai…ceduto?” chiese John, sicuro di sé, anche se con voce leggermente rotta dall’emozione. Perché Sherlock alla fine aveva ceduto, e lui, John, era stato colui che aveva infranto quella corazza.
“No, non lo è stata. Io non potevo saperlo, però” spiegò e John accennò un sorriso triste e dolce allo stesso tempo. “Non volevo legami perché ho sempre saputo che quello che avrei fatto un giorno, che quello che sarei diventato avrebbe potuto comportare rinunce, sacrifici, perdite. E non volevo che qualcun altro patisse a causa mia”.
John gemette, riconoscendosi perfettamente in quelle parole. Poi, inaspettatamente, rise, sentendo una strana felicità cominciare a pervaderlo.
“Già da ragazzino immaginavi che avresti avuto un arcinemico, qual è il termine…oh, psicopatico che ti avrebbe costretto a un gesto drastico?” chiese John, godendosi il calore di quella sensazione nuova. “E’ proprio da te, Sherlock, indubbiamente. Io da bambino al massimo pensavo a come, da grande, l’avrei fatta pagare a Terry Boones per avermi rotto la bicicletta”.
Sherlock rise anch’egli, con gli occhi spalancati, accesi, visibilmente colmi di sollievo nel vedere John riprendersi, a poco a poco.
“Perché siete tutti degli idioti, John” disse, poggiando la fronte sulle mani intrecciate.
John poggiò il capo sulla testa di Sherlock, posandovi un bacio dolce, spontaneo.
“Tutti quanti, è vero” convenne John, sollevandosi e ritraendo una mano dalla stretta di quelle di Sherlock per sollevare il mento dell’amico. Portò il suo viso alla sua altezza, così che i loro volti fossero vicini, vicinissimi, tanto da sentire il calore dei loro rispettivi respiri.
“Ed io sono pazzo” aggiunse poi John, in un sussurro. Sherlock sembrò agitarsi.
“No, non lo sei. Te l’ho detto, sono vero” esclamò ancora il detective, con timore, come se avesse paura che John non fosse ancora convinto.
“Non per quello, Sherlock” lo corresse poi il dottore, avvicinandosi ancora. “Per questo.”
Sherlock non riuscì a prevedere l’arrivo di quel bacio, ma non si sottrasse, e non desiderò affatto farlo, neppure per un momento. Le labbra di John erano morbide, leggermente screpolate ma indaffarate in una danza leggera e amorevole dalla quale Sherlock si sarebbe lasciato trasportare per sempre, una danza di cui conosceva i passi e i movimenti ma alla quale era sempre mancata la musica, la più dolce, la più perfetta. E quella musica, era John.
John era su un altro pianeta ormai, e gli sembrava di librarsi almeno dieci centimetri dal terreno. Non percepiva più nulla intorno a lui se non la bocca di Sherlock, la sua lingua che sfiorava esitante la propria con fare timido ma coraggioso, le mani che vagavano per i loro visi come se non necessitassero d’altro che il contatto pelle contro pelle. Sarebbe potuto finire il mondo in quel momento, e John lo avrebbe accettato, di buon grado.
“John” sussurrò Sherlock sulle sue labbra con fiato corto, come dopo una lunga corsa. “Sei pazzo davvero.”
John sogghignò, felice, appagato dopo tanto, troppo tempo. Lo aveva baciato. Aveva baciato Sherlock ed era stata la sensazione più bella e meravigliosa che avesse mai provato. Non era stato affatto come lo aveva immaginato. Era stato dieci, cento, mille volte migliore.
“Bisogna essere pazzi per innamorarsi di te” disse, con sguardo eloquente. “ma non sono mai stato così felice di esserlo in vita mia”.
E fu la cosa più vera, sincera, sentita che avesse mai pronunciato in tutta la sua vita.
Lo amava, lo amava in maniera viscerale, profonda, totale. E tornando indietro nel tempo, scorrendo i ricordi come pagine di un libro, si accorse di amarlo da sempre, dal primo giorno in cui aveva posato i suoi ingenui occhi di bambino su di lui.
“Ed io sono felice che tu lo sia” Sherlock lo strinse a sé con forza, come a catturarlo in una stretta dalla quale non sarebbe mai potuto fuggire. “Più di quanto tu possa immaginare.”
John ricambiò il suo abbraccio, allacciando le braccia intorno al detective con la stessa intensità.
“Ricominceremo, Sherlock?” gli domandò, pregando che le labbra di Sherlock pronunciassero le parole sperate. Il detective sorrise, allentando la presa e allontanandosi.
“Solo se tu lo vuoi quanto me”.
John annuì.
“Lo voglio con tutto il cuore.”
Sherlock si sistemò la camicia e si mise in piedi, con un sospiro profondo, come se si stesse preparando a declamare un discorso davanti ad una folla. Poi porse la mano destra a John, con un sorriso.
“Sono Sherlock Holmes. Consulente investigativo e sociopatico ad alta funzionalità” disse, muovendo la mano verso John, attendendo una sua risposta. John sorrise.
“Sono John Watson, medico, ex soldato e…assistente-consulente”.
“Fratello di un membro minore del Governo Britannico con manie di grandezza” riprese Sherlock, attento.
“Fratello della donna più inaffidabile e problematica del mondo che però, mio malgrado, amo follemente” continuò John, divertito.
“E dimentichi ‘completamente pazzo’ ” Sherlock sussurrò, avvicinandosi di nuovo alla bocca di John.
“Questo è evidente” John catturò nuovamente quelle labbra perfette in un bacio veloce, intenso.
Si guardarono a lungo, senza parlare, senza che ce ne fosse bisogno. La sola presenza l’uno dell’altro bastava, ad entrambi. E sarebbe potuta bastare per tutta la vita.
“John Watson ha smesso di scappare tanto tempo fa, sai?” John ruppe in silenzio con un bisbiglio, sulla bocca di Sherlock. “Perché Sherlock Holmes gli ha fatto capire che non era più necessario.”
Il detective lo guardò negli occhi intensamente, come se cercasse di parlare con il suo solo sguardo.
“Sherlock Holmes invece è fuggito, anni fa. E’ fuggito, andando contro ogni suo ideale, dopo aver detto tante volte a John Watson che scappare era da stupidi, da deboli” Sherlock sussurrò lentamente, come se stesse raccontando una fiaba a un bambino sulla soglia di un sonno profondo.
“Ora però è tornato. E il suo ritorno potrebbe cancellare ogni dolore passato, per John Watson. Adesso però c’è da chiedersi se Sherlock Holmes rimarrà” John lo imitò e le loro fronti si sfiorarono, appoggiandosi l’una all’altra, come se necessitassero l’una del sostegno dell’altra. “Sherlock Holmes ha smesso di scappare?” domandò infine John, trepidante, ponendogli finalmente quella domanda piena di responsabilità, timori, paure. Quella domanda di cui temeva terribilmente la risposta.
Sherlock sorprese John una volta ancora, con la reazione a quella domanda. Pensava di aver visto il suo migliore amico in tutte le diverse sfumature del suo carattere, in ogni possibile travestimento, in ogni sua minima sfaccettatura umana. Quello che John non aveva mai visto fare a Sherlock era piangere, e il viso del nuovo Sherlock, quello Sherlock Holmes rinato che ora aveva davanti, si stava rigando pian piano di lacrime sottili.
E non erano lacrime di dolore.
“Lui non fuggirà mai più, mai” disse al medico, che dolcemente aveva preso a raccogliere quelle lacrime con piccoli baci. “Lui ha trovato il suo porto sicuro, ora. E spera che John gli creda perché lui è sincero”.
John annuì, con occhi socchiusi, come se le iridi azzurre di Sherlock fossero gemme dal bagliore accecante.
“Io gli credo. Dio mi aiuti” scherzò, e Sherlock rise, asciugandosi gli occhi umidi con il polsino della camicia.
“Bisogna suggellare il patto, adesso” propose poi il detective, fingendosi serio, con voce ancora instabile. John ridacchiò.
“Mi basta la tua parola, anche se non dovrei fidarmi”.
Sherlock scosse la testa.
“Per questo insisto. Voglio fare le cose per bene”.
A quel punto John si avvicinò ancora di più a Sherlock, tanto da poter quasi percepire sulla pelle le vibrazioni della voce baritonale dell’uomo di fronte a lui.
“Allora se insisti, ti accontenterò” gli accordò, sorridente. “Voglio solo un altro bacio”.
Sherlock alzò un sopracciglio, come se fosse sorpreso dalla richiesta del dottore.
“Che scarsa fantasia, John”.
John arricciò il naso.
“Ora ti riconosco Sherlock”.
“Dico solo che ti ho baciato fino ad ora. Mi sarei aspettato qualcosa di più significativo”.
John gli diede uno schiaffetto sulla nuca, scherzosamente.
“Un bacio è significativo!”
Il detective sbuffò.
“Pensavo più a qualcosa messo per iscritto, non so un…contratto?” propose, per poi pentirsene davanti all’espressione sbigottita di John. “Ma dimenticavo che sei un inguaribile romantico”.
John scoppiò a ridere.
“E tu sei irrimediabilmente troppo serio! Un contratto!” ripeté, come se non concepisse nemmeno l’idea. “Cento volte meglio il mio bacio”.
“Se lo dici tu”, liquidò la cosa Sherlock.
“Vai a quel paese, Sherlock”.
Sherlock schioccò le labbra.
“Va bene, va bene, va bene. Farò questo sacrificio” esclamò Sherlock, accondiscendente. “Spero che basti davvero solo un bacio”.
John rise, ripensando al battibecco giocoso appena conclusosi, proiettato in un passato che credeva ormai perso e adesso miracolosamente riplasmatosi.
“Giuro che basterà. Su tutto ciò che amo”.
Sherlock sorrise e John chiuse gli occhi, lasciando che le dita del suo migliore amico tra i suoi capelli lo attirassero dolcemente a sé, approfondendo un bacio dapprima delicato e poi sempre più intenso, dolce, appassionato. Non aveva bisogno di nient’altro, se non che quel contatto continuasse ancora e ancora, senza alcun limite, senza fine. Era completo, ormai.
Forse era veramente qualcosa di piccolo, comune, l’atto più spontaneo di tutti gli innamorati del mondo, ma per il dottore non poteva esistere gesto più significativo di quello, per il loro patto.
E a John, bastò davvero.

 

 

 

 

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