Route 66

di SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bella Swan, masochist ***
Capitolo 2: *** Begin ***
Capitolo 3: *** I'm not an equilibrist ***
Capitolo 4: *** Escape ***
Capitolo 5: *** The past always returns ***
Capitolo 6: *** What do you want from me? ***
Capitolo 7: *** Crossing streets ***
Capitolo 8: *** Why are you so… jealous? ***
Capitolo 9: *** Last Friday night ***
Capitolo 10: *** The sorrow in your eyes ***
Capitolo 11: *** Terrified ***
Capitolo 12: *** Who are you talking about? ***
Capitolo 13: *** Think about it, then do it ***
Capitolo 14: *** The last person you expected ***
Capitolo 15: *** Burns of the past ***
Capitolo 16: *** What happened last night ***
Capitolo 17: *** What should I do? ***
Capitolo 18: *** What I was looking for ***
Capitolo 19: *** Midnight confessions ***
Capitolo 20: *** Faraway horizon ***
Capitolo 21: *** Coming back ***
Capitolo 22: *** Epilogue: Life is a Journey ***



Capitolo 1
*** Bella Swan, masochist ***


Route 66

No warning of such a sad song of broken hearts.

My dreams of fairy tales and fantasy were torn apart,

I lost my peace of mind somewhere along the way.

I knew there's come a time you'd hear me say I'm sick and tired,

of always being sick and tired.

Anastacia - Sick And Tired

01. Bella Swan, masochist

Una volta qualcuno mi disse che quando una persona soffre cerca in tutti i modi di trovare qualcosa che la faccia soffrire di più, perché così almeno uno dei dolori, quello che al momento fa più male, smette di fare così male, perché attenuato da un altro. La gente è masochista, ed io non sono mai stata da meno. A volte avevo il dubbio che mi piacesse soffrire, e, purtroppo, non ero il genere di persona che aspirava a smettere di soffrire tanto presto; non che non lo volessi: semplicemente non riuscivo a vedere uno spiraglio di luce che mi permettesse di sperare in tempi migliori. La mia vita andava a scatafascio da quasi un anno ormai, e la contemplazione di un futuro più roseo al momento sembrava una meta lontana, irraggiungibile.

Osservai il mio bicchiere, soprappensiero. Il liquido giallognolo, quasi arancione alla fioca luce delle lampade appoggiate al bancone di uno sperduto pub di Chicago, risplendeva giocando con alcuni cubetti di ghiaccio immersi in esso. Tequila. Il mio alcolico più detestato.

Quella sera volevo farmi male. Volevo pensare che almeno una cosa poteva essere peggiore di quel che avrei passato nei giorni - mesi, probabilmente - a venire.

“Mi dispiace, Isabella, come sai stiamo dimezzando il personale, e purtroppo devo fare delle scelte. Sono sicuro che troverai al più presto un altro posto. Non ti lascerei andare se non fossi sicuro che il tuo futuro nel mondo del giornalismo ha davanti a sé vaste opportunità”.

Sorrisi amaramente. Le stupide parole di un direttore gonfiato di soldi che cerca di addolcirti la pillola. La verità era che per lui non ero abbastanza redditizia, e che la ragazza appena giunta sul posto dopo aver passato molto tempo chiusa nell’ufficio con lui si era dimostrata di gran lunga più accondiscendete di me - e quando parlo di accondiscendenza mi riferisco a qualunque tipo di sottomissione a cui quella donna si è sottoposta.

Strinsi i denti, e buttai giù tutto d’un fiato il bicchiere di tequila.

La gola bruciò, e dovetti appoggiarmi con i gomiti al bancone per non crollare a causa del leggero giramento di testa che mi colpì subito dopo.

Tequila. Disgustosa.

Già che c’ero avrei potuto anche andare a mangiare sushi per cena, così ero davvero a posto.

Ordinai un altro bicchiere, questa volta un margarita. Un minuto, e un bicchiere basso, tondo, con il bordo intaccato di sale si presentò ai miei occhi, con una fetta di limone.

Come farsi del male. Anche questo cocktail non potevo sopportarlo. Ma c’era di peggio, no?

“Ehi, Bella, Mike viene a vivere qui, non è fantastico?! Ovviamente tu non ti devi preoccupare di niente, starà in camera con me! Non ti dispiace, vero? Il proprietario del suo appartamento l’ha sbattuto fuori questa mattina e-”.

Non avevo più ascoltato nulla. Il solo nome di Mike mi aveva fatto venire un conato di vomito. Venire a vivere . Non mi aveva chiesto il permesso. Avrei dovuto arrabbiarmi. Avrei dovuto dire alla mia coinquilina Jessica che non poteva prendersi il diritto di invitare chiunque a casa mia, senza nemmeno chiedermi il permesso. È vero, principalmente era casa nostra, visto che pagavamo tutto a metà. Bollette, affitto, alimentari… no, quelli li pagavo quasi sempre io. Ed è capitato che più di una volta fossi io a dover pagare i conti della luce, del telefono, dell’acqua, anche per Jessica. Ma il suo lavoro era precario, faceva la cameriera tutte le sere a orari impossibili in un ristorante in centro, non guadagnava quasi niente… sarei stata crudele ponendole degli ultimatum. Crudele sì, ma giusta.

Posai le labbra sul bordo del bicchiere, sentendo subito il gusto acre del sale mischiato a quello del limone, usato per tenerlo appiccicato. Ingoiando il groppo alla gola passai la lingua sulla striscia di sale. Poi sorseggiai il liquido.

La gola arse. Meno di prima, ma sempre abbastanza da incitarmi a smettere di bere quella schifezza per prendere qualcosa di più fresco e normale come un bicchier d’acqua. Ma volevo dimenticare, almeno per un po’. Dimenticare di avere appena perso il lavoro, di avere una coinquilina che non aveva il minimo rispetto nei miei confronti, e di essere arrivata a un punto morto nella mia vita. Chiusi gli occhi, e bevvi tutto d’un fiato.

Venne anche il capogiro, e rimasi con i gomiti ancorati al bancone in legno scuro, con le palpebre serrate. In fondo era piacevole quella strana sensazione di oblio che provavo dopo aver bevuto dell’alcol. Non avevo mai avuto una grande resistenza agli alcolici, persino la birra aveva effetti sconvolgenti su di me; se ero fortunata, forse nel giro di qualche altro bicchiere avrei finalmente iniziato ad avere la mente troppo annebbiata per pensare.

Quando riaprii gli occhi il barista era davanti a me, intento ad asciugare un bicchiere, ma fermo a fissarmi con aria grave. Probabilmente avrà pensato che fosse il caso di chiamarmi un taxi. Non dovevo avere un gran bell’aspetto.

Nonostante il suo sguardo teso ordinai un po’ di brandy. All’inizio sembrava restio a portarmene un altro, ma alla fine cedette. Il potere dei soldi.

Mi versò un bicchiere, e si allontanò dopo avermi lanciato un’occhiata ammonitrice. Sicuramente non voleva avere problemi di alcun genere, tanto meno con gente ubriaca, nonostante le banconote che continuavo a lanciargli ad ogni ordinazione.

Lo sgabello al mio fianco si spostò, e distolsi lo sguardo dal liquido solo per lanciare un’occhiata seccata al nuovo occupante del posto. Quel locale era completamente deserto, perché diavolo qualcuno si sarebbe dovuto sedere vicino all’unica persona seduta al bancone?

Tuttavia il viso che incontrai mi fece impietrire. Quella sera volevo essere masochista, ma quello era davvero troppo.

«Brandy, giusto?», chiese, con un sorrisetto sfacciato a me tanto familiare. Il mio cuore nel frattempo aveva iniziato a fare le capriole. «Se non ricordo male tu lo odi quell’alcolico», aggiunse poi, con un sopracciglio inarcato.

Forse era colpa del troppo alcol. Forse avevo davvero bisogno che il barista mi chiamasse un taxi. Forse ero davvero masochista.

Poi mi riscossi, e abbassai lo sguardo. Grazie all’arrivo del barista a chiedergli la sua ordinazione, perché altrimenti sarei rimasta imbambolata a guardarlo.

Quando se ne andò mi schiarii la voce. «Cosa ci fai qui?».

«Sono seduto al bancone di un bar. Non ci vedo niente di strano», rispose, tranquillo.

«No», scossi il capo. «Cosa ci fai qui. In questo posto», precisai, sicura che lui mi avrebbe capita.

«Bella», sospirò. «Io vengo sempre qui. Sei tu che da allora non sei più venuta», aggiunse con disappunto.

Strinsi le labbra. «Lo sai perché».

«Per non incontrare me». Non lo guardavo, eppure ero certa che le sue labbra si fossero piegate in un sorriso amaro.

«Edward…», sussurrai, chiamandolo per la prima volta da mesi, «ti prego. Non è la serata giusta per rivangare questo discorso».

Sospirò anche lui. «Sono d’accordo».

Solo allora sollevai lo sguardo su di lui per osservarlo attentamente. I capelli ramati erano più scompigliati del solito, e incorniciavano un volto stanco, sciupato, segnato da profonde occhiaie violacee che stonavano con la bellezza dei due smeraldi che aveva al posto degli occhi. Eppure anche quelli apparivano stanchi, spenti. La loro naturale scintilla di allegria e spensieratezza che li aveva sempre caratterizzati era sparita, lasciando spazio a tenebre e malinconia. Tristezza.

I suoi occhi incontrarono i miei, e dovetti abbassarli davanti alla sua intensità. Almeno quella non è cambiata, pensai.

«Cos’è successo che ti ha spinta a venire qui?», mi chiese, bevendo subito dopo un bicchiere di whisky, appena preso. Nemmeno i suoi gusti sono cambiati.

Eppure c’era qualcosa di strano nel suo modo di bere. Conoscendolo, sapevo che non si abbandonava mai all’alcol per evitare di manomettere le sue eccezionali doti per il lavoro. Ma quella sera sembrava turbato da qualcosa di peggiore della preoccupazione per il suo impiego.

Abbassai lo sguardo sul bicchiere di brandy. Perché non rispondergli? Del resto, non avevo nessun altro a cui rivelarlo, e Jessica era la persona meno adatta con cui confidarsi.

«Mi hanno licenziata», risposi, in un fioco sussurro. Lo sguardo perso nel liquido scintillante alla luce della lampada.

Scorsi con la coda dell’occhio Edward, che si voltò verso di me. «Per quale motivo?», chiese, con irruenza.

«A quanto pare non sono abbastanza per le loro esigenze, e hanno preferito un’altra».

«È una sciocchezza», borbottò con rabbia. Mi voltai verso di lui, titubante. «È colpa di quell’idiota del tuo direttore, non è vero? Lo sapevo che non era un tipo affidabile. Scommetto che ha solo aspettato che arrivasse una nuova a cui mostrare quanto in alto potesse arrivare solo aprendo le gambe, prima di sbatterti fuori dal giornale!»

Scossi il capo. «No, Edward. Davvero… ultimamente le cose non andavano molto bene in redazione… il direttore ha fatto bene a licenziarmi», dissi, con un sorriso stentato. Perché persino a me quelle parole sembravano al tempo stesso vere e al tempo stesso false?

Vere, perché da un po’ di tempo non ero più in grado di reggere i pettegolezzi e le paranoie di quelle pettegole delle mie colleghe. False, perché allo stesso tempo avevo abbandonato la mia vita sociale per immergermi completamente nel lavoro.

Nemmeno Edward credette alle mie parole. «Sempre pronta a difendere gli altri…», mormorò. Aggiunse anche qualcos’altro, ma non capii.

Distolsi lo sguardo da lui, a disagio.

«Tu…», iniziai. Mi schiarii la voce. «Tu come stai?»

Vidi la sua mano stringersi intorno al bicchiere. «Tu come pensi che stia?»

Aveva un tono controllato; non lasciava trasparire alcuna emozione.

Mi morsi un labbro, e lo guardai. Lo sguardo fisso dinanzi a sé, le sopracciglia aggrottate, la fronte piegata da due rughe, le labbra strette in una riga dritta, la mascella serrata.

«Come una persona che ha appena commesso un errore», sussurrai, persa nella sua contemplazione. Come stava? Di sicuro non bene. Le occhiaie ne erano la prova. Anche l’espressione malinconica.

Non ero certa mi avesse sentita, poiché non mi rispose.

Temetti centrasse con il suo lavoro.

Era un medico. Un giovane cardiochirurgo di grande fama, conosciuto per la sua infallibilità e per essere arrivato al successo prima di molti altri colleghi; era quasi al pari di suo padre, Carlisle, conosciuto a livello internazionale.

Da quando aveva iniziato il lavoro come dottore in uno dei più importanti ospedali di Chicago non aveva mai sbagliato una singola operazione, per quanto ne sapevo. E io ne sapevo, fino a qualche mese fa.

Scossi il capo, tornando a contemplare il bicchiere. Non ero certa di voler arrivare fino in fondo, quella sera. Rivedere Edward, un capitolo che avrei voluto chiudere undici mesi fa, mi aveva sconvolta. Più di quanto avrebbero potuto fare dieci bicchieri di alcolici disgustosi e potenti.

«Sono in partenza», annunciò dopo alcuni minuti di silenzio, dopo aver svuotato il bicchiere di whisky. Mi lasciò spiazzata. In partenza? E per dove? Aveva un convegno? Un’operazione da qualche parte? Oppure… oppure aveva trovato una ragazza da portare in vacanza con lui?

«Per dove?», sussurrai, non certa di volerlo davvero sapere.

“Va bene, Bella, smetterò di cercarti, se è quello che vuoi davvero.”

L’aveva fatto. Non mi aveva più cercata da allora.

«Santa Monica». Fece un sorriso tirato. «Ho ancora un sogno da realizzare».

“La Route 66 conta più di duemila miglia di strada. Non appena avrò guadagnato abbastanza soldi partirò da Adam street e raggiungerò Santa Monica dopo averla percorsa tutta!”

«Vuoi fare tutta la Route 66?», gli chiesi, cercando di non lasciar trasparire tutto il mio stupore.

Sorrise. «Te lo ricordi ancora, allora».

Distolsi lo sguardo, arrossendo. Ti sei ormai arreso, Edward?

«Quanto hai bevuto stasera?»

Alzai lo sguardo, e lo vidi lanciare un’occhiataccia al bicchiere ancora pieno fra le mie mani. «Non molto. Solo un bicchiere di tequila e di margarita».

Inarcò un sopracciglio. «Avevi intenzione di bere ogni alcolico che ti disgusta?»

Arrossii. «Non sono sicura che ci sarei riuscita».

Scosse il capo. «Certo che no». Sospirò. «Forza, vieni con me», disse, alzandosi dallo sgabello e sfilando il portafogli dalla tasca dei jeans. «Ti accompagno a casa».

Non mi opposi. La testa ciondolava, e mi alzai con i piedi pesanti e indolenziti dallo sgabello.

Lasciò un paio di banconote sul bancone per il suo whisky, e uscimmo nell’aria tiepida di Chicago, alle undici di sera appena passate.

Il pub in cui ci eravamo incontrati si trovava in una zona abbastanza centrale della città. L’avevamo scovato una sera di pioggia, quando il nostro primo appuntamento sembrava destinato a fallire miseramente a causa della mia testardaggine e timidezza. Alla fine era stato lui a prendere la situazione in mano e a decidere cosa fare, mettendomi a tacere una volta per tutte con un bacio, proprio lì, vicino alle fontane del parco, sotto la pioggia ballerina.

“Insomma, la vuoi smettere di trovare scuse e allontanarti?! Non stavamo facendo niente, era solo un’amica!”

Ero appena tornata dal bagno, e l’avevo trovato vicino ad una ragazza. Una ragazza molto bella, che ci stava spudoratamente provando con lui. E lui continuava a sorriderle e darle corda. Ero uscita immediatamente dal pub, correndo oltre la strada per cercare un taxi, che sfortunatamente non riuscivo a trovare. Allora avevo deciso di passare per il parco, pur di lasciarmi alle spalle quell’uscita imbarazzante quanto umiliante.

“No, Edward. È meglio se vado a casa. Non serve che tu mi dia spiegazioni”.

Mi allontanai repentinamente, passando vicino ale fontane del parco. Le facce sugli schermi erano ancora accese, nonostante la pioggia che fino a pochi minuti prima aveva imperversato sulla città.

Edward, tuttavia, fu più rapido. Mi bloccò per un polso, stringendolo delicatamente e imponendomi di fermarmi.

Gli rivolsi un’occhiata infastidita. Cosa voleva ancora?

“Lasciami”, sibilai.

Il suo sguardo si incatenò al mio, intenso come un oceano in tempesta.

“No”, rispose, fermo.

“Edward, smettila”, dissi. Sapevo di non avere alcun diritto per fargli una scenata di gelosia del genere, eppure non riuscivo a trattenermi. “Tornatene dalla tua amica. Sembravate tanto felici insieme…”

“Oh, Dio, Bella!”, esclamò Edward, alzando gli occhi al cielo, esasperato. Feci una smorfia. “Possibile che tu non capisca che l’unica ragazza con cui voglio stare sei tu?!”

Strabuzzai gli occhi, mentre sentivo il sangue affluire violentemente alle guance. “C-Come?”

Scosse il capo, sospirando e chiudendo gli occhi. Poi il suo sguardo tornò al mio. Posò una mano sulla mia guancia, e sorrise dolcemente. “È con te che sono uscito questa sera. È con te che voglio stare”.

Già, come amica, pensai amaramente, mentre le mie labbra si piegavano in un sorriso di magra consolazione.

Ma Edward non mi diede nemmeno il tempo di dire qualcosa - c’era qualcosa da dire, ancora? - che mi aveva già preceduta.

“E non dico come amica”, aggiunse, con voce più bassa. Gli occhi verdi incastonati nei miei. Trattenni il fiato. “Non mi basta la tua amicizia, Bella. Io voglio di più”.

Sentivo l’eco del mio cuore rimbombare furiosa nelle orecchie. I polmoni erano compressi in una morsa piacevolmente dolorosa. Non ero certa della stabilità delle mie gambe; il mio corpo era come una gelatina traballante; gli unici punti che sentivo pulsare erano la guancia, premuta contro il palmo caldo e grande di Edward, e il cuore, che batteva impazzito.

Rimasi in silenzio a contemplare il suo viso, facendo probabilmente la figura dell’idiota anche a causa della colorazione bordeaux che avevano assunto le mie gote.

Le sopracciglia di Edward si aggrottarono, mostrando una ruga di preoccupazione sulla fronte. “Bella…?”, mi chiamò, probabilmente turbato dal mio prolungato silenzio.

Sentii gli occhi inumidirsi. Per quanti mesi avevo sognato che arrivasse quel momento?

Sorrisi. “Anch’io, Edward”, sussurrai, senza fiato. “Anch’io voglio di più”.

A quel punto sorrise anche lui, e unì le nostre labbra in un bacio.

 

Edward fermò la sua macchina a pochi metri dal portone del mio appartamento, dall’altro lato della strada. I pochi minuti passati in auto erano trascorsi in silenzio, mentre cercavo di tenere a freno la mia curiosità del tutto immotivata. Volevo chiedergli per quale motivo voleva partire proprio adesso. Magari aveva trovato una ragazza che era appassionata come lui di avventure…

«A quanto pare questa sera avrai compagnia…», mormorò, guardando verso un punto imprecisato al di là del parabrezza e strappandomi dai miei pensieri. Seguii il suo sguardo, notando ciò a cui si riferiva.

Jessica e Mike, intenti a baciarsi senza ritegno davanti al portone del condominio. Lui la prese in braccio, e la risata da ubriaca di Jessica risuonò fino a noi, mentre varcavano la porta per entrare.

Sospirai pesantemente. «Non solo questa sera…», brontolai più a me stessa che a lui.

«Che intendi dire?»

Feci una smorfia. «Jessica ha invitato Mike a stare da noi. A quanto pare l’hanno sbattuto fuori di casa».

«Non può farlo!». Alzò la voce, e sussultai, chiudendo gli occhi. Sapevo che la sua reazione sarebbe stata giù per di lì quella. «Bella, devi dirgli che non può restare. Sai che è un…»

«Non posso farlo», lo interruppi; «l’appartamento è anche di Jessica, e finché lui resterà in camera con lei non posso oppormi…», sussurrai, stringendo le labbra.

Vidi le sue mani stringersi con forza intorno al volante, fino a far sbiancare le nocche. «E se dovesse di nuovo…»

«No, no!», esclamai, agitandomi sul sedile. «Non lo farà più, non è più successo da quella volta!»

Edward mi lanciò un’occhiataccia. Era arrabbiato. Probabilmente come me, anche lui stava ricordando gli orribili episodi di quasi un anno fa. «Certo, non l’ha più fatto perché sapeva che se si sarebbe ancora avvicinato a te gli avrei fatto pentire di essere nato», sibilò, con gli occhi ardenti.

Scossi il capo, stringendo i pugni. «Ha imparato la lezione, ormai».

Edward sospirò, lasciando andare il volante. Si passò una mano fra i capelli, scompigliandoli ancora di più. «L’ho convinto ad andarsene da casa tua già una volta… se vuoi posso rifarlo».

«No…», biascicai, scuotendo la testa. «Non devi farlo, non sarebbe giusto». Ormai non è più un tuo problema, Edward.

Sospirò ancora.

Mi schiarii la voce, stringendo la borsa al fianco. «Grazie per stasera… e buon viaggio».

Aprii la portiera, e dopo avergli rivolto un ultimo sguardo e aver biascicato un debole saluto scesi dall’auto, lasciando il profumo che saturava l’ambiente, e tornando a respirare l’aria di Chicago. Passarono pochi secondi prima che sentii un’altra portiera aprirsi e richiudersi, ed io avevo già attraversato la strada.

«Aspetta, Bella!»

Dio, lo sapevo che rivedere Edward e parlargli dopo tutti quei mesi sarebbe stato un errore.

Mi raggiunse dall’altro lato della strada, quando stavo già cercando le chiavi del portone nella borsa. Lo guardai preoccupata, non sapendo cosa aspettarmi da lui. Del resto una delle sue innumerevoli qualità che mi avevano catturata fin da quando l’avevo conosciuto era la capacità di stupirmi ogni volta.

«Parti con me», disse, lasciandomi senza fiato. «Parti con me, e lasciati alle spalle tutti questi problemi per un po’ di tempo».

Impiegai alcuni secondi per elaborare la sua domanda. Boccheggiai, e mi guardai intorno, spaesata. «Per molto tempo…», mormorai, spiazzata da quella richiesta assurda quanto improvvisa. «Sai bene che ci metterai quasi un mese a fare l’intero viaggio solo in auto».

«Certo. Ma del resto non ho nessuno qui a casa che mi aspetta. E poi mi sono preso un po’ di ferie a tempo indeterminato».

«Edward…», borbottai, abbassando lo sguardo. «È una follia».

«Perché?», chiese, senza lasciarmi il tempo di rispondergli. «Non hai un lavoro, la tua casa sarà peggio di un ostello con quel tizio che gira per le stanze, e sono sicuro che è da mesi che non ti prendi una vacanza».

Aprii la bocca per replicare, ma ancora una volta mi anticipò.

«Potrebbe essere l’occasione per ricominciare la nostra amicizia», sussurrò. I suoi occhi verdi erano intensi, troppo intensi.

Abbassai lo sguardo, sentendo la mia corazza di freddezza e indifferenza vacillare. Non sarebbe stata per niente una buona idea. Sapevo che non sarei mai riuscita a vedere Edward come un semplice amico. Forse, tra qualche anno… ma dopo meno di un anno da quando ci eravamo lasciati quella prospettiva mi appariva troppo strana, impossibile e dolorosa.

«Non penso di poterlo fare, Edward…»

Lo sentii sospirare, e sperai di averlo convinto a lasciar perdere.

Si allontanò, dirigendosi verso la sua macchina e tirai fuori dalla borsa le chiavi del portone.

«Partirò lunedì mattina».

Mi voltai verso di lui, e lo vidi fermo sul ciglio del marciapiede, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e un piccolo sorriso in volto. «Sarò a casa, fino ad allora. Ci penserai?»

Alzai gli occhi al cielo, e sentii un sorriso nascermi involontario sulle labbra. «Tu non ti arrendi mai…», sussurrai a me stessa. Poi fissai lui, e il suo sorriso sghembo mi fece capire che mi aveva sentita. «Va bene, ci penserò».

Tuttavia, mentre varcavo la porta di casa, sapevo già che non avrei accettato.

Non potevo rischiare di finire nella stessa sfera di dipendenza di cui ero vittima fino a pochi mesi prima. Edward era come una droga per me. Ma sappiamo tutti cosa comporta la dipendenza: alla fine, qualunque cosa sia ciò che ti fa stare bene, inizia a farti male. E questo era quello che era successo a me. Non potevo neanche solo pensare di ricascare nel turbine di confusione e sofferenza di pochi mesi prima. Per questo dovevo stare alla larga da Edward Cullen. Per questo dovevo mettere a tacere quella parte irrazionale di me che mi chiedeva di accettare il suo invito. Per questo dovevo chiudere ancora una volta il cassetto dei nostri ricordi.

 

 

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‘Giorno! :D

Alla fine non ho resistito, e ho deciso di iniziare a postare anche questa storia! L’idea per la trama mi frulla in testa da quasi due anni, da quando ho fatto il giro della Route 66, ma solo da qualche tempo ho messo insieme tutto il materiale per scrivere.

La storia racconterà appunto il viaggio attraverso gli Stati Uniti da Chicago a Santa Monica, e cercherò di essere il più possibile accurata per non scrivere castronerie XD E' la prima storia road trip che scrivo, spero di non fare disastri XD

Spero che questo primo capitolo vi abbia un po’ incuriositi :) Grazie per essere arrivati fino a qui! A presto con il secondo! :D

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Capitolo 2
*** Begin ***


Route 66

I can't find my way
God I need a change
And I do anything that just feel better
Any little thing that just feel better

Carlos Santana ft. Steven Tyler - Just Feel Better


02. Begin

Uno sbadiglio maleducato mi costrinse a distogliere lo sguardo dalla pagina di quotidiano che tenevo sotto gli occhi da alcuni minuti. Stavo cercando di capire per quale motivo quella maledetta bionda arrivata solo pochi giorni prima avesse meritato il mio posto nella redazione del giornale: il suo articolo era sciatto, privo di intonazione, e soprattutto non analizzava bene i dettagli di un caso politico. Non pretendevo di essere la migliore giornalista degli States, ma sicuramente ero più brava di quella.

Lanciai un’occhiata di sufficienza a Mike, che disturbandomi era appena entrato in cucina, diretto verso la caffettiera. Rimasi seduta al tavolo, mangiando un biscotto e tornando alla lettura.

«Jessica è già uscita?», chiese, anche se ero certa che conoscesse già la risposta.

«Sì», risposi semplicemente, cercando di dare alla mia voce un tono indifferente e non astioso.

Mike addentò un biscotto, e lanciò un’occhiata alla testata del giornale che stavo leggendo. Lo scorsi muoversi fino ad arrivare alle mie spalle. Si appoggiò con una mano alla spalliera della sedia su cui mi trovavo, e con l’altra si sostenne al tavolo; si inclinò in avanti, arrivando con il viso accanto al mio.

«Uhm…», mormorò, e il suo profumo decisamente troppo forte e fastidioso mi arrivò alle narici, «stai leggendo un tuo articolo?»

Ovviamente, la sera precedente sera lui e Jessica erano troppo impegnati a rotolarsi fra le lenzuola per fare caso a me che tornavo a casa e soprattutto per scoprire che ero appena stata licenziata. Meglio così, non volevo dargli modo di commentare il mio licenziamento. Sapevo che Jessica, nel suo profondo, sarebbe rimasta soddisfatta - ha sempre detestato il fatto che la mia paga fosse dieci volte superiore alla sua -, e che Mike avrebbe riso perché finalmente mi sarei ritrovata nella sua stessa situazione. Begli amici, vero? Forse anche per questo motivo la sera prima mi ero confidata con Edward. Lui era l’unico che avrebbe preso la situazione sul serio. Forse anche troppo…

“Parti con me”.

Scossi il capo, provando un senso di disgusto mentre la mia mente confrontava il profumo di Edward con quello fastidioso di Mike, decisamente troppo vicino per i miei gusti.

«No, e se proprio vuoi leggere il giornale te lo lascio volentieri, non c’è bisogno che mi salti addosso», sibilai, irritata. Ogni volta che Jessica non era nelle vicinanze cercava sempre di avvicinarsi di più a me. Avevo mentito in parte ad Edward la sera precedente, quando gli avevo detto che Mike aveva imparato la lezione; in parte, perché la sua minaccia aveva funzionato fino a quando stavamo insieme; poi, una volta che Mike era venuto a sapere che ero nuovamente single era tornato a infastidirmi con i suoi modi bruschi e invadenti.

Lasciai il giornale sul tavolo, e mi alzai repentinamente. Raggiunsi il bancone per chiudere la sacca di biscotti, mentre Mike sbuffava, portandosi una mano a coprirsi gli occhi.

«Non ti agitare», mormorò a mo’ di rimprovero, massaggiandosi le tempie, «ho mal di testa».

Aprii un armadietto, dove presi una scatoletta di medicinale. Pastiglie per il mal di testa. Gliela lanciai addosso, e mi sorpresi che riuscì a prenderla al volo.

«Ecco, prendi una di queste e stai zitto. Vedrai che ti passerà in un lampo».

E mentre raccoglievo la borsa dalla mia stanza e lasciavo l’appartamento, finsi di non sentire le imprecazioni e gli insulti di Mike.

 

Quando varcai il portone dell’ingresso del condominio in cui abitavo erano già le sei passate. Avevo trascorso la giornata con Rosalie ed Alice, le mie migliori amiche; eravamo andate a fare una gita sul lago, approfittando di quella bellissima domenica di sole di metà giugno, e a quell’ora della sera ero stravolta. Volevo solo farmi un bel bagno caldo e poi buttarmi nel letto e dormire.

Appena aprii la porta di casa una serie di risate sguaiate mi fecero provare un forte senso di repulsione. Dopo una giornata simile tutto quello che volevo era solo un po’ di silenzio, nient’altro. Non ero in vena di ascoltare le grida di Jessica e i commenti idioti di Mike. Volevo solo un po’ di pace per i miei nervi.

«Scommetto che non ce l’ha detto per colpa del suo orgoglio smisurato!». Era la voce di Jessica, quella più fastidiosa da sopportare. Avrei fatto volentieri a meno di sentirla per quella sera. Tuttavia, il tono derisorio con cui disse quella frase mi mise subito in allarme. Non poteva parlare di me, vero?

«Ovviamente. Ricordi quando si è lasciata con Cullen? Non ce l’ha detto per quasi due settimane». Mike. Ormai avevo la certezza che stessero parlando di me.

Richiusi la porta di casa in silenzio, facendo alcuni passi in direzione della mia camera da letto, da cui provenivano le loro voci.

«Ero sicura che prima o poi Edward l’avrebbe lasciata! Non si può stare con una ragazza così! È troppo acida, peggio di un limone!»

Altre risate, altre ghignate. Altre lame affilate che si conficcavano nel mio cuore già sanguinante.

«Scommetto che nemmeno il suo capo la sopportava più e per questo l’ha licenziata».

Non resistetti di più. Entrai nella mia stanza, stringendo i pugni.

«Ciao, ragazzi», sillabai, osservandoli. Erano entrambi seduti a terra sul tappeto, ai piedi del mio letto. Accanto a Jessica c’era la mia borsa di lavoro, e nelle sue mani la lettera di licenziamento. Le loro facce divennero immediatamente maschere di puro orrore. Sicuramente non si aspettavano di essere colti in flagrante.

«Prego, continuate pure», sibilai, con tono impassibile. «Cos’altro avete da aggiungere alla schiera dei miei difetti?»

Mike guardò Jessica, che mi fissava con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Provò a ridere, tesa, ma le uscì solo un verso strozzato. «C-Ciao Bells», ecco il soprannome che mi rifilava ogni qualvolta si trovava in difficoltà o cercasse di addolcirmi. Non aveva mai funzionato, anzi, non faceva altro che farmi innervosire. «Stavamo…»

«Stavate…?», chiesi, irritata, quando tentennò. «Stavate ficcando il naso fra le mie cose e sparlando di me, non c’è bisogno che menti». Rimasi alcuni secondi in silenzio, e nessuno dei due osò fiatare né muoversi. «Uscite. Andate fuori casa stasera, e tornate il più tardi possibile», sibilai, senza riuscire a guardarli negli occhi. La loro solo vista mi provocava la nausea.

Mike fece una smorfia. «Tsé», sputò. «Questa casa è anche di Jess, e non puoi sbatterla fuori solo perché sei di cattivo umore». 

«Mike!», strillò Jessica, appoggiando a terra il foglio di licenziamento. «Taci!»

Strinsi i pugni, respirando profondamente.

Jessica si alzò in piedi, lanciando un’occhiataccia al suo ragazzo e venendomi accanto. «Bella, mi disp-»

«Jessica, non ce la faccio ad ascoltarti adesso», la interruppi. «Potrei dirti cose di cui so che un giorno potrei pentirmi, perciò, per favore, lasciatemi sola per questa sera, non vi chiedo altro».

La mia coinquilina sospirò, abbassando lo sguardo, mentre Mike faceva una smorfia. «Certo, e noi dovremmo andare a spendere soldi in un ristorante quando qua a casa c’è la dispensa che esplode, solo perché sei di cattivo umore…»

«Così come riesci a spendere decine di dollari ogni sera per le tue schifose birre, sono sicura che riuscirai tranquillamente a pagare per te e la tua ragazza un panino da McDonald’s!», sbottai, infuriata. «E non venire a parlare a me di soldi! Tu, che continui a sfruttare casa mia e di Jessica come se fosse tua, senza mai aiutare con le spese!»

Si alzò in piedi repentinamente, avvicinandosi a me con aria furente. «E tu, invece? Non sei mai a casa per colpa del tuo maledetto lavoro, e mandi sempre lei a fare la spesa!», urlò, indicando la sua ragazza, che assunse un’espressione atterrita. «Dovresti anche ricordarti di darle almeno i soldi quando fai la lista della spesa, invece di preoccuparti solo di sgridarla quando si dimentica di prendere qualcosa!»

Aggrottai le sopracciglia. «Cosa stai dicendo? Le lascio sempre cento dollari sotto la lista! Sei tu che dovresti collaborare visto che mangi sempre qui!»

Mike guardò prima me poi Jessica, l’espressione ancora furente. «Jessica dice che è sempre lei a pagare la spesa. Diglielo!», esclamò, voltandosi verso di lei. «Rinfacciaglielo, e mettiamo in chiaro una volta per tutte questa faccenda!»

Spostai lo sguardo sulla mia coinquilina, che aveva assunto un’espressione di puro terrore. Gli occhi sgranati, le labbra dischiuse, le guance pallide. La guardai con gli occhi pieni di delusione. Davvero diceva così al suo ragazzo? Davvero mi faceva fare la figura della tirchia e dell’approfittatrice davanti agli altri?

Scossi il capo, lasciando cadere la borsa sulla scrivania. Mi passai una mano fra i capelli, sconvolta. «D’accordo, andatevene», sibilai, guardando ovunque tranne che verso di loro. Vidi una foto sulla scrivania, e parlai senza nemmeno pensare a ciò che dicevo: «Domani parto, e non ho intenzione di tornare prima di tre settimane. Da quel momento o inizierai a comportarti in maniera leale con me, oppure non farti neanche trovare qui al mio ritorno».

«Bells, ti prego, lasciami spiegare…», mormorò Jessica, allungando le mani verso di me.

Mi allontanai. «Stammi lontana! Sono stufa di accondiscendere ad ogni tua richiesta, Jessica! Fra meno di tre settimane sarò di ritorno, e voglio che lui», indicai Mike con un dito, «sia fuori di qui, sono stata chiara?! O sarai tu a dovertene andare».

Jessica sgranò gli occhi, mentre Mike borbottava sulla porta. Non lo ascoltai. «Adesso uscite da qui, che devo fare la valigia».

«Bella…»

«FUORI!»

Sussultò, e atterrita uscì dalla mia stanza, in silenzio, spingendo fuori Mike. Chiuse la porta, lasciandomi finalmente sola.

Raccolsi la fotografia dalla scrivania, e mi sedetti sul letto. La strinsi fra le dita, mentre le lacrime si addensavano negli occhi, e, finalmente, potei sfogarmi con un pianto liberatorio, mentre sentivo la porta di casa chiudersi.

 

Non avrei mai pensato di ritrovarmi di nuovo in quel quartiere della città. Era piuttosto distante da casa mia, e si trovava vicino al lago, lontana dalla zona del porto e in quella prettamente residenziale. Ho sempre amato quella zona, tranquilla e colorata; la strada che descriveva il perimetro del lago era circondata da piccole case, tutte con il loro giardinetto privato, che nel caso delle villette che si affacciavano direttamente sul lago si trasformavano in vere e proprie piccole riserve di verde brillante. Adoravo andare lì nei pomeriggi in cui non dovevo lavorare per sdraiarmi sull’amaca a leggere qualche libro all’ombra degli alberi. In quei momenti riuscivo sempre a lasciarmi alle spalle tutti i problemi del mondo, e ad accettare perfino l’invadenza della mia coinquilina.

Ma quel giorno sapevo che non avrei potuto sdraiarmi su un’amaca e fingere che tutto era posto, sapevo che non mi sarei sentita a casa come una volta.

Forse stavo sbagliando tutto.

O forse no.

La risposta mi arrivò quando la porta davanti a me si aprì, ed un paio di occhi verdi incontrarono i miei, sorpresi ma al tempo stesso consapevoli. Perché se ero lì c’era un motivo, e forse non era solo quello di voler fuggire da tutti gli altri, ma anche quello di voler ritrovare un calore lontano ed agognato.

 

Era da alcuni secondi - o minuti? - che Edward rimaneva immobile appena oltre l’uscio della porta, e da altrettanti secondi io rimanevo ferma davanti a lui, con la mia valigia al fianco e un evidente rossore sulle guance.

Mi schiarii la voce, abbassando lo sguardo al cemento lastricato del gradino dell’ingresso, non prima di averlo fatto scorrere lungo il suo corpo: indossava un paio di pantaloni da ginnastica, e una maglietta bianca girocollo che metteva in risalto il torace scolpito. Il suo ‘pigiama’. Stava già dormendo?

«Ciao…», bofonchiai, sperando di non essere arrossita.

Sembrò riscuotersi al suono della mia voce.

«Ciao…», esitò un istante. «Vuoi entrare?»

Annuii piano, e lui si fece da parte. Avanzai con lentezza nell’ingresso, trascinando con me anche il trolley. Lo abbandonai vicino alla porta, e procedetti nel salotto, guardandomi intorno. Non era cambiato quasi niente dall’ultima volta che ero stata lì, mesi prima; unica differenza: la cornice con la foto di noi due insieme, una volta sistemata sul comodino vicino al divano, era sparita. Sentii una strana morsa dentro di me, del tutto immotivata.

«La valigia sta a significare che hai intenzione di occupare la mia casa mentre sarò via?», sghignazzò Edward alle mie spalle, mentre avanzavo totalmente a disagio nell’ampio salotto così familiare.

Mi irrigidii, abbassando lo sguardo nuovamente. Perché doveva fare sempre così? Perché si divertiva sempre così tanto a prendermi in giro e a mettermi in difficoltà?

«Lo sai cosa significa, non credo ci sia bisogno di dirtelo», borbottai.

Si avvicinò a me. «Scusa», disse tornando serio, non appena notò la mia rigidità, «non volevo metterti a disagio…»

Mi strinsi nelle spalle, guardandomi intorno. Incrociai le braccia sotto il seno. «Non mi hai messa a disagio», sbuffai, mentendo. «Mi hai solo irritata».

Ghignò. «È la mia specialità, no?»

Gli lanciai un’occhiataccia, che gli fece alzare le mani in alto, in segno di resa.

«D’accordo… Avevo intenzione di partire intorno alle otto ma se preferisci possiamo fare più tardi».

Scossi il capo, non ancora a mio agio così vicina e in uno spazio così isolato con lui. «No, alle otto andrà benissimo». Feci una pausa, abbassando lo sguardo sulle mie mani che si intrecciavano sul grembo. «Posso… posso restare qui a dormire? Ho lanciato un ultimatum a Jessica… ed Alice e Rosalie sono con i loro ragazzi… non me la sento di-»

«Puoi restare qui, non ti preoccupare», mi disse subito, interrompendomi, notando probabilmente il mio tono divenire ad ogni parola sempre più agitato e affannoso. «Preferisci il letto o il divano?»

A quella domanda così diretta altri pensieri avevano preso il sopravvento, senza che io riuscissi a fermarli prontamente. Immagini di un’altra vita, di un passato ancora troppo recente tornarono alla memoria, spezzandomi il respiro. «Il divano andrà benissimo», risposi, arrossendo violentemente in reazione ai miei pensieri. Cercai di nascondergli il mio viso, e tentai disperatamente di far sparire il rossore rinfrescando le mie guance bollenti attraverso il tocco delle mie mani stranamente fredde.

Dopo essermi ricomposta, mi voltai a guardare il mobile al centro della stanza, davanti al quale c’era un tavolino basso di cristallo sul quale erano sparse diverse cartine e libri di turismo. Edward lo raggiunse, e si mise a sistemare tutto, richiudendo le carte e infilando segnalibri nelle guide.

«Stavi preparando il percorso?», gli chiesi, avvicinandomi.

«Stavo finendo di controllare alcune cose. Per il percorso ho comprato una cartina apposita».

Lo guardai con occhi sgranati. «Non hai il GPS?»

Edward mi rivolse uno sguardo saccente. «Che razza di viaggio on the road sarebbe, se avessimo il GPS? Sono sicuro che ce la caveremo egregiamente anche senza macchinari tecnologici come il navigatore satellitare».

Scossi il capo, ridacchiando nervosamente. Ero eccitata all’idea di partire così, su due piedi, senza prenotazioni e senza navigatore satellitare che avrebbe potuto fermarci non appena avessimo sbagliato direzione, ma anche un po’ spaventata.

«E fu così che si ritrovarono sulla costa orientale dell’America anziché sull’occidentale…», mormorai, ironica.

Lui rise, ed io mi morsi il labbro per trattenere il sorriso divertito che stava affiorando sul mio viso, sotto i suoi occhi. Mi voltai, dirigendomi verso il mio trolley.

«Vado un attimo a cambiarmi», dissi, sfuggendo al suo sguardo.

Lo lasciai finire di sistemare le ultime cose mentre recuperavo i vestiti per la notte nella valigia e andavo in bagno a cambiarmi. Indossai una semplice canotta e un paio di pantaloncini, sapendo che nei prossimi giorni avremmo iniziato a dirigerci verso paesi decisamente più caldi dell’Illinois.

Quando tornai in salotto vidi che aveva già sistemato sul divano un grosso cuscino bianco e delle lenzuola blu scuro.

«Grazie», sussurrai, mentre finiva di incastrare il lenzuolo fra i cuscini.

Si rimise dritto, e sorrise. «Di nulla. Sveglia alle sette e mezza, allora?», mi chiese, prima di allontanarsi.

«Sette e mezza», confermai. Se mi fossi trovata a casa mia gli avrei detto che ci saremmo dovuti alzare almeno per le sette, per essere sicuri che mi svegliassi adeguatamente e fossi certa al 100% di aver preso tutto quello di cui potevamo aver bisogno, ma visto che l’unica cosa che mi apparteneva in quella casa era la valigia, in cui avevo riposto tutto il necessario, non avevo motivo di volermi svegliare tanto presto.

Edward sorrise, e mi augurò la buonanotte prima di scomparire nella sua stanza, in fondo al corridoio.

Rimasi per alcuni minuti seduta, fissando il salotto avvolto dalla tenue luce della lampada sul tavolino. Era tutto così familiare e al tempo stesso sconosciuto. Un tempo giravo fra quelle mura come se fossero la mia casa, mentre in quel momento mi ritrovavo nei panni di un’ospite a disagio.

Mi sdraiai sul divano, avvolgendomi nel lenzuolo leggero, godendomi la temperatura fresca della casa, osservando il giardino fuori dalla finestra; l’amaca era ancora allacciata ai due aceri, e come sempre il tocco delicato delle mani di Esme Cullen, la madre di Edward, che ogni fine settimana passava a curare il giardino, lasciava le piante e i fiori nelle loro migliori condizioni, rendendo quel piccolo sprazzo di terra verde un luogo meraviglioso. In fondo, vicino al lago, si trovavano un tavolino e tre sedie in ferro battuto. I pomeriggi passati con Edward in quel giardino erano tanti, ed erano anche ciò che più mi mancava della nostra relazione.

Chiusi gli occhi, relegando quei pensieri ad un angolo della mia mente, imponendomi di non pensarci. Rivangare il passato non era la mossa più saggia in quel momento, soprattutto dopo tutta la fatica che avevo fatto nei mesi passati a cercare di cancellarlo o per lo meno dimenticarlo. Cercai anche di non pensare alle conseguenze che quel viaggio insieme avrebbe comportato, a ciò che avrebbe potuto risvegliare la presenza di Edward al mio fianco dopo tanti mesi di assenza.

E, finalmente, mentre i grilli cantavano fuori dalla finestra, riuscii ad assopirmi.

 

Il giorno della partenza, il tempo ero perfetto. Il cielo era azzurro, e il sole splendeva sulla città di Chicago illuminando le vetrate dei grattacieli, riflettendo i raggi solari che mi costringevano a distogliere lo sguardo. L’aria era ancora fresca, ma nel giro di poche ore le temperature sarebbero salite velocemente.

Io ed Edward ci eravamo fermati in un piccolo bar poco distante da casa sua, dove avevamo deciso di fare colazione prima di partire per la nostra avventura su strada. In quel modo avremmo evitato il caos della metropoli in un orario di punta e potuto mangiare con calma, seduti ad un tavolino in un posto poco affollato.

«Non è giusto, Edward», brontolai, mentre lui posava il vassoio con la nostra colazione sul tavolo. «Non puoi pagare tutto te».

Quella mattina la sveglia era sì alle sette e mezza… ma solo per me. Infatti Edward trafficava silenziosamente in giro per casa già dalle sei. Colpa dell’abitudine, mi aveva detto. Però ricordavo perfettamente che da quando era stato promosso a cardiochirurgo la sua sveglia era sempre alle sette e mezza, tranne il sabato e la domenica, quando doveva fare un salto all’ospedale in mattinata solo per dei brevi controlli. Probabilmente non voleva farmi sentire in colpa, o cose del genere. O più semplicemente i suoi orari sono cambiati in questi undici mesi, sibilò la mia coscienza, ricordandomi che era da molto tempo che non vedevo Edward, e che quindi le sue abitudini potevano essere cambiate.

Trafficai con la cartina dello sciroppo d’acero, e ne versai un po’ sui pancake appena sfornati dalla cucina, mentre Edward faceva lo stesso, scrollando le spalle.

«Se è questo che ti preoccupa possiamo pagare un giorno a testa. Giusto per evitare di stare tutte le volte a dividere il conto a metà», propose, addentando la sua colazione.

Annuii, accettando immediatamente, prima che potesse cambiare idea. Guardai fuori dalle ampie vetrate che davano sulla strada, e vidi la nostra auto, una Jeep argentata, posteggiata dall’altro lato della via. Era l’auto di Emmett, suo fratello, che aveva stranamente accettato di cedergliela per questo lungo viaggio.

Emmett Cullen, che oltre ad essere il fratello maggiore di Edward era anche il fidanzato di una delle mie migliori amiche, Rosalie Hale, era sempre stato un tipo possessivo, e amava la sua jeep quasi quanto amava Rose; per questo quella mattina ero rimasta sorpresa nel vedere la sua auto ritirata nel garage di Edward al posto della sua Volvo.

«Per quanto io sia più che convinto che la mia auto sia insostituibile, non ho il cuore per costringerla ad un viaggio nel deserto. La jeep di Emmett è più adatta all’occasione», aveva replicato Edward quando gli avevo chiesto il motivo di quello scambio di automobili. Non aveva aggiunto nient’altro, ed io non avevo chiesto più nulla.

Una volta terminata la colazione tornammo alla macchina, ed Edward mi indicò la cartina che seguiva l’originale percorso della Route 66, ed un fascicolo in cui erano rilegate tutte le indicazioni da seguire da qui fino a Santa Monica. In passato, quando eravamo fidanzati, eravamo abituati a fare alcuni viaggi in auto insieme. Capitava che dei weekend decidessimo di raggiungere una qualche località fuori Chicago, ed io ero sempre stata il ‘navigatore di bordo’: Edward non amava strumenti come i gps, ed era abituato a viaggiare alla vecchia maniera, con cartine stradali e un po’ di pazienza. Tuttavia, pensavo che per un viaggio tanto lungo, e in terre completamente sconosciute, si fosse alla fine arreso alla comodità della tecnologia. Mi sbagliavo, come mi aveva fatto capire la sera precedente.

«Ah, dimenticavo», esclamò, quando le sue dita erano già allacciate intorno alla chiave dell’auto, infilata nel cruscotto. Cacciò la mano nel taschino della camicia che indossava, e tirò fuori due cartine di sciroppo d’acero, che mi tese con un sorriso. «Le ho prese prima al bancone del bar. Credevo che avresti finito lo sciroppo prima del pancake come una volta ma…»

Lasciò la frase in sospeso, mentre faceva cadere le cartine nella mia mano protesa verso di lui. Osservai le scatolette con uno strano senso di imbarazzo e tensione. «Grazie», mormorai. «Se me l’avessi detto quando eravamo a tavola non mi sarei sforzata di distribuire lo sciroppo in parti uguali per i pancake», aggiunsi con una risata, cercando di spezzare quella strana tensione.

Edward mise in moto, sorridendo. «Tanto tu lo usi anche per i biscotti. Scommetto che prima di stasera l’avrai già fatto fuori».

Scossi il capo. «Assolutamente no! Stiamo per avventurarci in luoghi sperduti, chissà quando avrò la possibilità di avere altro sciroppo d’acero. Queste scatolette le terrò da conto per i momenti di astinenza».

La sua risata mi scaldò il cuore, facendomi sorridere. Edward stava rendendo il mio tentativo di rimanergli indifferente sempre più difficile, e purtroppo i suoi gesti e le sue parole non erano d’aiuto. Il fatto che ricordasse ancora la mia insana fissazione per lo sciroppo d’acero mi faceva piacere, nonostante tutto.

«Tranquilla, farò in modo che avrai sempre una scorta di sciroppo a portata di mano», mi assicurò.

Imboccò la strada che costeggia il lago Michigan, e giunti all’incrocio con la Jackson Drive fermò la macchina sul ciglio della strada, inserendo le frecce lampeggianti.

Lo fissai interrogativa. «Ci fermiamo già?»

Edward afferrò la mia macchina fotografica, appoggiata sopra alla montagna di coperte che ricoprivano i tappeti dei sedili posteriori, e me la passò. «Siamo davanti all’originale inizio della Strada Madre. Pensavo volessi documentare tutti i nostri spostamenti».

«Pensavo che la strada iniziasse in Adam Street», ribattei, fotografando comunque l’incrocio, e facendo attenzione a mettere bene in mostra il cartello della via nell’inquadratura.

Edward scosse il capo, e si rimise in carreggiata. «Quello è l’inizio convenzionale. Hanno cambiato diverse volte il punto d’inizio, ma fino agli anni Trenta era qui che la Route 66 cominciava. O finiva, dipende dai punti di vista», aggiunse con una risatina.

Lo fissai stupita. «Si vede che hai passato metà della tua vita facendo ricerche per questo viaggio. Mi stupisce che tu abbia bisogno di una cartina per orientarti, pensavo che a quest’ora avessi imparato tutte le distanze e le deviazioni come un gps».

Rise, e dopo due svolte imboccò Adam Street. Il cartello marrone che segnala l’inizio della Route 66 si parò davanti ai nostri occhi, piantato nell’asfalto scuro del marciapiedi. Edward rallentò, accostando l’auto al ciglio della strada per non ostacolare il traffico, ed io mi sporsi dal finestrino aperto per scattare la fotografia che segnava ufficialmente l’inizio del nostro viaggio. La scritta ‘BEGIN’ spiccava sullo sfondo colorato, e se per un semplice passante quelle parole non rimandavano ad altro che ricordi e storie di un passato a lui ormai lontano, per me ed Edward indicavano qualcosa di più profondo, l’inizio di un’avventura che avrebbe segnato per sempre le nostre vite.

«Pronta?», mi domandò Edward, quando tornai a sedermi composta.

I suoi occhi erano puntati sul cartello, e sulle labbra aleggiava un sorriso; il sorriso di chi ha appena accettato una sfida contro se stesso.

Annuii. «E tu?»

Annuì a sua volta. «Andiamo alla conquista dell’America», sussurrò, dopodiché premette sull’acceleratore, e iniziammo il nostro viaggio.


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Salveee! :D

Eccomi qui con il secondo capitolo, che segna l'inizio del viaggio di Edward e Bella.

Importante: prima di tutto ho deciso di alzare il rating della storia ad arancione; secondo: ho pensato di creare una specie di diario di viaggio di Bella, che potete consultare man mano che la storia procede, dove troverete foto, curiosità, video, ecc. dei luoghi che verranno citati nei capitoli. Questo è il link. (Non è necessario iscriversi a Tumblr per vedere il sito, ovviamente :))

Vi lascio anche il link al mio blog, dove troverete spolier e teaser :D

Bene, credo di aver detto tutto. Grazie per essere arrivati fino a qui, e grazie a coloro che hanno recensito, e aggiunto la storia alle preferite e seguite!

A presto! :*

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Capitolo 3
*** I'm not an equilibrist ***


Route 66

Can you imagine a time when the truth ran free,

The birth of a song and the death of a dream?

Closer to the edge.

This never ending story, paid for with pride and fate,

We all fall short of glory

Closer to the edge.

30 Seconds To Mars - Closer To The Edge

03. I’m not an equilibrist

Edward è sempre stato un patito dell’ordine e della precisione. Ricordavo ancora il modo in cui tendeva ad organizzare ogni singola uscita, l’attenzione che dedicava ai particolari; chiariamoci, però: era preciso, ma non ossessionato; ovvero, quando capitava di non rispettare il programma stilato non dava di matto, non iniziava a sbraitare per non aver seguito i piani. Anzi, a volte era lui stesso a cambiare di punto in bianco decisione. Era una persona che gestiva ogni evento al meglio e che coglieva le occasioni al volo, si poteva dire.

Per questo non mi sorpresi di trovare il fascicolo che raccoglieva il viaggio che avevamo appena intrapreso in perfetto ordine: aveva suddiviso la strada negli otto Stati che attraversava, e per ognuno di essi aveva creato delle tabelle con le distanze in miglia, riportando le città più importanti che avremmo visitato e le loro attrazioni.

«Wow», esclamai, sfogliando il quaderno, affascinata da nomi di luoghi ancora lontani. «Hai fatto tutto questo lavoro da solo?»

Edward aveva lo sguardo puntato sulla strada davanti a noi, e scosse leggermente il capo. «Esme mi ha dato una mano. Ah, a proposito», aggrottò le sopracciglia, e infilò la mano sinistra nel portaoggetti della sua portiera, «ha preparato anche questo». Estrasse un altro quaderno rilegato a spirale, e me lo tese.

Lo presi, e sulla copertina lessi il titolo stampato: “National Parks of the United States”.

«Se vuoi possiamo fare qualche deviazione per andare a vederne qualcuno durante il viaggio, se non sono troppo distanti dalla Route», propose.

Sorrisi, e aprii il fascicolo. «Per me va bene. È una bellissima idea».

Nella prima pagina Esme aveva inserito un ricco indice per ogni Stato d’America, ognuno con i parchi che ospitava. Alcuni Stati non avevano alcun parco, e notai con dispiacere che la maggior parte di essi facevano parte di quelli che avremmo attraversato nella prima parte del viaggio.

Riposi con cura la guida dei parchi nel vano portaoggetti davanti a me, e solo in quel momento scorsi il libro nascosto sotto la coltre di cartine geografiche di cui Edward si era munito prima di partire.

Inarcai un sopracciglio, fissando confusa ed incredula la copertina del libro che avevo fra le mani. «“Sulla strada”?», lessi. «Stai scherzando?»

Edward scosse la testa, tamburellando le dita sul cruscotto, a ritmo della musica che suonava dalla radio accesa. Le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Quel libro è una Bibbia per questo genere di viaggi. Non potevo non portarlo».

Alzai gli occhi al cielo, lo riposi e al suo posto presi il mio quaderno bianco. L’avevo portato da casa con l’intenzione di usarlo come diario di viaggio, ma fino a quel momento non avevo ancora scritto nulla, nemmeno il mio nome sulla prima pagina. Incastrai il quaderno delle indicazioni stradali al mio fianco, dopo aver controllato che prima di un cambio di rotta mancavano ancora parecchie miglia, e iniziai ad appuntare i pochi avvenimenti di quella mattina.

Lasciai lo spazio per poter incollare le foto - speravo di trovare in qualche supermercato una di quelle macchinette che stampavano anche cento foto nel giro di mezz’ora - e sotto riportai una breve descrizione di ciò che avevo visto. Appuntai anche qualche informazione sullo Stato dell’Illinois, decidendo di fare lo stesso con ogni Stato che avremmo attraversato.

Edward guidava rilassato, tamburellando di tanto in tanto le dita contro il cruscotto a ritmo di musica, facendo qua e là qualche commento sulla strada danneggiata e poco curata, ma nel complesso non parlammo molto. I miei occhi seguivano il percorso della Route 66, osservando la superstrada che correva accanto a noi, trafficata e rumorosa.

L’asfalto della Strada Madre era rovinato. Le crepe erano state risanate alla bell’e meglio, e le banchine erano sdrucciolevoli, con pezzi di asfalto spezzati che si confondevano con la terra asciutta. Ogni tanto incrociavamo qualche auto, ma in totale i nostri incontri non avevano superato la decina.

Impiegammo quasi due ore per raggiungere la nostra prima tappa. Si trattava di una piccola stazione di servizio ormai in disuso, ma ristrutturata recentemente dalla cittadina di O’Dell. Era una delle vecchie Oil Station, un vero simbolo della Route 66. Non ci fermammo a lungo: giusto il tempo di scattare qualche fotografia e per Edward di sgranchirsi le gambe, poi ripartimmo alla volta di Pontiac, dove avremmo visitato uno dei più grandi musei dedicati alla Strada Madre. Sebbene vivessi in Illinois da quasi dieci anni ormai - mi ero trasferita all’età di diciotto anni per frequentare il college, e avevo lasciato mio padre nello Stato di Washington, a Forks -, non avevo mai girato più di tanto lo Stato; al di là della zona di Chicago non potevo dire di conoscere molto di quel posto, quindi per me ogni luogo era nuovo.

Raggiungere Pontiac non richiese molto tempo, e trovammo il museo lungo la strada, evidenziato dagli altri edifici per le sue mattonelle rosse in vista, e un piccolo cartello verticale con la targa della Route 66 che spiccava sui colori accesi del luogo. Era ancora mattino presto, e mi stupii nel constatare che la città sembrava deserta, così come la via che avevamo appena percorso; avevo ragione a pensare che la strada stesse davvero cadendo nel dimenticatoio, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi cittadini per riportarla all’antico splendore.

Quando varcammo le porte del museo ci accolse la musica country, che risuonava a basso volume da un vecchio juke-box in fondo alla sala, completamente arredata con vecchie pompe di benzina rosse e blu e un bancone a bandiera a scacchi. Dietro di esso c’era un signorotto sulla sessantina, dalla corporatura robusta e la barba bianca che copriva la maggior parte del suo viso. Il viso gentile si aprì in un sorriso radioso non appena ci vide avvicinare, e si alzò dalla sedia su cui si trovava per venirci incontro.

«Buongiorno, ragazzi! Siete qui per visitare il museo?», ci chiese, e in qualche modo, forse dalla sua domanda quasi priva di speranza, o dalla sua espressione che divenne ancora più radiosa appena Edward gli rispose che sì, avevamo intenzione di fermarci a visitare il posto, capii che neanche per il museo i visitatori erano molto frequenti. Mi chiesi quante volte quell’uomo dovesse sentire la gente rispondergli che non era lì per visitare il museo ma solo per farsi dare indicazioni stradali dopo essersi persi, magari per raggiungere la superstrada; probabilmente troppe.

Dopo aver pagato il nostro ingresso, Edward ed io iniziammo a girare per le sale, arredate con vecchie targhe originali, indicazioni stradali arrugginite e ormai inutili, riproduzioni di stazioni di servizio e di locali che un tempo animavano la strada e accoglievano i viaggiatori. C’era perfino la ricostruzione di una vecchia camera d’albergo ad ore, e in una stanza buia c’erano alcune vecchie insegne al neon, che proiettavano le loro luci colorate sui muri e il pavimento. Immaginai per un secondo la vecchia Route 66 nel cuore della notte, buia e non illuminata per lunghi tratti di miglia, che improvvisamente si rischiarava alla luce delle insegne di motel, locali e stazioni di servizio, e che come un arcobaleno dopo la pioggia portava sollievo nei cuori dei viaggiatori esausti e sperduti. Ero pronta a scommettere che il novanta per cento dei negozi non accendeva più l’insegna da anni, ormai, vista la decadenza della strada.

La visita terminava in una sala esposizioni in cui si trovava uno dei vecchi furgoncini della Volkswagen, circondato da mura ricoperte da fotografie - alcune in bianco e nero, altre a colori - che ritraevano volti sconosciuti, ma con un unico grande denominatore comune: la Route 66. Tutte quelle persone avevano fatto il loro viaggio lungo la strada, alcuni a bordo delle famose motociclette Harley-Davidson, altri con un modello del furgoncino lì presente, altri ancora con le loro semplici auto. La strada alle loro spalle era quella di Pontiac, davanti al museo. E, circondate da tutte queste fotografie, c’erano due cartine: una ritraeva la Route 66 da Chicago a Santa Monica, l’altra il tratto che attraversava l’Illinois.

«Secondo te quanti giorni impiegheremo ad arrivare in fondo?», chiesi ad Edward, notando che il tratto di strada compiuto fino a quel momento non era altro che un minuscolo trattino; non eravamo neanche a metà strada per arrivare nel Missouri.

«Dipende da quanto tempo ci fermeremo in altri posti… potremmo impiegarci una settimana così come potremmo arrivare a Santa Monica fra un mese, se non di più», rispose, con un sorriso divertito. Sembrava non essere minimamente interessato a tornare a Chicago, anzi.

«Scusate se mi permetto…», disse all’improvviso una voce alle nostre spalle, facendoci voltare. Era il signore che avevamo incontrato all’ingresso e ci aveva fatto i biglietti. «Mi pare di avere capito che volete fare il giro della Strada Madre».

Edward annuì, e gli sorrise. «Siamo partiti questa mattina da Chicago».

Il sorriso dell’uomo illuminò il suo viso, e per un momento sembrò più giovane di dieci anni. «Una fuga romantica, eh?»

Il mio viso si fece paonazzo, e risposi immediatamente con un piccato «No!», che fece aggrottare la fronte all’uomo di fronte a noi.

Edward si schiarì la voce. «Non esattamente», disse, con tono calmo, totalmente contrastante con quello usato poco prima da me. «Siamo amici. Abbiamo solo bisogno entrambi di cambiare aria per un po’».

Lui fece un cenno di assenso col capo, e lasciò cadere il discorso. «Posso chiedervi se vi andrebbe di fare una foto per la nostra galleria dei ricordi?», ci chiese, indicando con un cenno della mano i muri costellati di fotografie alle nostre spalle.

Alla nostra espressione confusa e indecisa, aggiunse: «Sapete, al giorno d’oggi sono pochi i viaggiatori che decidono di partire per la Route 66, e abbiamo sempre avuto la tradizione di fotografare chi decideva di partire. Sarebbe bello poter arricchire la collezione con volti nuovi e giovani».

Edward mi guardò per un istante, in attesa di un mio parere.

«Per me non c’è problema», dissi, scrollando leggermente le spalle.

Edward sorrise, e si voltò verso l’uomo, che appena capì che avevamo accettato la sua proposta sorrise apertamente, e ci condusse all’esterno del museo, armato di macchina fotografica. Fece posizionare me ed Edward con alle spalle la Route 66, affiancati da un cartello stradale, proprio come tutte le altre persone nelle fotografie della galleria.

Per un momento mi chiesi in che posa dovevamo metterci. Era una domanda stupida, perché sicuramente nessuna delle persone che conoscevo avrebbero mai visto quella foto, quindi potevo tranquillamente uscire in qualsiasi posizione. Guardai Edward, al mio fianco, che sembrava tranquillo come suo solito: aveva le braccia distese lungo i fianchi, con una mano infilata nella tasca dei jeans.

«Pronti?», ci chiese il signore, portandosi la macchina fotografica davanti al viso.

Mi immobilizzai, arrendendomi al fatto che probabilmente sarei stata ritratta rigida come un palo della luce. Poi Edward fece una cosa che non mi aspettavo: passò un braccio dietro la mia schiena e posò la mano sul mio fianco, accostandosi a me. Il tempo di realizzare la sua vicinanza e la fotografia era stata scattata. Si allontanò appena l’uomo abbassò la macchina, sorridendoci e dandoci conferma dello scatto.

Edward gli andò incontro con un sorriso, gli strinse la mano, e accettò i suoi ringraziamenti per aver acconsentito a farsi fotografare per la collezione. Mi avvicinai anch’io, accettando la sua mano e salutandolo.

Poi seguii Edward fino alla nostra jeep.

Stavo per chiedergli perché avesse cercato di avvicinarmi così all’improvviso, ma lui mi anticipò: «Riesci a resistere ancora un’ora prima di mangiare? C’è un posto di cui ho sentito parlare che mi piacerebbe provare per pranzare, ma ci vuole un po’ per raggiungerlo e ci sono un paio di cose da vedere per strada».

Guardai l’ora: era l’una del pomeriggio.

«Va bene, andiamo», tagliai corto, salendo in auto, dove venni accolta dal caldo soffocante di aria chiusa e bollente.

Appena Edward mise in moto abbassai il finestrino, lasciando che l’aria secca filtrasse dentro l’abitacolo.

«Ti ha dato fastidio che mi sia avvicinato per la foto?», mi domandò a bruciapelo appena ci lasciammo Pontiac alle spalle.

Volsi il capo fuori dal finestrino, osservando il paesaggio scorrere intorno a noi. «Sì. Saremo anche compagni di viaggio, ma questo non significa che siamo amici, né che le cose fra di noi sono a posto», risposi seccamente.

Edward rimase in silenzio per alcuni secondi, forse accusando il colpo che le mie parole gli avevano inferito. Non avrei voluto mettere in chiaro così bruscamente la relazione che condividevamo in quel momento, ma non volevo nemmeno che Edward pensasse che la situazione fosse migliore di quella che era; non eravamo amici, né amanti, né ex fidanzati in quel viaggio; eravamo solo due persone con un comune interesse: allontanarci da Chicago, e staccare la spina da passato, presente e futuro.

«Immagino di no», sussurrò Edward, con tono neutro.

Fortunatamente, il discorso finì lì.

Il resto del viaggio lo trascorremmo in silenzio, avvolti dalla musica della radio, e quando Edward parlò di nuovo eravamo giunti nelle vicinanze di una cittadina di nome Lexington. Fermò l’auto sulla banchina polverosa, ed estrasse dalla guida della Route 66 una vecchia fotografia. Il panorama era identico a quello che avevamo di fronte il quel momento, con l’eccezione che mancava l’unico edificio che sorgeva vicino alla strada.

«Questo era il Ballard Elevator. L’hanno demolito nel 2006, ma un tempo era un punto di riferimento su questa strada. Pensavo che sarebbe stato interessante avere una foto del prima e del dopo».

Annuii silenziosamente, e scattai la foto alla strada ora vuota, senza più simboli che aiutassero a capire in che punto della lunga Route ci trovavamo, e subito dopo ripartimmo.

La tappa successiva fu a Towanda, una cittadina poco distante. In quella città era conservata una parte dell’originaria Route 66, chiusa al traffico e mantenuta al suo stato iniziale. Non c’era nessuno quando arrivammo lì, e seguii Edward a piedi lungo la strada, guardando l’asfalto crepato e sbiadito; fra le fessure spuntavano ciuffi di erba talvolta verde, talvolta secca. La vernice che creava la segnaletica orizzontale era consumata, e solo la scritta Route 66 e la mappa degli States erano stati restaurati per essere ben visibili.

Mentre osservavo il paesaggio quasi deserto intorno a me, non mi accorsi che Edward si era allontanato. Lo raggiunsi con passo incerto, e quando vidi il suo viso lo trovai stranamente buio, come se pensieri brutti stessero affollando la sua mente. Sembrava l’Edward che avevo seduto accanto al bancone del bar poche sere prima.

«Ehi. Tutto okay?», gli chiesi, rinunciando al mio tentativo di rimanere in silenzio per il resto della giornata. Del resto non potevo complicare quel viaggio più di quanto già non lo fosse fin dal primo giorno.

«Stavo pensando…», mormorò, e la sua voce era così bassa che dovetti avvicinarmi per poterla sentire. «Un tempo questa strada era una leggenda vivente. Era il sogno americano per eccellenza. Chi la percorreva aveva in testa mille sogni, centinaia di idee e aspettative. Era un simbolo di speranza, in un certo senso», disse, ed io ricordai di aver letto sulla guida in auto che molta gente che negli anni Trenta decideva di imbarcarsi in un viaggio lungo la Route 66 lo faceva per arrivare in California, la cosiddetta El Dorado di quei tempi, dove poter trovare gloria e denaro. Fece una breve pausa. Il suo tono così lugubre mi metteva a disagio, e mi preoccupava. «Allora perché è caduta nel dimenticatoio così presto?»

Mi guardai intorno, osservando la desolazione del luogo, l’asfalto sciupato dal tempo e la piccola cittadina di Towanda, così piccola che nemmeno sulla mappa ufficiale della Route 66 trovava il suo posto. «Immagino che la costruzione delle superstrade abbia portato la maggior parte dei viaggiatori a cambiare strada. Del resto questa è ancora una strada statale, ci sono i limiti di velocità da rispettare, semafori, incroci… è più dispersiva per chi vuole raggiungere un’altra località il più velocemente possibile», dissi, cercando di usare un tono dolce, per non apparire troppo insensibile ai suoi occhi. Del resto questa strada rappresentava per lui qualcosa che io non riuscivo a capire ancora, ma rispettavo ciò che pensava.

Gli occhi di Edward continuavano a rimanere fissi all’orizzonte, ma lo vidi stringere le labbra. «Quindi la sua dispersività era un errore? Era uno sbaglio che avesse un tragitto più lungo e lento rispetto ad una superstrada?»

Aprii le labbra per replicare, anche se non sapevo cosa dire. Perché la mia risposta l’aveva turbato così tanto? Il suo tono era ancora freddo e distaccato, ma dalla sua postura e dal suo sguardo capii di averlo colpito più di quanto mi sarei mai immaginata.

«Per anni la gente l’ha percorsa, l’ha sfruttata, ha riposto speranze in essa. Poi, non appena sono state costruite le autostrade, l’hanno abbandonata al suo destino. Nessuno si è più curato di lei, l’hanno perfino distrutta e cancellata dalle cartine per far posto alla novità. È bastato un semplice errore perché tutti la eliminassero».

Un brivido corse lungo la mia schiena. Per qualche strano motivo ero convinta che il centro del discorso non fosse più la Strada Madre, ma qualcos’altro. Qualcosa di più privato e personale per lui. «Edward…»

Sfiorai con la punta delle dita il suo braccio, e lui sgranò gli occhi per un istante. Si voltò bruscamente, allontanandosi da me con lunghe falcate. «Andiamo», mi disse, quasi ordinò. «Voglio raggiungere Springfield per la notte e dobbiamo ancora pranzare».

Il suo improvviso cambio d’umore mi spiazzò totalmente. Cosa gli stava passando per la mente? Le sue parole erano rivolte semplicemente alla situazione della Strada Madre? No, c’era qualcosa di molto più complicato nascosto dietro al discorso di poco prima, e nonostante facessi di tutto per nasconderlo ero curiosa. Dannatamente curiosa di sapere cosa lo tormentava in quel modo ossessivo, curiosa di conoscere il motivo per cui tutto d’un tratto aveva abbandonato il lavoro per intraprendere un viaggio di chissà quante settimane da solo. E al tempo stesso sapevo che non avrei potuto chiedergli nulla riguardo ciò; il modo in cui aveva reagito quando aveva capito che stavo per fargli qualche domanda mi dava la quasi assoluta certezza che non volesse parlarne - non con me, per lo meno -, e non potevo assolutamente obbligarlo, né costringerlo a subire le mie domande, non dopo che l’avevo attaccato in quel modo in auto appena un’ora prima, dicendogli che non eravamo amici né potevamo esserlo.

Mi morsi il labbro, reprimendo le mie domande ingiustificate, e lo seguii fino alla macchina.

 

«Credi di avere ancora spazio nello stomaco per degli assaggi veloci?»

«Assaggi di cosa?», gli domandai, incuriosita.

Avevamo appena terminato di pranzare in una tavola calda molto particolare, che Edward aveva scelto appositamente come tappa; si trattava di un locale sulla strada, dove i panini venivano preparati proprio sotto gli occhi dei clienti, per mostrare che durante la preparazione non venivano aggiunti ingredienti non richiesti; io ed Edward ci eravamo accomodati al bancone, e un signore aveva preparato le nostre ordinazioni con cura mostrandoci tutti i passaggi e ciò che veniva inserito fra le fette di pane. Non sapevo esistessero locali simili, e vederne uno mi aveva lasciata a bocca aperta.

Edward sorrise. «Non hai visto qual è la nostra prossima tappa?»

Presi in mano la guida, accigliata. Effettivamente non avevo controllato le fermate e i punti di interesse quella mattina, mi ero preoccupata solo di trascrivere le cose sul mio diario di volta in volta che le vedevamo.

Quando lessi il nome di ciò che stavamo per visitare i miei occhi si illuminarono. «Dici sul serio? Ci fermiamo dove producono lo sciroppo d’acero?»

Lui annuì, e un sorrisino soddisfatto piegò le sue labbra. «Puoi anche comprarlo se vuoi».

Ricordai le sue parole di quella mattina, quando gli dissi che avrei tenuto le cartine di sciroppo d’acero avanzate dalla colazione: “Tranquilla, farò in modo che avrai sempre una scorta di sciroppo a portata di mano”.

Un sorriso spuntò sul mio viso, e per la prima volta non lo nascosi.

 

La nostra visita a Funk’s Grove, dove veniva prodotto lo sciroppo d’acero, di cui sono sempre stata una grande golosa, durò poco più di mezz’ora. Nonostante i tempi ristretti, riuscii ad assaggiarne di diverse qualità, e anche a comprarne due confezioni di boccette a forma di foglia d’acero e due bottiglie da tenere a casa. Edward mi osservò con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto divertito mentre decidevo cosa comprare, ma non commentò nemmeno quando mi aiutò a ritirare il tutto nel bagagliaio della jeep, con i primissimi acquisti di questo viaggio.

Il suo umore era decisamente migliorato da quando ci eravamo seduti al bancone della tavola calda per pranzare, e da quel momento non c’era più stata traccia dell’Edward turbato che avevo visto in mezzo alla strada abbandonata, anche se spesso lo vedevo perdersi nei suoi pensieri mentre guidava, o quando pensava che non lo guardassi.

Ovviamente, però, lui non era l’unico che avrebbe dovuto avere pazienza mentre l’altro gli faceva visitare luoghi che magari non gli interessavano; infatti, subito dopo aver lasciato Funk’s Grove raggiungemmo nel tardo pomeriggio il museo sulle auto storiche che hanno attraversato questa strada. Come tutti gli uomini, Edward era affascinato da quelle auto lussuose e vecchie, e lo seguii pazientemente attraverso le sale d’esposizione mentre si divertiva come un bambino a osservare i vari modelli e a salirci per vedere gli interni. Gli scattai anche delle fotografie, perché la sua espressione era così fanciullesca che mi sembrava di riavere davanti il ragazzo diciannovenne che avevo conosciuto nel campus del college, quando mi ero persa uno dei primissimi giorni che mi trovavo a Chicago. Il suo entusiasmo riusciva a contagiarmi, tanto che alla fine accettai perfino di farmi fotografare con lui a bordo di alcuni dei modelli più famosi di auto.

In quei momenti di complicità era facile dimenticare come stavano le cose fra noi; mi sembrava di tornare alle nostre prime uscite insieme, quando eravamo semplici amici ma eravamo entrambi a conoscenza della forte attrazione che c’era fra di noi. Anche in quel momento ero consapevole della tensione che gravava fra di noi, del fatto che nonostante tutto ero attratta da Edward come lo ero sempre stata, e dal modo in cui mi guardava sapevo che anche lui provava quello che sentivo io; ma a differenza di nove anni fa, quando speravo che lui decidesse di fare la prima mossa, in quel momento desideravo solo che le cose restassero così: che il nostro rapporto si ingessasse in quella precaria situazione di pace, con l’uno che si godeva la compagnia dell’altro senza pensieri riguardanti il passato o il futuro, e quella tensione sessuale che ci rendeva complici.

Ma le cose non potevano restare così per sempre. Bastava un niente per capovolgere nuovamente la situazione, ed io non ero in grado di camminare sul filo come un’equilibrista senza cascare da un lato o l’altro della situazione. Infatti, non appena sentii il fiato caldo di Edward soffiare sulla mia guancia mentre si avvicinava a me per vedere il risultato di uno scatto fotografico, mi allontanai bruscamente.

«Abbiamo visto tutto?», chiesi, senza voltarmi a guardarlo e risistemando la macchina fotografica nella borsa.

Edward esitò per un istante, poi annuì.

Tornammo alla macchina nel silenzio più totale, e mi bastò un’occhiata a lui per capire che aveva capito benissimo che la situazione fra di noi non avrebbe mai potuto tornare come ai vecchi tempi. Potevamo solo cercare un nuovo equilibrio - se mai avesse potuto esistere un equilibrio nella nostra situazione - e convivere con il nostro passato.

Il sole stava lentamente compiendo la sua discesa verso l’orizzonte quando tornammo sulla Route 66. Il cielo si stava dipingendo di rosso e arancione, lasciandosi alle spalle il blu scuro della notte, che nel giro di poco avrebbe inghiottito l’Illinois. Quando raggiungemmo la nostra ultima tappa di quel giorno era già calato il buio, e le luci della città capoluogo dello Stato brillavano di luce propria fra i palazzi e le strade. Eravamo arrivati a Springfield.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giornooo! :D

Anche questa settimana sono stranamente puntuale. Bella ed Edward hanno iniziato a spostarsi, e sono arrivati fino a Springfield.

Piano piano vengono fuori alcuni dettagli sulla loro relazione, e presto si capirà cos'è davvero successo fra di loro.

Spero di riuscire a essere puntuale anche settimana prossima!

Grazie a tutti coloro che hanno recensito gli scorsi capitoli e che hanno inserito la storia fra le seguite/preferite/ricordate! Grazie anche ai lettori silenziosi!

A presto! :***

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Capitolo 4
*** Escape ***


Route 66

In another life I would be your girl,

We keep all our promises be us against the world.

In another life I would make you stay,

So I don't have to say you were the one that got away.

The one that got away.

Katy Perry - The One That Got Away

04. Escape

La fiammella della candela tremolò al soffio del mio respiro, e mi allontanai leggermente, onde evitare di spegnerla a causa di un sospiro più forte degli altri; in ogni caso presto si sarebbe spenta, visto quanto era ormai consumata; di certo non sarebbe durata più di un’altra ora. Dovevo solo avere un altro po’ di pazienza, nient’altro. Ero sicura che nel giro di poco quello sbuffo si sarebbe trasformato in un broncio, e subito dopo in un sorriso felice. Dovevo solo resistere.

Vidi la cameriera avvicinarsi per l’ennesima volta; c’era qualcosa di differente sul suo viso, rispetto a quando si era avvicinata minuti prima: il suo viso era privo di espressioni, il finto sorriso che rivolgeva ai clienti era sparito. Prese il cestino del pane, che avevo svuotato quando i crampi allo stomaco avevano iniziato ad essere troppo insistenti per essere ignorati ancora a lungo, e mi guardò con un’aria di disapprovazione.

Mi raddrizzai meglio, credendo che la sua occhiata fosse rivolta alla mia postura ricurva sul tavolo, inadatta al luogo elegante in cui mi trovavo. Feci un sorriso imbarazzato, e le chiesi se era possibile avere dell’altra acqua e un altro po’ di pane.

«Purtroppo le devo chiedere di liberare il tavolo», disse, ignorando la mia domanda.

Guardai il tovagliolo dall’altra parte della tovaglia, ancora graziosamente piegato a formare un fiore in boccio che aspettava solo di essere aperto e adagiato sulle gambe del mio accompagnatore, non ancora arrivato.

«Non… non posso restare ancora qualche minuto?», domandai, stringendo in grembo il cellulare, che non dava segni di vita da più di un’ora. «Per favore», aggiunsi, e il viso della cameriera mostrò una traccia di sentimento. Qualcosa di simile alla compassione, pensai; forse aveva capito in che situazione mi trovavo, e anche lei l’aveva passata.

Si allontanò senza dire niente, ed io ne approfittai per comporre velocemente il numero di telefono. Per un secondo sentii solo silenzio dall’altra parte della linea, ed ero quasi sicura che presto avrei sentito il familiare tu-tu che annunciava la chiamata avviata, ma subito dopo le mie speranze si infransero quando la voce metallica di una donna annunciava la segreteria telefonica. Chiusi la chiamata con un gesto nervoso, e rigettai il cellulare nella borsa. Morsi con forza il labbro inferiore, alzando il viso e aprendo per bene gli occhi, cercando di trattenere le lacrime suscitate dall’irritazione.

E proprio in quel momento la vidi. La figura della caposala, vestita in uno sgargiante vestito bianco, che si avvicinava con passo deciso a me, in viso un sorriso di cortesia che rivolgeva a tutti i clienti. Tutti, tranne me.

«Signora-»

«Signorina», la corressi, abbassando lo sguardo per nasconderle i miei occhi lucidi. Non valeva la pena rendermi ancora più ridicola davanti a tutte quelle persone.

«Signorina. Purtroppo le devo chiedere di liberare il tavolo. Abbiamo alcune prenotazioni da rispettare, e se lei non ha intenzione di ordinare ci vediamo costretti a chiederle di andarsene». Le sue parole erano sicure; mi chiesi se avesse mai avuto modo, prima di me, di dirle a qualcun altro.

I miei occhi vagarono oltre la sua figura, verso l’ingresso del ristorante. Scorsi il bancone, e una coppia di signori vestiti elegantemente. Di lui nessuna traccia.

Sapevo che non avevo più alcuna possibilità di riuscire a rimanere al ristorante. Erano passate quasi due ore da quando ero seduta al tavolo, avevo spiluccato tre cestini di pane e burro, e di lui non c’era ancora nessuna ombra. Nessuna chiamata, se non quella che mi aveva fatto un’ora e mezza fa, nessun messaggio. E di rimanere lì non se ne parlava: l’appetito era stato colmato da tutto il pane che avevo mangiato, e la delusione aveva cancellato ogni altra sensazione.

Mi liberai del tovagliolo, e raccolsi la borsetta. La caposala mi osservava attentamente, quasi temesse che potessi tornare a sedermi non appena lei avesse voltato le spalle e distolto lo sguardo dalla mia figura. Indossai il cappotto velocemente, cercando di non incrociare gli sguardi della gente seduta vicino a me, che ogni tanto mi lanciava occhiate incuriosite. Potevo immaginare i loro pensieri: “Chissà cosa ci fa seduta lì da sola da tutto questo tempo.” “Sicuramente il tipo con cui doveva uscire le avrà dato buca. Poverina.”

Seguii la caposala attraverso i tavoli, tenendo lo sguardo basso, senza avere il coraggio di guardare nessuno. La fila oltre la porta d’ingresso era lunga, si annidava fino a quasi l’intero isolato; avrei voluto evitare di passarle accanto, avrei voluto prendere un taxi per tornare a casa, ma al tempo stesso non volevo fare ritorno in quell’appartamento occupato da una coppia che in quel momento stava sicuramente amoreggiando sul divano, davanti alla tv ancora accesa.

Strinsi i pugni dentro le tasche del cappotto, accelerando il passo. Avevo immaginato una serata diversa. Lui aveva promesso una serata diversa. Avremmo dovuto essere solo noi due, una cena al lume di candela in uno dei ristoranti più esclusivi di Chicago e per finire una notte da passare insieme. Invece come al solito qualcosa doveva andare storto, e ormai avevo incominciato a convincermi che fosse lui a lasciare che succedesse. Mi rifiutavo di credere che fosse diversamente. Se una persona vuole davvero qualcosa fa di tutto per averlo, non lascia che le imprevedibilità si frappongano fra lui e il suo desiderio.

Sentii il piede tremare all’ennesimo passo, e mi costrinsi a rallentare l’andatura, prima di cadere rovinosamente a terra a causa di una slogatura. L’ospedale in quel momento era l’ultimo posto in cui sarei voluta entrare. Maledissi la mia insana idea di indossare i tacchi, e maledissi anche lui, e le sue parole sussurrate all’orecchio quando mi diceva che adorava quando li indossavo; maledissi perfino me, che anche quella volta ero rimasta così male nel non vederlo arrivare.

Non pensarci, Bella. Me lo dicevo ogni volta che sentivo il bisogno di piangere, quando le lacrime diventavano troppo dolorose per essere versate. Non volevo stare male per lui, ero stanca di quella situazione. Avevo bisogno di lui, non della sua assenza. Non capiva quanto mi faceva male con il suo comportamento?

«Ehi, Bella!»

Mi fermai in mezzo al marciapiedi e mi voltai di scatto, mentre sentivo la speranza rinascere improvvisamente nel profondo del mio cuore.

Qualcuno stava correndo verso di me. Proveniva dalla direzione del ristorante da cui ero uscita poco prima, e di cui avevo superato la fila da pochi metri.

«Per fortuna sei tu, non ero sicura di averti riconosciuta», disse la persona, arrivando a pochi passi da me. Il suo sorriso si spense non appena osservò il mio viso. «Bella, stai bene?»

No, non stavo bene. Ero sicura di avere il viso pallido, e i miei occhi erano allo stremo delle loro forze di resistere alla tempesta di lacrime che sentivo ormai prossima alla caduta.

Abbozzai una scusa smorzata, e mi voltai, riprendendo a correre, per quanto i tacchi me lo permettessero, mentre le lacrime scivolavano lungo le mie guance, sciogliendo il trucco che velocemente striava la mia pelle.

 

Toc toc

«Bella?»

Un momento di silenzio, il tempo di capire che non avrebbe ricevuto alcuna risposta.

Altri colpetti leggeri alla porta. «Bella, è ora di andare. Sei sveglia?»

Nemmeno quella volta risposi. Rimasi distesa nel letto, osservando le macchie di sole sul soffitto, che ogni minuto che passava si allungavano sempre di più; in poco tempo avrebbero rischiarato l’intera stanza, nonostante le tende tirate.

Non volevo alzarmi da quel letto, e non volevo nemmeno rivedere la faccia di Edward, non dopo il sogno di quella notte. In quel momento avevo due possibilità: restarmene in quella stanza finché lui non avesse capito che avevo cambiato idea sul viaggio, prendere un biglietto dell’autobus per tornare a Chicago e riprendere in mano la mia vita da dove l’avevo lasciata; oppure potevo alzarmi da quel materasso, aprire la porta e affrontare un altro giorno con lui.

La seconda opzione non mi pareva allettante. Anzi, mi faceva provare un vago blocco alla gola, una sensazione di ansia generata da troppe esperienze negative.

Il cellulare sul comodino vibrò. Lo presi in mano, e guardai il nome di Edward illuminare lo schermo. Accettai la chiamata, e portai il ricevitore all’orecchio.

«Bella? Bella, sei in camera?»

La sua voce sembrava turbata, e mi sembrò di sentirla anche dall’altro lato della porta. Probabilmente era ancora lì davanti ad aspettarmi.

Perché non sei venuto alla cena?, avrei voluto chiedergli. Perché mi hai lasciata sola?

Ma non potevo. Il tempo per le domande era terminato da tempo, e non avrei più dovuto riaprire quel dannato argomento.

Tuttavia, sentire la sua voce mi fece sentire in parte meglio. Odiavo che ancora dopo tutto quel tempo riuscisse a produrre quell’effetto su di me; mi chiesi se sarebbe stato per sempre così.

«Sì», sussurrai, con la voce ancora arrochita dal sonno. Deglutii un paio di volte, per reidratare la gola secca.

Sentii un respiro più profondo dall’altro lato del ricevitore. «Cominciavo a pensare che fossi partita e mi avessi lasciato qui da solo», commentò, con un tono volutamente allegro.

Non risi, e non commentai. «Mi dispiace, mi sono svegliata solo ora. Non ho sentito la sveglia», mentii. In realtà, la sveglia era scattata mezz’ora prima, quando io ero sveglia già da un pezzo dopo essermi risvegliata dal mio sogno.

«Ti aspetto nella hall per fare colazione, allora», disse lui.

Annuii, e chiusi la chiamata. Aspettai alcuni secondi prima di alzarmi dal letto, giusto il tempo per rinchiudere i brutti ricordi nel cassetto, e prepararmi mentalmente a rivederlo.

Non potevo abbandonare questo viaggio prima ancora che cominciasse. Speravo solo di allontanarmi il più presto possibile dall’Illinois, così da avere un motivo in più per non avere la tentazione di tornare indietro a gambe levate.

 

Il viaggio in macchina quella mattina fu piuttosto strano. Edward rimaneva silenzioso la maggior parte del tempo, ma ogni tanto spezzava il silenzio con qualche domanda, cercando di farmi parlare. Io rispondevo tentennando, con frasi breve e concentrate sull’argomento in questione, senza divagare.

Quando vidi il cartello che segnava l’ingresso nel Missouri, e di conseguenza la fine dello stato dell’Illinois, tirai un sospiro di sollievo. Meno uno Stato; non eravamo molto lontani da Chicago, ma non eravamo nemmeno a due passi da lì; se avessi voluto tornare indietro probabilmente un autobus non sarebbe bastato a quel punto, e di sicuro avrei impiegato molto tempo: un motivo in più per non prendere quella decisione. Dovevo lasciare andare Chicago almeno per un po’; dovevo concedermi del tempo, anche se quello significava affrontare un viaggio con Edward, che inevitabilmente riportava alla luce i ricordi della città. In fondo speravo anche che quel viaggio avrebbe generato nuovi ricordi che avrebbero seppellito quelli vecchi, desideravo diventassero un cerotto in grado di coprire quella ferita ancora sanguinante del nostro passato insieme. Sapevo che era un desiderio irrealizzabile, perché almeno finché non avessi avuto la forza di disinfettare i tagli questi non si sarebbero mai potuti cicatrizzare.

«Una bottiglia di ketchup gigante?», ripetei, guardando con le sopracciglia aggrottate l’appunto sull’itinerario di viaggio.

«Curioso, vero? Era un serbatoio d’acqua una volta», spiegò Edward, mentre ci avvicinavamo alla cittadina di Collinsville, poco distante da Saint Louis.

«Ma non capisco il senso di dargli la forma di bottiglia di ketchup. Non bastava un normale cassone bianco?», ribattei, accigliata.

Lui storse la bocca, e lo vidi per la prima volta senza una risposta pronta. «Immagino fosse per motivi pubblicitari».

«Non ci credo, Edward Cullen non conosce la spiegazione ad una curiosità sulla Route 66. Sono sconvolta», scherzai, sorridendo per la prima volta quella mattina.

Fece un sorriso imbarazzato, e si grattò la nuca, segno che era a disagio. «Non si può sapere tutto, no?»

Fece una breve pausa, pensieroso. «Sono sicuro che quando saremo lì ci sarà scritto da qualche parte il motivo per cui ha quella forma», rimbeccò, deciso a non darmela vinta.

Mi voltai a guardare il panorama scorrere fuori dal finestrino, mentre un piccolo sorriso piegava le mie labbra, e sul vetro vidi anche il riflesso di Edward, sorridente.

 

«Credo che questo sia il pezzo di strada più bello che abbiamo percorso finora», commentai, mentre scattavo la foto dal bordo strada.

Edward annuì distrattamente, mentre osservava il suo cellulare appoggiato al cofano dell’auto.

La zona di Hooker in cui ci trovavamo era particolare. Per costruire la strada era stata demolita parte di un assembramento roccioso che attraversava il territorio, e la pietra era stata tagliata di netto il giusto indispensabile per poter stendere i due lembi di asfalto per le carreggiate, separate da una striscia di erba verdissima. Lungo le pareti rocciose muschi e piante rampicanti avevano intrapreso la loro salita e discesa, nascondendo la pietra nuda sotto la loro coltre naturale, rendendo quel passaggio ancora più bello. Sulle cime le fronde degli alberi gettavano ombra sul cemento chiaro, vecchio e consumato.

Ci eravamo lasciati Saint Louis alle spalle già da due ore, e la strada era diventata sempre più ricurva, si era allontanata dalla superstrada, e ci aveva immersi nel verde delle foreste.

Una volta risaliti in auto e ripreso il nostro viaggio, la strada si fece più stretta, fino a diventare un’unica carreggiata per entrambe le corsie. Il bosco si richiuse su di noi, lasciando sprazzi di luce che filtrava attraverso il fogliame fitto. Un cartello indicò la presenza di un’attrazione panoramica della Route, ed Edward parcheggiò l’auto sul ciglio della strada, appena prima di una curva.

Appena scesi dalla jeep, il primo rumore che sentii, oltre al silenzio naturale della foresta, fu quello dell’acqua corrente. Era un suono piacevole, che mi ricordò i giorni passati con mio padre al fiume, quando lo accompagnavo a pescare, e anche… anche di quando andavo con Edward in campeggio lungo uno dei piccoli corsi d’acqua che percorrevano l’Illinois.

Cacciai dalla testa quel pensiero e iniziai a camminare, svoltando oltre la curva davanti a me. Mi ritrovai all’inizio di un vecchio ponte di ferro, in vari punti arrugginito, che attraversava un piccolo fiume. La struttura sembrava vecchia e decadente, e un brivido di panico corse lungo la mia schiena.

«Questo è il Devil’s Elbow Bridge», annunciò Edward, raggiungendomi.

«Sembra uno di quei ponti che fanno vedere nei film dell’orrore o nelle serie tv come Supernatural», commentai, avvicinandomi cautamente alla balaustra. Sotto, l’acqua non sembrava troppo profonda, ed era sporca. «E il nome di certo non migliora l’opinione che ho di questo posto».

Edward ghignò. «Si chiama così per via dell’angolo che compie il fiume in quel punto», disse, ed indicò con un dito la curva a gomito che compiva pochi metri più in là il letto del fiume alla nostra sinistra. «Non perché sia un posto infestato dal diavolo o chissà cosa», aggiunse, sempre con quel sorriso divertito in volto.

Scrollai le spalle. «Non importa. Tu ringrazia solo che è pieno giorno, perché se fosse buio ti costringerei a tornare di corsa indietro e ti farei aspettare domattina per attraversare questa cosa».

Lui scosse il capo, sorridendo. Aspettò che facessi le foto al ponte e il fiume, poi tornammo all’auto. Appena mise in moto esposi il mio dubbio: «Sei sicuro che questo coso regga il peso della macchina…?»

«Immagino che lo scopriremo presto», mormorò Edward, svoltando l’angolo.

Man mano che ci avvicinavamo alla struttura di ferro mi sentivo sempre più inquieta. Quel ponte sembrava troppo vecchio per poter reggere il peso di un’automobile con due persone a bordo. In più avevamo le nostre valigie e i barattoli di sciroppo d’acero che sicuramente aumentavano il nostro carico.

«Ti prego, puoi andare un po’ più velocemente?», lo pregai, vedendo che prendeva il tragitto fin troppo lentamente. Persino a piedi ci avrei messo di meno, probabilmente.

Prima attraversavamo, prima eravamo salvi.

«Vuoi che rischi di schiantarmi contro le ringhiere?», ribatté Edward. Era troppo calmo. Anzi, si stava addirittura divertendo.

«Per favore. Non hai mai fatto un incidente in vita tua, sono sicura che puoi passare questo ponte senza rischiare di urtare nulla», sbottai, allacciando le dita intorno al maniglione della portiera, come se potesse essere un salvagente in caso di crollo del ponte.

«Meglio non rischiare», disse semplicemente lui. Presi in considerazione l’idea di tirargli una gomitata nelle costole, ma il terrore di fargli accidentalmente cambiare rotta col volante mi immobilizzò contro il sedile. Del resto il ponte era stretto, ad un’unica corsia, e non aveva molti metri di margine d’errore.

Non eravamo nemmeno arrivati a metà del tragitto. Sotto di noi vedevo l’acqua marrone, infangata, che scorreva tranquilla. Avrei tanto voluto scendere e correre dall’altra parte del ponte, e aspettare lì. La mia era una paura irrazionale, lo sapevo bene; in fondo sapevo che se il ponte era ancora aperto al transito era perché non era considerato un pericolo; ma del resto quante volte avevo sentito alla redazione del giornale o per televisione di ponti che crollavano all’improvviso, a causa di eventi improvvisi e incontrollabili, oppure perché i controlli non erano regolari? Mi chiesi quando fosse stata l’ultima volta in cui quel ponte era stato revisionato, per accertarsi che non fosse in pericolo di crollo. Scacciai quella domanda dalla mente appena ricordai le parole di Edward riguardo il fatto che la Route 66 fosse una strada in decadenza abbandonata da tutti.

Arrivati a metà ponte la macchina si spense. Mi voltai verso Edward, agitata.

«Che succede? C’è qualche problema? Non dirmi che abbiamo finito la benzina, ti prego», dissi tutto d’un fiato, vedendo davanti agli occhi le più disparate possibilità. Ero già con il telefono in mano quando Edward parlò.

«No. Mi sono fermato solo per dimostrarti che questo ponte è perfettamente resistente e funzionante. Vedi? Nessun tremolio o cose varie». La sua voce era carica di divertimento.

«Magnifico. Ora possiamo andare avanti?», sbottai, senza lasciare andare la portiera.

Avrei tanto voluto tirargli una gomitata per togliergli quel ghigno divertito dalla faccia, ma decisi di rimandare la mia vendetta a più tardi, quando saremmo stati entrambi con i piedi per terra e il motore dell’auto spento.

Con mio grande sollievo, girò la chiave nel cruscotto, e la jeep riprese vita con un rombo soffocato. Vidi la sua gamba muoversi mentre avvicinava il piede al pedale dell’accelerazione, ma si fermò.

«Oh», disse.

Inarcai un sopracciglio, e guardai oltre il parabrezza. Il panico aumentò. C’era un’auto - no, non un’auto, un macchinone; una di quelle jeep gigantesche con i vetri oscurati e le ruote enormi, che facevano concorrenza a quelle di un autobus - davanti a noi. Aveva entrambe le ruote anteriori sul ponte, e si era fermata appena all’inizio, a pochi metri da noi.

Mi voltai verso Edward, agitata. «Cosa facciamo?»

Lo vidi accigliarsi. «Avremmo diritto di precedenza, visto che siamo già a metà ponte… ma sembra che questo bestione non abbia intenzione di muoversi di un centimetro».

«Quindi? Hai intenzione di scendere e dirgliene quattro?», chiesi, ansiosa.

Edward ingranò la retromarcia. «Direi proprio di no. In questi casi vale la regola ‘il più grande ha sempre la meglio’, e visto il bestione che guida questo tizio è lui che ha la meglio stavolta».

Mi voltai insieme a lui, terrorizzata all’idea di dover rifare metà ponte all’incontrario. Sapevo che Edward era un ottimo guidatore, ma la paura c’era comunque. Con calma, rifece in retromarcia il pezzo di ponte appena attraversato, e si accostò al bordo strada appena prima del passaggio di ferro. Il bestione si mosse in contemporanea con noi, venendoci incontro. Oltre il vetro non riuscivo a vedere chi era al volante della macchina a causa del riflesso, ma feci di tutto per mostrare un’espressione che la diceva lunga sui miei pensieri rivolti a lui in quel momento. Avrei tanto voluto alzare anche il dito medio quando passò accanto a noi, senza nemmeno degnarsi di alzare una mano in segno di ringraziamento quando avrebbe dovuto arretrare lui per farci passare.

«Che stronzo!», sbottai, seccata.

Edward reimpostò la marcia, e ripercorse il ponte, questa volta a velocità più sostenuta, forse per evitare l’inconveniente di poco prima. «Siamo solo al secondo giorno. Ne avremo di tempo per trovare altri mille automobilisti maleducati, quindi rassegnati».

Sbuffai, e affondai la schiena nel sedile, più rilassata rispetto ai minuti precedenti. Ero stanca. Il peso delle ore perse quella notte iniziava a farsi sentire, e non potevo nemmeno dormire perché nel giro di pochi minuti ci saremmo fermati a pranzare.

Probabilmente non mi sarei nemmeno accorta del fatto che avevamo attraversato il ponte senza alcun problema, se non fosse stato per il commento divertito di Edward: «Visto? Siamo arrivati dall’altra parte del ponte sani e salvi».

Schiaffeggiai leggermente il suo braccio, e sorrisi a mia volta. Forse, in fondo, quel giorno non sarebbe stato così terribile come si era preannunciato al mio risveglio.

 

Fortunatamente, il pranzo quel giorno durò poco. Ci fermammo a Saint Robert il tempo indispensabile per mangiare un panino e sgranchirci le gambe - soprattutto Edward, che si ostinava a voler essere l’unico guidatore -, poi risalimmo in auto alla volta di Lebanon. Per qualche strano motivo, era stato Edward ad insistere per riprendere a viaggiare presto; mentre eravamo seduti alla tavola calda aveva ricevuto una telefonata, ma lui l’aveva ignorata. Tuttavia, il suo cellulare aveva ripreso a squillare dopo pochi minuti. Gli chiesi perché non rispondesse - se lo chiamavano così insistentemente poteva essere per qualche motivo importante, dopotutto - ma lui liquidò la faccenda con un “Sono in vacanza. Il lavoro non rientra nella lista di cose di cui devo preoccuparmi.” La sua risposta mi aveva turbata e sconvolta. Non era da Edward dire una cosa del genere, non per una persona che aveva sempre considerato il proprio lavoro una priorità. Però lasciai cadere il discorso, soprattutto quando vidi che aveva perfino deciso di spegnere il cellulare prima di rimettersi in marcia lungo la Route.

Io ero stanca morta, e sentivo le palpebre pesanti, sul punto di chiudersi. Nemmeno il caffè e la bibita energetica che avevo bevuto prima di ripartire mi avevano aiutata a risvegliarmi.

Edward aveva notato la mia stanchezza, e quando commentò con un “E pensare che ti sei svegliata perfino più tardi di me” dovetti inventarmi la scusa di non essere riuscita a prendere sonno presto ieri sera. Cosa del tutto falsa, dato che subito dopo essere andati a cena in una tavola calda di Springfield ci eravamo ritirati ognuno nella propria camera perché eravamo entrambi stanchi morti; mi ero addormentata nel giro di pochi minuti, ed ero quasi sicura che l’avesse fatto anche lui.

In ogni caso, Edward non aveva fatto più altri commenti; aveva perfino abbreviato il più possibile la nostra visita al museo dedicato alla Route 66 di Lebanon-Laclede County, probabilmente notando il modo cadaverico in cui mi trascinavo da una sala esposizioni all’altra.

Quando risalimmo in auto erano le tre e mezza del pomeriggio, e il caldo soffocante, unito alla spossatezza del dopo pranzo e la stanchezza del sonno arretrato furono troppo. Mi addormentai appena Edward mise in moto, cullata dalle note della musica alla radio.

 

Quando mi risvegliai, lo feci di soprassalto, scossa da un sobbalzo dell’auto. Edward mi lanciò un’occhiata veloce, mentre i miei occhi vagavano da una parte all’altra e facevo mente locale.

«Mi dispiace averti svegliata. Non sono riuscito ad evitare la buca», mormorò, mentre mi guardavo intorno spaesata, cercando di capire dove eravamo e quanto avessi dormito.

«Non importa», bofonchiai, con la voce ancora strascicata. «Avresti dovuto svegliarmi quando mi sono addormentata. Come hai fatto a seguire la strada e la cartina al tempo stesso?»

«Per mia fortuna questo tratto è molto segnalato. Ci sono cartelli praticamente ogni cinque miglia, è difficile sbagliarsi».

Nascosi dietro la mano uno sbadiglio, e sistemai la cartina in ordine sulle mie ginocchia. «Dove siamo?», gli chiesi, guardando oltre il vetro per capire dove fossimo arrivati. Era pomeriggio quasi inoltrato ormai, dovevo aver dormito almeno un’ora.

«Quasi a Carthage, ovvero la nostra prossima tappa».

Sgranai gli occhi, e mi voltai a guardarlo. «Com’è possibile? Non stai correndo un po’ troppo?», aggiunsi, osservando con disappunto il contachilometri, che segnava una velocità decisamente superiore a quella tenuta da Edward fino a stamattina. Aveva sempre avuto la brutta abitudine di correre un po’ troppo con i motori, ma fino a questa mattina aveva mantenuto un ritmo abbastanza tranquillo, poco al di sopra del limite di velocità imposto e inferiore a quello che usava di solito. Pensavo si volesse godere la strada, dato che era stato il suo sogno per anni, ma forse questo non implicava tenere necessariamente una velocità bassa.

Edward strinse le labbra per un istante, poi sorrise. «In questo tratto non c’è molto da vedere. Voglio arrivare presto alla zona desertica, dicono che sia la più bella».

Inarcai un sopracciglio, scettica. Ma non dissi niente, perché sapevo che probabilmente mi avrebbe mentito ancora. Perché sì, avevo il presentimento che Edward mi avesse appena mentito. Avevo la sensazione che volesse allontanarsi il più possibile da Chicago, e pensavo anche che uno dei motivi potesse essere la chiamata che aveva rifiutato a pranzo. Stranamente il suo umore era peggiorato da quel momento, così come la sua fretta di andarsene dal Missouri, troppo vicino all’Illinois e quindi a Chicago.

«Hai idea di fin dove siamo arrivati? Abbiamo fatto un sacco di strada! Sei sicuro che non c’era niente in questo tratto?», domandai, agitata. Ero d’accordo con l’idea di allontanarci velocemente da casa nostra, ma non volevo che nella fretta ci perdessimo qualche luogo caratteristico lungo la strada; Edward aveva aspettato un sacco di anni per fare questo viaggio, e non volevo che lo rovinasse per la furia di allontanarsi da ciò che aveva lasciato a Chicago. E anche io iniziavo ad appassionarmi a questo road trip; vedere gli States era sempre stato uno dei miei sogni nel cassetto mai realizzati, e finalmente che ne avevo la possibilità non volevo sprecarla.

Edward annuì. «Guarda pure l’itinerario. Non c’era segnato niente di particolare, te lo assicuro». Fece una smorfia. «Probabilmente tutto quello che c’era qui è stato distrutto come quel motel a Saint Louis».

Si riferiva ad un motel ad ore un tempo molto famoso per la sua particolarità di avere un garage per ogni bungalow che garantiva la massima riservatezza alle coppie - spesso clandestine - che soggiornavano nelle stanze, permettendogli di non scendere dall’auto ed essere viste dalle altre persone. È stato demolito per far posto a quella che ora è una zona residenziale.

«Magari già ai tempi non era una zona molto particolare…», mormorai, cercando di risollevargli il morale. Era da quando avevamo pranzato che mi sembrava più abbattuto e arrabbiato del solito. I suoi cambi di umore mi facevano girare la testa, ma non potevo fargliene una colpa, non quando io per prima cambiavo atteggiamento nei suoi confronti ogni cinque minuti.

Edward non disse niente, ma dal modo in cui serrò la mascella capii che non era d’accordo con me.

Aprii il quaderno dell’itinerario, e lessi cosa si trovava a Carthage. Un Drive-In di quelli vecchi, ristrutturato solo recentemente.

«Andiamo a vedere un film?», gli chiesi, con la voce carica di aspettativa. L’idea di guardare un film alla vecchia maniera mi emozionava. Non ero mai stata in uno di quei cinema all’aperto da vedere a bordo delle proprie auto, e avevo sempre sognato un giorno di andarci. Non sapevo esistessero ancora.

Edward mi lanciò un’occhiata tentennante. «Se ci fermiamo per vedere un film dovremo restare qui per la notte…»

«Ed è un problema?», ribattei, accigliata. «Edward, abbiamo fatto già troppa strada oggi. Non sei stanco di guidare? Ci siamo fermati pochissimo, avrai i nervi a pezzi».

Lui rimase per un istante in silenzio. La strada scorreva intorno a noi velocemente. «Vuoi davvero fermarti a vedere un film al Drive-In?»

Annuii con decisione, e lui sospirò. «D’accordo».

 

Non ero mai stata in un Drive-In, e quindi non sapevo di preciso cosa avrei dovuto aspettarmi da quel posto. Sapevo che ci sarebbe stato uno schermo gigante con alcuni amplificatori disposti intorno al parcheggio per le auto, e anche che molto probabilmente all’ingresso avrei trovato un piccolo chiosco che vendeva bibite, pop-corn e altri spuntini. Quello che non mi aspettavo, era la grande quantità di auto che erano affluite velocemente nel parcheggio, occupandolo quasi del tutto. Io ed Edward eravamo arrivati con appena una mezz’oretta di anticipo, subito dopo aver finito di mangiare presso il ristorante adiacente al bed and breakfast che avevamo trovato in centro, e avevamo trovato - con nostra enorme sorpresa - una lunga fila davanti all’ingresso per comprare i ticket.

Trovammo posto in quinta fila, ed abbassammo i finestrini dell’auto, prendendo in considerazione l’idea di stendere una coperta sul cofano e sederci lì come facevano alcune persone, ma alla fine optammo per i comodi sedili della macchina, dove potevamo anche appoggiare le bibite senza rischiare di rovesciarle.

Il film in programma per quella sera era ‘Furore’, di John Ford: era un film in bianco e nero, degli anni Quaranta, che raccontava la vicenda di una famiglia ridotta in miseria dalla crisi, e che decise di mettersi in viaggio verso la California alla ricerca di una nuova vita. Era il tema perfetto per una proiezione in un Drive-In sulla Route 66.

«Buffo, vero?», sussurrò Edward dopo qualche minuto dall’inizio del film, mentre il protagonista convinceva i familiari ad andarsene dalla propria città natale. «Proprio il giorno che arriviamo noi proiettano questo film».

«Che intendi dire?», gli chiesi, non capendo. Ero convinta che i film sui viaggi su strada non fossero una novità per quel cinema all’aperto, anzi, che fossero all’ordine della settimana, quindi non riuscivo a comprendere a cosa si riferisse Edward.

«Beh, i protagonisti sono in fuga. Come noi», disse, e la sua voce era ridotta a un sussurro.

I miei occhi scivolarono dallo schermo al suo profilo, rivolto verso il film.

«Ma noi non abbiamo perso la nostra terra, Edward. Abbiamo ancora una casa dove tornare, e abbiamo lasciato indietro un sacco di persone che ci vogliono bene e hanno bisogno di noi», dissi. Non mi piaceva il suo tono. Era rassegnato. Non avevo mai visto un Edward rassegnato, non lui che era sempre stato una forza della natura, sempre pronto a vedere il bicchiere mezzo pieno anziché vuoto.

Annuì impercettibilmente, ma non ribatté.

Improvvisamente mi sentii allarmata. «Tu… hai intenzione di trasferirti a Los Angeles? Di non tornare più a Chicago?»

Il suo silenzio mi atterrì. Aveva davvero preso quella decisione?

«Ci ho pensato», sussurrò dopo una pausa che mi parve lunga un’eternità. «Non sarebbe male ricominciare tutto da capo».

«Ne hai parlato con Esme? L’hai detto a qualcuno? E poi perché dovresti farlo? Non è perché-» La voce mi mancò. Non si voleva trasferire da Chicago per via della nostra separazione, vero? Non poteva voler arrivare fino a quel punto.

«No, non l’ho detto a nessuno», rispose con voce calma. I suoi occhi incrociarono i miei. «E vorrei che non lo dicessi a nessuno. Nemmeno a Rosalie. Non voglio che Emmett venga a sapere cosa sto pensando di fare da qualcun altro».

«Ma perché? Perché vuoi andartene?», insistetti. Volevo saperlo. Dovevo saperlo.

I suoi occhi tornarono allo schermo gigante. Ormai la voce proveniente dagli altoparlanti era solo un sottofondo fastidioso. Avrei voluto insonorizzare l’abitacolo per non rischiare di perdermi una sola parola sussurrata da Edward. «Ho fatto troppi errori a Chicago. Forse è arrivato il momento che ricominci da capo, e non credo di poterlo fare in una città così piena di ricordi».

Lo guardai spaventata. Era già così sicuro? «Quali errori? Di cosa parli?»

Un’altra pausa. «Vuoi sapere qual è l’errore che più di tutti mi tormenta?»

«Certo», sussurrai prima ancora di potermi pentire delle mie parole.

Il suo sguardo incontrò il mio, e per un istante l’aria nell’auto mi sembrò troppa poca. Lui sembrava troppo vicino. «Sapere di averti persa a causa dei miei continui errori, e di non aver fatto nulla per riaverti quando potevo».

Distolsi lo sguardo in fretta, sentendo le guance avvampare e il cuore perdere un battito. Strinsi i pugni sulle cosce, costringendomi a guardare lo schermo e non incrociare il suo sguardo. «Per questo vuoi andartene? Per colpa mia?»

«No. Non solo», disse. «Ma ammetto che è il motivo che più di tutti mi tormenta».

Per un lungo momento restammo entrambi in silenzio, ognuno perso nei proprio pensieri. Non avevamo modo di scappare, io non potevo scappare.

«Perché non l’hai fatto?», sussurrai infine, dopo essermi ripetuta quella domanda nella mente per lunghi minuti. «Se davvero volevi riavermi perché non hai fatto nulla?»

«Mi avevi chiesto di non cercarti».

Mi voltai di scatto verso di lui. «Ti sembra una buona scusa?», ribattei, alzando di diverse ottave la voce. Non mi importava di avere i finestrini abbassati e di essere praticamente al cinema. Volevo una risposta vera, non una scusa campata in aria. «Se davvero mi volevi avresti fatto di tutto per convincermi che le cose sarebbero cambiate! Invece hai preferito lasciar perdere! Questo significa solamente che non ero abbastanza importante per te, nient’altro». La mia voce si era abbassata di parola in parola, fino a diventare un semplice sussurro.

Edward si voltò verso di me, e i suoi occhi erano tormentati. «Come puoi dire che non eri importante per me? Tu eri tutto. Lo sei sempre stata, fin da quando ti ho conosciuta. Ti ho lasciata andare perché mi avevi chiesto di farlo, e perché ero convinto fosse la cosa migliore per te, non per me».

«Adesso vuoi farmi credere che è stata tutta colpa mia? Che non ti sei più fatto sentire perché te l’ho chiesto io?», sbottai, amareggiata.

Mi lanciò un’occhiata contrariata. «Per quale altro motivo avrei dovuto farlo? Pensi che sia stato facile per me decidere di arrendermi senza nemmeno aver provato a combattere? Ma cos’altro avrei dovuto fare dopo quello che ti avevo fatto per tutto quel tempo?»

Le sue parole mi zittirono. I suoi occhi mi osservavano attentamente, agitati da sentimenti contrastanti. «Pensi che non abbia mai capito? Ho visto cosa ti avevo fatto, ma me ne sono reso conto troppo tardi. Non potevo sopportare di continuare a farti così male. Quando mi hai lasciato ho capito che avrei dovuto lasciarti andare, permetterti di vivere una vita felice e di trovare qualcuno che non ti facesse soffrire continuamente trascurandoti. Mi ero detto che se un giorno fossi riuscito a risolvere tutti i miei problemi e a trovare un equilibrio mi sarei permesso di farmi di nuovo avanti con te, ma non prima di allora, perché sapevo che se l’avessi fatto subito ti avrei costretta a subire quello che avevi già passato».

Nella macchina calò il silenzio. I nostri sguardi restarono incatenati per un lungo istante. Le sue parole aleggiavano nell’abitacolo, riportando alla galla ricordi ed emozioni che lentamente riemergevano dalla profondità del mio cuore e della mia mente, senza che io riuscissi a ricacciarli indietro e a richiuderli nel cassetto in cui avevo cercate di sigillarli tempo addietro.

«Quindi mi hai lasciata andare per il mio bene? Perché?», sussurrai.

Eppure sapevo già la risposta. Perché glielo avevo chiesto? Forse perché avevo semplicemente bisogno di sentiglielo dire ancora una volta, di appurare che quello che un tempo avevamo provato non era stato solo un sogno.

Le sue labbra si piegarono in un sorriso amaro. «Perché amare significa volere la felicità dell’altro. E tu con me non eri felice, Bella».

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salveeee! :D

Sono riuscita ad essere puntuale anche questa settimana, per fortuna! Spero di riuscire a continuare così XD

Ad ogni modo, sono contenta che la storia stia piacendo, anche se ho sempre il terrore di essere troppo prolissa nelle descrizioni dei luoghi visitati XD In questo capitolo le descrizioni non sono molte, si hanno più eventi che riguardano Edward e Bella e si inizia ad avere qualche dettaglio in più sulla loro vecchia relazione.

Grazie a coloro che continuano a recensire, che mi danno la spinta a continuare, e grazie anche ai lettori silenziosi che aggiungono la storia alle preferite/seguite/ricordate. Grazie! :*

A presto! :***

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Capitolo 5
*** The past always returns ***


Route 66

We won't say our goodbyes,

You know it's better that way.

We won't break, we won't die,

It's just a moment of change.

All we are,

All we are is everything that's right.

All we need, all we need,

A lover's alibi.

OneRepublic - All We Are

05. The past always returns

Il silenzio era sceso in auto come una spessa coperta insonorizzante, che aveva chiuso fuori tutti i suoni. Non sentivo nemmeno il chiacchiericcio del cinema, nonostante i finestrini fossero ancora completamente abbassati. Nella mia mente solo le parole di Edward spezzavano l’assenza di rumori, mandandomi in confusione.

Perché proprio quella sera dovevamo tirare fuori quell’argomento? Perché Edward aveva fatto quel commento sul film e le nostre vite?

Non ero ancora pronta ad affrontare quella situazione ed il passato, e temevo che non sarei mai stata in grado di farlo. La mia unica speranza era quella di poterlo lasciare andare, fino a giungere a scoprire un giorno che non faceva più così male e che ero riuscita a dimenticare quello che avevo provato per Edward.

Era una speranza vana, lo sapevo. Non era un caso che il detto dicesse proprio “il passato ritorna sempre”.

“Perché amare significa volere la felicità dell’altro. E tu con me non eri felice, Bella”. Le sue parole erano dolorose. Erano la sintesi del dolore mio e suo, fusi insieme. Anche lui era infelice in quel periodo della nostra vita? Sentiva come me che peso opprimente stava diventando la nostra relazione?

«E quando te ne sei reso conto? Prima o dopo che ci lasciassimo?» La mia domanda lasciò le mie labbra prima che potessi ricacciarla indietro. Avevo trattenuto tante domande fino a quel momento, per paura delle risposte e delle conseguenze, e non avevo ancora intenzione di affrontarle, per cui mi morsi la lingua, sapendo che ormai la bomba era stata sganciata.

Edward rimase in silenzio per un lungo istante. I miei occhi erano puntati sullo schermo gigante oltre il parabrezza, senza vederlo realmente. Il tempo mi sembrò congelarsi in quell’istante.

«Dopo», sussurrò.

Strinsi i pugni sulle ginocchia, sentendo un tonfo al cuore.

Quindi era vero. Non aveva mai capito niente, troppo preso dal suo lavoro per rendersi conto che tutto stava andando a rotoli. In poco tempo ero diventata così insignificante da non rendersi nemmeno conto di cosa mi stava facendo passare; troppo distante per ricordarsi di avere una fidanzata che si reggeva in piedi a mala pena e aveva bisogno di lui.

«Avevo capito che c’era qualcosa che non andava. Che noi non andavamo più bene come una volta», riprese, con la voce spenta, di chi è perso nei ricordi. «Ma stupidamente ero convinto di avere ancora tempo per rimettere a posto la situazione. Pensavo… che se fossi riuscito a finire in fretta quello che avevo iniziato al lavoro poi avrei avuto tutto il tempo per far tornare la nostra relazione come era una volta. È stata tutta colpa mia, mi dispiace».

«È un po’ tardi per le scuse, lo sai, vero?», sibilai, sentendo la rabbia montare a causa delle sue parole. Mi voltai a guardarlo. Aveva il capo inclinato e una mano stretta intorno alla bottiglia di birra. Sembrava combattuto.

«Cos’altro potrei dire, Bella? Lo so di averti ferito, e-»

«Smettila», lo interruppi. Non volevo più ascoltarlo, non volevo che altre parole si aggiungessero a quelle che ero certa non mi avrebbero fatto risposare anche quella notte. «È troppo tardi, non lo capisci?», sussurrai, sentendo la mia voce spezzarsi.

Faceva troppo caldo in quella macchina, l’aria era pesante e troppa poca per i miei polmoni contratti. Mi sentivo sull’orlo di un baratro scuro e profondo, che minacciava di inglobarmi come in passato. Avevo bisogno di scappare, e al più presto. Dovevo cercare di tenere i piccoli pezzi di me stessa insieme, e non potevo farlo con Edward così vicino e con la sua voce nel raggio del mio udito.

Afferrai la mia borsa, e aprii la portiera della jeep. «Ci vediamo domani mattina», dissi sbrigativamente, senza nemmeno voltarmi.

Scesi dalla macchina in fretta e furia, e attraversai il parcheggio colmo di ogni modello d’automobile tenendo lo sguardo puntato a terra, mentre i suoni del film ancora in riproduzione mi tartassavano le orecchie, impedendomi di pensare lucidamente.

Sapevo di essere al sicuro quando lasciai il Drive-In, in quanto era vietato abbandonare le auto senza nessuno a bordo durante la visione di un film, quindi Edward mi avrebbe potuta inseguire.

Fortunatamente, il Drive-In non era molto distante dal centro della città di Carthage, dove mi aspettava la mia camera di motel, piccola e vissuta, ma abbastanza confortevole. Appena mi chiusi dentro tirai le tende davanti alla finestra, e mi lasciai cadere sul bordo del letto. Sentivo il bisogno di piangere, ma non mi sarei concessa un simile sfogo; se avessi iniziato, ero quasi sicura che non avrei più smesso; sarei crollata in mille pezzi, e avevo paura che non sarei più riuscita a rimettermi insieme nel modo giusto.

Mi lasciai cadere all’indietro sul materasso, mentre i miei occhi osservavano il vuoto oscuro di quello che doveva essere il soffitto. E nel buio della stanza per qualche secondo riuscii a non pensare a quello che avevo appena fatto, ma quell’oblio durò solo per un istante, perché la dura realtà tornò presto alla carica.

L’avevo fatto di nuovo: ero scappata. Da Edward, dal passato, da ciò che provavo. Ma non avrei potuto farlo per sempre. E presto l’avrei scoperto.

 

Il mattino seguente mi svegliai presto. Senza aspettare Edward, andai alla tavola calda adiacente al motel, che serviva la colazione agli ospiti, ordinai i miei pancake con sciroppo d’acero, e feci colazione, decisa a fingere che la sera precedente non era successo niente. Edward ed io ci saremmo comportati nello stesso modo in cui ci eravamo comportati in questi giorni, tralasciando qualunque dettaglio potesse riguardare il nostro passato.

Edward arrivò alla tavola calda appena finii la mia colazione, e dopo aver ordinato la sua mi raggiunse al tavolo. Si sedette sul divanetto davanti al mio, e poggiò entrambe le mani sul ripiano beige di plastica.

I suoi occhi puntarono i miei, e notai le macchie violacee che li cerchiavano, che unite ai capelli più spettinati del solito e la barba di una giornata gli davano l’aspetto trasandato di chi ha passato la notte fuori di casa a divertirsi. Solo i vestiti, nuovi e puliti, mostravano qualche segno di cura per se stesso.

«Devi parlarti», disse, bloccando una mia mano contro il tavolo quando mi mossi per alzarmi. «È importante», aggiunse, notando la mia espressione contrita.

Mi appoggiai nuovamente allo schienale del divanetto, e allontanai la mano dalla sua, senza dire niente.

Edward prese un profondo respiro. «So di metterti a disagio ogni volta che parlo della nostra storia. E so che è troppo tardi per cercare di rimediare a quello che ho fatto», disse lentamente.

Distolsi lo sguardo dal suo, troppo intenso.

«Ma non possiamo continuare così, Bella. Siamo solo al terzo giorno e guarda come stanno andando le cose fra di noi. Non è così che dovremmo vivere questo viaggio. Ogni volta che parliamo è come se ci fosse una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, e non voglio continuare così».

«Quindi cosa proponi di fare? Di dividerci?», ipotizzai, trovandomi inspiegabilmente terrorizzata da quella possibilità.

«No. Abbiamo iniziato insieme, e dobbiamo arrivare fino alla fine insieme», rispose, e nella sua voce c’era tutta la sicurezza che io non avrei mai avuto. «Voglio che ricominciamo da capo».

La sua proposta mi fece risollevare gli occhi su di lui. Lo guardai, sorpresa e perplessa al tempo stesso.

«So che sembra impossibile», aggiunse, «ma…»

«Non sembra: è impossibile. Come pensi che potremmo riuscirci?», intervenni, vedendo quell’idea morire fin dal principio.

Un piccolo sorriso piegò le sue labbra, ma i suoi occhi rimasero seri. «Provandoci, tanto per incominciare. Poi vedremo come andranno le cose».

Scossi il capo. «È un’idea assurda».

Edward si sporse verso di me. «Pensaci. Sei tu quella che non vuole parlare del passato. Se ricominceremo da capo tutti i commenti sulla nostra storia non potranno esserci. Dovremo fare come se non ci conoscessimo affatto, e potremo vivere questo viaggio come due amici, senza più paura di dire qualcosa di sbagliato».

Lo guardai, mentre le sue parole filtravano lentamente nella mia mente, dipingendo uno scenario diverso da quello che avevo previsto per i prossimi giorni. Non saremmo mai riusciti a ricominciare davvero da capo, ma potevamo provarci. Inoltre, questo avrebbe tagliato fuori dai nostri discorsi qualunque discussione sul nostro passato insieme. La sua proposta sotto quel punto di vista mi appariva più appetibile di quanto suonasse strana e impossibile.

«Da capo, allora?», chiesi, ancora indecisa.

Lui annuì, mentre l’ombra di un sorriso gli piegava la bocca senza illuminargli gli occhi. Tese una mano verso di me. «Sono Edward Cullen, proprietario di una jeep e diretto verso Santa Monica. Piacere».

La sua presentazione mi fece sorridere, ed allungai istintivamente la mano per stringere la sua. «Isabella Swan, proprietaria di quattro confezioni di sciroppo d’acero e diretta verso Santa Monica. Piacere».

Una piccola scintilla di divertimento brillò nei suoi occhi, mentre stringeva la mia mano nella sua. «Vorresti essere la mia guida in questo viaggio?»

 

Dopo che Edward fece colazione ci mettemmo in marcia. Per quel giorno era previsto che attraversassimo ben tre Stati, compreso quello in cui ci trovavamo in quel momento.

La nostra ultima tappa nel Missouri fu un piccolo negozio conosciuto come Dale's Old Route 66 Barber Shop, a Joplin. L’insegna era nuova, e non capivo se il negozio era ancora effettivamente aperto con il barbiere al lavoro.

«Potresti entrare a farti fare la barba. Sbaglio o stamattina non l’hai fatta?», commentai, dopo aver scattato la fotografia alla piccola casupola bianca con le rifiniture rosse.

Edward ridacchiò nervosamente, e si grattò la nuca, a disagio. «No. Diciamo che è stata una nottata un po’ strana e stamattina non avevo voglia di farmela».

Tutto sembrava procedere bene fra di noi. I momenti di tensione non si erano ancora ripresentati, e mi sembrava di riuscire a parlare in modo più tranquillo e spigliato con lui. Forse era solo una mia impressione, ma per qualche breve istante pensai davvero che forse avremmo potuto ricominciare da capo, come semplici amici.

Tuttavia, c’erano anche momenti in cui pensavo che tutto quello che stavamo facendo non aveva alcun senso, come quando arrivammo nei pressi di Riverton, subito dopo aver scattato qualche fotografia ad un carro-attrezzi che aveva dato l’ispirazione ai creatori di Cars della Pixar per il personaggio di Cricchetto, appena oltre i confini che annunciavano lo Stato del Kansas. Avevamo trovato un piccolo negozio segnalato anche dalla guida di Edward, che vendeva alcuni souvenir riguardanti la Route 66; dato che fino a quel momento non avevamo ancora avuto modo di comprare nulla riguardante la strada, decidemmo di fermarci a dare un’occhiata all’interno. Pensavo di comprare qualcosa per Rosalie ed Alice, che avevo lasciato di punto in bianco a Chicago, dando a entrambe una misera spiegazione per telefono prima di andare a casa di Edward, ed entrambe, anche se mi avevano detto che accettavano la mia decisione di allontanarmi per un po’, ci erano rimaste molto male. Non capivano il mio bisogno di andarmene così in fretta e furia e per un tempo indeterminato, perché loro, a differenza mia, erano abituate ad affrontare le situazioni a testa alta; loro, al contrario di me, non scappavano. Ovviamente non me lo avevano detto, ma non c’era stato bisogno di parole: il tono della loro voce aveva spiegato tutto il necessario.

Mentre osservavo le varie cianfrusaglie esposte sui muri, raccontai ad Edward delle telefonate che avevo fatto alle mie migliori amiche, mentre lui si tratteneva dal fare commenti che lasciassero intendere che anche lui conosceva entrambe molto bene: Rosalie era la fidanzata di suo fratello, mentre con Alice aveva stretto un rapporto molto strano, quasi fraterno, durante il periodo in cui avevamo cominciato a frequentarci. Spesso, durante i primi mesi della nostra relazione, mi ritrovavo ad essere gelosa del loro rapporto: ero perfino giunta alla conclusione che si piacessero a vicenda, ma non volessero confessarmelo; avevo messo a rischio la mia amicizia con Alice per questo motivo, ma lei era riuscita a farmi cambiare idea e a tranquillizzarmi, soprattutto quando iniziò a frequentare un ragazzo, Jasper, con cui ora è felicemente fidanzata.

È stato in quel momento, mentre vedevo Edward fingere di non conoscere Rose ed Alice, che mi chiesi che cosa stavamo facendo. Non potevamo fingere di non avere niente in comune se non il viaggio, non poteva funzionare in quel modo.

Ma non dissi niente, e lasciai cadere il discorso sulle mie amiche decidendo di comprare a entrambe un paio di oggetti per la casa con il simbolo della Route 66 e il nome ‘Kansas’ inciso sopra di esso.

Subito dopo raggiungemmo Baxter Springs, dove visitammo il Baxter Springs Heritage Center and Museum, che conservava nel parco circostante alcuni oggetti antichi, compreso un vecchio carro-armato dei tempi della guerra. Rimanemmo quasi due ore nel parco, seduti all’ombra di un albero su una panchina mentre una famigliola straniera faceva il giro del museo. Edward era stanco, e mi ero rifiutata di riprendere il viaggio se non avesse riposato un po’, dato che non aveva alcuna intenzione di lasciarmi guidare la jeep. Erano anni che non guidavo: un tempo a Forks avevo un’auto, un vecchio pick-up, ma dopo che mi ero trasferita a Chicago papà aveva deciso di venderlo, perché a casa nessuno lo utilizzava e “presto comunque non si sarebbe più acceso perché troppo vecchio”, aveva detto. Così erano praticamente dieci anni che non toccavo un motore: in città me la cavavo con i mezzi pubblici, e fino a prima che ci lasciassimo era sempre stato Edward a guidare e a portarmi in giro. Era normale che non si fidasse abbastanza da lasciarmi prendere il volante, ma avrebbe potuto provare a insegnarmi nuovamente come guidare se aveva così tanta paura che non fossi più capace. Perciò ci limitammo a dare una veloce occhiata all’interno del museo, poi ci sedemmo sulle panchine sotto gli alberi del parco, in mezzo ai carri armati, le cabine di legno vecchio e le bandiere americane, a goderci l’aria fresca che soffiava fra le foglie e rendeva quella giornata altrimenti afosa piacevole.

Quando ripartimmo varcammo nuovamente altri confini, ed entrammo nello Stato dell’Oklahoma, dove la strada della Route 66 si restrinse per ben due volte fino a diventare poco più larga di due metri. Con due ruote sull’asfalto vecchio e logoro, e due sullo sterrato, procedemmo lentamente, attraversando le piccole cittadine, decisamente più frequentate di quelle incontrate nei giorni precedenti da quando avevamo lasciato Springfield in Illinois. Il tratto della Strada Madre che attraversava questo Stato affiancava nuovamente la superstrada, quindi era normale trovare un po’ più di vita nelle città che incontravamo.

A Vinita ci fermammo per pranzare in quello che è considerato il più grande McDonald’s del mondo, e subito dopo ripartimmo alla volta di Foyile, dove sostammo per un’altra mezz’ora: parcheggiammo l’auto e raggiungemmo a piedi Galloway Park, dove si trova un totem alto più di 27 metri, e dove ci sdraiammo sul prato a riposare gustandoci dei deliziosi frullati di frutta comprati in un piccolo chiosco. Sulla superficie del totem c’erano rappresentate immagini di nativi americani e animali, ed intorno ad esso ne sorgevano altri  più piccoli, che secondo la guida di Edward dovrebbero essere in tutto venticinque sparsi per il parco. Pare che il più grande fu costruito dall’uomo a cui è dedicato il parco, e che impiegò ben undici anni della sua vita per terminare la sua opera, sfruttando svariati tipi di elementi, dall’acciaio alla sabbia.

«Sarebbe bello visitare una riserva indiana», mormorai, ripensando al fatto che non ero mai stata in nessun tipo di riserva se non quella di La Push, vicino casa mia, che però al di là delle foreste preservate non custodiva più nulla della loro tradizione indiana.

Edward aprì un occhio per guardarmi, restando sdraiato con la testa poggiata sulla sua camicia arrotolata. La maglietta bianca con scollo a V aderiva al suo torace mettendo in risalto i muscoli. Distolsi lo sguardo.

«Non ce ne sono molte lungo la nostra strada. Mi sembra che ce ne sia una nel Grand Canyon, se vuoi possiamo andare lì. Ci sono anche delle cascate se non sbaglio», disse, alzandosi sui gomiti.

Sorrisi. «Non sarebbe male».

Lui annuì, e si mise a sedere, recuperando la camicia da dietro la schiena per scrollarla dall’erba. «Ripartiamo?», mi chiese, infilandosela e lasciandola slacciata. Si alzò in piedi, e mi tese una mano.

Scossi il capo in segno di assenso, e accettai la sua mano per alzarmi. Tornammo insieme alla jeep, e partimmo alla volta di Tulsa, la nostra destinazione per la notte. Ormai il sole stava tramontando, e avevamo ancora una tappa prima di poterci fermare definitivamente, e anche se non avevamo fatto molta strada da quando eravamo partiti quella mattina, l’afa di quel giorno di fine giugno ci aveva stancati più del solito. Inoltre Edward aveva solo sonnecchiato un po’, ma non aveva dormito per recuperare le ore di sonno perse quella notte per chissà quale motivo. Non gli avevo chiesto come mai avesse dormito poco la notte precedente: non capivo se era per via del film, che era durato chissà quanto, o per qualche altro motivo, e non sapevo se chiedergli o meno qualche informazione. Non aveva dormito a causa del nostro litigio - se così si poteva definire la discussione avuta ieri sera al Drive-In -, o perché aveva fatto qualcos’altro prima di tornare al motel?

Dannata curiosità.

Giunti a Catoosa, la nostra ultima tappa di passaggio per quel giorno, lessi il nome di ciò che dovevamo vedere: Blue Whale.

Aggrottai le sopracciglia, e seguii Edward giù dalla macchina, affiancandolo mentre percorrevamo una piccola via circondata da casette e alberi. «C’è davvero una balena qui?», gli chiesi, perplessa.

«Se si chiama così…», mormorò lui, lasciando la frase in sospeso e sorridendo leggermente.

Stavo per fargli un’altra domanda, ma proprio in quel momento arrivammo davanti ad una casupola in legno secco, dall’aspetto vecchio, con un piccolo porticato in cima al quale si trovavano due balene azzurre che si baciavano. Accanto, contro la rete che circondava la piccola area verde davanti cui ci trovavamo, c’era il cartello della Route 66 che segnalava un’attrazione della strada.

Il porticato portava ad un’area verde che circondava un piccolo laghetto, e sulla sinistra, distesa con la bocca che toccava terra, c’era una balena finta. Storsi la bocca, mentre l’occhio rosso dell’animale sembrava guardarmi dritta in faccia. Un piccolo scivolo bianco usciva dal suo fianco per arrivare fino allo stagno, e solo in quel momento notai le persone che nuotavano nell’acqua, rinfrescandosi. Sotto gli alberi, vicino alla riva, erano disposti alcuni tavoli da picnic, tutti occupati da persone che si facevano aria con ventolini elettrici, ventagli o giornali.

Raggiunsi il limitare del terreno, e osservai l’acqua stagnante. Neanche morta avrei potuto fare il bagno in un posto simile, poco importava quanto caldo facesse.

«Vuoi fare un tuffo?», ghignò Edward, alle mie spalle. Mi allontanai velocemente, ricordando la sua cattiva abitudine a fare scherzi come buttare in acqua la gente prima che se ne renda conto.

Alzai le mani, sulla difensiva. «No, grazie. Chissà cosa c’è lì sotto, meglio evitare».

Edward rise leggermente, e si avviò verso l’apertura della bocca della balena, che creava un passaggio sull’acqua che si estendeva fino alla coda, in mezzo allo stagno. Guardai con circospezione la bocca cerchiata di rosso e da denti finti, facendo una smorfia. Edward la vide, e sorrise: «Non ti piace?»

Scossi il capo, raggiungendolo sulla passerella all’aperto, che terminava nella coda. «Non è molto bella, secondo me. Perché si trova qui? A cosa serve?»

Lui infilò le mani nelle tasche dei jeans. «Pare che fosse stata costruita da un uomo come regalo a sua moglie, che collezionava oggetti a forma di balena. Una volta era un giardino privato questo, ma dato che in molti venivano comunque a fare il bagno in estate, alla fine il proprietario decise di trasformarlo in un luogo pubblico», mi raccontò brevemente.

Sorrisi al pensiero di un uomo che decide di costruire una cosa tanto grande per la propria moglie solo per farle un regalo che sia in comune accordo alle sue passioni; doveva amarla davvero.

Guardai Edward, con lo sguardo puntato verso il limitare del laghetto, perso in chissà quali pensieri. Il sole era ancora alto, ma aveva già iniziato la sua discesa verso l’orizzonte.

«Meglio se andiamo», disse a un certo punto, riscuotendosi. «Se raggiungiamo Tulsa prima che sia buio potremmo vedere già qualcosa della città».

Annuii, e lo seguii per tornare alla macchina.

 

Arrivammo a Tulsa con il sole ancora alto. La città sembrava stranamente frenetica, ed Edward ed io decidemmo di andare subito a cercare un motel dove lasciare giù le valigie per poi fare un giro a piedi. Tuttavia, c’era qualcosa di strano: le insegne dei motel indicavano tutte ‘NO Vacancy’, e dovemmo ripiegare su un hotel a tre stelle, che non coincideva proprio con le nostre aspettative, dato che avevamo fissato un budget massimo per quanto riguardava i pernottamenti. Edward parcheggiò la jeep nel parcheggio semideserto dell’hotel, e mi disse di aspettare in auto mentre andare a chiedere quanto sarebbe costata una notte in due singole. Quando tornò due minuti dopo, però, aveva una notizia che nessuno di noi si era aspettato.

«Ti prego, dimmi che stai scherzando», dissi, incredula.

«Purtroppo no», borbottò a denti stretti Edward, rimettendo in moto la jeep e immettendosi nuovamente nella strada.

«Ma non è possibile!», esclamai, nervosa. «Siamo in una città grande, è impossibile che tutti gli alberghi siano al completo!»

Edward sbuffò. «Te l’ho detto, c’è questo famoso festival di non so cosa qui vicino. Ogni anni sono previste centinaia di persone».

Trattenni l’istinto di sbattere la testa contro il finestrino. «Quindi adesso dove andiamo?»

Ero stanca di stare un auto, anche se quel giorno avevamo fatto relativamente poca strada. Avevamo perso parecchio tempo al museo prima di pranzo e in giro per il parco di Foyil nel pomeriggio, così ci eravamo ritrovati a fare poco meno di centocinquanta miglia in tutto. Non era molto, soprattutto in confronto a quante ne avevamo percorse nei due giorni precedenti, ma per me era abbastanza. Quel caldo non era il miglior compagno per un viaggio su strada, purtroppo.

«L’uomo di questo hotel mi ha dato un indirizzo. Non è un vero e proprio motel, ma temo che dovremo accontentarci per questa notte…», mormorò, imboccando una strada che conduceva fuori dal centro di Tulsa.

«Non sarà uno di quegli hotel a cinque stelle super lussuosi, vero? Io non ho intenzione di spendere un patrimonio per dormire una notte sola. Preferisco farmi altre miglia in un auto e trovare un motel piuttosto», protestai.

«Il primo motel libero è a più di venti miglia da qui, e non ho nessuna voglia di guidare ancora. A meno che tu ti metta a fare l’autostop dovrai venire con me, ed io vado dove mi ha mandato questo tizio, d’accordo?», borbottò, anche lui scontento.

Sbuffai pesantemente, e affondai la schiena nel sedile. «Va bene. Allora dove stiamo andando?»

«Lo vedrai quando arriveremo».

 

«Mi stai prendendo in giro?»

Furono le mie prime parole appena Edward varcò con l’auto l’ingresso di quella che sarebbe stata la nostra sistemazione per la notte.

«No», rispose lui, asciutto.

«Edward, io non ho intenzione di dormire in un campeggio», mi imposi, mentre lui parcheggiava la jeep accanto ad altre auto nella piazzola sterrata davanti alla riserva verde dedicata alle tende.

«Allora dormirai in macchina. Io di sicuro non ho nessuna voglia di farmi venire il mal di schiena perché non posso sdraiarmi. Non tutti sono piccoli come te e riescono a stare comodi sui sedili, lo sai?», ribatté. Il suo umore era peggiorato quanto il mio da quando avevamo ricevuto la notizia del festival che rendeva tutti i motel al completo.

Scese dalla macchina, e sbatté forte la portiera, facendomi sussultare.

Lo raggiunsi fuori, riluttante. «Almeno hai l’attrezzatura per il campeggio?»

Edward aprì lo sportello del bagagliaio, e spostò le nostre valigie fino a rivelare lo scomparto nascosto. «Certo. Avevo previsto una simile eventualità, quindi ho portato il necessario».

Sospirai pesantemente, e lo aiutai a trasportare l’occorrente per montare la tenda fin dentro il parco. Decidemmo di accamparci accanto al letto del fiume che scorreva pacifico al limitare della riserva, dove i cespugli e i tronchi degli alberi creavano una zona in disparte dalle altre tende.

Edward si accovacciò a terra, e iniziò a maneggiare le bacchette con la maestria di chi ha anni di pratica alle spalle. Sapevo che era stato suo padre a insegnargli tutto il necessario per il campeggio; era lui a portare lui e suo fratello fuori durante i weekend che non lavorava, per cercare di recuperare il tempo perduto durante la settimana. Quando entrambi i fratelli Cullen divennero grandi, poi, iniziarono anche ad andare in campeggio per conto loro. Io ero stata diverse volte con Edward in campeggio: spesso partivamo il venerdì sera e tornavamo solo la domenica, dopo aver trascorso tre giorni immersi nella natura e lontani da tutto e tutti, ma non avevo mai imparato a montare la tenda. In genere mi sedevo vicino a lui e lo guardavo mentre costruiva tutto, ma in quel momento non sapevo cosa fare.

«Hai bisogno di aiuto?», gli chiesi, non volendo restarmene con le mani in mano mentre lo guardavo lavorare.

«No. Ma potresti andare a comprare qualcosa per la cena. C’è un supermarket dall’altro lato della strada», rispose, senza voltarsi.

«Cosa prendo? Vuoi fare un barbecue?», domandai, ricordando la nostra cena tipica da campeggio. Vicino alla tenda non c’erano le pietre per il fuoco, ma sicuramente da qualche parte ce n’era qualcuna.

Lo vidi annuire leggermente. «Nel baule della macchina c’è anche la griglia. Sempre se per te va bene…»

«Sì, va benissimo», risposi subito, prima che cambiasse idea. Anche perché non avevo idea di cos’altro avremmo potuto mangiare se non della carne cotta alla griglia.

«Allora io vado», dissi, allontanandomi da lui.

Prima di sparire oltre gli alberi, però, mi voltai a guardarlo, e per un istante mi chiesi se il suo umore fosse dovuto ai ricordi che quella tenda portava con sé, e che lentamente ritornavano a galla.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno! :D

Ormai mi faccio l'applauso da sola quando riesco a essere puntuale con gli aggiornamenti, è un miracolo XD

Questo capitolo inizia dove l'ultimo finiva, come avete letto, e così sarà anche con il prossimo. Cosa succederà ora che Edward e Bella sono costretti a passare la notte in campeggio? Perché Edward è così di cattivo umore? Come sempre a tutto c'è una risposta :D

Grazie mille a coloro che recensiscono, perché mi danno la spinta a continuare la storia, e grazie anche ai lettori silenziosi, che continuano a leggere. Grazie anche a chi ha inserito la storia fra le preferite/seguite/ricordate, grazie, grazie, grazie :*

A presto! :D

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Capitolo 6
*** What do you want from me? ***


Route 66

And I still see your reflection inside of my eyes,

That are looking for a purpose,

They're still looking for life.

I'm falling apart, I'm barely breathing,

With a broken heart that's still beating.

In the pain is there healing?

In your name I find meaning.

Lifehouse - Broken

06. What do you want from me?

L’odore della carne cotta con le spezie era evaporato velocemente, presto rimpiazzato dal profumo dolce e rilassante del gelsomino notturno, di cui si trovavano alcune piante in mezzo ai cespugli che ci circondavano.

Ero uscita dalla tenda da alcuni minuti, mentre Edward dormiva profondamente ancora avvolto dal sacco a pelo. La notte era fresca, ma le temperature erano comunque alte, essendo inizio estate.

Mi sedetti sul tronco di legno, godendomi la leggera brezza che mi scompigliava i capelli e donava sollievo alle mie guance accaldate. Non ero riuscita ad addormentarmi, sdraiata nella stessa tenda che era testimone di tanti momenti felici trascorsi con Edward, e soprattutto non potevo prendere sonno quando lui era così vicino che riuscivo a sentire il suo respiro. Mi ero rifiutata di dormire nello stesso sacco a pelo, nonostante fosse abbastanza ampio da contenerci entrambi senza che ci toccassimo, e avevo deciso di avvolgermi nelle tante coperte che erano in auto. Edward non aveva opposto molta resistenza, probabilmente capendo i motivi. Il suo umore era stato pessimo per tutta la serata, e sembrava perso nei suoi pensieri. Più volte mi chiesi se anche lui, come me, stava rivivendo nella sua mente episodi passati di noi due insieme in campeggio; forse anche per lui non era semplice avermi così vicina. Scacciai quel pensiero quando ripensai al fatto che fosse stato lui ad invitarmi a intraprendere quel viaggio con lui e a proporre un’amicizia da capo: evidentemente per lui non era un problema avermi vicino, o forse solo adesso iniziava a fare i conti con quello che ciò significava.

Chiusi gli occhi, e massaggiai le tempie doloranti in un principio di mal di testa. Era l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento.

Perché non riuscivo a capire cosa avesse in testa Edward? Lui era sempre stato bravo a capirmi, a leggere la miriade di emozioni e idee che conservavo, mentre io ho sempre fatto fatica a capirlo. Era troppo bravo a nascondere i suoi sentimenti, sapeva indossare una maschera d’indifferenza che io non potevo neanche immaginare.

E lo odiavo per questo.

Odiavo il fatto che nonostante io facessi di tutto per imitarlo, per fingere che tutto andasse bene, che non provassi più nulla nei suoi confronti, i miei tentativi fallivano miseramente, rendendogli evidente quanto ancora soffrissi per quello che era successo fra di noi. Non volevo mostrargli quanto dolore provassi ancora, quanto sanguinante fosse la ferita che lui mi aveva provocato. Non volevo mostrarmi così debole e ancora succube di lui. Dovevo essere forte, e andare avanti. E per farlo non dovevo più pensare al passato, ma dovevo pensare a me stessa e al mio futuro; l’unico problema erano i ricordi: per quanto mi sforzassi, ogni volta tornavano a galla, tormentandomi.

Premetti i polsi sugli occhi, serrati con forza. Dovevo smetterla di piangere, soprattutto quando avevo Edward così vicino. Non poteva scoprire che provavo ancora qualcosa, perché così avrei solamente incasinato tutta la situazione. Eravamo già in un equilibrio precario, e a quel punto sarebbe bastata una semplice parola per mandare all’aria i tentativi di restare in piedi di quei giorni.

Rimasi immobile sul tronco per un tempo indeterminato, cercando di scacciare la preoccupazione e di trovare un minimo accenno di sonno per tornare a dormire, fino a quando una voce non mi fece sussultare, e spezzò la pace della natura.

«Bella?»

 

«Bella?»

Lasciai cadere le mani dal viso, e mi voltai verso la tenda. Edward era appena uscito, e mi osservava perplesso. I capelli erano scompigliati dal sonno, ma sembrava perfettamente sveglio.

«Che ci fai qui fuori?», mi chiese, avvicinandosi a piedi nudi sull’erba fresca.

Scrollai le spalle, voltandomi a guardare le pietre del focolare, che racchiudevano i carboni ormai spenti. L’unica luce era quella della luna, che si rifletteva sull’acqua del fiume, il quale scorreva tranquillo vicino a noi. Il suo scrosciare era piacevole, rilassante.

«Non riesco a dormire», risposi semplicemente, poggiando il mento sulle mie braccia incrociate.

Lui si sedette al mio fianco, imitandomi. «C’è qualcosa che non va?»

Mi irrigidii per un istante. «No», mentii. Anche quella volta aveva capito che avevo la testa altrove, ma come al solito non riusciva a comprendere quale fosse il motivo.

«Bella…», iniziò, con il tono che usava quando stava per rimproverarmi.

«Non c’è niente che non va, va bene?», sbottai.

«Allora perché non riesco a crederti?», ribatté lui. «È per l’altra sera? Ti ho spiegato cosa è successo…»

Scossi il capo. «Non è per l’altra sera…», borbottai. «Ne abbiamo già parlato di quello che è successo, e non voglio più tornare su quell’argomento».

«Allora cosa c’è?», insistette lui.

«Con chi eri al telefono dopo pranzo?», gli chiesi, dopo aver capito che non sarei riuscita a convincerlo a lasciarmi in pace.

Edward sussultò lievemente, sorpreso. «Con Esme», rispose, dopo un breve silenzio. «Voleva sapere come sta andando».

Mi voltai a guardarlo, nonostante mi fosse bastato il tono della sua voce per capire che stava mentendo. «Era l’ospedale, non è vero?», domandai, più che certa della risposta. «Ti hanno chiesto di tornare al lavoro».

Edward rimase in silenzio, e ciò mi bastò come risposta. Mi alzai in piedi, per allontanarmi da lui.

«Ho rifiutato», esclamò lui, alzandosi a sua volta.

Mi voltai a guardarlo, lasciando che la rabbia trattenuta da quel pomeriggio trapelasse. «Eravamo d’accordo, Edward! Niente lavoro fino a lunedì! Possibile che tu non riesca a smettere di pensare a quel dannato ospedale per un paio di giorni?!»

«Non ci ho pensato, infatti! Ma cosa dovrei fare quando mi telefonano? Poteva essere successo qualcosa di importante!»

In fondo sapevo che aveva ragione, che l’importante non era che avesse risposto al telefono ma che avesse rifiutato di tornare al lavoro, ma sapere che anche durante quella breve vacanza da soli il suo lavoro si era frapposto anche solo per pochi minuti mi faceva saltare i nervi. Ormai sembrava di vivere una relazione a tre: io, Edward e il suo lavoro, costantemente presente, che minacciava continuamente di allontanarlo da me.

«Avevamo deciso di tenere spenti i cellulari e di accenderli solo la mattina per controllare che non ci fossero messaggi. Non mi sembra che tu abbia ricevuto quella chiamata di mattina», continuai, ignorando le sue parole.

Edward si passò la mano sul viso, improvvisamente stanco. «Mi dispiace», disse, «non pensavo di ricevere delle telefonate, per questo l’ho lasciato acceso. All’ospedale sanno che sono in ferie, non dovrebbero telefonarmi, se non per cose importanti».

«Quindi non era importante il motivo per cui ti hanno telefonato oggi? Allora perché l’avrebbero fatto?», insistetti. Odiavo il suo lavoro. Odiavo litigare con lui anche nei pochi giorni insieme che avevamo, ma ormai sembravamo non fare altro.

«Lauren ha fatto il mio nome ad un chirurgo cardiotoracico che aveva bisogno di un assistente per un’operazione difficile. Per questo mi hanno chiamato», mi spiegò, brevemente.

«Lauren?», ripetei, stringendo i pugni. «Lauren Mallory?»

Edward fece un passo nella mia direzione, l’espressione grave. «Sì, la dottoressa di chirurgia plastica. Deve operare anche lei la paziente».

«So chi è Lauren Mallory», sbottai. «Se non te lo ricordi l’ho beccata che stava provando a stuprarti».

Edward sghignazzò, facendomi irritare ancora di più. Non era affatto il momento di ridere quello. «Non esageriamo. Stupro mi sembra una parola un po’ eccessiva».

«Ah, sì?», sibilai, sentendo il sangue al cervello solo ripensando alla situazione in cui li avevo trovati. «Come lo chiameresti tu? Ti ha sbattuto contro un muro, Edward. E poi ha cercato di spogliarti. Sono sicura che se cerchi sul manuale dello stupro perfetto quelle sono due delle fasi da compiere».

Edward scosse il capo, mentre un risolino lasciava le sue labbra. Si avvicinò a me, e chiuse la mano intorno al mio polso, gentilmente. «Il manuale dello stupro perfetto», ripeté, sorridendo divertito.

«Che c’è da ridere?», sbottai, senza però rifiutare il suo tocco.

«Niente», rispose, facendo scivolare le dita su per il mio braccio. Piccole scosse elettriche partirono da dove mi stava toccando, facendomi fremere.

«Non abbiamo ancora finito di discutere», gli ricordai, prima che si avvicinasse ancora di più.

Edward sospirò. «Mi dispiace, davvero. Non volevo rovinare il nostro weekend, è stato un caso che mi abbiano telefonato».

Nella poca luce, riuscii a scorgere nei suoi occhi sincero pentimento, e nonostante le mie reticenze, capii di averlo già perdonato. Non avrei voluto cedere così velocemente, ma le sue dita continuavano a scivolare lungo le mie braccia, fino ad arrivare alla mia guancia, provocando una scarica di brividi che correva lungo la mia schiena, distraendomi dal mio intento.

Premetti il viso contro la sua mano, facendo una smorfia. «Non vale così», bofonchiai.

«Così come?», domandò, fingendosi innocente. In realtà sapeva benissimo cosa stava facendo, conoscendo quella che sarebbe stata la mia reazione, e il sorrisino sulle sue labbra lo dimostrava.

«Lo sai», ribattei, lasciando che si avvicinasse ancora di più a me.

Edward chinò il viso verso il mio, e sfiorò con la bocca la mia fronte, leggero come una piuma. Chiusi gli occhi, lasciando che la rabbia evaporasse.

«Così, intendi?», sussurrò contro la mia pelle, scivolando piano verso uno zigomo.

Rilasciai un breve sospiro, mentre lasciava un piccolo bacio sotto l’occhio.

Passò la guancia, fino a sfiorare le mie labbra all’angolo. Un altro bacio.

«O cos-»

Non gli permisi di terminare, perché premetti la bocca contro la sua, facendolo tacere. Sentii il suo piccolo sorriso contro le labbra, e mi allontanai leggermente.

«Domani ne riparliamo», lo ammonii, guardandolo seriamente, decisa a non dargliela vinta totalmente.

Edward annuì, e tornò a baciarmi. «Domani», mormorò, mordendomi il labbro inferiore.

Allacciai le braccia intorno al suo collo, e le sue mani scesero lungo la mia schiena, fino alle natiche. Mi sollevò da terra, e chiusi le gambe intorno al suo bacino, gemendo quando sentii la sua erezione premere contro di me.

Allontanò le labbra dalle mie, piegando il capo per guardare il prato alle mie spalle, e iniziò a camminare verso la tenda. Mi mise a terra per farmi entrare, e non appena richiuse la zip della porta portai le mani al bordo della sua maglietta, sollevandola verso l’alto.

Lui alzò le braccia, aiutandomi a sfilargliela, e la lanciò in un angolo del piccolo spazio a nostra disposizione.

«Uhm…», mormorò, mentre mi seguiva sul sacco a pelo, «hai letto anche tu il manuale dello stupro? Perché credo che anche questo faccia parte delle fasi di cui parlavi prima», ghignò, infilando la mani sotto la mia maglia.

«Ma se sei tu che hai iniziato!», ribattei, mentre mi sfilava la maglietta.

Edward rise, e scese a baciarmi la clavicola, mentre allacciavo le dita all’elastico dei pantaloni da ginnastica che indossava.

«Se vuoi mi fermo», scherzai, giocando con l’elastico e abbassandoli di qualche centimetro.

«Per poi far fare la figura dello stupratore a me? No, grazie», rise contro la mia pelle.

Con la punta delle dita abbassò le spalline del reggiseno, e disegnò con la punta della lingua il profilo della mia spalla, scendendo con le mani fino ai miei fianchi. Mi fece sdraiare e si inginocchiò fra le mie gambe, infilando le dita ad uncino sotto l’elastico dei miei pantaloni. Li fece scorrere velocemente, e non appena sentii l’aria leggermente fresca della notte rabbrividii.

Edward se ne accorse, e accarezzò con i palmi delle mani le mie cosce, scacciando in parte la pelle d’oca. «Adesso ci mettiamo sotto la coperta, non preoccuparti», disse, con la voce roca ma premurosa.

Mi aggrappai al suo braccio e mi misi a sedere, arrivando davanti a lui. Infilai una mano fra i suoi capelli, spingendolo verso di me per baciarlo, e con l’altra mi aggrappai ai suoi pantaloni. Aiutata da lui riuscii a sfilarglieli, ed andarono a unirsi ai nostri vestiti, abbandonati vicino all’ingresso alla rinfusa.

Con una mano scostò il piumone del sacco a pelo e mi rifugiai al suo interno, seguita da lui. Era fatto per due persone, quindi era abbastanza ampio da contenere entrambi e ripararci dall’aria fresca.

Sentii le sue dita cercare il gancetto del reggiseno e chiusi gli occhi, lasciandomi andare.

Ai problemi avremmo pensato l’indomani; per quella notte volevo solo fingere che fosse tutto a posto e godermi la vicinanza di Edward, sperando che almeno per quel giorno il lavoro non me l’avrebbe portato via.

 

«Bella?»

Sbattei le palpebre un paio di volte, guardando confusa il viso di Edward, che mi osservava da davanti la tenda. Guardai i miei vestiti, ancora indosso, e l’erba verde: non c’era traccia di alcun focolare; in questo parco la zona riservata ai fuochi era lontano dai cespugli e il fiume, dove avevamo cenato quella sera. Quello di poco prima non era altro che un ricordo.

«Bella?», ripeté Edward, facendo un passo nella mia direzione, l’espressione preoccupata. «Stai bene?»

Strinsi i pugni lungo i fianchi, e mi morsi con forza il labbro, voltandomi nuovamente e dandogli le spalle. Perfino guardarlo ora era doloroso. Sentii le lacrime pungermi gli occhi.

«Sì», sussurrai, e la mia voce tremò. La schiarii, inutilmente. «Tra poco vengo a dormire».

Sentii dei passi sull’erba, e credetti che Edward era finalmente rientrato nella tenda, ma mi sbagliai. Lo trovai al mio fianco, e trattenni il respiro mentre si sedeva dal lato opposto del tronco, vicino a me.

«Non riesci a dormire?», sussurrò.

Scossi il capo, stringendo le mani in grembo.

Edward rimase in silenzio per un lungo istante, poi parlò. «Se è perché ci sono io, posso andare a dormire in macchina».

«Se non sbaglio siamo venuti in questo campeggio proprio perché non volevi dormire in macchina», sibilai, irritata dalla sua gentilezza. «Per quale motivo dovresti accettare di dormire sui sedili proprio adesso che siamo qui?»

«Perché sono passate tre ore da quando abbiamo spento il fuoco, ma tu non sei ancora riuscita ad addormentarti». Prese un breve respiro. «So che non è facile restare così vicini nella tenda anche per dormire, ma è solo per una notte».

Strinsi le labbra. «Per te è così semplice? Ho provato a dormire, ma non ci riesco», sbottai. «Non riesco ad addormentarmi sentendoti così vicino», aggiunsi, sottovoce.

Edward respirò profondamente. Non avevo il coraggio di guardarlo, e in quel momento maledissi quel dannato festival che ci aveva costretti a fermarci in un campeggio, e rimpiansi le camere d’albergo che mettevano fra di noi quattro mura.

«Va bene», disse lui dopo un breve istante, alzandosi in piedi. Lo sentii muoversi alle mie spalle, e poi il rumore di un sacchetto di plastica.

Mi voltai, confusa, e lo vidi mentre infilava nella busta del supermarket una bottiglietta d’acqua e alcuni cracker. Quando afferrò le chiavi della macchina capii cosa stava facendo. Mi alzai in piedi di scatto.

«Aspetta, no!», esclamai, alzando la voce e fregandomene delle altre persone che a qualche metro da noi potevano aver piantato una tenda ed essere addormentate. «Non devi andare a dormire in macchina».

Edward si fermò, e mi guardò con occhi stanchi e arrabbiati. «Quindi cosa proponi di fare, Bella? Preferisci che mi accampi sotto i cespugli qui fuori, così tu puoi dormire nella tenda sapendo che c’è un muro fra di noi? Oppure vuoi che resti qui a fare da guardia?»

Per qualche secondo mi sentii smarrita. Edward aveva perso le staffe. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo essere stata in compagnia del suo umore nero per tutta la serata ed averlo personalmente fatto scattare con le mie parole e il mio comportamento; ma l’avevo visto perdere il controllo così poche volte che non sapevo come affrontarlo ora. Di solito ero io quella che iniziava i litigi alzando la voce, lui era sempre stato pacato e riusciva a trovare qualcosa di divertente in ogni discussione, riuscendo così a tranquillizzarmi; ma quella volta non era così.

«No… certo che no», mormorai, sentendomi in colpa e al tempo stesso arrabbiata con lui.

In colpa, perché nonostante lui cercasse di essere gentile con me io rifiutavo la sua gentilezza, anzi la detestavo certe volte; arrabbiata, perché era stato lui a metterci in quella situazione scomoda, ed io non sapevo più cosa fare per mantenere in equilibrio quella nostra strana relazione.

«Allora si può sapere che cosa vuoi che faccia?», sbottò, alzando anche lui la voce. «Dimmelo, perché mi stai facendo diventare pazzo!»

Aprii la bocca, confusa e spaventata, ma lui non mi lasciò il tempo di parlare.

«Ogni volta che provo ad avvicinarmi tu mi respingi, ma appena mi allontano vieni da me. Quindi mi spieghi come dovrei comportarmi? Abbiamo deciso di ricominciare da capo, ma non mi sembra che la cosa stia funzionando granché».

Strinsi i pugni. «Stai dicendo che la colpa è solo mia? Credevi davvero che saremmo riusciti a fingere di non conoscerci? Come puoi pensare che dopo quello che abbiamo passato avremmo potuto ricominciare da capo? Pensa solo a questa dannata tenda: vuoi dirmi che guardandola non ti ricordi niente? Non ripensi anche tu a tutte quelle volte che andavamo in campeggio? A quando…» A quando facevamo l’amore in quel sacco a pelo?

La voce mi morì in gola, e mentre sentivo la rabbia evaporare lentamente le lacrime cominciavano ad accumularsi agli angoli dei miei occhi.

Edward aveva il respiro affannato, e gli occhi mi fissavano inquieti. Inalò l’aria fresca della notte, e quando parlò di nuovo lo fece con un tono di voce nuovamente calmo. «Certo che me lo ricordo, Bella. Non sei l’unica che deve vedersela con il passato, lo sai? Ma se non proviamo ad affrontarlo non potremo mai andare avanti», disse, duramente.

Strinsi i pugni lungo i fianchi. «Non c’è niente da affrontare. Dobbiamo solo dimenticare, non c’è un altro modo per andare avanti».

Edward sgranò gli occhi, e lasciò cadere a terra il sacchetto di plastica e le chiavi dell’auto. Si avvicinò a me con passo veloce, ed io arretrai, fino a trovarmi bloccata dai tronchi di legno distesi a terra. Edward si fermò a pochi passi da me, e il suo viso era buio, mentre la luce lunare creava un’aureola biancastra intorno ai suoi capelli scompigliati. Solo i suoi occhi sembravano brillare.

«Pensi davvero che dimenticare sia la soluzione migliore?», domandò, e nella sua voce lessi rabbia e angoscia.

Abbassai lo sguardo, sentendo ormai la rabbia scemare. «Di sicuro sarebbe più facile. Almeno non continuerei a pensare a quello che c’è stato fra di noi e quello che c’è ora».

Edward rimase in silenzio per un lungo istante. Mi chiesi se avevo scatenato un’altra ondata di rabbia da parte sua, e quando fece un altro passo nella mia direzione ero pronta a scappare. Non poter vedere il suo viso e leggere le sue espressioni mi metteva di fronte a una vastità di possibilità: era arrabbiato, confuso, ferito?

«Ferma», disse, non appena alzai il piede, pronta a scavalcare il tronco e allontanarmi da lui.

Mi immobilizzai. Dalla sua voce non traspariva rabbia, ma solo risolutezza.

Con una mano raggiunse la mia spalla, e il mio corpo si irrigidì all’istante. «Cosa vuoi fare?», sussurrai, sentendo ogni terminazione nervosa schizzare al contatto con la sua pelle.

Cercai i suoi occhi, trovando solo la macchia buia del viso.

«Voglio che affronti questa situazione», rispose, arrivando davanti a me. Il suo corpo mi sovrastava in altezza, nascondendomi alla luce della luna. «Abbiamo ancora molta strada da fare prima di ritornare a Chicago, e non possiamo continuare così. Devi smetterla di scappare ogni volta che mi avvicino, e c’è solo un modo per farlo».

Scossi il capo, e cercai di divincolarmi dalla sua presa. Tuttavia, non ebbi il tempo di farlo, perché le sue braccia si chiusero intorno a me, trascinandomi contro di lui.

Per un istante rimasi immobile, congelata dalla sorpresa e dalla strana sensazione di familiarità che quel contatto portò con sé; ma non appena mi resi conto di cosa stava succedendo frapposi le mani fra di noi, e le premetti contro il suo petto, cercando di allontanarlo. Edward non si mosse, ignorando le mie proteste.

«Lasciami andare», sibilai, piegando la testa all’indietro per cercare i suoi occhi.

Sentii il suo fiato caldo sulla pelle, e scorsi il suo viso. «No. Non finché non capirai che non serve a niente scappare dal passato. Solo accettandolo potrai andare avanti».

«Perché?», domandai, sentendo la disperazione nella mia stessa voce. «Perché devi sempre rendere tutto così difficile? Non ti basta quello che mi hai fatto un anno fa? Perché devi rovinare anche questo viaggio?»

Edward serrò la mascella. «Prima o poi sarebbe arrivato questo momento, Bella. Prima lo affrontiamo e prima potremo davvero ricominciare da capo».

Sentii le lacrime riempirmi gli occhi, e lasciai cadere le mie mani, arrendendomi al fatto che non sarei mai riuscita a liberarmi dalla sua stretta contro la sua volontà. Abbassai lo sguardo alla sua maglietta, grigia nell’oscurità. «Che cosa vuoi da me, Edward?», sussurrai, mentre una lacrima scivolava lungo la mia guancia. «Perché mi hai portata con te in questo viaggio?»

Avvertii il suo petto alzarsi e abbassarsi in un respiro profondo. «Perché voglio provare a rimediare a tutti gli errori che ho fatto», disse, con la voce così bassa che se non fossimo stati soli immersi nella natura non avrei sentito. Un brivido corse lungo la mia schiena. «So che è impossibile, e so anche che non ho più alcun diritto di immischiarmi nella tua vita. Ma voglio provarci. Non voglio il tuo perdono, so di non poterlo avere, e soprattutto di non meritarlo. Voglio solo starti di nuovo accanto, anche se significa essere solo un amico».

Premetti la guancia contro il suo petto, scosso da respiri affannati e agitati. Sentivo il suo cuore battere impazzito contro il mio orecchio, e chiusi gli occhi.

Per qualche secondo rimanemmo così, in silenzio e immobili, con le sue braccia intorno a me e la mia faccia nascosta nel suo petto, e mi lasciai avvolgere da quella sensazione di familiarità e calore, cullata dal suo profumo, così inebriante e ipnotizzante. Sentivo i brividi scivolare lungo la mia schiena.

Ora sapevo cosa voleva Edward. Quello che non sapevo era quello che volevo io.

Sentivo di volere ancora Edward, di volerlo ancora accanto, nonostante tutto, ma non ero sicura di essere pronta e che quella fosse la scelta più saggia. Sentivo di essere ancora troppo fragile e distrutta dalla nostra rottura per potermi rimettere ancora in piedi. Non volevo né potevo perdonargli gli avvenimenti dell’ultimo anno insieme, e non potevo nemmeno scordarli, nonostante lo volessi con tutte le mie forze. Lui aveva ragione, dovevo accettarli e soprattutto farmene una ragione: ci eravamo lasciati, ma questo non significava che dovevo cancellare la nostra storia.

C’era ancora una possibilità per me ed Edward, ma in quel momento ero troppo stanca e sconvolta per poterne parlare. C’erano tante cose da dire, e tante da chiarire, ma in quel momento mi limitai a restare fra le sue braccia, lasciando che fosse il battito del suo cuore a cullarmi e non più il suono del fiume.

 

Il mattino seguente mi risvegliai da sola, disturbata dalla luce del sole che filtrava attraverso il tessuto della tenda in cui mi trovavo. Il sacco a pelo in cui aveva dormito Edward era vuoto, e la zip era ben chiusa.

Cercai di sistemarmi i capelli con le dita, alla cieca, poi uscii all’aria aperta, trovando la piazzola d’erba vuota. Di Edward non c’era alcuna traccia.

Mi sedetti sui tronchi, decidendo di aspettare che si facesse vivo, e nel frattempo ripensai a quello che era successo la sera precedente, alle sue parole che mi avevano accompagnata per tutta la notte.

Quando riapparve pochi minuti dopo, con un sacchetto di carta e due bicchieri da caffè, non sapevo come comportarmi. Avevo paura di dargli l’impressione sbagliata, e sentivo un leggero imbarazzo a ritrovarmi insieme a lui.

Tuttavia, quando sorrise e si sedette accanto a me, l’ansia svanì, sostituita dallo stesso senso di familiarità provato la sera precedente, quando mi aveva abbracciata.

Insieme a lui aveva portato l’itinerario del viaggio, e mentre lui si occupava di smontare la tenda io lessi le tappe che avremmo potuto fare quel giorno, decidendo dove e quanto fermarci. Programmammo di percorrere un lungo tratto di strada con poche tappe, in modo da poter arrivare fino in Texas in serata, dove avremmo potuto dormire in uno dei motel caratteristici della Route 66, recentemente ristrutturato.

Quando lasciammo il campeggio tornammo a Tulsa, per riprendere la Strada Madre da dove l’avevamo lasciata, e ci dirigemmo verso Oklahoma City.

Le temperature si erano fatte più secche, mano a mano che ci dirigevamo verso sud, abbandonando la frescura di Chicago. L’aria condizionata soffiava dai bocchettoni rinfrescando l’abitacolo, ma diventando fonte di terribili mal di testa quando gli sbalzi di temperatura fra esterno ed interno erano eccessivi. A un certo punto decidemmo di viaggiare con i finestrini abbassati, entrambi infastiditi da quella situazione, accettando il compromesso di moderare la velocità per permetterci di tenerli abbassati senza rischiare di spaccarci i timpani per il frastuono dell’aria.

Ero ancora mezza addormentata a causa delle poche ore di sonno di quella notte, e rimasi seduta scompostamente sul sedile, con una gamba piegata contro la portiera e l’altro piede poggiato contro il cruscotto. Se la macchina fosse stata di Edward, probabilmente mi sarei beccata una ramanzina con i fiocchi, ma dato che il vero proprietario - ovvero Emmett - non era presente, decisi di sgarrare.

Edward guidava con un braccio piegato sul finestrino completamente abbassato e l’altro polso incastrato pigramente nel volante, per impedire all’auto di andare per conto suo quando trovavamo un dosso o una buca, ma per il resto la strada era completamente diritta, con poche curve di tanto in tanto. Sul viso l’ombra della barba di due giorni gli dava un aspetto un po’ trasandato, accompagnato dai suoi capelli costantemente spettinati. Aveva indossato gli occhiali da sole, e ogni tanto si voltava a guardarmi, e un piccolo sorriso piegava le sue labbra. Io d’altra parte, ogni tanto mi soffermavo a guardarlo, approfittando del fatto che il suo sguardo fosse costantemente fisso sulla strada; osservavo la linea della mascella, coperta dalla barba chiara e leggera; il modo in cui i muscoli del braccio si tendevano quando girava il volante, e come la maglietta che indossava sotto la camicia a quadri a maniche corte aderiva al suo petto. Poi, non appena vedevo il suo capo muoversi, distoglievo lo sguardo, fingendo di osservare il paesaggio scorrere intorno a noi.

Ci fermammo due volte quella mattina, prima di arrivare ad Oklahoma City: la prima volta alla periferia di Sapulpa, dove si trovava un ponte di mattoni rossi, e la seconda a Stroud, per fotografare un famoso cafè della Route 66, chiamato Rock Cafe.

Quando arrivammo alla capitale dello Stato dell’Oklahoma era già mezzogiorno passato, così decidemmo di parcheggiare l’auto e andare subito nella zona del Bricktown Canal, dove si trovavano diversi ristoranti e tavole calde. Dopo una cena a base di barbecue eravamo entrambi intenzionati a mangiare qualcosa di più classico, come della pasta.

Prima di pranzare, decidemmo di prendere il traghetto che compie il giro del canale, e ci sedemmo nell’ultima fila di panchine, io con la macchina fotografica in mano e lui una bottiglietta di acqua. L’aria era calda, e il soffio del vento mentre ci muovevamo attraverso gli edifici sopraelevati rispetto al livello del canale, che gettavano ombra su gran parte del corso, rinfrescava piacevolmente.

Mi voltai a guardare Edward, che si era tolto gli occhiali da sole, e notai le sue occhiaie violacee, che marchiavano la pelle come lividi. Anche il mattino precedente aveva delle brutte borse sotto gli occhi, e mi aveva detto di non essere riuscito a dormire di notte, al ritorno dal Drive-In; possibile che anche quella notte non fosse riuscito a riposare? Certo, quando mi aveva raggiunto fuori dalla tenda doveva essere mezzanotte passata, e avevamo trascorso quasi un’ora svegli, a parlare e ad abbracciarci, ma del resto ci eravamo alzati tardi la mattina, quindi sarebbe dovuto riuscire a recuperare un po’ del sonno arretrato. In quel momento ricordai di essermi svegliata da sola, e che quindi probabilmente Edward era sveglio già da un po’. Da quanto precisamente, non lo sapevo.

«Sei riuscito a dormire stanotte?», gli chiesi a bruciapelo, lanciandogli occhiate perplesse. Con gli occhiali da sole a nascondergli gli occhi non sembrava stanco, ma senza di essi era evidente dall’espressione del suo viso quanto lo fosse realmente.

Gli occhi di Edward incrociarono i miei, l’espressione illeggibile. «Sì, certo».

Aggrottai le sopracciglia. «Allora perché hai delle occhiaie che sembra che non dormi da giorni?»

Lui scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo. «Probabilmente non ho dormito molto bene. Ma sono riposato, non preoccuparti».

Sorrise lievemente, per rassicurarmi, ma non gli credetti.

Dopo qualche minuto di silenzio, Edward allungò il braccio dietro le mie spalle, appoggiandolo al bordo della barca, osservando con la coda dell’occhio la mia reazione. Io rimasi per qualche secondo immobile, provando il bisogno di allontanarlo, come avrei fatto fino a poche ore prima; poi però ricordai il discorso di quella notte, e il fastidio svanì.

Ignorando tutti i buoni motivi che fino a quel momento mi avevano portata a stargli lontana, scivolai un po’ più vicina a lui, ed appoggiai il capo al suo braccio, mentre tenevo lo sguardo puntato verso gli edifici in alto.

Sentii i suoi muscoli dapprima irrigidirsi e subito dopo rilassarsi, e con la coda dell’occhio scorsi le sue labbra piegarsi in un accenno di sorriso.

Quella notte aveva cambiato molte cose, ma non sapevo ancora dire se l’avesse fatto in meglio, o in peggio.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salve! :D

Credo di aver stabilito un primato in quanto puntualità con questa storia XD

Comunque, come avete letto non si parla molto del viaggio in questo capitolo, ma viene affrontato meglio il rapporto fra Edward e Bella, e c'è anche un breve ricordo su come era la loro relazione quando le cose iniziavano ad andare male. Ho preferito lasciare il capitolo dedicato solo a loro due, mettendo il viaggio in disparte, proprio per sottolineare l'importanza di questo passaggio.

Ora diciamo che le cose andranno un pochino meglio fra di loro.

Come sempre grazie soprattutto a chi recensisce e mi fa sapere cosa ne pensa, anche poche parole sono sempre di grande aiuto per continuare la storia :D Grazie anche ai lettori silenziosi, e a chi aggiunge la storia alle preferite/seguite/ricordate!

A presto! :D

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Capitolo 7
*** Crossing streets ***


Route 66

I'm sorry that I hurt you,

It's something I must live with everyday;

And all the pain I put you through,

I wish that I could take it all away and be the one who catches all your tears 

Thats why i need you to hear:

I've found a reason for me,

To change who I used to be,

A reason to start over new.

And the reason is you.

Hoobastank - The Reason

07. Crossing streets

Non avevo mai guidato una jeep, né avrei mai pensato di farlo. Per prima cosa non credevo mi si sarebbe mai presentata l’occasione, e secondo non avrei mai creduto che il proprietario di suddetta jeep mi avrebbe permesso di guidarla. Tuttavia, quando la stanchezza di Edward divenne troppo evidente perché lui potesse continuare a guidare, in qualche modo riuscii a convincerlo a lasciarmi prendere il volante. Già durante il pranzo sembrava sul punto di crollare con la faccia nel piatto, e non volevo rischiare un incidente perché lui rischiava di addormentarsi al volante.

Probabilmente Edward rifletté sul fatto che se mi avesse concesso di guidare, anziché fermarci da qualche parte per lasciarlo riposare, ci saremmo mossi, avvicinandoci un altro po’ alla nostra meta, ovvero Los Angeles. Il giorno precedente avevamo fatto poca strada, e avevamo bisogno di procedere con il nostro viaggio, soprattutto visto il fatto che ci stavamo avvicinando sempre di più alla zona desertica degli States. Se in Oklahoma faceva già così caldo non osavo immaginare quali sarebbero state le temperature in Texas, New Mexico ed Arizona.

Edward passò i primi venti minuti del viaggio a controllarmi e a darmi indicazioni su come manovrare l’auto e come calibrare la velocità, poi, infine, con mio grande sollievo, si addormentò. Me ne resi conto quasi subito, perché erano passati più di due minuti dall’ultima volta che mi aveva rimproverata per la scarsa velocità a cui viaggiavamo, e quando voltai il capo nella sua direzione lo vidi con il gomito incastrato contro il finestrino, e la testa sorretta dalla mano. Gli occhi erano chiusi, ma un lieve cipiglio infastidito rimaneva a piegare la sua fronte. Di certo quella non era la posizione più comoda per dormire, ma almeno avrebbe riposato un po’.

Senza più Edward a darmi ordini e rimproveri, potei godermi la mia prima guida dopo tanti anni. In fondo guidare la jeep non era così diverso da guidare il mio vecchio pick-up; i comandi erano perfino più semplici e il volante si girava facilmente, senza alcuno sforzo. Il paesaggio scorreva davanti ai miei occhi, e le ruote scivolavano sull’asfalto vecchio e scolorito. L’erba che circondava la strada era gialla e polverosa, e alcuni alberi erano completamente secchi e anneriti. Di tanto in tanto a lato spuntava il cartello marrone della Route 66, che mi indicava che stavo seguendo la giusta via.

Dopo più di un’ora di viaggio in silenzio, accompagnata solo dal chiacchiericcio della radio, arrivai alla città di Hydro, dove si trovava una vecchia stazione di servizio. Accostai l’auto sullo sterrato accanto alla casupola e spensi il motore. Il climatizzatore, fino a quel momento impostato per mantenere una temperatura che non fosse né troppo calda né troppo fredda, si spense, e mi sembrò di sentire il caldo aumentare immediatamente. Presi la macchina fotografica dal sedile posteriore e guardai Edward, ancora addormentato. Mi aveva esplicitamente chiesto di svegliarlo una volta giunti ad un punto d’interesse, ma vederlo così profondamente addormentato mi fece sentire in colpa. L’avrei svegliato solo per vedere una piccola stazione di servizio in disuso, simile ad altre viste fino a quel momento, e che avrebbe tranquillamente potuto osservare in fotografia. Tuttavia, sapevo quanto Edward ci tenesse a non perdersi nulla del viaggio, ed ero certa che anche solo essersi addormentato per un’ora mentre la strada scorreva sotto di lui sarebbe stato fastidioso, quindi decisi di svegliarlo.

«Edward?», lo chiamai, scuotendogli leggermente la spalla.

Vidi le sue sopracciglia aggrottarsi, e parlò prima ancora di aprire gli occhi. «Ti prego, dimmi che non hai bucato una gomma», mormorò, con la voce arrochita dal sonno.

Alzai gli occhi al cielo, sorridendo. «Non hai proprio un minimo di fiducia».

Le sue labbra si piegarono in un piccolo sorriso e finalmente aprì gli occhi, alzando il capo. Quando girò il viso nella mia direzione vidi la macchia rossiccia lasciata dal suo pugno sulla tempia destra. «Sembra che hai fatto a pugni», commentai.

Edward inarcò un sopracciglio, perplesso. Istintivamente allungai una mano fino a sfiorare con la punta delle dita l’arrossamento della pelle, su cui erano visibili i segni delle nocche e delle falangi. Nei suoi occhi lessi sorpresa e allontanai la mano, imponendomi di non indugiare sulla sua pelle. Distolsi lo sguardo, a disagio, e aprii la portiera, stringendo fra le dita la macchina fotografica. «Siamo arrivati alla Lucille’s Service Station», lo informai, e scesi dall’auto.

Con la coda dell’occhio lo vidi annuire, e subito dopo mi raggiunse all’aperto. Non c’era molto da vedere: era una piccola casupola bianca con due vecchie pompe di benzina Phillips 66 rosse fiammanti.

Una volta scattate un paio di fotografie tornammo alla macchina. Prima che Edward potesse allungare il braccio per afferrare la portiera dalla parte del guidatore lo fermai. «Tocca ancora a me guidare», lo rimproverai.

«Ho dormito», disse lui, come se un’ora di sonno - per di più in una posizione scomodissima - potesse essere ristoratore.

Gli lanciai un’occhiataccia, e lui sbuffò. «Ricordati che io non so fare bene le foto. Se vuoi fotografare qualcosa per strada dovrai fermarti per farle tu».

Alzai gli occhi al cielo, e mi infilai al mio posto in auto. In pochi minuti il fresco garantito dal climatizzatore era svanito, sostituito da un’asfissiante afa che toglieva il respiro. Accesi l’aria condizionata, tenendola bassa per evitare l’effetto indesiderato di generare un brutto mal di testa ad entrambi, e mi rimisi in carreggiata.

Edward rimise il sedile in posizione più eretta, e passò i successivi venti minuti a chiedermi come far funzionare la macchina fotografica, ordinandomi al tempo stesso di non provare a staccare gli occhi dalla strada per controllare quello che stava facendo né di allontanare le mani dal volante per gesticolare o indicare. Era buffo il modo in cui si preoccupava che mantenessi il controllo dell’auto, nonostante non ci fosse neanche l’ombra di una macchina con cui avrei potuto fare un incidente. In questo tratto di strada non c’erano nemmeno i fossati al limitare della banchina, quindi nella peggiore delle ipotesi sarei finita sullo sterrato dove avrei rischiato di bucare una gomma.

«È troppo complicato questo affare», brontolò dopo aver provato a scattare una fotografia, senza successo. «Avremmo dovuto prendere una di quelle macchine fotografiche istantanee».

«Così avremmo avuto un solo tentativo per foto», commentai, sorridendo. Le macchine fotografiche professionali erano sempre state un mistero per Edward, per quanto si sforzasse di capire come funzionassero non riusciva a fare una fotografia a fuoco accettabile.

Edward lasciò cadere il discorso con un gesto della mano, e si soffermò ad osservare il paesaggio che scorreva al nostro fianco: una serie di mulini a vento per l’energia eolica ruotavano sopra un prato che si estendeva a perdita d’occhio, come tante girandole giganti. Eravamo arrivati nei pressi di Weatherford, dove si trovava il Wind Energy Center.

Fermai la jeep sul bordo della strada, e recuperai la macchina fotografica dalle mani di Edward, reimpostando tutti i comandi che aveva scombussolato in quei pochi minuti di prove. Curiosai in mezzo agli scatti di prova, e risi davanti ai risultati orribili.

«Credo sia meglio che lasci a me fare le fotografie. Non sono proprio il tuo forte», dissi, ridendo leggermente.

Edward scrollò le spalle, e fece una risatina. «Sono più bravo a stare davanti all’obiettivo che dietro», commentò semplicemente.

Su quello non potei dire nulla, poiché era la pura e semplice verità. Edward era sempre stato fotogenico, e in alcune foto quando si metteva in posa sembrava perfino un modello. Ma questo ovviamente non glielo dissi, onde evitare di aumentare il suo ego già di per sé smisurato.

Mentre ci dirigevamo verso Clinton, dove avremmo potuto visitare l’Oklahoma Route 66 Museum, il caldo iniziò ad essere insostenibile. Accesi l’aria condizionata al massimo, ed Edward iniziò ad maneggiare le manopole e i tasti del climatizzatore, senza successo.

«Sta facendo aria calda anziché fredda», disse, accigliato.

Portai una mano davanti ad un bocchettone, aggrottando le sopracciglia. «Eppure ho impostato il climatizzatore su diciotto gradi. Non dovrebbe fare così», borbottai, contrariata.

Edward spense tutto, e attivò semplicemente l’aria condizionata, subito dopo aver abbassato i finestrini. L’afa era una delle cose peggiori che potessero esistere: ti toglieva il respiro, e la strada che si estendeva davanti a me sembrava essere immersa in una gigantesca gelatina trasparente, che faceva traballare la vista. Sentivo il calore che come una patina si appiccicava alla mia pelle, e il fatto di non potermi muovere nemmeno per farmi aria da sola era un problema.

Quando arrivammo a Clinton Edward non era ancora riuscito a risolvere il problema. Aveva perfino cercato nel libro dei comandi cosa fare per impostare il climatizzatore, ma senza successo.

Appena varcammo l’ingresso del museo, che riportava come cartello a bordo strada un’enorme targa della Route 66, ci dirigemmo ai bagni per darci una rinfrescata. Il museo non era molto diverso da quelli visitati in precedenza, ma a differenza degli altri era più frequentato. C’erano famigliole di stranieri in visita, e la musica all’ingresso, proveniente da un vecchio juke box, era allegra e accogliente. Era fornito di ogni genere di pompa da benzina del passato, e in un’ultima saletta era disposto l’immancabile furgoncino della Volkswagen, per metà verniciato nei colori classici e per l’altra con ogni tipo di colore brillante, e la frase “Make love, not war”.

Tornati in auto, Edward mi lasciò guidare senza dire nulla, preoccupandosi piuttosto di impiegare il tempo del viaggio fino ad Elk City per leggere attentamente il manuale delle istruzioni. Quando parcheggiai la jeep davanti al secondo ed ultimo museo dedicato alla Route 66 di quel giorno - e dell’Oklahoma -, annunciò la sua teoria: «Credo che il serbatoio dell’aria condizionata sia scarico».

Lo guardai preoccupata. «E questo cosa significa?»

«Significa che dobbiamo portare la macchina da un meccanico per farci ricaricare il serbatoio. Per fortuna non è nulla di grave».

«Credi», sottolineai, scettica.

Edward si accigliò. «Sì. Non sono un meccanico, non posso essere sicuro al cento per cento».

Sospirai, e scesi dalla macchina, seguita da lui. Visitammo il National Route 66 Museum in fretta, decisi a cercare un meccanico non appena ci saremmo rimessi in marcia. Ne trovammo uno in centro ad Elk City, e fermammo l’auto davanti al garage giusto in tempo per fermarlo dal chiudere l’officina. Era quasi sera ormai, e tutti i negozi stavano iniziando a spegnere le loro insegne e a chiudere le porte.

Il meccanico era un uomo sulla cinquantina, che indossava una vecchia salopette macchiata d’olio in più punti e un capellino da football nonostante si trovasse al chiuso, perfettamente riparato dalla luce del sole. Il viso era burbero, e quando Edward lo chiamò, chiedendogli di aspettare a tirare giù la serranda, gli lanciò un’occhiataccia.

Edward non si fece scoraggiare, e gli spiegò brevemente il problema.

Fortunatamente, l’uomo accettò di sistemarci l’auto, e borbottò anche che eravamo l’ennesimo caso di serbatoio scarico, e forse anche per questo accettò di aiutarci.

Edward segnò il costo del meccanico sul piccolo quadernetto delle spese che facevamo durante il viaggio, infilando lo scontrino nella busta incollata alla copertina. Era un modo come un altro per tenere sotto controllo il budget giornaliero, e soprattutto ci dava un’indicazione su quanto stavamo spendendo e quanto potevamo permetterci. Sia io che lui fortunatamente non avevamo problemi economici - soprattutto lui, sia grazie al suo lavoro altamente remunerativo che al capitale di famiglia - ma non eravamo il tipo di persone che spendevano i soldi alla prima occasione, senza un motivo. Avevamo fissato un budget giornaliero, e avremmo cercato di rispettarlo.

Quando risalimmo in macchina pochi minuti dopo e accesi l’aria condizionata, una folata d’aria fresca riempì l’abitacolo, facendomi sospirare per il piacere. Non avrei retto un chilometro di più con quell’afa.

Il caldo mi aveva stancata notevolmente, e mi sembrava di sentire la stanchezza come un peso fisico che mi premeva sulle spalle, compressandomi contro il terreno. Avrei solo voluto sdraiarmi su un letto, possibilmente con una temperatura che non superasse i venti gradi. Edward non era messo meglio di me, e in più aveva chissà quante ore di sonno da recuperare dalle notti precedenti; nel complesso, eravamo messi davvero male. Per questo motivo una volta superato il confine del Texas decidemmo di cercare subito un posto dove dormire, anche perché il sole stava ormai tramontando e si avvicinava l’ora di cena.

Guidai a fatica fino a McLean, dove si trovava uno dei vecchi motel dell’originaria Route 66, completamente ristrutturato. L’insegna era un grosso cactus, che riportava il nome in giallo Cactus Inn Motel. Le auto nel parcheggio erano poche, come poche erano le porte delle stanze. Parcheggiai davanti all’ufficio-reception e scesi con Edward, incapace di stare ancora in auto. Prima di ripartire Edward mi aveva chiesto di fare cambio, ma mi ero imposta a continuare: per una volta avevo la possibilità di guidare io, e se volevo che Edward mi permettesse di farlo ancora dovevo dimostrargli di essere in grado di gestire l’auto senza problemi quando lui era stanco.

Mi trascinai dietro di lui fino a davanti il bancone, dietro il quale stava una donna con i capelli biondi stretti in uno chignon scomposto e un piccolo ventilatore appoggiato sulla scrivania, puntato sul viso e il decoltè prosperoso. Guardò Edward e poi me, con lo sguardo vacuo di chi è stravolto dal caldo - specchio dei nostri.

«Volete una stanza?», chiese, con un forte accento del sud. «Altrimenti l’ufficio informazioni è a cinquecento metri a destra».

Edward non si scompose davanti al suo tono maleducato. «Vorremmo due singole per questa notte», disse gentilmente.

La donna non si mosse. «Ci è rimasta solo una singola. Tutte le altre sono matrimoniali».

Presi un profondo respiro e guardai Edward, che ricambiò lo sguardo. Eravamo entrambi troppo stanchi per cercare un altro posto dove dormire, ma al tempo stesso eravamo entrambi consapevoli che dormire nella stessa stanza avrebbe voluto dire con ogni probabilità affrontare lo stesso discorso della notte precedente in campeggio.

Edward si passò una mano sul viso, e respirò profondamente. «Quanto costano la singola e la matrimoniale?»

Finalmente la donna dietro il bancone si raddrizzò sulla sedia, e aprì il quaderno del motel davanti a lei. Lesse i prezzi per la singola e la matrimoniale, e non mi servì guardare Edward per capire che prendere entrambe le stanze per dormire una sola notte sarebbe stato da pazzi, sia come spesa che anche solo a pensarci. Essendo uno dei motel più rinomati in quanto punto di interesse della Route 66 era ovvio che i prezzi per le stanze fossero abbastanza alti - abbastanza alti per essere quelli di un semplice motel, ma mai quanto quelli di un hotel, ovviamente.

Edward mi guardò, indeciso. «Cosa facciamo?», mi chiese.

Mi morsi il labbro inferiore, e distolsi lo sguardo. «Per me va bene prendere anche la matrimoniale. Basta avere un posto dove dormire, non ce la faccio più», ammisi.

Lui annuì, e si voltò nuovamente verso la donna, che ci osservava annoiata. «Prendiamo una matrimoniale».

 

Quando uscii dal bagno, dopo una rilassante doccia rinfrescante, mi sdraiai sul letto, e maledii per la seconda volta le misure dei materassi matrimoniali dei motel. Quelli non erano letti da due piazze, ma letti da una piazza e mezza, i cosiddetti Queen Bed. Erano sempre più spaziosi del sacco a pelo di Edward, ma non sarebbe stato come dormire in due letti separati.

Mentre Edward era sotto la doccia mi sdraiai sul materasso, e provai a ruotarmi dalla parte dove avrei dormito quella notte. Sapendo quanto mi muovevo nel sonno le probabilità di non toccare accidentalmente Edward erano pochissime. Era anche vero che quando ero molto stanca il più delle volte non mi spostavo, ma non era sicuro.

Chiusi gli occhi, respirando l’aria fresca della stanza. L’aria condizionata era accesa, ma non si sentiva alcun rumore di ventole. Il letto era così morbido che avrei voluto infilarmi sotto le coperte e non riemergerne più. Il rumore dell’acqua della doccia era terminato, lasciando solo un piacevole silenzio.

Mi addormentai, e fu solo una scossa alla spalla più forte delle altre a risvegliarmi dal sonno profondo in cui ero precipitata. Riaprii gli occhi, confusa, e scoprii che la luce dell’abat-jour era accesa, illuminando la stanza di un giallo-arancione scuro. Piegai il capo, e incontrai lo sguardo di Edward. Era sdraiato sul letto al mio fianco. I capelli erano tutti scompigliati, segno che probabilmente non li aveva nemmeno asciugati con il phon. Gli occhi erano assonnati e stralunati.

«Che c’è?», gracchiai, incapace di scrollarmi di dosso la stanchezza.

«Sono le undici», disse, anche lui con la voce arrochita dal sonno. «Non abbiamo neanche cenato».

Mi alzai a sedere, e mi passai la mano sul viso. «Cosa facciamo ora?», domandai, schiarendomi la voce.

Edward si alzò sui gomiti. «C’è un McDonald’s qui vicino. Se hai fame possiamo andare a mangiare qualcosa lì e poi tornare a dormire».

Annuii, confusa dal sonno. Andai in bagno a lavarmi la faccia con l’acqua ghiacciata, cercando di scacciare questa sensazione di stanchezza, e subito dopo uscimmo nell’afa texana, diretti verso l’unico locale per mangiare aperto a quell’ora.

Cenammo lentamente, entrambi con gli occhi che si chiudevano per la stanchezza e incapaci perfino di parlare. Edward si era sdraiato sul letto insieme a me subito dopo aver fatto la doccia, ripromettendosi di svegliarmi non appena fosse arrivata l’ora di cena, ma si era addormentato a sua volta, risvegliandosi solo dopo tre ore.

Quando tornammo in stanza parte del sonno se ne era andato, rimpiazzato da un leggero stordimento accompagnato dalla spossatezza. Avrei voluto riuscire ad addormentarmi subito, ma al contrario, dopo essermi cambiata e infilata nel letto, rimasi a fissare il muro davanti a me, fino a quando Edward non mi raggiunse e spense la luce.

La camera era silenziosa, ed Edward non mosse nemmeno un muscolo. Pensai si fosse addormentato, così mi voltai verso di lui, cercando di muovere il meno possibile il materasso e le lenzuola. Nel buio della stanza riuscivo solo a scorgere il suo profilo, illuminato dalla luce della radiosveglia posta sul comodino al suo fianco, e per poco non sussultai quando lo vidi piegare il capo nella mia direzione.

«Stai bene?», sussurrò nell’oscurità.

Annuii, poi ricordai che non poteva vedermi. «Sì. Non riesco ad addormentarmi», aggiunsi qualche secondo dopo.

«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dormire prima», disse, rammaricato.

«No, hai fatto bene», lo rassicurai. «Sicuramente mi sarei risvegliata nel cuore della notte per cercare da mangiare. Meglio così».

Edward rimase in silenzio per alcuni istanti, e pensai che si fosse addormentato davvero questa volta, ma poi si girò su un fianco, verso di me. Sentii il calore espandersi sulle mie guance, ma non mi mossi. Lo sentivo vicino. Troppo vicino. Probabilmente mi sarebbe bastato piegare un ginocchio in avanti per toccare le sue gambe.

«Che cosa avresti fatto ieri se ci fossimo trovati in questa situazione?», mi chiese all’improvviso, prendendomi alla sprovvista. Non mi aspettavo una domanda simile.

«Con questa situazione intendi…»

«Intendo dover scegliere fra dividere la stanza o prenderne una singola e una doppia pur di non stare insieme. Cosa avresti fatto prima di ieri notte?»

Rimasi in silenzio per un breve istante, riflettendo. «Non lo so. Forse se non ci fosse stato da pagare il meccanico avrei deciso di prendere le due stanze separate, anche se sarebbe costato molto di più», ammisi. «Altrimenti avrei accettato di dividere la stanza».

«Mi avresti fatto dormire per terra, immagino», disse lui, con una nota di divertimento nella voce.

Risi nervosamente. «Credo di sì».

Sentii un fruscio di lenzuola, poi di nuovo silenzio. «Non lo trovi assurdo? Fino a ieri sera non riuscivi neanche a starmi vicino, adesso siamo addirittura nello stesso letto».

Mi irrigidii. «Non era questo l’intento del tuo discorso di ieri sera? Fare in modo che non ti evitassi come la peste?»

Edward rimase in silenzio per alcuni minuti, e quella volta ero sicura che si fosse addormentato. Del resto anche io finalmente iniziavo a sentire gli occhi chiudersi per il sonno appena ritrovato.

«Edward?», biasciai.

«Non voglio che ti senta obbligata a comportarti così per quello che ti ho detto ieri notte», sussurrò, risvegliandomi in parte. «Se lo stai facendo perché ti ho detto quelle cose…». Fece una breve pausa. «È vero che vorrei che le cose fra noi due andassero bene, ma se questo significa obbligarti a comportarti in un certo modo preferisco tornare a come stavano prima le cose».

Rimasi in silenzio, assimilando lentamente le sue parole. Quando allungai una mano verso di lui ero già mezza addormentata, e non sono certa che sapessi bene quello che stavo facendo. Trovai le sue dita, e le intrecciai con le mie. «Non mi sento obbligata», sussurrai, semplicemente.

L’ultima cosa che sentii, prima di addormentarmi, fu la sua stretta intorno alla mia mano intensificarsi, e poi più niente.

 

Il risveglio il giorno seguente fu stranamente piacevole, ma anche imbarazzante. Edward non aveva impostato alcuna sveglia, e fu solo quando un raggio di sole arrivò a illuminarmi il viso attraverso la fessura fra le tende che mi risvegliai.

Aprii gli occhi sentendomi perfettamente riposata, e il mio sguardo scivolò fino alla radiosveglia sul comodino. In quel momento mi resi conto di due cose contemporaneamente: primo, che erano le nove e mezza passate, segno che nel giro di mezz’ora avremmo dovuto lasciare la stanza; secondo, che mi trovavo dalla parte del letto opposta a quella in cui mi ero addormentata. Il mio terrore aumentò ancora di più quando avvertii la lieve pressione di un braccio cinto intorno alla mia vita, e un leggero respiro infrangersi contro la mia nuca. Le dita della mia mano erano intrecciate a quelle di Edward, ferme sul mio ventre, e le allontanai lentamente, generando un lieve protesta da parte sua. Sentii il suo viso strusciarsi contro il mio collo, e la stretta intorno alla mia vita avvicinarmi di più a lui.

Trattenni il respiro. «E-Edward?», lo chiamai, sperando di svegliarlo.

Dopo alcuni secondi sentii i suoi muscoli irrigidirsi, e il suo braccio scivolò via dal mio corpo, mentre si sollevava ed allontanava. Lo sentii alzarsi dal letto senza dire niente. Mi girai nella sua direzione, con le guance sicuramente rosse. Aveva raggiunto la sua valigia, e stava prendendo dei vestiti puliti. Presto saremmo dovuti andare a cercare una lavanderia automatica per fare qualche lavaggio di vestiti, onde evitare di doverne comprare di nuovi.

«Dobbiamo sbrigarci, tra poco verranno a cacciarci dalla stanza», disse con la voce arrochita dal sonno, mentre andava in bagno.

Appena si richiuse la porta alle spalle mi alzai dal letto, e preparai anch’io il mio cambio di vestiti. Guardai il letto disfatto, e mi chiesi ancora come diavolo avevo fatto a ritrovarmi dalla parte opposta del letto; l’ipotesi più probabile era che nel sonno avessi scavalcato Edward, e al solo pensiero sentii le guance andarmi a fuoco nuovamente. Avrei voluto chiedergli se si era reso conto di qualcosa quella notte, ma a giudicare da come era scappato in bagno senza neanche guardarmi non era molto disposto ad affrontare l’argomento.

Quando finalmente entrambi fummo pronti lasciammo alle nostre spalle McLean, rimettendoci in viaggio. In macchina, con Edward di nuovo al suo posto di guida, mi decisi a farlo parlare.

«Per caso questa notte ti ho dato fastidio?», gli chiesi, non sapendo bene come iniziare il discorso. «Sai, con la storia del muoversi durante il sonno».

Edward aggrottò leggermente la fronte. «No. A dire il vero ti sei mossa pochissimo rispetto al tuo solito».

Lo guardai, perplessa. «Allora come ho fatto a ritrovarmi dall’altra parte del letto stamattina?»

«Ah, quello è successo quando sono andato in bagno stanotte. Sono tornato e ti eri messa al mio posto», rispose, togliendomi finalmente quella curiosità.

Avrei voluto chiedergli anche se mi aveva abbracciato di proposito quella notte, o se era stato un riflesso incondizionato avuto durante il sonno, ma non ne ebbi il coraggio.

La nostra prima tappa per quel giorno fu a Conway, dove si trovavano cinque vecchie carcasse di Volkswagen piantate nel terreno, tutte dipinte di colori brillanti.

A quel punto Edward decise di fare la prima deviazione dalla Route 66: imboccò una strada che conduceva verso il sud del Texas, diretto verso quello che era chiamato il Grand Canyon del Texas, il cui vero nome era Palo Duro Canyon. Arrivammo dopo appena mezz’ora, e pagammo l’ingresso al parco dello Stato, per andare a visitarlo. Mentre raggiungevamo la piazzola vicino al punto di osservazione, però, mi resi conto di quanto facesse caldo in auto nonostante l’aria condizionata accesa. Portai una mano davanti ad un bocchettone, e guardai Edward.

«Sta di nuovo rilasciando aria calda», mormorai, preoccupata.

Edward imitò il mio movimento, accigliato. «Dannazione. Non può essere già scarico». Spense il motore, e sospirò. «Credo che ci sia qualche problema. Forse il serbatoio è rotto».

Lo guardai allarmata. «Cosa facciamo adesso?»

Lui arricciò le labbra. «Ora niente. Dobbiamo aspettare di uscire da questo parco e trovare un altro meccanico per far controllare l’auto».

Sospirai pesantemente, ed uscii all’aria aperta. Con il caldo che in quei giorni tormentava l’America non avremmo retto molto senza aria condizionata. Mi sentivo male solo al pensiero di dover attraversare il New Mexico e l’Arizona, dove l’afa sarebbe stata addirittura peggiore.

Passai i successivi venti minuti nel parco in preda all’ansia, chiedendomi come avremmo fatto a continuare il nostro viaggio nel caso la jeep avesse avuto qualche guasto e domandandomi se fossi stata io la causa di ciò. Del resto il climatizzatore aveva iniziato a dare segni di malfunzionamento qualche ora dopo che avevo iniziato a guidare io l’auto, e nonostante non ricordassi di aver fatto nulla di sbagliato non vedevo altre spiegazioni al guasto.

Una flebile speranza riapparve in me quando uscii dal negozio di souvenir, mentre Edward era al tourist office per cercare informazioni sulla zona per sapere se c’erano officine nelle vicinanze. Nel parcheggio passai vicino a un uomo, con una valigetta chiaramente da meccanico, fermo alla fermata del bus. Stava parlando al telefono, e passandogli accanto lo sentii mentre parlava con qualcuno di una riparazione ad una macchina effettuata per i ranger del parco. Un’idea balenò nella mia testa, e mi fermai a pochi metri dalla pensilina della fermata dell’autobus.

Aspettai che l’uomo chiudesse la chiamata, poi mi avvicinai.

«Mi scusi», lo chiamai, imbarazzata. Mi avrebbe presa per una disperata, poco ma sicuro.

L’uomo voltò il capo nella mia direzione, sorpreso. I suoi occhi scuri incontrarono i miei, e solo in quel momento mi resi conto che era molto giovane, nonostante la corporatura robusta. Avrà avuto la mia età, probabilmente.

«Sì?», rispose, gentilmente.

Strinsi le mani in grembo, a disagio. «Non volevo origliare, ma mi è parso di capire che lei è un meccanico».

Le sue labbra si schiusero in un sorriso. I denti bianchissimi creavano un forte contrasto con la pelle bronzea del suo corpo. «Esatto». Non aspettò che continuassi. «Ha per caso bisogno di aiuto?»

Arrossii. «Sì… la mia jeep - la jeep di un mio amico - ha qualche problema con l’aria condizionata. Ieri sera abbiamo fatto ricaricare il serbatoio ma oggi rilascia di nuovo aria calda», spiegai, inceppandomi più volte.

Il viso dell’uomo si illuminò di interesse. Strinse la valigetta al suo fianco. «Temo ci sia una lesione del serbatoio o dei tubi. Dovrei darle una controllata all’auto per esserne sicuro». Si guardò intorno, osservando le auto nel parcheggio. «Se vuole posso fare un veloce controllo», si offrì.

«Non la disturba? Se deve prendere un autobus non…»

«Nessun disturbo, davvero», mi interruppe, avvicinandosi a me. «Allora, dov’è la sua auto?»

 

Quando Edward mi vide ritornare accompagnata dal meccanico aggrottò entrambe le sopracciglia, e mi guardò perplesso. Quando gli spiegai la situazione guardò l’uomo con sospetto.

«Non c’è bisogno che si disturbi», gli disse Edward. «Mi hanno appena dato l’indirizzo di un’officina di Amarillo, che a quanto pare è la più vicina della zona. Se deve prendere un autobus non è il caso che perda tempo qui».

Mentre il meccanico apriva la sua valigetta, estraendo uno skate-board pieghevole, tirai una gomitata nelle costole ad Edward, accompagnata da un’occhiataccia. Cosa gli saltava in testa? Avevamo l’occasione di avere un controllo immediato da un uomo tanto gentile e lui si comportava in quel modo?

«Che officina le hanno consigliato?», domandò il meccanico, infilandosi un paio di guanti da lavoro macchiati di olio e grasso.

Edward aggrottò le sopracciglia, ed estrasse il biglietto su cui aveva scarabocchiato il nome e l’indirizzo dell’officina. «Officina Black», lesse.

L’uomo sorrise. «Allora siete fortunati. Sono già qui in persona, e non dovete venire fino ad Amarillo per il controllo».

Edward lo fissò con sospetto mentre si infilava sotto la jeep sdraiato sullo skate-board. «Lei è il proprietario di quell’officina?»

«In carne ed ossa», rispose l’uomo da sotto l’auto.

Rimanemmo in silenzio, mentre lui si muoveva là sotto. Quando tornò in piedi aveva un’espressione seria. «Temo che il tubo del gas sia lacerato. Per questo motivo l’aria non si raffredda».

«Teme o sa che il tubo è lacerato?», precisò Edward, con le palpebre socchiuse mentre lo scrutava.

«So», rispose l’uomo. «Bisogna cambiare il tubo, nient’altro».

Edward sospirò. «Immagino che sarà quello che faremo».

L’uomo si sfilò i guanti e risistemò la sua valigetta, richiudendola.

«È stato molto gentile da parte sua controllare la jeep subito», gli dissi, vedendo che Edward rimaneva in silenzio a fissarlo quasi ostilmente. «Spero che sia ancora in tempo per prendere il suo autobus».

Il meccanico tirò fuori un piccolo cellulare dalla tasca, e guardò l’ora. Aggrottò la fronte. «Mi sa che l’ho appena perso. Ma per fortuna ce n’è un altro fra un’ora», disse.

Mi sentii in colpa. «Che ne dice se l'accompagniamo noi ad Amarillo? In ogni caso siamo diretti alla sua officina, suppongo», dissi. Vidi Edward lanciarmi un’occhiata di fuoco, ma lo ignorai. «Dovrà sopportare il caldo però».

L’uomo rise, e ignorò l’occhiata che Edward riservò anche a lui. «Se per voi non è un problema…»

«Nessun problema, mi creda. Del resto lei è stato così gentile che mi sembra il minimo».

Sorrise. «Allora accetto volentieri. Ma prima credo sia il caso di fare le presentazioni e di smetterla di darci del lei; credo che abbiamo la stessa età, più o meno».

Ricambiai il sorriso, e allungai la mano per stringere la sua. «Credo di sì. Io mi chiamo Isabella Swan, ma puoi chiamarmi Bella».

«Io sono Jacob Black, molto piacere», rispose. Allungò la mano anche in direzione di Edward, che prima di accettarla la osservò, come se potesse scoprire da un momento all’altro che non è altro che una chela pronta a pinzarlo al primo tocco.

«Edward Cullen».

Si strinsero la mano in silenzio, e per un istante mi sembrò di leggere rabbia sul viso di Edward. Non capivo a cosa potesse essere dovuta, ma sperai solo di essermi sbagliata.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno! :D

Altra settimana puntuale, non mi sembra vero!

Come avete letto è entrato in scena Jacob. Quanto resterà? Sarà importante? Lo scoprirete nel prossimo capitolo ù.ù Scherzi a parte, Edward sembra odiarlo già, e anche per questo troverete la risposta al prossimo aggiornamento. Potete iniziare a provare a indovinare il motivo per cui sembra detestarlo, però :D

Grazie mille a chi continua a recensire e mi fa sapere cosa pensa della storia, e grazie anche ai lettori silenziosi, e a chi aggiunge la storia alle liste!

Alla prossima settimana! :D

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Capitolo 8
*** Why are you so… jealous? ***


Route 66

We been driving this road for a mightly long time,

Payin' no mind to the signs.

Well, this neighborhood's changed,

It's all been rearranged.

We left that change somewhere behind.

Sheryl Crow - Real Gone

08. Why are you so… jealous?

Il silenzio in macchina mi metteva a disagio. Non era un silenzio rilassato, di quelli che condividevamo spesso io ed Edward, ma un silenzio colmo di imbarazzo ed anche astio. Edward aveva la mascella serrata e non degnava di un’occhiata Jacob, come se ce l’avesse con lui per qualche motivo a me sconosciuto. Jacob Black, d’altra parte, sembrava la calma fatta persona, e anche se aveva notato il comportamento di Edward - chi non l’avrebbe notato, del resto? - non faceva una piega, e gli rivolgeva comunque la parola con modi gentili ed educati.

Jacob aveva insistito affinché mi sedessi al sedile anteriore, mentre lui si era fatto strada fra la coltre di coperte e oggetti sparsi su quelli posteriori, e si era sporto verso di noi per poterci parlare più facilmente e dare indicazioni sul luogo di tanto in tanto.

«Dunque», disse, tenendosi al mio sedile con una mano, «da dove venite?»

«Chicago», risposi prontamente.

Le sopracciglia di Jacob schizzarono verso l’alto. «Wow. Ne avete fatta di strada».

Annuii, sorridendo. «Stiamo percorrendo tutta la Route 66. Siamo in viaggio da cinque giorni».

«Wow», ripeté. «Dev’essere una bella esperienza. Io il massimo che ho mai fatto è stato arrivare fino ad Albuquerque per andare a trovare mio padre», commentò con una risata.

«Quindi tu non sei di Amarillo?», gli chiesi, tanto per fare conversazione. Edward non aveva ancora detto una parola, e quando gli si faceva qualche domanda rispondeva con versi a bocca chiusa o monosillabi biascicati.

«No, affatto. Mi sono trasferito qui l’anno scorso per rilevare l’officina di un anziano signore, ma spesso torno in New Mexico, dove vive mio padre», spiegò. «Purtroppo è da solo, e anche se ha molti amici che si prendono cura di lui mi dispiace non stare più con lui. Per questo torno a casa ogni fine settimana».

Lo guardai sorpresa. «Quindi oggi andrai ad Albuquerque?», gli chiesi.

«Già. Ho deciso di prendermi due settimane di ferie per stare un po’ a casa. Amarillo è una bella città, ma non è niente in confronto alla riserva in cui vivo».

«Quindi chiuderai l’officina?», gli domandai, preoccupata. Se la macchina avesse avuto bisogno di tempo per essere sistemata avremmo dovuto cercare un nuovo meccanico.

«No. Lascio che sia mio cugino ad occuparsi del lavoro per queste due settimane, ha insistito lui. È un ragazzo in gamba, e sono sicuro di potermi fidare», disse. «E poi, molti meccanici chiudono in questo periodo per le vacanze estive, non possiamo lasciare la città senza un’officina aperta».

Annuii. «Quanto credi che ci vorrà per sistemare il tubo della macchina?», domandai, e quell’argomento finalmente attirò anche l’attenzione di Edward, che guardò Jacob attraverso lo specchietto retrovisore.

Jacob si massaggiò il mento, pensieroso. «Dipende da quanto è grave la lesione. Se è una piccola frattura basterà sistemarlo con una semplice riparazione, ma se si tratta di un danno più grande bisognerà cambiare l’intero tubo, e questo potrebbe richiedere un po’ di tempo».

«Quanto tempo, precisamente?», intervenne Edward, con la fronte piegata da una ruga d’apprensione.

«Bisognerà ordinare il pezzo alla ditta dell’automobile, e dato che nel fine settimana i corrieri non viaggiano è probabile che si dovrà aspettare la metà della settimana prossima per sistemare il problema. Temo che fino al prossimo weekend sarete bloccati qui ad Amarillo».

Sgranai gli occhi. «Cosa?! Non è possibile! Non si possono accelerare le cose? Non possiamo fermarci per una settimana!», esclamai, agitata.

Jacob posò una mano sulla mia spalla, tranquillizzante. «Calma. Non è ancora detto che il problema sia così grave, magari è solo una piccola lesione. Non fasciamoci la testa prima di essercela rotta, va bene?»

Annuii, cercando di rilassarmi contro il sedile, ma senza successo. Jacob allontanò la sua mano e guardai Edward, che aveva il volto livido di rabbia.

«Speriamo sia solo una piccola lesione», dissi, rivolta più a lui che a Jacob. «Altrimenti cosa faremo?»

Edward strinse le labbra. «Non lo so. Ma di certo non resteremo ad Amarillo», disse, e i suoi occhi erano di ghiaccio.

 

«Non è possibile riceverlo entro domani sera?», insistette il meccanico, con la cornetta del telefono attaccata all’orecchio da più di dieci minuti.

Tenevo il viso fra le mani, sospirando pesantemente. Edward era in piedi davanti a me, con le braccia incrociate e il piede che tamburellava nervosamente contro il pavimento macchiato d’olio dell’officina di Jacob Black, in cui si trovava la nostra auto, sollevata a mezzo metro da terra dai macchinari. Appena eravamo arrivati Jacob si era messo al lavoro e aveva controllato più attentamente il guasto, scoprendo che la lacerazione era troppo ampia per essere aggiustata: era necessario cambiare l’intero tubo. Aveva telefonato alle ditte che lo producevano, ma fin da subito era stato evidente che non c’era niente da fare per accelerare i tempi di spedizione: con il weekend alle porte e i tempi di percorrenza - il pezzo doveva arrivare dal Massachusetts - potevamo sperare di avere l’auto di nuovo a posto per l’inizio della settimana prossima ancora. Le soluzioni a quel punto erano due: o fermarci ad Amarillo per ben dieci giorni oppure trovare un’auto a noleggio con cui attraversare il resto dell’America, decidendo di recuperare la nostra jeep al ritorno.

«Va bene, ho capito», sospirò Jacob, e dopo un breve saluto riagganciò.

Alzai il capo, guardando Edward desolata. «Cosa facciamo ora?», gli chiesi.

Lui guardò la jeep di suo fratello per un breve istante, poi si voltò verso Jacob. «C’è un car rental qui vicino?»

Jacob annuì. «Certo, c’è quello dell’aeroporto».

Edward infilò le mani nelle tasche dei jeans, guardandomi. «Allora credo che non abbiamo molte alternative. Possiamo passare a recuperare la jeep al ritorno da Los Angeles, quando sarà a posto».

Mi alzai in piedi, arresa. «Immagino che non ci siano altre soluzioni…», bofonchiai.

Lui si voltò verso Jacob, e per la prima volta gli rivolse la parola senza mostrare un eccessivo astio nei suoi confronti. «Ci potresti indicare la fermata dei taxi?»

Jacob sorrise. «Nessun problema, vi accompagno io!»

Allungò la mano in direzione di un pannello in cui erano contenute diverse chiavi, e ne prese una con un portachiavi riportante una mongolfiera azzurra. Fermò la mano a mezz’aria.

«Aspettate. Ho un’idea», disse, con un sorriso entusiastico in volto. «Dato che lascerete la vostra auto alla mia officina, cosa ne dite di prenderne in prestito una delle mie? Non vi farei pagare nulla di più della benzina, lo giuro».

Guardai Edward, che assottigliò lo sguardo. «Non so se sia il caso», mormorò, anche se era evidente che oltre ad essere sospettoso era anche interessato a quella offerta. Del resto per le nostre casse poter noleggiare un’auto con l’unico pensiero di dover pagare la benzina era un grande guadagno. Se fossimo andati all’aeroporto avremmo senza dubbio speso parecchie centinaia di dollari per un noleggio a tempo indeterminato.

Jacob posò una mano sulla spalla di Edward, e per un momento temetti che il mio compagno di viaggio potesse staccargliela a furia di morsi, ma lui sembrò concentrarsi solo sul suo viso, intento a capire se il meccanico stava cercando di fregarci o aveva qualche altro fine. «Coraggio», insistette Jacob. «Vi giuro che non sto provando a ingannarvi né niente. Voglio solo aiutarvi».

«Perché?», domandò Edward, non convinto.

Jacob sorrise. «Perché mi sembrate delle brave persone. E non è da me lasciare chi è in difficoltà a brancolare nel buio».

Feci un passo avanti, decisa a dire la mia. «Sei proprio sicuro che per te vada bene prestarci un’auto senza spese?»

Jacob mi guardò. Sorrise e annuì. «Per me sarebbe un piacere».

Spostai lo sguardo su Edward, che incrociò i miei occhi. Aveva un cipiglio indeciso in viso. Tornai a guardare Jacob, sorridendo gentilmente. «Che macchina avevi in mente?»

 

«È un vero gioiellino, vero?», ripeté Jacob, gettando il telone che ricopriva l’auto in un angolo del garage. «L’ho ricostruita interamente con le mie mani, e finora ho avuto modo di portarla solo fino a Shamrock. Sono sicuro che visto il viaggio che state facendo è il mezzo migliore».

Edward aveva entrambe le sopracciglia inarcate verso l’alto, in un’espressione buffamente sorpresa. Io guardavo la piccola meraviglia davanti ai miei occhi con un sorriso entusiasta.

«Davvero ce lo presteresti?», domandai, incapace di credergli. «Per fare tutta la strada fino Santa Monica?»

Jacob alzò gli occhi al cielo. «Certamente. Ricordate solamente che se fate qualche danno apprezzerei che foste voi a pagare le riparazioni».

«Mi sembra il minimo!», risposi, sorridente. Guardai Edward, cercando la sua approvazione. «Allora, cosa ne dici?»

Fissò lo sguardo sull’automobile, con le labbra arricciate. Si avvicinò alla portiera del guidatore, e guardò all’interno attraverso il finestrino completamente abbassato. «Dovremo attraversare le zone desertiche, sei sicuro che riesca a reggere fino alla California?», domandò, sebbene Jacob gli avesse già spiegato brevemente le caratteristiche tecniche dell’auto.

«Ovvio. Ho apportato qualche modifica al disegno originale, ho potenziato il motore e inserito pezzi migliori alla struttura. Questo gioiellino potrebbe tranquillamente farsi tutta la Route 66 senza uno sbuffo, non preoccuparti», rispose Jacob, appoggiandosi al cofano.

Edward mi guardò. «Sei sicura?», mi chiese, cercando la mia conferma.

Annuii, e sorrisi.

Mentre Edward e Jacob sistemavano le ultime cose guardai l’auto che ci avrebbe accompagnato per il resto del viaggio e le scattai una foto.

Non tutti al giorno d’oggi hanno la possibilità di farsi il viaggio sulla Route 66 a bordo di un furgoncino blu della Volkswagen, del resto.

 

«Spiegami ancora una volta per quale motivo ci troviamo in questa situazione», sibilò Edward a denti stretti, osservando Jacob con i pugni serrati intorno alla forchetta e il coltello.

Gli tirai una leggera ginocchiata sotto il tavolo, continuando a guardare Jacob, che ignaro della nostra conversazione sussurrata si stava abbuffando - letteralmente. «Te l’ho detto. Non potevo non offrirgli di venire con noi dopo che è stato tanto gentile da prestarci il suo furgoncino. Sarebbe stato da maleducati», mormorai.

Edward tagliò con violenza la sua bistecca, decisamente più piccola di quella ordinata da Jacob. Guardai la cameriera vicino a noi, che controllava che il piatto del meccanico fosse ripulito solo da lui e nessun altro; Jacob ci aveva invitati a pranzare presso uno dei ristoranti più famosi di Amarillo - e non solo -, il Big Texan Steak House, dove era in voga un’offerta speciale: chi ordinava una bistecca da 72 oz. e riusciva a terminarla in un’ora - compreso il contorno di verdure e patate - allora avrebbe mangiato gratis. Ero sicura che se Emmett fosse stato lì avrebbe aderito con entusiasmo ad una simile sfida, ma io ed Edward eravamo entrambi poco propensi a riempirci come un uovo prima di rimetterci in viaggio. Erano quasi le tre del pomeriggio, ma il locale era comunque affollato. Le cameriere erano vestite con abiti tipici e sui muri erano disposti capi di animali imbalsamati - per lo più angus - e oggetti indiani. La musica era abbastanza alta.

Jacob si era tuffato sul cibo non appena il conto alla rovescia era partito, e da allora era concentrato sul suo piatto, e non aveva più degnato di uno sguardo e una parola me ed Edward, che vedendolo abbuffarsi per poco non perdevamo l’appetito. Nel caos del locale potemmo parlare sottovoce senza rischiare di farci udire dal meccanico, e cercai di far cambiare idea ad Edward su di lui, senza molto successo.

«Non capisco perché lo detesti», sussurrai, dopo aver lanciato un’occhiata a Jacob. Era quasi giunto alla fine della bistecca, e il tempo ormai stava per scadere. «Lo conoscevi già?»

Edward allontanò il piatto da sé, dopo aver lasciato da parte i broccoli. «No. Oggi è stata la prima volta che l’ho visto. E non è vero che lo detesto».

Inarcai un sopracciglio, facendogli capire che non gli credevo. «Se potessi lo fulmineresti con lo sguardo. Mi vuoi spiegare cosa ti ha fatto? È stato così gentile con noi…»

«Con te. È stato gentile con te», rispose lui.

Aggrottai le sopracciglia. «Non dire sciocchezze. Non vorrai dirmi che sei geloso di un tizio che abbiamo appena conosciuto?»

Edward spostò brevemente lo sguardo su di me, poi lo distolse.

Sospirai. Edward era sempre stato un tipo molto geloso, e anche se cercava di trattenersi non aveva molto successo. Tuttavia non mi aspettavo manifestasse la sua gelosia anche nella situazione delicata in cui ci trovavamo in quel momento io e lui.

«Non ne hai motivo», dissi, voltando il capo per non guardarlo negli occhi.

«Lo so», borbottò. «Ma non riesco a non vedere il modo in cui ti guarda. Mi fa saltare i nervi».

Era assurdo il fatto che stessimo avendo quella conversazione quando Jacob si trovava davanti a noi, allo stesso tavolo. Eppure lui sembrava non rendersi conto del nostro scambio di battute sussurrate, mentre mangiava. Sperai fosse davvero così.

«Comunque dovresti cercare di comportarti in maniera più carina con lui», gli dissi, lasciando cadere il suo discorso. «Dobbiamo arrivare ad Albuquerque tutti insieme, e non è proprio il massimo se tu passi la metà del tempo a lanciargli sguardi omicida».

«È stata una tua idea quella di invitarlo a venire in auto con noi. Avresti almeno potuto consultarmi prima, non ti pare?», sbottò, sempre con il tono di voce basso.

Jacob alzò lo sguardo e mi zittii, sorridendogli come se non stessimo parlando di lui. Pestai il piede di Edward, e lui fece un sorriso forzato. «Mancano ancora otto minuti», gli disse, guardando il suo orologio.

Nel piatto c’erano ancora solo le verdure. Poteva farcela. La cameriera faceva il conto alla rovescia dei minuti. Ne mancavano sette.

Jacob prese un profondo respiro e ricominciò a mangiare.

«Mi dispiace», sussurrai, quando l’attenzione di Jacob era di nuovo distante. «Avrei dovuto chiedere il tuo parere, ma in quel momento non ci ho pensato. Non credevo ti avrebbe dato così tanto fastidio».

«Non è solo questo…», borbottò lui.

Inarcai un sopracciglio, scettica. «Allora che cos’è?»

Edward si voltò verso di me, i suoi occhi tormentati. «Io…»

«Fine!»

Ci voltammo entrambi verso la cameriera, che teneva il cronometro in una mano, sollevata a pugno in aria. Jacob si lasciò andare contro lo schienale della sedia, portandosi entrambe le mani sullo stomaco.

«Ha impiegato cinquantasette minuti e trentaquattro secondi! Congratulazioni!», esclamò la cameriera, applaudendo. I clienti intorno a noi si unirono a lei a battere le mani, e immaginai che non dovesse essere da tutti riuscire a mangiare un’intera bistecca da più di due chilogrammi in un’ora da soli.

Edward accennò un sorriso. «Immagino che sia arrivato il momento di metterci in viaggio», disse a Jacob, in mezzo al caos dei festeggiamenti. Sentii la cameriera nominare i proprietari del locale, che stavano venendo verso di noi per congratularsi con il meccanico.

Lui sorrise. «Credo proprio che lascerò a te l’onore di guidare, amico», disse.

Per la prima volta, le labbra di Edward si piegarono in un sorriso sincero. Forse non sarebbe andato male come temevo il viaggio fino ad Albuquerque.

 

Vedere Edward guidare un furgoncino della Volkswagen era ancora più strano di vederlo guidare la jeep di suo fratello. Era buffo vederlo mentre si destreggiava con un’auto così grande negli incroci della città di Amarillo e cercava di uscire dal centro e di tornare sulla rotta della Route 66. Jacob aveva provato ad insistere per farmi sedere davanti, ma non appena avevo dato un’occhiata all’ampio sedile posteriore, che era un intero divanetto blu, non avevo resistito: avevo lasciato che i due uomini si sedessero davanti, ed io mi impossessai di quel morbido sedile, portando con me tutte le cartine e l’itinerario. Edward non sembrava molto contento della mia decisione, ma non disse nulla.

Mi godetti il breve viaggio fino alla nostra tappa successiva osservando il bellissimo furgoncino che ci avrebbe accompagnato per il resto del viaggio. L’interno era così ampio che avremmo tranquillamente potuto dormire nel baule, nel caso ci fossimo ritrovati un’altra volta nella situazione di due notti prima, quando eravamo stati costretti a fermarci al campeggio: in quel momento era occupato dalle valigie mie, di Edward e dal borsone di Jacob, ma se le avessimo spostate dove ero seduta si sarebbe ricavato un posto abbastanza ampio per stendere ben due sacchi a pelo e potersi sdraiare tranquillamente. C’erano sei finestrini, oltre ai due per i sedili anteriori, e si potevano aprire tirandoli orizzontalmente. Ero già innamorata di quell’automobile.

Pochi minuti dopo aver lasciato Amarillo ci fermammo presso Soncy, dove si trovava il Stanley Marsh’s Caddilac Ranch. Si trattava di un ampio terreno in cui erano impiantate nel terreno dieci carrozzerie di vecchie Caddilac, una composizione molto simile a quella visitata la mattina presso Conway, dove però c’erano delle Volkswagen. Un tempo le auto erano verniciate in tinte uniformi, dei colori più tipici in cui si potevano trovare al tempo della creazione di questa opera. Con il passare degli anni, però, vennero ridipinte come se fossero dei murales, e la loro bellezza originaria venne rimpiazzata da un motivo più hippie. Molti detestavano quel nuovo aspetto, ma a me piaceva, anche se di certo non spalleggiavo i teppisti che avevano rovinato l’opera originale dell’artista.

Scattai varie fotografie, e chiesi a Jacob di essere incluso nel mio album di ricordi. Del resto se non fosse stato per lui in quel momento Edward ed io saremmo stati ancora bloccati ad Amarillo a tempo indeterminato, quindi gli dovevamo molto. Scattammo anche una foto di gruppo, chiedendo gentilmente ad altri turisti di farcene una, e poi ripartimmo.

Avevamo intenzione di raggiungere Albuquerque entro il giorno successivo, dove Jacob avrebbe potuto finalmente tornare da suo padre. Sarebbe rimasto lì per ben due settimane, per quelle che lui considerava le ferie estive. Al suo posto all’officina ci sarebbe stato suo cugino Seth, che si sarebbe anche occupato della riparazione alla nostra jeep. Jacob ci aveva detto che avremmo potuto tornare a riprenderla quando volevamo, senza fretta, e questo ci concedeva di terminare il nostro viaggio senza il pensiero di dover tornare indietro entro un certo periodo di tempo.

Più ci avvicinavamo a Los Angeles più sentivo l’ansia crescere. Non ero ancora pronta a tornare a casa, non volevo concludere quel viaggio così in fretta. In soli cinque giorni avevamo attraversato sei Stati, percorso più di mille miglia e visto un sacco di posti incredibili. Sapevo che non avrei dovuto fasciarmi la testa prima di essermela rotta, ma non potevo fare a meno che chiedermi quanto tempo avrei ancora avuto prima di tornare alla mia vecchia vita. Soprattutto quando arrivammo ad Adrian, città che si trovava esattamente a metà della Route 66, a 1139 miglia da Chicago e Los Angeles, i miei pensieri negativi non potevano fare altro che aumentare. L’unica cosa che riuscì a distrarmi fu l’improvviso dialogo fra Jacob ed Edward.

Non so come iniziarono a parlare: sapevo solo che Jacob aveva provato molte volte a fare domande ad Edward, sperando di ricevere risposte che andassero più in là di un semplice monosillabo. Pensai che forse avessero parlato mentre ci trovavamo in un bar di Adrian, ed io mi ero assentata per andare un attimo ai servizi, ma non potevo esserne sicura. Del resto i ragazzi avevano uno strano modo di legare: un minuto prima si prendevano a pugni, quello dopo si stringevano la mano chiamandosi ‘amico’ o ‘fratello’. Comunque, vederli parlare tranquillamente, senza che Edward lanciasse di tanto in tanto occhiate omicide, era rilassante. Rimasi ad ascoltarli, mentre parlavano di baseball e sport in generale e discutevano sugli ultimi risultati di alcune squadre.

Quando giungemmo a Las Vegas Junction svoltammo a destra, seguendo l’originaria tratta della Route 66 che anziché procedere direttamente verso Albuquerque compiva un arco verso nord, fino a passare per Santa Fe - capoluogo dello Stato - e poi ricongiungersi con la città di Jacob. Ci fermammo poco dopo per fare rifornimento, ed Edward scese per andare a pagare.

«Sicuro di non voler fare metà?», si assicurò Jacob, attraverso il finestrino mezzo aperto.

Edward fece un cenno con la mano, lasciando cadere la sua domanda.

Lo vidi allontanarsi in direzione della stazione di servizio, mettendo mano al portafoglio.

Appena sparì dalla vista Jacob si girò sul sedile, voltandosi verso di me. «Posso farti una domanda?», mi chiese, senza esitazioni.

«Certo», dissi, senza pensare a cosa avrebbe potuto chiedermi.

«Voi due state insieme?»

Trattenni il respiro per qualche secondo, cadendo dalle nuvole. Non mi aspettavo una domanda tanto diretta su un argomento così privato. «No. Per niente», risposi, con il fiato spezzato.

«Allora siete ex?», insistette lui. I suoi occhi mi inchiodavano al sedile, curiosi.

«Come fai a dirlo?», replicai, senza dargli una risposta diretta.

Lui sorrise, tranquillo. «Perché altrimenti non saprei spiegare il motivo per cui Edward mi odia senza che gli abbia fatto niente», disse, dimostrando che l’atteggiamento del mio compagno di viaggio non era affatto passato inosservato. Chiunque avrebbe notato l’astio nei suoi occhi e nelle sue parole.

Abbassai lo sguardo, imbarazzata. «Mi dispiace per come si sta comportando Edward. Non capisco davvero cosa gli sia preso», ammisi.

Jacob appoggiò il gomito al sedile, lasciando il braccio a penzoloni. Mi guardò senza ombra di malizia negli occhi. «Beh, mi sembra evidente. È innamorato di te, quindi vede ogni altro uomo che si avvicina troppo come una minaccia».

Lo guardai accigliata. «Lo stai difendendo?»

Lui sorrise. «Non esattamente. Ti sto semplicemente dicendo come la penso».

Incrociai le braccia sotto il seno, e vidi Edward uscire dalla stazione di servizio e venire verso di noi. «In ogni caso, non ha motivo di essere geloso. È una reazione stupida prendersela con ogni uomo con cui parlo».

Il sorriso di Jacob si spense. «Non penso che siano gli uomini con cui parli il problema».

Aggrottai le sopracciglia, guardandolo interrogativa, ma l’arrivo di Edward mi impedì di chiedergli spiegazioni più dettagliate.

Ripartimmo alla volta di Santa Fe, ma il sole era già calato, e nonostante quel giorno non avessimo avuto modo di fare molta strada dovevamo fermarci. Sostammo in una piccola città tipicamente messicana chiamata Canoncito, con piccole casette dalle mura gialle e alcune strade sterrate. Prendemmo tre stanze in un motel sulla strada, e decidemmo di approfittare della cucina locale, sebbene io ed Edward non fossimo dei patiti di cibo messicano. Dopo aver cenato, attraversammo a piedi il centro, che sembrava aver preso improvvisamente vita: la musica risuonava per le strade da alcuni locali che riportavano insegne illuminate, e nell’aria c’era odore di grigliata. Probabilmente, se fossimo stati solo io ed Edward, a quel punto ci saremmo diretti subito verso il motel; avremmo bevuto un bicchiere alla bar dall’altro lato della strada, e poi saremmo andati a dormire. Ma quella sera non eravamo soli. C’era Jacob con noi, e lui non sembrava avere intenzione di ritirarsi in camera così presto.

«Che ne dite di fare un salto in qualche posto?», propose. «È ancora presto, e dobbiamo ancora smaltire la cena».

Guardai Edward, indecisa. In effetti nemmeno io avevo sonno, ed era davvero presto per andare a ritirarci in camera.

Lui scrollò le spalle. «Per me va bene», accettò.

Jacob sorrise, e si diresse verso un locale che sembrava brulicare di gente più degli altri. Si trattava di un pub all’aperto, che disponeva di un ampio terrazzo con tavolini, banconi, e con al centro una fontana con un Cupido di pietra da cui l’acqua scendeva in una piccola cascata. Su alcune travi erano appese collane di luci colorate che attraversavano la terrazza da angolo ad angolo, illuminandola di una spirale di colori. In un angolo si trovava il bancone dei cocktails, dietro il quale uomini e donne con sombreri preparavano i drink. La musica partiva dalle casse installate sui tralicci, ma non era la tipica musica da discoteca, andava dal genere rock e country a quello lento. La gente in quel luogo era di ogni età ed etnia, anche se la maggioranza era rappresentata da ragazzi dai ventuno anni in su.

Jacob si fece largo nella calca, e raggiunse il bancone assicurandosi continuamente di non averci perso nella mischia.

«Cosa prendete ragazzi?», ci chiese, alzando la voce per sovrastare il rumore della musica e delle voci.

Lo guardai indecisa. Provai a rispondere, ma non mi sentì. Mi tese l’orecchio. «Non so se il caso…», dissi.

Jacob sorrise. «Non dire sciocchezze. Un bicchiere non ha mai fatto male a nessuno», esclamò. «Tu cosa mi dici, Edward?», chiese, rivolgendosi a lui.

Edward guardò prima Jacob, poi me. Alzò un angolo della bocca, in un sorriso storto. «Per me un gin tonic», rispose, tornando a guardare il meccanico.

Jacob alzò la mano, e batté il cinque ad Edward. «Così ti voglio», esclamò. «E tu Bella?»

Mi morsi il labbro, non sapendo cosa rispondere. «Io…»

Edward si piegò in avanti, verso Jacob. «Per lei una caipiroska alla fragola», rispose al mio posto.

Jacob si voltò subito per cercare di attirare l’attenzione del barista, ed io mi girai a guardare male Edward. Lui mi guardò con sguardo innocente. «Che c’è?»

«Lo sai che non ho una buona resistenza all’alcol», gli dissi, avvicinandomi a lui per farmi sentire.

Lui rise. «Ti riporterò in camera in braccio, se ne avrai bisogno», scherzò.

Io alzai gli occhi al cielo, e gli tirai un leggero pugno sul petto, facendolo sorridere.

Quello che nessuno di noi sapeva, era che quella sera avrebbe davvero dovuto farlo.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Il furgoncino della Volkswagen - sostituisce la jeep di Emmett.

Buongiornooo! :D Buona Pasquetta a tutti! :D

Questa settimana ho deciso di postare anche se oggi è festa, così da continuare a tenere il lunedì come giorno di aggiornamento :D

In questo capitolo si conosce un po' di più Jacob, che è entrato nella storia e dovrebbe rimanere solo fino a quando i protagonisti raggiungeranno Albuquerque. Edward spiega più o meno per quale motivo sembra odiare Jacob, ma non è ancora spiegato tutto il motivo, che Jacob sembra conoscere. Arrivano in New Mexico e vanno a bere in un pub. Cosa succederà? :D

Grazie mille a chi continua a seguire la storia! Grazie anche ai lettori silenziosi, e a chi aggiunge la storia alle varie liste!

Alla prossima settimana! :D

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Capitolo 9
*** Last Friday night ***


Route 66

Last Friday night

Yeah we danced on tabletops

And we took too many shots

Think we kissed but I forgot

Last Friday night

Katy Perry - Last Friday Night

09. Last Friday night

«Giù, giù, giù!»

Guardai un’ultima volta Edward e ricambiai il suo sorriso di sfida, mentre la gente intorno a noi ci incitava a mandare giù l’ennesimo bicchiere di shot. Portai il piccolo bicchiere alle labbra e bevvi l’intero contenuto in un unico sorso, deglutendo il più velocemente possibile per non sentire il gusto amaro della tequila in bocca.

Appoggiai il bicchiere al tavolo con la testa che girava pesantemente, sentendo il liquido risalire velocemente dallo stomaco. Ricacciai il groppo deglutendo e ciondolai avanti. Mi appoggiai con i gomiti al bancone di legno, mentre sentivo qualcuno ridere. Fissai lo sguardo sulle venature screpolate del tavolo, cercando di far smettere alla terrazza di girare, inutilmente. Capovolsi il bicchiere dello shot, affiancandolo alla pila degli altri dalla mia parte.

Guardai Edward, che respirò profondamente prima di bere il suo bicchiere ed imitare il mio movimento dopo averlo svuotato. Ancora pari.

Al contrario di me, lui sembrava ancora sobrio. Mi chiesi come poteva un ragazzo che beveva pochissimo riuscire a mandare giù tanto alcol senza ritrovarsi ubriaco dopo un solo shot. Forse era solo una facciata ed anche lui era brillo quanto me.

Allungai una mano verso un nuovo bicchiere di tequila, ma Edward lo prese prima di me, coprendolo con il palmo. Lo guardai accigliata.

«Meglio se ti fermi», mi disse, apprensivo.

Posai la mano sulla sua, e cercai di scacciarla per liberare il bicchiere. «Posso ancora vincere», ribattei, senza rendermi conto di quanto biascicate fossero le mie parole.

Edward scosse il capo, e quando pensavo di essere riuscita a strappargli il bicchiere di mano Jacob lo prese al mio posto, e bevve tutto il liquido in un sorso.

«Bene, direi che per questa sera abbiamo bevuto abbastanza!», esclamò, sorridendo, un po’ brillo.

Edward lo guardò con un sopracciglio inarcato. «Finalmente l’hai capito. Dopo tutti gli shot che l’hai convinta a bere pensavo le avresti comprato ancora una bottiglia di alcol».

Jacob sghignazzò, portandomi un braccio intorno alle spalle. «Su, una bevuta ogni tanto non fa male. Aveva bisogno di svagarsi, non è vero?», chiese, rivolgendosi a me.

Lo guardai con aria assente. «Ce ne andiamo?», domandai, sorpresa.

Edward si alzò dallo sgabello. «Sì».

Jacob tolse il braccio dalle mie spalle, e finì l’ultimo shot rimasto sul bancone al posto di Edward.

Scesi dallo sgabello, e non appena fui con i piedi per terra un capogiro mi colse inaspettato. Jacob posò entrambe le mani sulle mie spalle, tenendomi dritta. «Ohi. Tutto bene?», mi chiese divertito, mentre Edward mi osservava preoccupato.

Scrollai le sue mani di dosso, annuendo.

Edward fece un passo avanti e mi prese delicatamente per un gomito, facendomi avanzare verso la folla di gente, diretti verso l’uscita della terrazza. Jacob era dietro di me, a chiudere la fila.

Eravamo giunti al centro della terrazza, accanto alla fontana con il Cupido, quando mi fermai, impiegando alcuni secondi per elaborare il motivo per cui l’avevo fatto.

Edward si voltò a guardarmi, e Jacob posò una mano sulla mia schiena, avvicinandosi per controllare che non stessi per cadere o vomitare, probabilmente.

«Che cosa c’è?», mi chiese il mio compagno di viaggio, senza lasciare il mio gomito.

«Conosco questa canzone», esclamai, ricordandomi cosa mi aveva convinta a fermarmi.

Edward inarcò un sopracciglio, ma non disse niente. Jacob invece premette delicatamente la mano contro la mia schiena, per spronarmi ad andare avanti.

Feci un passo, e posai entrambe le mani sulle braccia di Edward, sorridendo. «Balliamo».

I suoi occhi si spalancarono, sorpresi. «Balliamo

Annuii scuotendo il capo, finendo per rendere tutta la mia visuale ancora più confusa. «Mi piace questa canzone».

Edward assottigliò lo sguardo. «Tu odi ballare», disse, guardandomi come se fossi un’aliena.

«Io non odio ballare. Mi sento stupida a ballare», ribattei, abbassando lo sguardo e ciondolando da un piede all’altro. In un’altra situazione probabilmente sarei arrossita violentemente, ma in quel momento le mie guance erano già bordeaux a causa dell’alcol.

Sentii Jacob ridacchiare alle mie spalle. «Meglio accontentarla», lo sentii dire. «Gli ubriachi vanno assecondati».

Mi voltai a guardarlo, accigliata. «Io non sono ubriaca», borbottai. Alle mie orecchie la mia voce suonava normale, ma a giudicare da come Jacob ed Edward scoppiarono a ridere dovevo avere un tono strascicato e assonnato, da perfetta ubriaca.

Tornai a guardare Edward, e mi avvicinai ancora un po’. «Balliamo?», insistetti, guardandolo negli occhi. Sotto le luci colorate della terrazza le sue iridi verdi sembravano più brillanti e profonde che mai.

Mi fissò per un istante, pensieroso, poi sospirò. Senza dire niente prese le mie mani nelle sue, e iniziammo a ballare. Non sapevo di preciso cosa stavo facendo. Muovevo il corpo al ritmo della musica - o almeno così mi sembrava - e cercavo di imitare altre ragazze che vedevo muoversi scioltamente, oscillando i fianchi e scuotendo le chiome ribelli. Edward mi fece fare una breve piroetta, e per un istante mi parve di scorgere un sorriso divertito sulla sua faccia quando mi riacciuffò mentre ciondolavo con la testa che girava violentemente. Mi tenni stretta a lui, alla ricerca di un punto fermo per riprendere cognizione del luogo in cui mi trovavo, e in quel momento la musica cambiò, divenendo lenta.

Posai la testa sul suo petto, e chiusi gli occhi. La sensazione di giramento diminuì lievemente, e pensai che per la prima volta in vita mia ero riuscita a ballare senza sentirmi una completa idiota incapace di muovere due passi senza sembrare una papera umana, nonostante in quel momento stessi praticamente ciondolando con tutto il mio peso lasciato contro Edward, che mi sorreggeva e dettava il ritmo. Le sue mani si erano ancorate alla mia vita, tenendomi vicina. Mi sembrava quasi di sentire il battito del suo cuore contro l’orecchio, se non fosse stato impossibile a causa della musica troppo alta e il confuso chiacchiericcio intorno a noi. Distesi con la punta delle dita le pieghe della sua camicia, sentendo sotto i polpastrelli la consistenza soda dei muscoli del petto, e sospirai leggermente.

Dopo pochi minuti Edward si fermò, e la presa sui miei fianchi si fece leggera come una piuma. Alzai il capo per incontrare il suo sguardo e lui fece un passo indietro, allontanandosi. «È meglio se torniamo al motel», disse, e il suo sguardo vagò verso Jacob, che stava parlando con una ragazza mai vista prima, appoggiato contro il bordo della fontana.

Piegai la bocca in una smorfia. «Non possiamo restare ancora un po’?», biasciai, cercando di riavvicinarmi a lui.

Edward posò le mani sulle mie braccia, tenendomi a distanza. «Bella…», mi rimproverò con gli occhi socchiusi.

Mi allontanai di un passo. «Va bene», sbottai, voltandogli le spalle. Andai vicino a Jacob, e ignorai la ragazza che ci stava chiaramente provando con lui, prendendogli un braccio. «Andiamo», gli ordinai malamente, costringendolo a muoversi. Jacob guardò Edward, confuso, poi mi seguì mentre cercavo di farmi strada nella folla, senza sapere se stessi andando verso l’uscita. Jacob cercò di indicarmi la giusta direzione, e dopo un minuto ci ritrovammo al limitare della terrazza. Sentii la mano di Edward stringermi il braccio mentre mi avviavo verso i gradini che portavano in strada, e la scacciai con uno strattone.

«Lascia che ti aiuti a fare le scale», disse, cercando di riafferrarmi.

Feci il primo gradino di tre da sola, reggendomi sui miei piedi con difficoltà, ciondolando pericolosamente senza nemmeno rendermene conto. Mi voltai a guardare Edward, che mi fissava con preoccupazione, insieme a Jacob. «Ce la faccio da sola», sbottai, fieramente.

Mi voltai nuovamente per completare la breve scala. Giunta con un piede sull’asfalto del marciapiede stavo già iniziando a dire “Visto?” che non riuscii a reggermi su una sola gamba e crollai a terra, provando una fitta alla caviglia destra. Edward e Jacob furono subito al mio fianco, inginocchiati sull’asfalto.

Edward passò un braccio intorno alla mia vita, tirandomi a sedere. «Stai bene? Ti fa male qualcosa?» Mi appoggiò sul primo gradino della scala, e percorse velocemente il mio corpo con sguardo clinico.

«La caviglia», brontolai, provando una fitta quando tentai di muovere il piede.

Le sue mani da medico corsero al mio piede, dove sfilò la Converse per poter controllare che non ci fossero danni. Tastò gentilmente la carne, e gemetti debolmente.

«Riesci a muoverlo?», mi chiese, mentre Jacob stava perdendo la testa. Aveva già il cellulare in mano, pronto a chiamare un’ambulanza. Edward lo zittì, cercando di spiegargli che telefonare da ubriachi al pronto soccorso non era la scelta più saggia in quel momento e che aveva la situazione sotto controllo. Questo sembrò calmarlo un po’, ma continuava a tenere il cellulare a portata di mano.

Mossi il piede circolarmente, provocando l’ennesima fitta. Feci una smorfia, annuendo.

«È solo una storta», confermò, dopo aver risistemato la calza al mio piede, facendo attenzione a non muoverlo. «Guarirà in pochi giorni».

Annuii debolmente, e lui lanciò la mia scarpa a Jacob, che l’afferrò fortunatamente al volo con una strana acrobazia delle braccia. Mi aiutò ad alzarmi su un solo piede, e poi si voltò fino a rivolgermi la schiena; si abbassò leggermente fino ad arrivare alla mia altezza e mi disse di salirgli in spalla. Il mio corpo si mosse automaticamente, e allacciai le braccia intorno al suo collo, riuscendo per miracolo ad aggrapparmi a lui senza rischiare di far cadere entrambi. Le sue mani si allacciarono sotto le mie ginocchia, e si sollevò rimettendosi dritto. Appoggiai il mento alla sua spalla, sospirando.

Jacob sorrise sornione, e ritirò il cellulare. «Che serata ragazzi», esclamò, stiracchiandosi. Si incamminò verso il nostro motel, poco distante, e iniziò a canticchiare una canzone che non conoscevo.

Chiusi gli occhi, affondando il viso contro il collo di Edward e inspirando il suo profumo. Le sue mani si strinsero maggiormente intorno alle mie ginocchia, e sfregai il viso contro la sua pelle, solleticandomi con i suoi capelli. Lo sentii irrigidirsi e allungare il passo, fino ad affiancare Jacob, che continuava a canticchiare.

Caddi in una specie di oblio per qualche minuto, e mi risvegliai quando sentii Edward fermarsi.

«Credo che si sia addormentata», sentii dire da Jacob, nel dormiveglia. Tenni gli occhi chiusi, stringendo la presa intorno al collo di Edward, cercando una posizione più comoda.

Edward respirò profondamente. «Bella?», mi chiamò.

«Hm?», mormorai a bocca chiusa, rifiutandomi di aprire gli occhi.

«Siamo arrivati al motel. Riesci a prendere le chiavi?»

Sollevai controvoglia le palpebre, e alzai il capo fino a vedere che ci trovavamo davanti alla porta della mia camera. Slacciai un braccio dal suo collo per infilare una mano nella tasca dei jeans, dove avevo messo la chiave della mia stanza per non portarmi dietro la borsa. La presi e la porsi a Jacob, tornando ad appoggiarmi alle spalle di Edward.

Il meccanico aprì la porta, spalancandola, e gettò la mia scarpa all’interno della stanza, vicino all’ingresso.

«Va bene», disse poi, sorridendo. «Credo proprio che ci vedremo domattina ragazzi. A che ora è la sveglia?»

«Nove e mezza. Alle dieci ci troviamo alla tavola calda per fare colazione», rispose Edward, prendendo le chiavi della mia stanza dalla toppa.

Jacob annuì e si diresse verso la sua camera, a qualche porta più in là. «Perfetto. Buona notte, ragazzi!»

Non appena si allontanò canticchiando Edward entrò nella mia stanza, chiudendo la porta con il piede alle nostre spalle. Accese con il gomito l’interruttore della lampada a terra che gettò una luce arancione nella stanza, e poi avanzò verso il letto da una piazza e mezza, dove mi fece scendere.

«In valigia ho la crema per i lividi e una benda. Se mi aspetti posso andare a prenderle», disse, riferendosi alla storta alla mia caviglia, mentre mi sfilavo anche l’altra scarpa e le calze. La caviglia era diventata già gonfia, e al minimo movimento mi faceva male.

Annuii senza dire nulla, e non appena Edward uscì dalla stanza mi alzai per andare a prendere il mio pigiama, appoggiato sul sedile dell’unica sedia della stanza. Saltellai facendo una smorfia ogni volta che il mio piede destro toccava terra, e rischiando più volte di cadere a causa del giramento di testa che non mi aveva ancora abbandonato. Mi sentivo confusa e non riuscivo a pensare lucidamente, ma in quel momento non mi rendevo affatto conto di essere ubriaca. Riuscii a cambiarmi la maglia, e a fatica riuscii anche ad abbassare i jeans, imprecando quando piegandomi in avanti per sfilarli dal piede destro sbattei la testa contro la scrivania. In quel momento sentii la porta della stanza richiudersi e mi voltai verso Edward, che teneva in mano un rotolo di bende ed un flacone di pomata. Mi guardò per un istante, poi distolse lo sguardo. «Che stai combinando?», mi chiese, avvicinandosi al letto e lasciando cadere sul piumone i suoi attrezzi da medico.

Mi sfregai con una mano la fronte nel punto in cui mi faceva ancora male, con le lacrime agli occhi per il dolore improvviso. «Volevo mettermi il pigiama», brontolai, sollevando i pantaloncini corti del pigiama. Solo in quel momento mi ricordai di avere le gambe completamente nude ed esposte alla sua vista, insieme alle mie mutandine. Cercai di coprirmi con i pantaloncini, ma poi ricordai che in fondo Edward aveva già visto tutto quel che c’era da vedere, e anche se non eravamo più fidanzati quello non cambiava il passato.

«Mi si è incastrato il piede e ho battuto la testa», aggiunsi, mentre lui mi guardava.

Sentii le guance calde e abbassai lo sguardo, tenendomi con una mano alla scrivania e cercando con l’altra di togliermi i jeans completamente. Feci una smorfia quando mi costrinsi a piegare il piede per riuscire a liberarmi, e li gettai alla rinfusa sulla sedia, con rabbia. Presi i pantaloncini del pigiama, e li tesi in avanti per infilarli.

«Aspetta», disse in un sospiro Edward, venendomi davanti. «Ti aiuto, prima che cadi».

Prima che potessi obiettare prese i pantaloni corti dalle mie mani e si sedette sui talloni davanti a me, allargandoli per far passare i miei piedi.

Incerta, appoggiai entrambe le mani sulle sue spalle e alzai il piede sano, sostenendomi sulla caviglia dolorante, trattenendo un gemito di dolore.

«Avresti dovuto cambiarteli da seduta, lo sai?», disse senza alcuna intonazione.

Trassi un respiro di sollievo quando tornai a sostenere il peso sul piede sano, e sollevai l’altro, infilando definitivamente i pantaloncini.

«Non ci ho pensato», bofonchiai, sostenendomi ancora a lui.

Le sue mani sollevarono lentamente i pantaloni, sfiorando con le nocche dei pollici la pelle nuda delle mie gambe in tutta la loro interezza fino ad arrivare ai fianchi, dove rilasciarono l’elastico. Una cascata di brividi scivolò lungo la mia schiena, e se non fosse stato per l’appoggio alle spalle di Edward probabilmente sarei caduta a terra a causa delle ginocchia improvvisamente deboli.

Dopo un istante Edward si rialzò, e lasciai cadere le mie mani.

«Grazie», sussurrai.

Lui si schiarì la voce brevemente, e si voltò verso il letto. «Vieni. Ti faccio la fasciatura», disse.

Zoppicai fino al letto e mi sedetti sul bordo, per poi strisciare fino ad arrivare con la schiena contro i cuscini. Edward si fermò a metà del materasso, e appoggiò la mia caviglia sulle sue gambe, prendendo in mano la pomata. Quando posò la prima goccia di crema sussultai per il contatto con quella sostanza gelatinosa che sembrava ghiaccio. Con il palmo della mano massaggiò con lentezza la caviglia, facendo attenzione a non premere troppo nel punto in cui vedevo i muscoli gonfi, che mostravano già un colorito più scuro. La sua pelle scivolava sulla mia senza attriti, facilitata dalla crema che rendeva la mia piacevolmente liscia, e diffondeva un delicato profumo di eucalipto nell’aria. Le dita di Edward indugiarono ancora per un istante sul mio piede, poi lo spostò, alzandosi.

«Tienilo sollevato per un po’. Appena la crema si asciuga faccio la fasciatura», mi disse, dirigendosi verso il bagno per lavarsi le mani dalla crema.

Mi sollevai dai cuscini, facendo scendere i piedi dal materasso e lasciandoli a penzoloni dal letto, per evitare di macchiare le lenzuola di pomata. Quando lui tornò si sedette accanto a me, prendendo in mano la garza e passandola da un palmo all’altro, in attesa.

«Perché non sei ubriaco?», domandai dopo un attimo, imbronciata.

Edward fermò il movimento delle sue mani e mi guardò con le sopracciglia inarcate. «Dovrei esserlo?»

Socchiusi gli occhi. «Hai bevuto un sacco anche tu. Io lo so di essere un po’ brilla, ma tu sembri normale», borbottai.

Un angolo delle sue labbra si piegò verso l’alto, in un sorriso sghembo. «Un po’ brilla?»

Gli colpii il braccio, facendolo ridere leggermente. «Io non sono ubriaca», sbottai, imbronciata.

Edward bloccò la mia mano per impedirmi di colpirlo ancora, continuando a ridere. «Se lo dici tu».

«Perché non sei ubriaco?», insistetti, quasi dimenticandomi di cosa stavamo parlando. Il suo sorriso era così rilassato che sarei potuta restare a guardarlo tutta la notte.

«Abbiamo bevuto al massimo tre shots, Bella. E un cocktail. Sei tu che hai una bassa resistenza all’alcol», ghignò, lasciando andare il mio polso.

Sbuffai, e mi lasciai cadere all’indietro sul materasso, aprendo le braccia. «È impossibile che non sei brillo», dissi, osservando distrattamente il soffitto.

«Un po’ mi sento confuso», ammise dopo un secondo di silenzio, ancora seduto sul bordo del letto. «Ma riesco a nasconderlo meglio di te», aggiunse, con un sorriso divertito.

Allungai un braccio fino ad attaccarmi al suo, e mi sollevai fino a tornare accanto a lui, sentendo la testa girare. «Quindi ora sei confuso?», mormorai, notando solo lontanamente quanto eravamo vicini.

Edward assottigliò lo sguardo, ma nei suoi occhi lessi un sentimento che riconobbi immediatamente: desiderio. «Non abbastanza da non capire che sei ubriaca e non ti rendi conto di quello che stai facendo».

Presi una sua mano nella mia, muovendola fino a portarla sulla mia coscia. «Non sono ubriaca», ribadii, senza freni né controllo. Dove era finito tutto il mio raziocinio? Possibile che l’alcol avesse mandato in fumo tutti i miei propositi e pensieri? Tutto il passato?

Negli occhi di Edward scorsi una scintilla, ma non capii che sentimento fosse. Allontanò la mano, liberandosi dalla mia debole presa. «Bella…», mi rimproverò, con tono grave.

«Che c’è?», sbottai, imbronciandomi.

Lui respirò profondamente. «Sto cercando di non fare niente di stupido. Perciò ti prego. Cerca di collaborare», disse a denti stretti, aprendo la benda bianca per iniziare la fasciatura. «Dammi la caviglia», disse, cercando di mantenere un tono severo, ma la sua voce tremò.

Sbuffai, e sollevai il piede fino ad appoggiarlo alla sua coscia. Lo osservai mentre teneva lo sguardo puntato sulla mia gamba, cercando di concentrarsi mentre mi fasciava il piede in modo da non muoverlo eccessivamente. La fronte presentava due rughe create dal cipiglio concentrato sul suo viso, e gli occhi seguivano il movimento delle sue mani, che giravano intorno alla mia caviglia legandola. Quando la garza terminò appuntò un piccolo fermaglio, chiudendo la fasciatura.

Lasciai ricadere il piede sul materasso, e prima che Edward potesse alzarsi lo afferrai per la manica della camicia. «Resti a dormire qui?», gli chiesi, dando voce al mio desiderio.

Edward mi fissò sorpreso, ma presto quel sentimento venne oscurato da pensieri più cupi.

«Non lo vuoi davvero», disse semplicemente, alzandosi e lasciando le mie mani a cercare nel vuoto.

«Sì, invece», sbottai, battendo il pugno rimasto vuoto contro il materasso.

Edward mi guardò dall’alto, più serio che mai. «Lo vuoi adesso solo perché sei ubriaca. Domattina quando ti sveglierai vorrai uccidere me e prendere a testate te stessa. Quindi faccio un favore ad entrambi andandomene», ribatté, raccogliendo il barattolo di pomata e dirigendosi verso la porta.

Mi alzai in piedi tempestivamente, ignorando il giramento di testa e il dolore al piede destro, e feci alcuni passi zoppicanti verso di lui. «Non è vero che non lo voglio», replicai, più disperata che arrabbiata. «Lo voglio sempre ma non ho il coraggio di ammetterlo».

Edward si fermò accanto alla porta, con la mano già sulla maniglia. Lo vidi respirare profondamente, poi si voltò verso di me. «Non è così».

Strinsi i pugni, avvicinandomi ancora. «Sì invece. Non si dice in vino veritas? Se davvero sono ubriaca significa che ti sto dicendo la verità quando dico che voglio restare con te la notte. Non lo ammetto mai perché ho paura». Sentii gli occhi diventare improvvisamente lucidi, e mi morsi il labbro inferiore con forza.

Edward mi guardò per un lungo istante, ed ero certa che se fossi stata più vicina avrei potuto leggere nei suoi occhi la battaglia che stava combattendo dentro di lui. «Non vorresti dirmi queste cose. Domattina probabilmente ti odierai per avermele dette».

«Non importa», sussurrai. «Ti prego, resta».

I suoi occhi mi scrutarono per un lungo istante. «Sei sicura?»

In risposta sorrisi, annuendo. Edward mi guardò ancora per un istante indeciso, poi si sfilò le scarpe, lasciandole nell’ingresso con le calze. Mi venne accanto, e mi aiutò a saltellare fino al letto; poi fece il giro, e si sedette sul materasso, ma prima che si infilasse sotto le coperte lo fermai.

«Non ti togli neanche i jeans? Non ti danno fastidio?», gli chiesi, perplessa, senza pensare al fatto che avrebbe dormito nel mio stesso letto, attaccato a me. Entrai nel letto, restando vicino al bordo.

Edward aggrottò le sopracciglia. «Per te va bene se li tolgo?», si assicurò, per niente convinto.

Annuii, ripensando al fatto che quella non sarebbe stata la prima volta che avrei dormito insieme a lui in biancheria intima.

«Domattina non mi ucciderai vero?», insistette, alzandosi per sfilarsi i pantaloni.

Risi leggermente. «No, te lo prometto».

Osservai il suo profilo illuminato dalla luce arancione della lampada, soffermandomi sulla curva del suo fondoschiena fasciato dai boxer neri aderenti. Solo quando si schiarì la voce capii di essere stata colta in flagrante mentre lo guardavo. Sentii le mie guance diventare incandescenti, e dopo essermi voltata dalla parte opposta alla sua tirai le coperte fin sotto il mento, nonostante il caldo estivo che aleggiava nella stanza; l’aria condizionata si era spenta ore prima, e di notte avrebbe dato troppo fastidio tenerla accesa.

Sentii Edward infilarsi sotto i lenzuoli leggeri, e mi sembrò quasi di sentire il suo calore irradiarsi fino a me, aumentando la temperatura nella stanza - già di per sé alta. Avvertii un lieve movimento, e vidi il suo braccio tendersi oltre di me, sfiorandomi la spalla; il suo respiro accarezzò i miei capelli per un istante, poi nella stanza calò il buio, ed Edward si allontanò nuovamente.

«Buona notte», sussurrò nell’oscurità, sistemandosi alle mie spalle.

«‘Notte», risposi, chiudendo gli occhi. Qualche secondo - o minuto? - dopo girai su me stessa, voltandomi verso di lui. Non potevo vederlo, ma ero certa di sentire il suo respiro infrangersi contro il mio, accarezzandomi il viso.

Nonostante fossi cosciente della sua presenza a pochi centimetri da me non impiegai molto ad addormentarmi. Caddi in un sonno pesante, privo di sogni.

 

Fui cosciente del fastidioso mal di testa che mi assillava prima ancora di aprire gli occhi. Sentivo il sangue pulsare violentemente contro le tempie, e la bocca così secca che non riuscivo nemmeno a deglutire. L’unica spiegazione ad una simile situazione era evidente: la sera prima dovevo averci dato dentro con l’alcol, e anche parecchio - almeno secondo i miei canoni.

Aprii gli occhi cautamente, pronta a ritrovarmi accecata dalla luce del sole che filtrava attraverso la finestra: ero sicura di aver dimenticato di chiudere le tende prima di uscire, e non ricordavo se una volta tornata in camera avevo avuto la lucidità di farlo. Tuttavia trovai la stanza piacevolmente avvolta da una semioscurità, e vidi le spesse tende verdi tirate accuratamente. Sospirai pesantemente, e richiusi gli occhi. La sveglia segnava le nove in punto, quindi avevo ancora mezz’ora di tempo - sempre se Edward e Jacob non avevano cambiato orario la sera precedente, quando eravamo al pub.

Sollevai il capo per girare il cuscino, alla ricerca di uno sprazzo fresco su cui poggiare la testa, e scacciai con i piedi i lenzuoli, che si erano attorcigliati intorno a me durante la notte. All’improvviso un mugolio spezzò il silenzio, e mi fece immobilizzare. Rimasi ferma e zitta, aspettando che il suono si ripetesse, ma non udendo nient’altro mi girai lentamente su me stessa, fino a trovarmi con il volto rivolto alla parte opposta del letto.

Trattenni il respiro e sentii la gola diventare se possibile ancora più secca di quanto fosse già. Accanto a me c’era Edward, rivolto a pancia in giù e con il viso rivolto dalla parte opposta alla mia, la schiena nuda che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro. I lenzuoli che avevo scacciato il minuto prima si erano abbassati fino alle sue ginocchia, rivelando i boxer neri che contrastavano con il bianco latteo del letto.

Il mio sguardo corse immediatamente al mio corpo, e con un sospiro di sollievo accertai che il mio pigiama fosse ancora al suo posto. Tuttavia quello non poteva escludere nulla.

Un’ondata di panico mi sommerse quando provando a ripensare alla serata precedente ricordai solo pochi secondi. Ricordavo di aver bevuto una caipiroska alla fragola, e poi di aver accettato di sfidare Edward a chi riusciva a bere più shot di tequila, nonostante fossi consapevole di sentirmi già confusa. Poi… più niente.

Mi morsi le labbra, guardandomi in giro per cercare qualunque segno che potesse indicare che avevamo fatto sesso: vestiti sparsi in giro, scarpe buttate chissà dove, carte di preservativi - avevamo usato una protezione, gli avevo detto che avevo smesso di prendere la pillola da mesi, vero? - ma tutto sembrava in ordine, tranne la sua camicia abbandonata ai piedi del letto dal suo lato. Forse avevamo rimesso a posto tutto dopo, non potevo saperlo. Quei pensieri non fecero altro che aumentare in maniera spropositata il mio mal di testa, che ormai sembrava deciso a farmi friggere il cervello.

Respirai profondamente e decisi di alzarmi dal letto, cercando di fare il minor movimento e rumore possibile, neanche fossi stata una ragazza che cercava di scappare dal tizio con cui aveva fatto sesso la notte prima e il mattino dopo non ricordava nemmeno il suo nome. Tuttavia, il mio piano andò completamente in fumo quando mettendo il piede destro a terra e provando a fare il primo passo proruppi con un fragoroso «Ahi!» ed una caduta accanto al letto. Mi portai una mano alla testa e l’altra alla caviglia dolorante, maledicendo il mal di testa. In quel momento riuscii a ricordarmi di un momento della sera precedente: ero caduta da dei gradini stortandomi la caviglia, per quello ero crollata provando una fitta pazzesca al piede.

Edward si svegliò subito, e lo vidi alzarsi sui gomiti e guardarsi intorno, intontito. Il suo sguardo si fermò su di me, e si spostò verso il mio lato del letto, il volto preoccupato. Lo fermai alzando una mano prima che si alzasse dal letto e dicesse qualcosa.

«Dimmi che non è quello che penso», dissi, cercando di mantenere un tono di voce basso per non farmi troppo male alla testa. La mia voce era rauca per la gola secca, di sicuro non ero un bello spettacolo in quel momento.

Edward sembrò cadere dalle nuvole. «Non è come sembra», disse solo, anche lui con la voce roca.

La sua risposta mi rincuorò solo in parte. «Vuoi dire che noi non… non abbiamo fatto niente di stupido, vero?»

Edward inarcò un sopracciglio, accigliato. «Se per stupido intendi aver bevuto quegli shot, allora mi spiace dirti che sì: abbiamo fatto qualcosa di molto stupido. Se ti riferisci invece a fare sesso la risposta è no».

Presi un profondo respiro di sollievo, appoggiandomi con la schiena al letto. Grazie al cielo.

Sentii Edward ridacchiare leggermente. «E poi, secondo te, avremmo avuto la forza per rivestirci dopo?»

Sentii le mie guance avvampare, ma ignorai il suo commento. «Posso sapere cosa ci fai nel mio letto, allora?», gli chiesi, cercando di imporre alla mia voce una nota di durezza, fallendo. Nella mia voce l’unica cosa che si poteva sentire era una gola troppo secca e un gran bisogno di silenzio. Ma in quel momento la pace era un lusso che non potevo concedermi, non con tante domande ancora in ballo.

Edward comunque interpretò la mia stanchezza come rabbia, o forse pentimento. «L’avevo detto che mi avresti ucciso», disse, passandosi una mano fra i capelli. Scese dall’altra parte del letto, e si infilò i jeans.

«E allora perché non te ne sei andato?!», sbottai d’impulso, portandomi poi una mano sulla fronte per il dolore. Mi rialzai fino a sedermi sul bordo del letto.

Edward si voltò verso di me, l’espressione seria. Ogni nota di divertimento era sparita dalla sua voce. «Perché mi hai pregato di non farlo», rispose semplicemente, tenendo la voce bassa, probabilmente capendo quale fosse il problema che mi affliggeva in quel momento, o forse perché ne era una vittima anche lui.

Feci una smorfia. Nonostante stessimo entrambi tenendo un tono di voce basso le mie tempie pulsavano come tamburi. «Ero ubriaca. Avrei potuto dire qualsiasi cosa», mi difesi.

Lui si infilò la camicia, lasciandola sbottonata. Mi venne accanto, e in quel momento ero talmente dolorante e stanca che non ebbi nemmeno la forza per fermarlo. «Ieri sera hai detto tu stessa: in vino veritas. Entrambi abbiamo ceduto ad un nostro desiderio, quindi ora non nasconderti dietro alla scusa di essere stata ubriaca», disse, con più durezza di quanto mi sarei aspettata.

Le sue parole fecero scattare i miei ricordi, confusi e annebbiati, di ieri sera: ricordavo di essere stata sulle sue spalle, troppo dolorante al piede per camminare, di averlo osservato mentre mi metteva i pantaloni del pigiama, di averlo pregato di restare con me la notte dicendogli proprio in vino veritas. Mi ero scoperta come non mai, come mi ero ripromessa di non fare per nessuna ragione al mondo prima di partire con lui per quell’avventura.

Alzai lo sguardo su di lui, sentendomi per la prima volta nuda interiormente dopo tanto tempo. Mi ero aperta così tanto con lui sotto l’effetto dell’alcol. Se gli avevo rivelato quello, cos’altro avevo avuto modo di dirgli, che in quel momento non ricordavo? Mi sentii più esposta che mai, fragile e aperta ad ogni suo possibile attacco. Cos’altro era successo quella notte? Se ci fossimo anche solo baciati, però, ero sicura che me lo sarei ricordata. Dovevo ricordarmelo.

Abbassai lo sguardo, e osservai la fasciatura bianca intorno alla mia caviglia destra, fatta con cura - opera di Edward. Si era preso cura di me, e forse quello - insieme all’alcol - aveva fatto scattare qualcosa dentro di me. E lui aveva ragione: non potevo nascondermi dietro la scusa di essere stata ubriaca, perché intendevo ogni singola parola detta. «È vero quello che ho detto: in vino veritas. È vero che voglio ancora stare con te», ammisi, sentendo la mia voce tremare. «Ma questo non cambia le cose. Non so se voglio rischiare ancora, Edward. Non sono… ancora guarita del tutto da quello che è successo l’anno scorso», sussurrai, sentendomi quasi male a dire quelle cose ad alta voce. «E non so se lo sarò mai».

Edward si mosse verso la porta, le mani che allacciavano scompostamente la camicia. Si fermò con la mano sulla maniglia e si voltò. «Forse…» Si interruppe, e scosse lievemente il capo. Quando tornò a guardarmi i suoi occhi mostravano un dolore che non avevo ancora visto. «Mi permetteresti di aiutarti a guarire?»

Nella stanza cadde il silenzio, e quella domanda aleggiò nell’aria, come un’eco. E la risposta che gli detti cambiò tutto fra di noi.

 

«Ditemi che possiamo restare qui fino domani», esalò Jacob, disteso a pancia in sù su un muretto di Plaza Santa Fe, nell’omonima città. In una mano teneva un frullato fresco, e sul viso aveva un paio di occhiali da sole neri come la notte. Anche lui, come me, era ancora afflitto da un bel mal di testa.

Mi sedetti poco distante da lui, resistendo alla tentazione di imitare la sua posizione. Quei mattoni nonostante fossero scomodi sembravano piacevolmente freschi, riparati dalla folta chioma di un albero. La brezza leggera che soffiava nella città era calda, ma abbastanza piacevole se si aveva fra le mani un bicchiere di frullato con i cubetti di ghiaccio che emanavano una piacevole frescura ai palmi. Il mal di testa era diminuito progressivamente, ma era ancora un tarlo persistente nelle mie tempie.

Edward era l’unico ad essersi svegliato con un mal di testa sopportabile, e dopo aver somministrato sia a me che Jacob una pastiglia per calmare il dolore - che fosse benedetta la sua valigetta medica sempre con lui - ci aveva messi in macchina per ripartire alla volta di Albuquerque. Tuttavia, il mix aria condizionata e caldo afoso del New Mexico non furono un’accoppiata vincente: sia io che il meccanico continuavamo a lamentarci del male, così ci ritrovammo costretti a fermarci a Santa Fe, poco dopo essere partiti da Canoncito. La città era solare e molto rustica, e le casette gialle si accastellavano una attaccata l’altra a diversi livelli, con i loro tetti piatti e le loro finestrelle rettangolari che sembravano non avere vetri ed erano prive di balconi. I colori predominanti erano il giallo ocra e il marrone, ma ogni tanto si scorgevano chiazze di color arancione, che davano alla città un tocco in più di colore. La gente che girava per le strade erano per lo più turisti, e le chiacchiere dei cittadini erano un miscuglio di inglese e spagnolo, anche se quest’ultima lingua era quella predominante - dato che del resto era la lingua ufficiale dello Stato.

Edward si allontanò per andare ad una farmacia, alla ricerca di un medicinale che secondo lui avrebbe avuto effetti miracolosi sul nostro mal di testa, e lasciò me e Jacob da soli in piazza, dicendoci di prepararci a rimetterci in viaggio non appena sarebbe tornato.

Jacob sbuffò. «È ingiusto che lui abbia solo un leggero mal di testa. Ha bevuto quanto e più di noi», brontolò, come un bambino offeso.

Se non avessi avuto paura di procurarmi una fitta di dolore avrei alzato gli occhi al cielo. «Ha una resistenza all’alcol migliore della nostra».

«Deve essere abituato a bere spesso, allora», commentò lui, alzandosi per bere il suo frullato.

Lo guardai, pensierosa. «Non credo. È un chirurgo, non può permettersi di bere molto, o rischierebbe di avere le mani che tremano».

Jacob girò con la cannuccia il contenuto colorato del bicchiere. «Mi sembra strano che tutta questa resistenza sia una dote naturale», disse. «Comunque, che cosa è successo questa notte fra di voi?», chiese a bruciapelo, cambiando completamente discorso.

Sobbalzai, sentendo le guance arrossire a tradimento. «Nulla».

Jacob sorrise, divertito. «Allora perché sei arrossita di botto? Se non ricordo male vi ho lasciati davanti alla tua stanza. Avete dormito insieme?»

«Jacob!», strillai, provocando una fitta sia alla mia testa che quella del meccanico.

«Non urlare, ti prego», piagnucolò, portandosi una mano alla tempia. «Volevo solo sapere se grazie all’alcol eri riuscita a scioglierti un pochino, tutto qui».

Aggrottai le sopracciglia, mantenendo un’espressione offesa. «Cosa intendi dire con sciogliermi un pochino

Bevve un sorso di frullato, parlando con la cannuccia a pochi millimetri dalle labbra. «Ho notato che tu che Edward siete ancora attratti l’una dall’altro, e pensavo che con qualche bicchierino avresti lasciato da parte la timidezza e ti saresti fatta avanti».

«Aspetta, fermo un momento», dissi, alzando una mano. Lentamente, ricongiunsi tutti i pezzi alle sue informazioni. «Stai dicendo che ieri sera mi hai spinta a continuare a bere per questo motivo? Perché volevi che mi facessi avanti con Edward?»

Jacob si strinse nelle spalle. «Pensavo di farvi un favore. Non è stato così?», mi chiese, con un tono di voce ed uno sguardo innocente.

La rabbia che iniziai a provare svanì davanti ai suoi occhi scuri, sinceri. Ci conosceva solo da un giorno, eppure si comportava già come un vero amico, sperando di agire nel nostro interesse. Non poteva sapere che la situazione fra me ed Edward era più complicata di quel che sembrava. Aveva intuito facilmente che eravamo ex fidanzati, ma non sapeva i motivi della nostra rottura. Non sapeva che un semplice incontro da ubriachi senza freni non poteva risolvere tutto il caos.

«Non è così semplice», dissi, distogliendo lo sguardo. «Le cose fra me ed Edward sono un po’ complicate. Anzi, è un bene che questa notte non sia successo niente, altrimenti credo che sarebbe una situazione quasi irrecuperabile», ammisi amaramente.

Jacob inarcò le sopracciglia. «Mi dispiace, non volevo peggiorare la situazione», disse, sinceramente dispiaciuto.

Cercai di sorridere. «Non potevi saperlo. È stato un gesto… carino da parte tua, anche se un po’ da impiccione», dissi, con un sorriso.

Jacob rise. «Lo so, è un mio grande difetto immischiarmi negli affari degli altri. Non riesco a farci niente, purtroppo». Poi tornò serio. «Comunque, spero di non aver peggiorato la vostra relazione con la mia trovata di ieri sera».

Scossi il capo, accennando un sorriso. «No, per niente, non preoccuparti. Anzi…», aggiunsi pochi secondi dopo, ritenendomi in dovere di dirgli qualcosa di più dopo quello che aveva fatto per noi, «credo che l’hai migliorata, e il merito è solo tuo».

Jacob aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quel momento riapparve Edward, con un sacchetto della farmacia in mano. «Per fortuna ce le avevano», disse, riferendosi alle pastiglie miracolose. «Se arrivati ad Albuquerque avrete ancora il mal di testa potrete prenderne una».

Jacob sorrise. «Agli ordini doc!», disse, imitando il saluto militare.

Risi leggermente, ma la mia risata si spense presto. Le parole di Jacob erano ancora fisse nella mia mente, ma non erano riferite alla storia fra me ed Edward.

 

Il tratto della Route 66 che connetteva Santa Fe al Albuquerque non era molto lungo: impiegammo poco più di un’ora per raggiungere la nostra meta, e per strada non c’erano altre tappe, quindi procedemmo diretti fino là. Il mal di testa non voleva saperne di diminuire, e sperai solo che l’ora di pranzo arrivasse presto, così da poter prendere la nuova medicina. Non ce la facevo più, e il sole accecante rendeva quella situazione ancora più fastidiosa.

«Guardate!», esclamò Jacob, all’improvviso. Il suo dito puntò verso un punto al di là del parabrezza, nel cielo. Mi sporsi verso i sedili anteriori. «Ecco il simbolo della mia città!»

Una mongolfiera a strisce rosse e giallo pallido spiccava nel cielo azzurro, sopra le case; i colori accesi spiccavano nel cielo azzurro, completamente sgombro di nuvole.

«Benvenuti ad Albuquerque ragazzi!», esclamò il meccanico, orgoglioso.

Guardai Edward, e per un istante il ricordo di quella mattina mi colpì, strappandomi un sorriso e infondendomi una speranza che da quasi un anno non provavo. Sì, le cose sarebbero migliorate, dovevo crederlo.

«Mi permetteresti di aiutarti a guarire?»

Deglutii a vuoto, e quando capii che la voce non sarebbe uscita chiara come desideravo decisi di scuotere semplicemente il capo. Annuii, e guardai il sorriso nascere sulle sue labbra.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Il furgoncino della Volkswagen - sostituisce la jeep di Emmett.

Salveeee! :D

Come qualcuno aveva intuito Bella si è ubriacata, soprattutto grazie a Jacob che le ha dato una spintarella per farlo. Si è lasciata andare con Edward e anche se all'inizio sembra pentirsene poi ci ripensa e cambia idea. Nel capitolo ci sono alcuni punti che potrebbero mettervi la pulce nell'orecchio per iniziare a far capire un po' cosa potrebbero essersi lasciati a Chicago Bella ed Edward.

Anche in questo capitolo il viaggio viene lasciato un po' da parte per fare spazio alla relazione fra Edward e Bella, che finalmente sembra andare per il verso giusto. Nel prossimo capitolo saremo ad Albuquerque, città natale di Jacob. Lo saluteranno o resterà ancora con loro? :D

Grazie a coloro che continuano a seguire questa storia e a recensire!

Alla prossima settimana! :D

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Capitolo 10
*** The sorrow in your eyes ***


Route 66

When you try your best but you don't succeed

When you get what you want but not what you need

When you feel so tired but you can't sleep

stuck in reverse.

And the tears come streaming down your face

When you lose something you can't replace

When you love someone but it goes to waste

could it be worse?

Coldplay - Fix You

10. The sorrow in your eyes

«Sicuro che per te va bene se ti lasciamo qui in città?», domandai a Jacob, per nulla convinta.

Lui sorrise, girandosi sul sedile per guardarmi. «Certo, non serve che mi accompagniate fino alla riserva. Sarebbe solo una perdita di tempo per voi».

«Io non sono mai stata ad una riserva indiana. Mi piacerebbe visitarla», dissi, sorridendo.

Jacob rise leggermente. «Credimi, la riserva dove abito io è una delle cose più vicine ad una città qualunque che tu possa immaginare. Non ti perdi niente di che. Sono sicuro che nella strada per Los Angeles ne incontrerete di altre molto più caratteristiche».

Arricciai le labbra. «Finora non abbiamo avuto molta fortuna a riguardo».

Il meccanico estrasse un foglietto dalla tasca dei pantaloni, e prese la penna deposta nel vano portaoggetti davanti a lui. Scribacchiò qualcosa, e nel frattempo mi parlò: «Se avrete tempo ti consiglio la riserva indiana che c’è sul fondo del Grand Canyon. È la riserva Havasupai, e ha anche un bel percorso in mezzo alla foresta che porta a delle bellissime cascate. Non è molto distante dalla Route, e sono sicuro che sarebbe una bella esperienza».

Mi tese il foglietto, su cui aveva appuntato il luogo in cui si trovava la riserva e dove svoltare. Sotto erano appuntati anche tre modi per arrivarci: a piedi, a cavallo o in elicottero.

«Grazie», gli dissi, ritirando il foglietto nel quaderno degli itinerari. Il fatto che fossimo ben oltre la metà della Route 66 mi infondeva un senso di tristezza. Non era nemmeno passata una settimana e già eravamo in dirittura d’arrivo; era anche vero che c’era il viaggio di ritorno da affrontare, ma ero certa che grazie alle superstrade ci avremmo messo pochissimo tempo a tornare a Chicago. Avrei dovuto godermi quei pochi giorni che mi restavano come meglio potevo.

«È un peccato che tu debba lasciarci di già. Questi due giorni sono stati più divertenti del solito», mormorai, con un piccolo sorriso.

Jacob scrollò le spalle. «Se vuoi vengo con voi fino a Los Angeles. Tanto dovrete tornare ad Amarillo alla mia officina prima o poi», scherzò, ridendo.

Risi anch’io. «Almeno adesso Edward sembra più amichevole dell’inizio. Potrebbe perfino essere felice se tu venissi con noi».

Jacob distolse lo sguardo, un vago sorriso a piegargli le labbra. «Già, questo non lo credo», disse.

«Perché?», domandai, curiosa.

«Se mi avesse intorno per un tempo indeterminato credo che prenderebbe in considerazione l’idea di cavarmi gli occhi una volta per tutte, e sinceramente preferirei averli ancora», commentò con una risata nervosa.

«Che intendi dire? Perché dovrebbe fare una cosa simile?»

Jacob mi guardò con un sopracciglio inarcato ed un’espressione divertita. «Sei proprio ingenua, eh?»

Lo guardai accigliata, ma non dissi niente. Anche Edward mi ripeteva spesso, soprattutto quando avevamo iniziato a frequentarci, che ero molto ingenua, ma questo non significava che la cosa mi facesse piacere, anzi.

Jacob si grattò una guancia, e mi parve quasi imbarazzato. Guardò fuori dal finestrino del furgoncino, assicurandosi forse che Edward fosse ancora in coda all’interno del benzinaio per pagare il pieno. «Io… uhm… mi sono preso una cottarella per te», disse brevemente.

Sgranai gli occhi, guardandolo come se all’improvviso gli fossero spuntati un altro paio di orbite sulla fronte. «Come?!»

Lui rise, a disagio. «È la verità. Appena ti ho vista sono rimasto catturato da te, per questo mi sono offerto di aiutarti».

Mi passai una mano sul viso, cercando di nascondere il rossore che imporporava le mie guance. «Allora era per questo che Edward ce l’aveva tanto con te».

Si schiarì la voce. «Già. Diciamo che fino a quando siamo arrivati ad Amarillo non mi sono risparmiato con gli sguardi. Quando poi ho capito che era tutto inutile e che fra te e il doc c’era sotto qualcosa ho deciso di lasciar perdere».

Lo guardai, non sapendo come comportarmi alla luce di questa nuova scoperta. «Come l’hai capito? Insomma noi non… non abbiamo mai fatto e detto nulla di equivoco per tutto il tempo».

Jacob alzò gli occhi al cielo. «Bella, quando una donna continua a ignorare un uomo che la guarda in un certo modo - anzi, non se ne rende nemmeno conto - e cerca continuamente gli occhi dell’altro e la sua approvazione è ovvio che questo capisce che deve lasciar perdere. A maggior ragione se l’altro continua a guardarlo come se potrebbe cavargli gli occhi da un momento all’altro se non la smette di guardare la donna in quel modo».

Arrossii ancora. «Mi dispiace», dissi. «Non mi ero accorta di nulla…»

«L’avevo notato», disse ridendo. «Anche per questo ho lasciato perdere».

«Quindi ora non… non ti interesso più?», sussurrai, cercando un modo delicato per chiederlo senza dargli a vedere quanto una sua risposta affermativa mi avrebbe sollevato.

«Non proprio», rispose, invece. «Per questo è meglio che il mio viaggio sia finito qui. E poi mi sembra di aver capito che fra te e il doc c’è ancora qualcosa in sospeso, e preferisco non continuare a fare il terzo incomodo».

Abbassai lo sguardo, a disagio. «Sei gentile a preoccuparti per noi. Anche quello che hai fatto ieri sera - tralasciando il tuo modus operandi che mi sembra un po’ sbagliato -», aggiunsi con un sorriso divertito, «è stato davvero carino da parte tua».

Lui sorrise. «È stato un piacere… più o meno», disse sorridente. «Sono sicuro che se proverai a dare una possibilità ad Edward potreste essere felici».

Guardai fuori dal finestrino e vidi il mio compagno di viaggio dirigersi verso di noi, con due bottigliette d’acqua fresca in mano, per permetterci di prendere le pastiglie che ci avrebbero finalmente liberati di quei mal di testa pressanti.

«Forse», sussurrai solamente, prima che la sua portiera si aprisse e lui entrasse, ponendo fine a quel discorso.

 

«Allora siamo d’accordo, ragazzi. Quando state per tornare ad Amarillo mi chiamate così mi assicuro che la vostra auto sia pronta per ripartire», disse Jacob, lanciando il suo borsone sul retro di una Golf rossa fiammante. Una ragazza dalla pelle scura scese dal posto del guidatore, fece un breve cenno a me ed Edward, diffidente, e poi risalì dalla parte del passeggero, senza dire più nulla.

«Va bene», rispose Edward, allungando una mano per stringere la sua. Jacob gli diede una pacca sulla spalla, salutandolo.

«Ci si sente, doc», disse, usando il soprannome che gli aveva affibbiato dalla sera precedente, quando mi aveva soccorso risparmiandogli la pena di dover chiamare un’ambulanza.

Si avvicinò a me con passo lento, e mi strinse in un abbraccio a cui risposi impacciata. «Stammi bene, Bella», disse. E prima che potessi immaginarlo mi baciò sulla guancia, allontanandosi subito dopo e facendomi l’occhiolino.

«Allora, ti muovi sì o no, Jake?!», sbraitò la ragazza in auto, sporgendosi dal finestrino abbassato.

«Arrivo, Leah, arrivo», sospirò lui, dirigendosi verso la macchina.

Mi voltai a guardare Edward, che aveva un cipiglio contrariato in viso.

Dopo che Jacob fu in auto ci salutò dal finestrino. «Trattatemelo bene, eh», si assicurò, riferendosi al furgoncino. «Alla prossima, ragazzi», disse. Poi partì, dirigendosi verso la periferia della città.

 

«Dove stiamo andando?», chiesi ad Edward, dopo diversi minuti di silenzio. Era da prima dell’incontro con Jacob che in auto non calava un silenzio tanto prolungato, e se prima trovavo quell’assenza di parole rilassante, in quel momento mi sembrava di soffocare. Non capivo da dove fosse nato quell’improvviso disagio, e per quanto mi sforzassi di rilassarmi non ci riuscivo.

Edward mi lanciò una breve occhiata. «Al Balloon Museum», rispose, senza nessuna particolare inflessione della voce.

Annuii leggermente. «Prima Jacob mi ha dato il nome di una riserva indiana sul fondo del Grand Canyon. Ha detto che è molto bella, ci sono anche delle cascate. Che ne dici se andiamo a visitarla quando arriviamo da quelle parti?»

Lo vidi pensarci per qualche secondo. «Immagino di sì, si può fare».

Sorrisi. «Neanche tu sei mai stato a una riserva, no? Sarà una bella esperienza».

Edward annuì brevemente. «Suppongo di sì».

«Siamo arrivati», disse dopo altri minuti di silenzio.

Parcheggiò l’auto poco distante dall’ingresso del museo, che era un semplice edificio color sabbia con una semplice scritta incisa nella pietra. All’interno visitammo le sale dedicate alla storia della mongolfiera, osservammo il procedimento secondo cui il mezzo si muoveva nell’aria grazie alla bravura del pilota, che doveva essere in grado di riconoscere e seguire le giuste correnti d’aria per portare il pallone dove voleva lui; era un procedimento molto difficile, e solo i più bravi erano in grado di riportare il mezzo al suo punto di partenza per l’atterraggio.

Giunti alla fine della nostra visita, durata poco meno di un’ora, uscimmo dall’ingresso sul retro, e poco distante, dall’altro lato della strada, vedemmo una delle piazze di partenza delle mongolfiere: un enorme prato verde che si estendeva al limitare della città, sul quale riposavano almeno una ventina di mongolfiere pronte alla partenza, mentre alcune spiccavano proprio in quel momento il volo.

Il cielo era limpido, e anche se a terra non si sentiva un alito di vento le mongolfiere appena raggiungevano una certa quota iniziavano a spostarsi velocemente, verso l’orizzonte: alcune si dirigevano sopra la città, altre verso la zona boscosa poco distante.

Edward mi sfiorò un braccio, attirando la mia attenzione. «Vado un attimo in bagno. Torno subito», disse, voltandosi per tornare verso il museo senza aspettare una mia risposta.

Rimasi a guardare il cielo chiazzato di palloni colorati per qualche minuto, e quando ritornò andammo alla macchina.

Aprì il baule del furgoncino, e tirò verso di noi la mia valigia e il suo borsone.

«Che cosa fai?», gli chiesi, non capendo.

«Prendi qualcosa da vestire di pesante», disse. Poi mi guardò. «Non hai portato solo vestiti leggeri, vero?», domandò, osservando il prendisole che avevo indossato.

Scossi il capo e iniziai ad aprire la valigia. Avevo portato solo un paio di felpe abbastanza pesanti ed un paio di pantaloni di pile, nel caso in cui in Illinois avesse fatto freddo; di certo non mi aspettavo di indossarli in un posto afoso quanto il New Mexico. «Mi vuoi spiegare a cosa ci servono?»

Edward fece un sorriso sghembo. «Davvero non lo immagini?»

Aggrottai le sopracciglia, e seguii il suo sguardo che si rivolse al cielo. Una mongolfiera stava passando sopra di noi, prendendo sempre maggiore quota. Trattenni il fiato.

«Andiamo su una mongolfiera?»

Lui annuì, e tirò fuori dalla tasca dei jeans un foglio con la prenotazione per un viaggio per due. Avrei dovuto immaginare che non stava davvero andando in bagno poco prima.

«Potresti prendere le giacche a vento di Emmett?», mi chiese, mentre tirava fuori una felpa.

Annuii. «Dove sono?»

Edward indicò le reti attaccate al retro del sedile posteriore, che contenevano quelle che sembravano delle giacche di tela appallottolate. Mi inginocchiai nel baule, e raggiunsi a gattoni il retro della macchina, prendendo le giacche. Quando mi voltai vidi Edward guardarmi in modo strano.

«Riesci a cambiarti qua dietro?»

«Sì», risposi, passandogli le giacche. Chiuse il portellone, e dopo aver tirato le tendine ai finestrini mi cambiai velocemente, infilando i pantaloni lunghi ed una maglietta con una felpa. Bussai al portellone, ed Edward mi aprì. Vestita con abiti così pesanti mi sembrava di essere dentro una sauna per il caldo soffocante.

«Ricordati gli occhiali da sole», mi avvertì Edward, mentre prendevo le ultime cose dalla mia borsa, per non portarmela dietro. Li infilai nella tasca della giacca vento, e lo seguii fino al retro del museo, dove al di là della strada si trovava la piazza di partenza delle mongolfiere.

«Sei pronta?», mi chiese, mentre mostrava la prenotazione agli addetti all’ingresso del parco.

Annuii, mentre un sorriso emozionato piegava le mie labbra. Affiancai Edward, ed insieme seguimmo un uomo che ci portò fino alla nostra mongolfiera. Il pallone era a strisce verticali e oblique, e riportava tutti i colori, dai più caldi ai più freddi, in un tessuto che era quasi riflettente. Accanto alla cesta in vimini - al cui interno si trovava già il pilota - c’era uno sgabello basso, per aiutare le persone a salire.

Accettai la mano di Edward per salire a bordo, e non appena mi ritrovai circondata dalle basse pareti di legno leggero rabbrividii. Non ero mai stata su una mongolfiera, né avevo mai pensato di salirci un giorno, e il pensiero di dover volare a diverse miglia di altezza sostenuta solo da un pallone gigante e dall’aria calda mi metteva a disagio.

Edward salì al mio fianco, e l’uomo rimasto fuori si allontanò con lo sgabello, augurandoci un buon viaggio.

«Possiamo partire?», domandò il pilota, alle nostre spalle.

Guardai il mio compagno di viaggio, non più così sicura di voler fare una simile esperienza. C’erano mille motivi diversi per cui il viaggio si sarebbe potuto risolvere nel peggiore dei modi, e avevo paura.

Edward capì dalla mia espressione che qualcosa non andava, e chiese all’uomo di aspettare un attimo.

«Va tutto bene?», sussurrò, avvicinandosi.

Deglutii. «Sì. Ho solo un attimo di panico, niente di che», dissi, cercando di mascherare quanto in realtà fossi improvvisamente terrorizzata.

Mi voltai verso il pilota, forzando un sorriso entusiasta. «Possiamo andare».

L’uomo annuì, e subito dopo sentii il rumore del fuoco e del gas, e mi voltai verso l’esterno per non vedere le fiamme sopra di me. Dopo alcuni secondi sentii la gondola tremare, e serrai le dita intorno al bordo di vimini.

Sentii il braccio di Edward premere contro il mio, e il suo respiro sull’orecchio. «Va tutto bene, stai tranquilla», sussurrò.

Quando il cesto si sollevò da terra trattenni un gridolino di sorpresa, e posai la mia mano su quella di Edward, stringendola. Lo sentii ridere sommessamente, ma sapere che era con me riusciva a infondermi una tranquillità maggiore.

Vedevo l’erba sotto i miei piedi muoversi, spostarsi, diventare secondo dopo secondo sempre più distante. Sentii il vento soffiare fra i miei capelli, e quando sollevai il viso per vedere l’orizzonte vidi gli edifici diventare sempre più bassi, e in lontananza il luccichio del sole che si rifletteva sulla superficie del fiume che correva a qualche chilometro di distanza dal centro della città.

Abbassando nuovamente gli occhi vidi la mongolfiera muoversi oltre il recinto della piazza di partenza, e spostarsi lentamente verso la zona di alberi che circondava il fiume.

Più ci allontanammo dalla terra ferma, più i suoni della città divennero assenti, e l’aria divenne fresca e leggera, facendomi ringraziare di avere addosso l’enorme giacca di Emmett, che mi proteggeva. La sensazione di essere lontana dalla terra non era più così terribile, anzi, era perfino piacevole. Attenuai la presa intorno alla mano di Edward, e mi rilassai. Le sue dita si mossero leggermente, restando a contatto con le mie.

«Va meglio adesso?», mi chiese, sorridendo.

Annuii, restituendogli il sorriso. «Molto meglio». Intrecciai le dita alle sue, e sorrisi ancora. «Grazie».

Vidi il suo viso avvicinarsi, e trattenni il respiro, sentendomi improvvisamente agitata. Sapevo che si stava muovendo lentamente per darmi la possibilità di spostarmi, ma non lo feci. Rimasi immobile, fino a quando le sue labbra si posarono sulla mia fronte, leggere come piume. Chiusi gli occhi per un istante, sentendo il mio cuore battere impazzito nel petto. Quando si allontanò, pochi secondi più tardi, ripresi a respirare, sentendomi agitata come non mai. Edward mi guardò per un istante, poi tornò a osservare il panorama intorno a noi, senza dire più nulla.

Lo imitai, anche se non ero certa di essere in grado di essere in grado di nascondere la confusione che da quel momento albergò in me.

 

Una volta tornati a terra - circa un’oretta dopo la partenza -, prima di riprendere il nostro viaggio ci fermammo in un piccolo fast-food per mangiare. Subito dopo ci rimettemmo in marcia per le vie della città. Le pareti delle case erano dipinte da murales bellissimi, e se la vista non mi ingannò notai anche dei bidoni della spazzatura decorati con disegni di coyote e simboli indiani. I negozi erano segnalati da bellissime insegne al neon, che purtroppo, essendo primo pomeriggio, non potemmo ammirare accese. Appena lasciammo alle nostre spalle la città intorno a noi tornò a riaprirsi il deserto secco e afoso del New Mexico.

Nei dintorni l’unico vero punto di interesse era rappresentato dal Bandera Volcano, insieme alle sue Ice Caves, che secondo la guida non superavano i 0°C nemmeno nel più afoso dei giorni estivi. Tuttavia proseguimmo diretti verso il confine con un nuovo Stato, decisi a raggiungere il parco nazionale della foresta pietrificata.

La strada sembrò divenire ancora più secca e disabitata subito dopo aver superato il confine del New Mexico, giungendo in Arizona, dove il deserto era disseminato di cactus saguari e non si vedeva nient’altro al di fuori di qualche traliccio per chilometri e chilometri, prima di incrociare qualche piccolo paesino che sembrava sperduto nel nulla.

Edward accese la radio, forse per coprire il silenzio che aveva nuovamente preso piede nell’abitacolo, e guidò mantenendo una velocità abbastanza elevata.

«Non hai paura di arrivare alla fine?», gli chiesi dopo più di un’ora di silenzio.

Edward parve sorpreso di sentirmi parlare. Mi lanciò un’occhiata interrogativa.

Mi schiarii la voce. «Siamo arrivati oltre la metà della Route 66 in pochissimo tempo… non hai paura che presto - fra una settimana magari - saremo di nuovo a Chicago?»

Edward si irrigidì. Vidi le sua mani stringersi più saldamente intorno al volante, e la sua mascella serrarsi. «Presto dovremo tornare alle nostre vite, no?»

Lo guardai accigliata. «Va bene ma… non ti piacerebbe rimandare ancora il nostro ritorno? Insomma, io dovrò tornare a cercare un lavoro, e tu dovrai… dovrai decidere se trasferirti davvero a Los Angeles. Non vorresti avere più tempo per pensarci?»

Rimase in silenzio per diversi minuti, l’espressione quasi sofferente. «Possiamo non parlarne?», disse a un certo punto, con la voce bassa che quasi che tremava. «Preferirei non pensarci adesso».

Lo guardai confusa, mentre la velocità a cui viaggiavamo diminuiva lentamente, fino a tornare di poco superiore ai limiti.

«Non capisco…», mormorai, stordita dal suo comportamento. Edward non era mai stato il tipo da fuggire da una situazione, e non capivo cosa potesse esserci di così grave nel parlare di quello che avremmo fatto una volta tornati a casa.

Lo sguardo che mi rivolse, però, mi fece tacere una volta per tutte. «Ti prego, Bella», disse solamente. E ancora una volta nei suoi occhi vidi quel dolore che mi tolse il fiato, facendomi zittire all’istante per non toccare più quell’argomento.

 

Il Petrified Forest National Park occupava una zona molto ampia, e rappresentava una distesa di pietra che un tempo era una foresta, che a seguito delle esplosioni vulcaniche, dell’erosione dell’acqua e poi del vento divenne un vero e proprio conglomerato di tronchi pietrificati. C’era perfino una zona in cui fra le rocce si potevano vedere accenni di cristalli, zona chiamata appunto Crystal Forest, ma per il resto eravamo circondati dalla roccia ovunque.

Quel luogo mi metteva in soggezione. Mi sembrava quasi di camminare in mezzo ai resti di una distruzione totale, dove le piante erano state trasformate in rocce e la terra non lasciava più spazio all’erba verde e alle piante. Tutto sembrava immobile e cupo in quel posto, e l’unica fonte di colore era il sole che lentamente proseguiva la sua discesa verso l’orizzonte, dipingendo la roccia di colori rossicci e caldi.

Dopo aver girato il parco in auto e aver visto e fotografato i punti più interessanti, raggiungemmo una struttura in pietra arancione, il Visitor Center del parco, e scendemmo dall’auto. L’aria era secca, ma la temperatura era più piacevole rispetto a qualche ora prima, quando si moriva di caldo. Il sole stava quasi per tramontare.

Molti visitatori si erano già sistemati lungo il punto di vista, pronti a godersi lo spettacolo del sole che tramontava davanti alla foresta pietrificata, ed Edward ed io decidemmo di imitarli, trovando un piccolo spiazzo poco distante dallo strapiombo che scendeva fino ai resti degli alberi. La terra rossa e grigia era polverosa, tanto da sembrare quasi sabbia o ghiaia finissima. Ci sedemmo a terra, in attesa.

Con la coda dell’occhio vidi Edward estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans, premere qualche tasto, e poi riporlo nuovamente. Da quando eravamo partiti non l’avevo ancora visto parlare al telefono con nessuno, nemmeno sua madre.

«Hai sentito Esme da quando siamo partiti?», gli domandai a bruciapelo, cercando di assumere un atteggiamento disinvolto.

«L’ho sentita questa mattina, prima che partissimo», rispose tranquillamente. «Tu invece hai detto ai tuoi che sei partita?»

Feci una smorfia. «No. Dubito che a loro cambi qualcosa saperlo o meno. Si preoccuperebbero inutilmente».

Edward annuì lievemente. «E Rosalie ed Alice? Loro cos’hanno detto quando hai deciso di partire?»

Portai le ginocchia al petto, appoggiando il mento su di esse, lo sguardo puntato sul sole che tramontava. «Puoi immaginarlo. Rosalie era convinta che fosse un’idea stupida, mentre Alice sarebbe corsa a casa mia per farmi le valigie e sbattermi fuori se gliel’avessi permesso». Feci un piccolo sorriso al pensiero delle mie migliori amiche, così lontane da me in quel momento. Era da quando avevo lasciato Chicago che le sentivo solo attraverso brevi sms, e mi mancavano. Speravo di avere un po’ di tempo per poterle telefonare presto.

«Immagino che Rosalie non fosse contenta di sapere che partivi con me», mormorò.

Scossi il capo, rimanendo in silenzio.

«Ti sei mai pentita di essere partita?», mi chiese dopo un minuto di silenzio.

Il sole era di un arancione incandescente, e tingeva la valle davanti a noi del suo colore.

«Una volta. La prima mattina passata fuori da Chicago», sussurrai. Ricordai l’incubo di quella notte, e la valanga di ricordi che da quel momento non fecero altro che affollare la mia mente, dolorosi.

Guardai Edward, il cui viso era illuminato dalla luce arancione, che faceva brillare i suoi occhi. «Perché mi hai abbandonata, Edward?», gli chiesi, con la voce che era quasi un sussurro e non voleva saperne di uscire. «Perché hai preferito il lavoro a me?»

Per la prima volta, da un anno a quella parte in cui quelle domande mi avevano tormentata giorno e notte, finalmente avevo avuto la forza per fargliele. Mi sembrò che un peso enorme svanisse dalle mie spalle, permettendomi di respirare più facilmente.

Avevo paura della sua risposta, avevo paura di rovinare di nuovo il nostro rapporto che si stava lentamente ricucendo, ma sapevo che almeno dopo aver ricevuto la risposta a quelle domande così tormentate avrei potuto ricominciare da capo, e accettare il nostro passato. O almeno così speravo.

Edward sgranò gli occhi, segno che non si aspettava una domanda simile. Non si aspettava che tirassi fuori di mia spontanea volontà un argomento tanto doloroso quale quello della nostra separazione, e lo vidi mentre la sua espressione diventava sempre più cupa.

«Ho sbagliato», disse, dopo lunghi secondi di silenzio. «Hai ragione a dire che ho messo il lavoro davanti ad ogni cosa, anche davanti a te. Ma ho capito che era un errore troppo tardi, quando mi hai lasciato». Abbassò lo sguardo, e si passò una mano fra i capelli, tirandoli leggermente. «Sono stato un idiota, continuavo a ripetermi che presto le cose sarebbero andate meglio, che se avessi continuato ad impegnarmi così tanto al lavoro presto avrei ottenuto una promozione e avrei potuto avere più tempo per stare con te senza essere continuamente richiamato dall’ospedale ad orari impossibili». Prese un profondo respiro. «La cosa peggiore era sapere cosa ti stavo facendo e nonostante tutto pregare che tu riuscissi a resistere ancora un po’ di tempo».

Sentii gli occhi inumidirsi e distolsi lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime.

«Abbiamo passato quasi un anno in questa situazione, Edward», sussurrai, con la voce che tremava. «Quanto ancora pensavi che potessi resistere?»

«Troppo, me ne rendo conto», mormorò, con la voce tormentata.

Rimasi in silenzio, mentre il sole toccava la linea dell’orizzonte davanti a noi. Il cielo era rosso.

«Bella», mi chiamò Edward.

Mi voltai a guardarlo, sperando che quello che stava per dire non fosse il colpo di grazia che mi avrebbe fatto scoppiare a piangere.

I suoi occhi erano seri, e nella luce del tramonto sembravano lucidi. «Quando dicevo che ti amavo più del mio lavoro non mentivo. Il motivo per cui mi sono sempre impegnato così tanto in quello che facevo non era per eguagliare mio padre, ma per riuscire ad arrivare a un livello abbastanza alto che mi garantisse degli orari che mi permettessero di restare a casa con te nel weekend e la notte».

«Ma non capisci che io avevo bisogno di te in quel momento?», gli chiesi, la voce che non faceva più nulla per nascondere i singhiozzi trattenuti. «Quando hai iniziato a lavorare così tanto io ti ho sostenuto, ma speravo che ci saresti comunque stato per me quando avevo bisogno». Sentii le lacrime scivolare lungo le mie guance, e le scacciai con un gesto nervoso della mano. «Invece sei sparito, ci vedevamo un paio di ore alla settimana, non parlavamo più, e le poche volte che dovevamo uscire ti presentavi con ore di ritardo», singhiozzai. «Anche il giorno del mio compleanno mi hai lasciata sola. Sono rimasta ad aspettarti per più di due ore al ristorante, e poi ti sei presentato a casa mia nel cuore della notte». Premetti i palmi sugli occhi, per cercare di impedire alle lacrime di continuare a scivolare lungo le mie guance. «Ti sei perfino dimenticato del mio compleanno per colpa del tuo lavoro».

Sentii le sue mani chiudersi intorno ai miei polsi, in una presa delicata che quasi tremava. Mi abbassò le mani dal viso, facendo incontrare i nostri occhi. Si era avvicinato, e solo pochi centimetri ci separavano.

«Mi dispiace», sussurrò Edward, con la voce spezzata, dopo diversi secondi, mentre cercavo ancora di fermare le lacrime che non volevano saperne di finire e avevano ripreso a scivolare senza impedimenti lungo le guance. «Non posso cambiare quello che ho fatto, e so di aver sbagliato nel peggiore dei modi. Ho dato per scontato troppe cose, anche te, e non potrò mai perdonarmelo. Ma farei qualsiasi cosa per poter sistemare le cose, e per aiutarti a dimenticare quello che è successo lo scorso anno».

Mi morsi il labbro inferiore con forza. «Se te ne andrai a Los Angeles come farai a sistemare le cose? Come-»

«Non me ne andrò mai, Bella», mi interruppe, tenendo i miei polsi stretti nelle sue mani. «Non lo farò se tu mi chiederai di restare».

Respirai profondamente, e chiusi gli occhi.

Lasciò andare i miei polsi e posò i palmi sulle mie guance, cancellando le scie delle lacrime, accarezzando la pelle con i polpastrelli. «Non voglio doverti lasciare di nuovo», sussurrò.

Nei suoi occhi vidi di nuovo quel dolore, quel sentimento che nemmeno io riuscivo a capire ma che mi stringeva il cuore in una morsa, togliendomi il fiato. Anche Edward stava soffrendo, anche lui aveva dovuto affrontare un anno difficile dopo la nostra separazione. Non potevo perdonarlo, non ancora, e forse mai avrei potuto farlo, ma sapevo che non potevo e non volevo continuare a pensare a ciò che era stato. I ricordi sarebbero per sempre rimasti con me, poco importava quanto cercassi di combatterli o scacciarli, loro sarebbero tornati a torturarmi; l’unica cosa da fare era accettare che le cose fossero andate così, e cercare di andare avanti. Ed Edward sembrava disposto a farlo. Sembrava deciso a porre rimedio al passato, ed io ero stanca di respingere lui e i miei sentimenti. Dopo la sera precedente, quando sotto l’effetto dell’alcol avevo ammesso più di quanto mi sarei mai permessa normalmente, non valeva più la pena fingere che tutto quello che provavo fosse solo un ricordo del passato.

Così mi sporsi verso di lui e allacciai le braccia intorno al suo collo, affondando il viso nella sua spalla, e lasciando che le sue mi stringessero come in passato, mentre le sue mani mi accarezzavano la schiena cercando di darmi conforto. Sentii il suo respiro fra i miei capelli, e il suo profumo invadermi le narici, così carico di ricordi che quasi mi sentii male.

Lasciai che le mie lacrime scendessero, mentre davanti a noi il sole tramontava, e intorno a noi scendeva l’oscurità.

 

Rimanemmo al parco fino a poco prima delle sette di sera, ovvero l’orario di chiusura. Se non fosse stato per l’aria fredda che iniziò a soffiare poco dopo il tramonto probabilmente saremmo rimasti lì fino a quando i ranger del parco non ci avrebbero trovati, costringendoci ad andarcene. Avvolta dall’oscurità, la foresta pietrificata era ancora più spaventosa di quanto lo era di giorno, alla luce del sole. Non c’erano né suoni né luci, in quel posto. Tutto sembrava immobile, disabitato.

Quando ci lasciammo l’ingresso del parco alle spalle tirai un sospiro di sollievo.

Edward ed io parlammo poco nel tragitto di quasi un’ora che ci condusse fino ad Holbrook, ma finalmente l’aria che si tornò a respirare nell’abitacolo era tranquilla e rilassata come prima dell’incontro con Jacob. Sentivo la testa leggera e al tempo stesso pesante a causa del pianto disperato dell’ora precedente, e avevo bisogno di recuperare le ore di sonno perse la notte prima a Canoncito.

Quando finalmente arrivammo ad Holbrook, il motel che era segnalato sull’itinerario non era esattamente come me lo aspettavo: una fila di finte tende indiane di diverse dimensioni circondavano un parcheggio, al cui ingresso si trovava un edificio che riportava l’insegna al neon del Wigwam Motel. Guardai Edward con le sopracciglia inarcate, e lui rise leggermente.

«Non ti eri chiesta cosa significa wigwam?», mi chiese, parcheggiando il furgoncino davanti alla lobby del motel.

«In effetti no», ammisi. Era stato lui a dirmi che il termine indicava in spagnolo e francese le tende indiane; fino a un attimo prima quel termine era sconosciuto per me.

Scesi con lui dall’auto, guardando con più attenzione le strane tende che dovrebbero essere delle normalissime camere di motel.

Edward mi sfiorò il braccio, attirando la mia attenzione. «Andiamo?»

Mi morsi il labbro, e prima che potesse andare avanti lo fermai tirandogli la manica della camicia. «Potremmo prendere una matrimoniale sola», dissi tutto d’un fiato. «Se per te non è un problema», aggiunsi subito dopo.

Era da quando eravamo partiti dal parco che ci stavo pensando: le nostre future tappe prevedevano un dispendio di soldi non irrilevante - soprattutto se avremmo dovuto raggiungere la riserva indiana a bordo di un elicottero - e avevamo già dormito due notti insieme da quando eravamo partiti - lasciando una camera vuota per una volta per di più -; sarebbe stato inutile e dispendioso continuare a dormire in camere separate quando potevamo restare insieme.

Edward aggrottò le sopracciglia, indeciso. «Per me non è un problema. Ma sei sicura che a te vada bene? Non mi sembra che stamattina fossi molto contenta di trovarmi nello stesso letto».

Arrossii, e abbassai lo sguardo. «Non mi ricordavo di averti chiesto di restare. Ero solo sorpresa, tutto qui. E non mi sembra di essere ubriaca adesso, no?»

Sorrise leggermente, alzando un angolo della bocca. «Non credo».

Rimase a guardarmi per alcuni secondi, forse per capire che fossi sicura di quello che gli avevo detto, poi si voltò, ed entrammo insieme nella lobby.

 

Appena misi piede nel piccolo wigwam che ci avrebbe ospitati per quella notte provai una vaga sensazione di claustrofobia. Era un ambiente piccolissimo, la cui base poligonale era divisa in tanti spicchi ai cui lati erano incastonati una televisione ed una sola finestra, più una porta che conduceva ad un bagno minuscolo. Il condizionatore era appeso al soffitto, e in un angolo c’erano una scrivania con uno specchio ed un piccolo armadio.

Fortunatamente era solo la sistemazione per una notte, o non credo che sarei riuscita a resistere a lungo in un ambiente così ristretto.

Edward ed io chiudemmo le valigie nell’armadio, cercando così di lasciare più spazio possibile nella stanza, e poi andammo a mangiare in uno dei pochi ristoranti della città.

Quando tornammo al motel, poco più di un’ora dopo, eravamo entrambi stanchi.

«Se ci fosse qui Jacob probabilmente ci trascinerebbe contro la nostra volontà in qualche pub a bere», scherzai, mentre Edward infilava la chiave nella serratura della porta.

Lo vidi aggrottare le sopracciglia, e mi fece entrare nella stanza. «Per fortuna l’abbiamo lasciato ad Albuquerque. Non credo che avrei retto un’altra serata a base di alcol».

Mi sedetti sul bordo del letto, sfilandomi le scarpe. «Eppure mi è sembrato che tenessi bene l’alcol. Se non ricordo male mi avevi detto di essere solo un po’ confuso anche dopo tutti quegli shot». Non ero certa che me l’avesse detto, i ricordi della sera precedente erano ancora un po’ confusi, sembravano venire da un sogno più che da fatti realmente accaduti.

Edward tirò fuori il suo borsone dall’armadio, appoggiandolo sulla scrivania per aprirlo. «Questo non significa che sarei riuscito a resistere a un altro giro di alcolici questa sera».

Annuii pensierosa. Mi ridestai dai miei pensieri solo quando Edward mi richiamò, e decisi di andare a fare una doccia, così da non avere bisogno di svegliarmi prima il mattino seguente per farla.

Quando uscii dal bagno, più rilassata di prima, mi infilai subito sotto le coperte, mentre Edward andava a farsi a sua volta la doccia. Rimasi sdraiata a guardare il soffitto, sentendo gli occhi pesanti ma non riuscendo ad addormentarmi. Mi sentivo nervosa al pensiero di dover condividere il letto con Edward, sebbene l’avessi già fatto per i due giorni precedenti.

Appena lo vidi uscire dal bagno, con indosso una maglietta bianca e un paio di boxer scuri, per poco non mi lasciai prendere dal panico. Mi imposi di rimanere immobile, e rimasi con gli occhi fissi sul soffitto mentre lui si infilava sotto le coperte al mio fianco.

«Vuoi che accenda la tv?», mi chiese, e la sua voce era più vicina di quanto mi aspettassi.

Lo guardai, trovando il suo viso sopra il mio, poco distante, illuminato solo dalla fioca luce dell’abat-jour, e distolsi lo sguardo, sentendomi arrossire.

Scossi il capo, e pochi secondi dopo la luce si spense, facendo calare nella camera l’ombra. Dalla piccola finestra, le cui tendine erano ben tirate, filtrava solo un filo di luce azzurra, che si estendeva lungo la parete fino ai piedi del letto, ma non illuminava null’altro che la piega fra il pavimento e il muro.

Sentii Edward muoversi al mio fianco e trattenni il respiro, in attesa di un accidentale contatto che non avvenne.

«Siamo ancora in tempo per chiedere un’altra stanza».

La sua voce arrivò vicino al mio orecchio sussurrata, ma ebbe l’effetto di farmi sussultare e quasi saltare sul letto.

Tirai le coperte fin sotto il mento, cercando di calmare il mio cuore impazzito.

«Non serve», replicai, e maledii la mia voce che tremò.

«Sei sicura di riuscire a dormire? Mi sembri agitata».

Mi irrigidii ancora di più. «Non sono agitata».

«Bella, riesco a sentire il tuo respiro, e non è quello di una persona tranquilla che sta per addormentarsi», sussurrò, e mi parve quasi divertito.

Mi diedi dell’idiota. Avevo dimenticato che Edward era sempre stato capace di leggere le mie emozioni in base al ritmo del mio respiro, ed essendo così vicini era ovvio che potesse sentirlo anche in quel momento.

Presi un profondo respiro e mi girai su un fianco, verso di lui. «È ingiusto che tu riesca a capire cosa sto provando anche senza vedermi», borbottai, sentendomi nuovamente come un libro aperto per lui.

«Credimi, non è sempre vantaggioso capire che cosa prova un’altra persona», mormorò lui in risposta.

Sbuffai. «Sarà anche così, ma io a volte darei qualsiasi cosa per capire cosa stai provando tu. Non riesco a leggerti come tu fai con me», ammisi, mordendomi il labbro inferiore.

Lo sentii muoversi leggermente. Quando parlò di nuovo sentii il suo respiro sul viso. «Puoi sempre chiedermelo».

Sentii le mie guance diventare più calde. «Che cosa provi adesso?», sussurrai, con il cuore che aveva ripreso la sua corsa forsennata nel petto.

Edward rimase in silenzio per quelli che mi sembrarono diversi minuti, ma che in realtà furono con ogni probabilità solo pochi secondi.

«Agitazione», rispose, e la sua voce era più roca di prima. «Desiderio. Vorrei poterti stringere come un tempo, e addormentarmi tenendoti fra le braccia».

Sentii la gola secca, e nonostante la ragione continuasse a urlarmi di porre subito fine a quella situazione voltandomi e dando le spalle ad Edward, strisciai sul materasso, fino a trovare con le gambe le sue e con le mani il suo petto. Spostai il capo sul suo cuscino, e sfiorai la punta del suo naso con la mia, unendo i nostri respiri.

Sotto il palmo della mano sentivo il suo cuore battere impazzito.

Lo sentii trattenere il respiro. «Adesso lo capisci?», sussurrò a pochi centimetri dalle mie labbra.

Rabbrividii. «Credo di sì», risposi sottovoce.

La sua mano trovò il mio polso, e lo strinse delicatamente. «Adesso dormiamo. Non vorrei fare qualcosa di stupido».

Feci un piccolo sorriso. «L’hai detto anche ieri sera, non è vero?»

Si allontanò, sdraiandosi con la schiena sul materasso. «Non è colpa mia se è due notti di seguito che cerchi di minare il mio autocontrollo», ribatté, sospirando pesantemente.

Rimasi immobile, con la testa ancora poggiata sul suo cuscino e a pochi centimetri da lui.

«Minerei il tuo autocontrollo se dormissi fra le tue braccia?», sussurrai, ignorando nuovamente la ragione che mi urlava di tornarmene dalla mia parte di letto e smetterla di attentare all’autocontrollo di Edward.

«Se ti comporti bene non credo», rispose, con una nota di divertimento e anche di preoccupazione nella sua voce.

Sentii il suo braccio alzarsi, come un invito ad avvicinarmi di più a lui. Strisciai al suo fianco, fino a posare il capo sul suo petto, sopra il suo cuore. Il suo braccio si richiuse intorno alla mia schiena, ancorando la mano sulla mia anca.

Respirò profondamente. «Buonanotte», sussurrò, nell’oscurità.

«‘Notte», risposi solamente, sentendo finalmente il sonno sopraggiungere.

Mi addormentai, lasciandomi cullare dal suo respiro e dal battito regolare del suo cuore.

***************************************************

Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

La mongolfiera quella su cui viaggiano Edward e Bella

Buongiornooo! :D

Come avrete capito questo è un capitolo di svolta. Finalmente vengono chiariti i dubbi riguardo la rottura fra Edward e Bella, e Jacob esce di scena (e dopo quello che ha detto immagino che sia meglio così, o sareste andate voi a ucciderlo di persona XD). Bella sembra iniziare a lasciarsi andare. Cosa succederà ora fra lei ed Edward?

Spero di riuscire ad essere puntuale con gli aggiornamenti anche nelle prossime settimane, purtroppo si avvicina un esame e dovrò cercare di passare più tempo possibile sui libri >.<

Grazie infinite a chi continua a recensire, e grazie anche ai lettori silenziosi :*****

Alla prossima settimana! :D

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Capitolo 11
*** Terrified ***


Route 66

Now I can't breathe
Now the rain's falling down and I'm ripped at the seams
Feels like I'm drowning
In you but my tears reveal more than my fears
'Cause I
I'm terrified
I'm terrified

Jordyn Kane - Terrified

11. Terrified

Aprii gli occhi lentamente, cercando di abituarmi alla luce del giorno che filtrava dalla finestra, illuminando la stanza. Lanciai un’occhiata alla sveglia sul comodino: erano le nove appena passate; c’era ancora tempo.

Richiusi gli occhi, lasciandomi andare nuovamente contro il fianco di Edward, sospirando leggermente. Sfregai la guancia contro il suo petto, godendomi la sensazione della sua pelle contro la mia, del suo calore che mi riscaldava facendomi desiderare di non alzarmi mai più da quel letto, del suo battito regolare sotto l’orecchio e delle sue braccia che mi stringevano protettive a lui.

Dopo pochi minuti sentii il suo battito cardiaco accelerare, e il suo corpo risvegliarsi. Piegai la testa all’indietro, fino a scorgere le sue palpebre sollevarsi.

Mi sporsi fino a lasciare un bacio sulla sua mascella, coperta da un leggero strato di barba che mi solleticò le labbra e le guance. «Buongiorno», sussurrai.

Le sue sfiorarono la mia fronte. «Buongiorno».

Tornai a riposare sul suo petto. Nessuno di noi sembrava disposto ad alzarsi ancora. La sua mano scivolava lenta avanti e indietro lungo la mia schiena, sollevando di tanto in tanto il tessuto della camicia da notte, arricciata fino ai miei fianchi. Sollevai una gamba, fino a sfiorare con la coscia il suo bacino, venendo a contatto con la sua erezione mattutina. Lo sentii trattenere a stento un gemito di piacere e sorpresa.

Si irrigidì, trattenendo il respiro.

Mossi una mano lungo il suo petto nudo, scivolando lentamente verso il suo stomaco, accarezzando con il palmo e i polpastrelli la sua pelle morbida e la carne soda e calda.

La sua stretta intorno alla mia vita si intensificò, e prima ancora che potessi opporre resistenza Edward ribaltò le nostre posizioni, facendomi ritrovare schiacciata fra il suo corpo ed il materasso. Chinò il viso sul mio, sfiorando con il suo naso il mio, tenendo le nostre labbra a distanza.

«Non devi andare a lavorare?», sussurrai, accarezzando con le dita i suoi capelli, più scompigliati che mai.

Le sue labbra si piegarono in un piccolo sorriso sghembo. «Abbiamo ancora un’ora per noi», rispose solamente, la voce arrochita dal sonno e dal desiderio. Le sue labbra sfiorarono l’angolo della mia bocca, leggere. Le sue mani percorsero le mie cosce, fino ad arrivare ai fianchi, aprendole per farsi spazio con il bacino. «Correrò per arrivare in orario, non importa», mormorò, scendendo a baciarmi la gola mentre un gemito lasciava le mie labbra, avvertendo il contatto fra i nostri bacini.

Sentii le sue mani sotto la camicia da notte, e inarcai la schiena per permettergli di sfilarmela.

Presi il suo viso fra le mie mani, guardandolo negli occhi. «C’è tempo», sussurrai, più a me stessa che a lui.

Lui sorrise. Posò le labbra sulle mie, e ripeté le mie parole contro la mia bocca.

 

Sentii il mio polso venire stretto in una morsa salda, e riaprii gli occhi di scatto. Sentivo il mio cuore battere impazzito nel petto, l’aria calda e pesante intorno a me. La temperatura era alta, e stavo iniziando a sudare.

Mi trovavo in una stanza buia, illuminata da una fioca luce che filtrava dalle tendine tirate di una piccola finestrella. Quando mi calmai avvertii sotto l’orecchio il battito accelerato di un altro cuore, e i ricordi del sogno appena fatto divennero chiari ed evidenti.

Mossi leggermente la gamba che avevo piegato nel sonno intorno al suo bacino, e avvertii chiaramente il contatto con la sua erezione. Edward si irrigidì sotto di me, e strinse maggiormente il mio polso, fermo all’altezza del suo stomaco.

«B-Bella», mi richiamò a denti stretti, con la voce roca e strozzata.

Deglutii, cercando di porre rimedio alla mia gola secca, inutilmente. Cercando di non muovermi troppo allontanai la gamba dal suo corpo, e appena Edward capì che finalmente ero sveglia e vigile lasciò andare il mio polso, che strinsi al petto, imbarazzata. Mi staccai definitivamente da lui, andando a sdraiarmi sul mio lato di letto. Lo vidi rilassarsi leggermente.

«Scusa», sussurrai, ricordando le sue parole di ieri sera riguardo il minare il suo autocontrollo. «Non mi ero accorta di… di quello che stavo facendo».

Edward respirò profondamente. «Lo so. Non fa niente, stai tranquilla».

Si alzò dal letto, dirigendosi verso la sua valigia. Prese le sue cose, poi andò verso il bagno. «Vado a farmi una doccia».

Non dissi niente e rimasi sdraiata nel letto, facendo finta di non averlo sentito aggiungere, prima di chiudere la porta del bagno, quel “possibilmente ghiacciata”.

 

Quella mattina a colazione ero più imbarazzata del solito. Non riuscivo a guardare Edward negli occhi senza ripensare al nostro risveglio, decisamente diverso da quello che avremmo dovuto condividere. E non riuscivo neanche a smettere di pensare al sogno di quella notte, un ricordo di una della tante mattine settimanali che erano comuni quando Edward non era ancora ossessionato dal lavoro e faceva di tutto per passare del tempo con me. Mi mancavano quei ricordi, quelle esperienze, quelle sensazioni di pace interiore. A quel tempo mi bastava risvegliarmi con lui al fianco per poter iniziare bene la giornata.

Riprendemmo il viaggio intorno alle dieci di mattina, e dopo appena venti minuti ci fermammo a Joseph City, attirati dall’insegna gialla di un coniglio che riportava a caratteri neri la scritta ‘Here it is’, ovvero ‘Qui c’è’. Si trattava di un negozio abbastanza vecchio ed ampio, il Jackrabbit Trading Post, al cui interno si trovava ogni genere di souvenir che si poteva chiedere: c’erano oggetti di origine indiana, cappelli da cowboy, strumenti per la pesca e anche alcune pietre preziose, insieme ai comuni oggetti con riferimenti al Grand Canyon. Comprai diversi oggetti, soprattutto per Alice e Rosalie, e anche un piccolo acchiappasogni da tenere per me; mi avevano sempre interessato quei piccoli utensili indiani, così rudimentali ma al tempo stesso belli.

Edward girò per il negozio guardando gli oggetti, senza comprare nulla; a differenza mia sembrava non essere interessato ad avere ricordi fisici di quei luoghi. Ritornati in auto riprendemmo il nostro viaggio, e a metà strada per Flagstaff deviammo dalla Route 66, prendendo una strada che ci avrebbe condotti fino al luogo in cui quasi cinquantamila anni fa - secondo quanto hanno stimato gli esperti - cadde un meteorite, ovvero il Meteor Crater; sul confine del cratere si trova un edificio adibito a museo, e una passerella conduce fino alla cresta del buco, incredibilmente profondo.

Dopo una visita di circa un’ora, e dopo aver pranzato nel fast-food del museo, riprendemmo l’auto, diretti verso Flagstaff. Il paesaggio era immutato: una distesa immensa di terra secca punteggiata da saguari e recinzioni di filo spinato ai lati della strada, cespugli secchi e tralicci con fili protesi per chilometri. Non incontravamo mai nessuno lungo il nostro percorso. Sembrava di essere in mezzo al nulla.

Una volta entrati nella città di Flagstaff ci fermammo per fare rifornimento. Mentre passavo il lavavetri bagnato sul parabrezza per ripulirlo dalla polvere rossiccia e dai moscerini Edward mi guardava, pensieroso.

«Che c’è?», gli chiesi dopo diversi minuti di silenzio, durante i quali si ostinava ad osservarmi senza proferire parola.

«Ricordi quando mi hai chiesto se volevo tornare a Chicago?», domandò.

Annuii, voltando il lavavetri dalla parte della gomma, per togliere l’acqua.

Edward seguì il movimento della mia mano, con una ruga di indecisione a piegargli la fronte. «Non sarebbe una cattiva idea se posticipassimo di qualche giorno il ritorno, no?»

Sorrisi. «Per niente», risposi. «Quindi neanche tu hai molta voglia di tornare, dico bene?»

Riposi il lavavetri nella ciotola accanto alle pompe di benzina, e salii in auto con lui. Edward accese il motore, e non rispose.

«All’ospedale va bene che ti prenda dei giorni in più?»

Si immise nel traffico, restando sempre in silenzio. Quando ormai ero certa che non mi avrebbe risposto, disse: «Hanno detto che posso prendermi tutto il tempo che mi serve prima di ritornare, quindi non ci sono problemi».

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. Da quando l’ospedale concede ferie illimitate?, stavo per chiedergli ancora, ma lui mi precedette, domandandomi se preferivo passare un pomeriggio di relax o andare direttamente al Grand Canyon. Scelsi la prima, e quando lasciammo alle nostre spalle la Route 66 per dirigerci a sud, verso un parco dove poter passare il pomeriggio, non ebbi più il coraggio di chiedergli nulla; l’espressione cupa che avevo visto più volte sul suo viso era tornata a ingrigire i suoi occhi, facendomi solo desiderare di vederlo di nuovo sorridere.

 

Il Red Rock State Park era un parco a diversi chilometri da Flagstaff, adatto soprattutto per gli appassionati di trekking, ed era anche un punto di osservazione di diverse specie di uccelli. Tuttavia, né io né Edward eravamo giunti fino lì per camminare, ma solo per raggiungere il lago che si trovava non molto distante dal parcheggio delle auto, per poter passare il pomeriggio immersi nel silenzio della natura e il più lontano possibile dall’automobile. Dopo una settimana intera di viaggio no-stop era giunto il momento di fermarci per qualche ora, giusto il tempo per riposarci e goderci quel sole splendente, che a Chicago era molto difficile trovare perfino in pieno Agosto.

Prendemmo una delle coperte che si trovavano nella macchina di Emmett, uno zaino con alcune cose da bere e mangiare e percorremmo il sentiero più breve che conduceva al lago. L’erba intorno al sentiero sterrato era alta e fitta, verdissima. Nell’aria si respirava il profumo di sole, erba, lago e fiori. Non c’era vento, ma l’afa era più respirabile rispetto che in centro città o sulla strada. Non c’era molta gente nel parco, a giudicare dalle poche auto accanto alla nostra.

Raggiungemmo la nostra destinazione venti minuti di camminata dopo, e il panorama era bellissimo: il lago era uno specchio d’acqua in cui si riflettevano le pietre rosse distanti, gli alberi verdi e gialli che arrivavano fino alle sponde, protendendosi sulla superficie chiara; da un lato era costeggiato da una zona erbosa, mentre dall’altra c’erano delle rocce rosse che si immergevano nell’acqua, che diventava sempre più profonda. Non c’era nessuno oltre a noi, e sembrava quasi di essere in un piccolo paradiso personale.

Andammo a sistemarci sul prato, poco distanti dall’acqua e accanto ad un albero, in modo da poterci riparare all’ombra della sua fronda nel caso il sole fosse diventato troppo battente; stendemmo la coperta, e aspettai che Edward si sfilasse la maglietta per decidermi a togliermi la canotta e i pantaloncini di jeans, per restare in costume, indossato poco prima nel retro del furgoncino. Mi sfilai anche le scarpe, e mi sedetti sulla coperta.

Guardai Edward, e mentre lo osservavo pensai che c’era qualcosa di diverso nel suo corpo: le braccia sembravano più muscolose, non erano più sottili e magre come un tempo. Forse aveva ripreso ad andare in palestra, come faceva prima di iniziare a lavorare assiduamente, oppure ero semplicemente io a non ricordare bene come fosse il suo corpo un anno prima. Distolsi lo sguardo prima che mi notasse intenta ad osservarlo, imbarazzata.

Il sole era davvero forte, e mi sembrava già di sentire la pelle bruciare; sicuramente il giorno dopo sarei stata rossa come un’aragosta se non mi fossi sbrigata a mettere qualche crema protettiva. Presi lo zaino, sperando di non aver dimenticato la protezione solare nella valigia insieme alle altre creme, e quando la trovai tirai un sospiro di sollievo.

Ne stesi un po’ sulle braccia e il petto, cercando di arrivare fin dove riuscivo sulla schiena. Quando richiusi il barattolo lo tesi ad Edward.

«Vuoi che te la metta sulla schiena?», mi chiese, aprendo il tappo.

Annuii leggermente, e mi voltai fino a dargli le spalle; raccolsi i capelli da un lato, e aspettai. Mi resi conto di avere i nervi a fior di pelle solo quando sentii il contatto con le sue mani, che si posarono sulla mia schiena quasi inaspettatamente. Trattenni il fiato, sperando che scambiasse i brividi che mi avevano appena percorsa per una reazione alla crema fredda.

Con i palmi spalmò la crema nella parte alta della schiena, raggiungendo poi sulle spalle. Chiusi gli occhi, sentendo la sua pelle scivolare sulla mia, in una carezza lenta che sembrava quasi un massaggio. Quando sentii le sue mani percorrere di nuovo la mia schiena, scendendo verso il basso, rabbrividii. Si fermarono sui miei fianchi, finendo il lavoro che non ero riuscita a terminare.

Appena sentii le sue mani allontanarsi dalla mia vita aprii gli occhi e rilasciai i miei capelli, poi mi voltai. Presi la crema dalle sue mani, senza incrociare i suoi occhi. «Girati», sussurrai solamente.

Edward fece come gli dissi, e mi inginocchiai dietro di lui, iniziando a compiere gli stessi movimenti che poco prima aveva svolto lui con me. Accarezzai la zona fra le scapole, risalendo fino alle spalle, scendendo poi lungo le sue braccia, indugiando sui muscoli che sentivo sotto le dita. Non mi ero sbagliata, le sue braccia erano molto più sode e muscolose rispetto a un anno prima.

«Hai ripreso ad andare in palestra?», gli chiesi, cercando di assumere un tono disinvolto.

Lo sentii irrigidirsi. «Non proprio».

Rimasi in silenzio, aspettando che continuasse. Risalii lungo le sue braccia, tornando alla schiena, rallentando i movimenti senza nemmeno accorgermene.

«Ho preso qualche lezione di box», disse infine, probabilmente capendo che attendevo una risposta.

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Lezioni di box? Da quando ti interessa la box?»

«Mi aiuta a rilassarmi, tutto qui», tagliò corto, evidentemente restio a parlarne.

Non riuscivo a immaginare quelle mani delicate, abituate a muoversi sinuosamente sui tasti d’avorio di un piano e capaci di curare le persone, chiudersi a pugni per picchiare altra gente. Mi sembrava una cosa contro natura, in qualche modo.

Feci scivolare le mani lungo la sua schiena chiara, fino a pochi centimetri dall’orlo dei pantaloncini da mare che indossava. Lo sentii irrigidirsi, e altri brividi mi attraversarono.

Finii di spalmargli la crema in fretta e furia, ritirai il tubetto nello zaino e afferrai il mio libro da leggere; dopo essermi sdraiata sulla coperta nascosi il mio viso fra le pagine, fingendo di essere immersa nella lettura. Cercavo di mantenere un ritmo respiratorio pressoché normale, ma non ero sicura di esserci riuscita.

Dopo pochi minuti Edward si alzò, e lo vidi allontanarsi verso il lago. Sospirai, lasciando cadere il libro sul mio viso, per ripararmi dal sole cocente. Faceva più caldo di quanto mi aspettavo; se non fosse stato per l’improvvisa stanchezza che l’afa agiva su di me, probabilmente mi sarei spostata all’ombra dell’albero, lasciando perdere il mio proposito di dare un po’ di colore alla mia pelle lattea. Mi rilassai sulla coperta, sentendo intorno a me nient’altro che i rumori delle foglie mosse da un leggero vento, i tonfi leggeri dell’acqua del lago, e ogni tanto il verso di qualche uccello distante. Era così pacifico che ero perfino sul punto di addormentarmi. Fino a quando non sussultai al contatto con qualcosa di ghiacciato che si posò sulla mia pancia all’improvviso.

«Edward!», strillai, balzando a sedere e lasciando cadere il libro al mio fianco, scomposto, e per poco non sbattei la testa contro quella di Edward, chino su di me. Era completamente bagnato, e i capelli continuavano a gocciolare, bagnandomi lo stomaco.

Rise divertito, mentre osservava la mia espressione sorpresa e quasi atterrita. Lo spinsi all’indietro, facendolo cadere sulla coperta, e scacciai le gocce fredde dalla pelle.

«Sei pazzo», esclamai, cercando di respirare profondamente per riprendermi dallo spavento.

Lui continuava a ridere e si protese in avanti, verso di me.

Alzai una mano per fermarlo. «Stai lontano. Sei ghiacciato».

«Solo perché sei stata troppo tempo al sole», ghignò, avvicinandosi.

Mi alzai in piedi, allontanandomi prima che potesse afferrarmi per bagnarmi. Imitò il mio movimento, e in poco tempo mi ritrovai a correre per il lungolago, con Edward alle calcagna che mi inseguiva.

Era una fortuna che quel posto non fosse frequentato, altrimenti non credo che ad altre persone sarebbe piaciuto venire disturbate da due ragazzi un po’ troppo cresciuti che si rincorrevano ridendo e scalpitando come pazzi. Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo, e bastavano quelle risate per farmi smettere di pensare in modo pessimistico al futuro.

Arrivai fino alla zona di pietra accanto al lago, rallentando per evitare di sfracellarmi sulle rocce: la storta dell’altro giorno era già un ricordo, ma non avevo intenzione di ripetere l’esperienza tanto presto, soprattutto accompagnata da graffi o escoriazioni. Prima che potessi raggiungere i cespugli le braccia di Edward mi circondarono, facendomi scontrare contro il suo petto bagnato. Inarcai la schiena, sentendo l’acqua fredda a contatto con la mia pelle calda per il sole. Edward sfregò il viso contro il mio collo, cercando di bagnarmi ancora di più, ridendo.

«Va bene, va bene, hai vinto!», esclamai, scoppiando a ridere quando la sua barba corta mi solleticò la pelle sensibile del collo.

Mi lasciò andare, e inaspettatamente mi prese in braccio, infilando un braccio dietro le mie ginocchia e l’altro dietro la schiena. Alzai il capo, guardandolo senza capire, mentre alcune gocce scivolavano dai suoi capelli al mio viso, bagnandomi. Dopo qualche secondo di contatto non sembrava più così freddo.

«Cosa…», iniziai, non capendo il motivo del suo gesto.

Mi interruppi quando le sue labbra si piegarono in un sorriso sghembo e fece un passo in direzione del lago.

«Non ci provare», lo minacciai, stringendomi alla sua spalla, cercando di liberare le gambe dalla sua stretta per scendere. «Edward, guai a te se mi butti in acqua. Potrei sfracellarmi sulle rocce».

Lui rise. «Ho controllato prima. Non c’è alcun pericolo».

Ormai era arrivato sul bordo di una roccia, e sotto di me vedevo già l’acqua scura del lago. Allacciai le braccia intorno al suo collo. «Non ho alcuna intenzione di fare il bagno qui. L’acqua sarà ghiacciata».

Edward sorrise. «Devi solo abituarti alla temperatura. Non è così fredda, sei tu ad essere bollente per colpa del sole».

«La temperatura solare va benissimo, credimi», replicai.

Sentii il suo braccio dietro la mia schiena muoversi, fino a sostenerla con la mano. Forse ero sulla buona strada per convincerlo che la sua non era una buona idea.

«Credo che ti si stia per slacciare il costume», mormorò, e sentii le sue dita giocare con i laccetti del reggiseno, tirandoli. Staccai le braccia dal suo collo per correre a fermare la sua mano, senza pensare al fatto che il suo era solo un trucco affinché lo lasciassi andare. Solo quando mi ritrovai a mezz’aria, dopo che lui mi aveva lanciata, mi ricordai di chiudere la bocca e smettere di respirare. Il contatto con l’acqua avvenne in pochi secondi, e appena riemersi sentii un altro tonfo accanto a me, che mi schizzò di gocce sul viso.

Tirai i capelli indietro, e dopo essermi assicurata che il reggiseno del costume fosse ancora ben allacciato mi lanciai contro Edward, appena riemerso. Cercai di spingerlo per le spalle in basso, inutilmente, ma alla fine mi arresi.

Lui continuò a ridere, e gli gettai addosso più acqua che potevo. Afferrò i miei polsi, fermando i miei attacchi, e mi attirò a sé, sorridente. «Sei ancora convinta che l’acqua sia ghiacciata?»

Feci una smorfia, trattenendomi dal mentire: aveva ragione, dopo appena un paio di secondi mi ero già abituata alla temperatura, e non faceva affatto freddo. Ma non volevo dargliela vinta. «Non è neppure calda, però», ribattei.

Edward scosse il capo, alzando gli occhi al cielo. «Mi darai mai la soddisfazione di sentire un ‘hai ragione’?»

Gli feci la linguaccia. «Mai».

Lui inarcò un sopracciglio, l’espressione divertita. Lasciò andare i miei polsi, e si allontanò a nuoto, immergendosi e rispuntando poco più in là di tanto in tanto. Lo seguii, avventurandomi per quelle acque che ancora un po’ mi spaventavano: in quella zona non si vedeva cosa c’era sul fondo, e non sapevo se c’erano anche alghe, o se erano pietre e sabbia. Non sapevo nemmeno dire quanto fosse profondo in quel punto: sapevo solo che né io né Edward toccavamo con i piedi.

Mi sdraiai a pancia in sù, osservando il cielo azzurro, privo di nuvole. Sembrava di essere in un altro posto, su un altro pianeta. I problemi di Chicago sembravano lontani anni miglia, irraggiungibili. Avrei potuto passare le mie giornate così: a viaggiare di posto in posto, di Stato in Stato, visitando parchi e città, decidendo di volta in volta se fermarmi o proseguire. Non era una cosa fattibile, lo sapevo, ma in quel momento l’idea era davvero allettante.

Mi rimisi in verticale, tornando ad immergere completamente i piedi. Mi voltai per cercare Edward, ma in quel momento sentii qualcosa strisciare accanto alle mie gambe, e subito dopo stringermi le caviglie. Urlai, iniziando a dimenarmi, cercando in giro Edward per chiamare aiuto, e lui uscì dall’acqua davanti a me, scoppiando a ridere non appena fu all’aria aperta. Lo colpii sul petto, e lo investii con quanta più acqua potevo e mille insulti, dandogli dell’idiota e minacciandolo di non riprovarci se non ci teneva a beccarsi un calcio assestato lì dove non batteva mai il sole.

Prima che mi calmassi posò entrambe le mani sui miei fianchi, attirandomi a sé, mentre tenevo ancora le braccia incrociate sotto il seno con un broncio simile a quello di una bambina dell’asilo. Sorrise, ancora evidentemente divertito. «Scusa. Non ho saputo resistere».

«Guarda che il calcio te lo posso tirare anche ora, se non la pianti di prendermi in giro», lo minacciai ancora.

Finalmente l’espressione divertita lasciò il suo viso, rimpiazzata da un’espressione più seria, e quasi sorpresa.

Feci un sorriso trionfante. «Ecco, così va meglio».

Provai a sciogliere l’intreccio delle mie braccia, e solo quando scontrai i gomiti contro il petto di Edward capii cos’era stato a far cedere l’espressione divertita più delle mie minacce: eravamo vicinissimi, praticamente attaccati l’uno all’altra, e i nostri visi erano separati solo da pochi centimetri.

Rimasi immobile per diversi secondi, e il mio sguardo lasciò il suo per scendere fino alla sua bocca, lucida e bagnata dall’acqua del lago. Una scossa percorse il mio corpo, partendo dalla nuca e arrivando fino alla punta dei piedi, percorrendo anche le braccia. Avvicinai il volto al suo, come seguendo un richiamo che improvvisamente aveva iniziato a risuonare nella mia testa, confondendomi e ipnotizzandomi. Vidi il suo viso avvicinarsi a sua volta, i suoi occhi, incatenati ai miei, di un verde così intenso che sembrava quasi in movimento.

Il suo respiro mi accarezzò le labbra bagnate, dandomi i brividi. Era sempre più vicino.

Arretrai prima che le sue labbra si posassero sulle mie, inspirando profondamente l’aria fresca del lago, riuscendo a cogliere l’ultimo barlume di lucidità della mia mente.

Lasciai le sue spalle, e le sue mani liberarono i miei fianchi, permettendomi di allontanarmi.

Mi schiarii la voce. «È meglio se usciamo. Dobbiamo asciugarci prima di riprendere il viaggio», dissi, senza guardarlo.

Con la coda dell’occhio lo vidi annuire, e prima che potesse aggiungere altro nuotai fino alla riva, cacciando indietro il desiderio di tornare da lui.

 

Passai le successive due ore immersa nella lettura del mio libro, riuscendo fortunatamente a distrarmi dalla presenza di Edward, che si era steso al mio fianco a pancia in sù, gli occhiali da sole a nascondergli gli occhi e le braccia distese lungo i fianchi, l’espressione apparentemente rilassata. Ogni tanto faceva commenti disinteressati sul posto, il tempo, la temperatura, come se non fosse successo nulla. Eppure io non riuscivo a fingere che solo pochi minuti prima non fosse successo niente, che non ci fossimo trovati sul punto di baciarci. Fra di noi, soprattutto da parte mia, era tornata a governare la tensione, che rendeva le nostre conversazioni brevi e spesso imbarazzate. I tentativi di Edward di iniziare un discorso erano evidenti: stava cercando di sminuire ciò che era quasi successo, come se tutto ciò fosse una cosa normale e comune, per cercare di non minacciare l’equilibrio della nostra relazione. Avrei voluto assecondarlo, fargli capire che mi andava bene fingere che niente fosse successo, ma la verità era che non riuscivo a smettere di pensarci perché quell’improvviso desiderio di baciarlo mi aveva scombussolata; ricordavo confusamente di aver provato la stessa sensazione due sere prima a Canoncito, quando ero ubriaca e non riuscivo a controllarmi, ma il giorno dopo pensai - mi ero convinta - che la mia fosse stata solo una reazione involontaria suscitata dall’alcol e i ricordi del nostro passato. In quel momento, immersa nelle acque del lago, ero sicura di non avere una sola goccia d’alcol in circolo: ero perfettamente sobria, capace di intendere e volere, e il desiderio provato nei confronti di Edward non era solo dovuto alla semplice attrazione fisica, ma a qualcosa che andava oltre. E questo mi faceva paura. Ero rimasta letteralmente terrorizzata dai sentimenti che stavo lentamente riscoprendo, e ciò che mi spaventava ancora di più era ciò che avrei incontrato continuando per quella strada: il dolore, l’ossessione, il bisogno di lui. Volente o nolente era questo ciò che mi avrebbe aspettato se avessi scelto di ripercorrere il cammino insidioso dei sentimenti, e non ero per niente attratta da quella prospettiva.

Edward poteva anche aver ammesso di aver sbagliato, aveva riconosciuto i suoi errori e a giudicare dal dolore che lui stesso provava dubitavo fosse nelle sue intenzioni ripeterli: ma chi mi assicurava che non sarebbe ricascato nello stesso sbaglio? Anche in passato aveva avuto le migliori intenzioni quando aveva iniziato a lavorare di più, ma ciò non si era rivelato una scelta saggia, né per me né per lui. Entrambi avevamo pagato per le sue scelte, e non volevo più correre il rischio di rimanere ferita così duramente: sapevo che se Edward mi avesse costretta a subire la stessa tortura dell’anno precedente probabilmente non mi sarei più ripresa normalmente.

Dopo almeno mezz’ora di silenzio mi decisi a distogliere lo sguardo dal libro, e azzardai un’occhiata ad Edward. Il suo volto era rilassato, come se fosse addormentato: appoggiai il libro di fianco, e mi avvicinai abbastanza da vedere oltre il riflesso delle lenti scure degli occhiali, trovando i suoi occhi chiusi. Anche il respiro era regolare, il petto si alzava e abbassava ad un ritmo lento.

Libera dal suo sguardo, mi presi la libertà di osservarlo a lungo, rispolverando vecchi ricordi e informazioni che per molto tempo avevo tenuto in disparte, costringendomi a chiuderle in un cassetto della mia mente. Ricordavo ancora con precisione il punto esatto in cui si trovava la piccola cicatrice - quasi invisibile - vicina all’attaccatura dei capelli, sulla sua fronte, alla mia sinistra; ricordavo fosse dovuta ad una caduta dalla bicicletta quand’era ancora un bambino, e la sua espressione buffa mentre mi raccontava quell’aneddoto. Sapevo che la zona dietro l’orecchio era molto sensibile, e che bastava passarci la punta delle dita per farlo ridere per il solletico.

Guardai la barba corta, feci mente locale che fossero passati due giorni dall’ultima volta che se l’era fatta, e ricordai con un sorriso di quell’unica volta in cui mi ero azzardata a provarci io, finendo per fargli un piccolo taglio: da quel momento mi ero rifiutata di provarci ancora, anche se lui si era messo a ridere quando per poco non svenivo dopo aver visto la sua guancia macchiarsi di sangue e mi aveva spronata a riprovare un’altra volta. Del resto mi piaceva perfino di più quando aveva un po’ di barba, e dopo il primo giorno - che era ispida e fastidiosa - diventava anche più piacevole da toccare. Il secondo giorno in genere era già più morbida.

Lanciai un’altra occhiata oltre le sue lenti, trovando le palpebre ancora abbassate, e poi allungai una mano fino a sfiorare con la punta delle dita la barba corta sulla sua mascella, sentendo la consistenza ruvida dei peli che pizzicavano i polpastrelli in modo piacevole. Sfiorai il suo viso fino ad arrivare al mento, e soffermai lo sguardo sulle sue labbra, rosate e carnose al punto giusto, con il labbro inferiore leggermente più pieno del superiore. Notai il suo respiro accelerare e allontanai la mano immediatamente, tornando a nascondermi dietro le pagine del mio libro, terrorizzata che potesse risvegliarsi da un momento all’altro e trovarmi intenta a toccarlo e guardarlo; tuttavia, Edward non si mosse: pochi minuti dopo il suo respiro tornò regolare, ed io tirai un sospiro di sollievo, riprendendo a leggere per distrarmi dal pensiero del suo corpo a pochi centimetri dal mio.

 

Dopo non so quanto tempo di preciso, mi addormentai. Il sole era davvero troppo caldo, ma non avevo voglia di svegliare Edward per spostare la coperta all’ombra dell’albero, per cui rimasi sdraiata lì, con il libro aperto sul viso per ripararmi gli occhi e l’afa che mi stava facendo lentamente addormentare.

Fu Edward a risvegliarmi, quando il sole era ancora alto ma sembrava già prepararsi alla discesa verso l’orizzonte. In pochi minuti raccogliemmo le nostre cose, e dopo esserci rivestiti ci dirigemmo verso l’auto. Saliti in macchina Edward mi tese una bottiglia d’acqua e prendendone un’altra per sé, incitandomi a berla per reidratarmi dopo quelle ore passate sotto il sole cocente.

La strada per arrivare al Grand Canyon National Park - la nostra meta di quel giorno - consisteva in buona parte nel ripetere a ritroso la strada compiuta dopo pranzo fino a Flagstaff, e subito dopo proseguire ancora in direzione Nord, oltre la Route 66, per arrivare dopo più di due ore di viaggio ai cancelli del parco nazionale. Pagammo il nostro ingresso con il furgoncino, e seguimmo la strada principale che attraversava una foresta per arrivare fino al Grand Canyon Village dove si trovava l’hotel presso cui avevamo intenzione di pernottare. Quando arrivammo alla lobby il sole era già tramontato da un pezzo, e dopo aver lasciato le valigie in camera andammo a cena in una piccola osteria del villaggio. Non era molta la gente in giro, probabilmente anche per l’ora tarda, e quando decidemmo di fare una passeggiata lungo la strada pedonale che costeggiava la valle del canyon - completamente buia, e quasi impossibile da riconoscere se non per la fioca luce della luna che illuminava solo alcuni contorni - ci ritrovammo soli, immersi nel silenzio totale. Non c’era il rumore dell’acqua o dei ristoranti a farci compagnia, e nemmeno il soffio del vento, che era assente. Sembrava che ci fossimo solo io e lui, intenti a passeggiare tranquillamente lungo un sentiero illuminato solo da alcuni piccoli lampioni, costeggiato da un lato da un muretto di pietre che separava dallo strapiombo e dall’altro dal giardino verde che circondava l’hotel. La nostra stanza era una di quelle che stavamo passando in quel momento, al quarto ed ultimo piano dell’edificio. Probabilmente il mattino seguente avremmo avuto una vista mozzafiato quando ci saremmo svegliati.

Quando tornammo in camera mi cambiai immediatamente, indossando una camicia da notte leggera. Edward rimase vestito, in piedi vicino alla porta. Lo guardai senza capire.

«Non ti cambi per dormire?», gli chiesi, confusa.

Lui giocherellava con le chiavi della camera, senza muovere un passo. «Pensavo di andare a bere qualcosa al bar», disse, come se fosse una proposta.

Aggrottai le sopracciglia. «Va bene», dissi. «Vuoi che ti accompagno?»

Lui scosse il capo. «No, non preoccuparti. Tu inizia pure a dormire, una decina di minuti e ti raggiungo», mi assicurò, aprendo già la porta della stanza.

Feci solo in tempo ad annuire, e poi lui sparì nel corridoio, lasciandomi sola, nella confusione totale.

 

Dopo che Edward se ne era andato mi ero infilata nel letto e avevo spento le luci, non senza prima essermi assicurata di aver tirato bene le tende delle finestre, per evitare che il sole ci svegliasse troppo presto il mattino seguente. Sebbene avessi dormito già nel pomeriggio, caddi presto in un sonno profondo, nonostante sentissi la mancanza del corpo di Edward accanto al mio.

Furono due braccia che mi strinsero all’improvviso e senza preoccuparsi di non disturbarmi che mi risvegliarono nel cuore della notte, mentre la stanza era ancora immersa nel buio.

All’inizio mi spaventai, ed ero già sul punto di gridare quando riconobbi la figura di Edward dalla sua barba corta e il suo profumo, e dalla sua voce che usciva a sussurri spezzati, pronunciando parole sconnesse e senza senso. Mi lasciai attirare nel suo abbraccio.

Gli accarezzai il braccio, lasciato scoperto dalla maglietta che indossava come pigiama. «Edward…?», lo chiamai, confusa e assonnata.

Sentii il suo corpo venire scosso da tremiti, e il viso premere contro il mio collo, bagnandolo.

Impiegai alcuni secondi per capire che ciò che stava lentamente colando dalle sue guance sulla mia pelle altro non erano che lacrime, e che i tremiti che scuotevano il suo corpo erano singhiozzi trattenuti. La scoperta mi lasciò incapace di agire per un istante.

«Edward? Edward, cos’è successo?», gli chiesi, allarmata, cercando di allontanarmi per poter accendere la luce e potermi assicurare che fosse tutto intero e non fosse ferito. Poco importava che fosse lui il medico fra di noi. Ma le sue braccia mi tennero stretta a lui, impedendomi di muovermi.

«Edward, ti prego parla, mi sto spaventando», dissi, cercando di abbracciarlo come potevo, accarezzandogli i capelli, sentendomi completamente inutile.

Sentii la sua presa intorno a me farsi più stretta, e dire qualcosa contro il mio collo, che ripeté qualche istante dopo. «Va tutto bene, non preoccuparti», disse con la voce roca e spezzata. In un’altra situazione probabilmente avrei riso: era lui quello che stava piangendo, eppure era sempre lui a cercare di tranquillizzarmi dicendo a me che tutto andava bene; decisamente non era affatto così.

«Non va tutto bene», sussurrai, agitata e spaventata. Lo strinsi di più a me, sentendo le lacrime continuare a bagnarmi il collo. «Cosa ti è successo?»

Edward respirò profondamente contro la mia pelle, senza allentare la presa intorno alla mia vita. «Bella, per favore… non riesco… a parlarne… adesso…»

Accarezzai i suoi capelli. «Va bene. Non preoccuparti, va tutto bene. Ci sono qui io», sussurrai.

Quella notte non dormii. Rimasi sveglia a cercare di calmare Edward, che perfino nel sonno si agitava e non trovava riposo. Rimasi vigile fino a quando non vidi l’alba nascere dietro le tende, e la luce entrare nella stanza attraverso le fessure delle tende.

Ero sveglia anche quando sentii Edward mugugnare nel sonno una frase che mi avrebbe tormentato per giorni interni: «Mi dispiace, Lizzy».

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salve!! :D

Oggi sono un po' in ritardo, sono riuscita a finire il capitolo solo stanotte >.< Spero di riuscire a farcela anche per settimana prossima ad essere puntuale, ma non posso assicurare niente dato che sto preparando un esame :/

Come sempre grazie mille per tutti coloro che continuano a seguire la storia e un benvenuto ai nuovi lettori *_* Adesso aggiungo le foto dei due parchi visitati in questo capitolo e finisco di rispondere alle ultime recensioni :)

Alla prossima! :*

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Capitolo 12
*** Who are you talking about? ***


Route 66

Now that I'm losing hope

And theres nothing else to show

For all of the days that were spent

carrying away from hope

Somethings I'll never know

And I had to let them go

I'm sitting all alone

Feeling empty

Paramore - Pressure

12. Who are you talking about?

Quando mi svegliai ero sola nel letto. Le tende erano state tirate per far filtrare la luce del mattino nella stanza, e gli unici rumori erano quelli del cinguettio degli uccelli e lo scrosciare dell’acqua nella doccia.

Mi girai a pancia in sù, verso il soffitto bianco, e in quel momento qualcosa iniziò a vibrare sul comodino dalla parte opposta del letto. Guardai la porta del bagno chiusa, da cui proveniva ancora ininterrotto il rumore dell’acqua, e poi strisciai sul materasso fino ad arrivare alla fonte di quel movimento: il cellulare di Edward.

Lo presi dopo essermi assicurata nuovamente che la porta del bagno fosse ben chiusa ed Edward fosse ancora sotto la doccia, e non appena lessi il nome della persona che gli stava telefonando provai una vaga sensazione di nausea. Lizzy.

Guardai il display per un lungo istante, poi aprii la chiamata, portandomi il cellulare all’orecchio, restando in silenzio. Non avevo intenzione di parlare, volevo solo sentire la voce di questa Lizzy, che aveva tormentato la mia notte insonne da quando Edward aveva pronunciato il suo nome nel sonno.

«Pronto? Pronto, Edward?», arrivò la voce dall’altro capo del telefono. Era una voce chiaramente femminile, ma per nulla familiare. Chi era quella donna?

«Edward…», sospirò la donna, non ricevendo alcuna risposta da me. Poteva sentire il rumore della doccia? «Ho capito perché te ne sei andato. Lo so che ti dispiace per quello che è successo fra di noi ma… se solo tornassi… io sono ancora qui che ti aspetto».

L’acqua della doccia venne chiusa e sussultai, facendo cadere il cellulare fra le lenzuola.

Chiusi la chiamata e sistemai il telefono di nuovo al suo posto, poi mi raggomitolai dal mio lato del letto, nascondendomi fra le lenzuola.

 

«Bella?», sussurrò Edward, scuotendomi leggermente la spalla, cercando di svegliarmi. Non gli ci volle molto: il sonno in cui ero caduta era più un dormiveglia che altro.

Riaprii gli occhi a fatica, e subito scorsi il suo viso chino sul mio. Era seduto sul bordo del letto, accanto a me, già vestito per andare via.

Lo guardai confusa, cercando di risvegliarmi completamente. Sentivo i muscoli dolere e la testa sull’orlo dello scoppio. Non avevo dormito niente quella notte, e quei pochi minuti di sonno erano stati disturbati dall’incubo di rispondere ad una chiamata ad Edward da parte di quella Lizzy.

Edward accarezzò la mia guancia con la punta delle dita, sfiorando leggermente le ombre scure che sicuramente marchiavano i miei occhi. Anche il suo viso era stanco e segnato dalle occhiaie, e mi chiesi quanto fosse stato ristoratore il suo sonno tormentato.

«Dobbiamo andare, le donne delle pulizie sono già venute a bussare», disse, mantenendo un tono di voce basso.

Allontanò la mano, preparandosi ad alzarsi. Lo fermai posando la mano sul suo viso, costringendolo a guardarmi.

«Stai bene?», gli chiesi, dando voce alla prima delle mie preoccupazioni. Edward coprì la mia mano con la sua e cercò di sorridere, ma i suoi occhi rimasero tristi e lontani.

«Certo, non preoccuparti», rispose.

Mi morsi la lingua, per trattenere la mia replica e le altre mille domande che stavano affollando la mia mente stanca. Non era il momento di interrogarlo, e non ero nemmeno certa che lui lo volesse: avrei dovuto aspettare che fosse lui a parlarmi di questa Lizzy, non potevo costringerlo a farlo contro la sua volontà. Ma sapevo anche che non sarei riuscita a resistere ancora a lungo prima di esplodere in mille interrogativi.

 

Il viaggio per tornare verso Flagstaff, da dove avremmo ripreso la Route 66, fu lungo e silenzioso. Il cielo era macchiato da diverse nuvole scure, che sembravano promettere pioggia: sperai solo che il tempo reggesse almeno fino a sera, in modo da poter prendere l’elicottero per raggiungere la riserva Havasupai nel pomeriggio.

Né io né Edward parlammo molto in auto: entrambi eravamo persi nei nostri pensieri, e mentre Edward si teneva sveglio sorseggiando una bibita energetica, io oscillavo fra sonno e veglia, risvegliandomi bruscamente e peggiorando il mio umore. Mi sentivo sull’orlo di una crisi isterica: mille domande continuavano a premere per uscire, infiniti dubbi si annidavano intorno al nome di Lizzy, e altrettante paure e paranoie non mi permettevano di riposare in pace. Mi era capitato solo una volta di vedere Edward piangere - in occasione del funerale della sua nonna paterna, tre anni prima - e non riuscivo a ricordare altre occasioni in cui l’avessi visto sull’orlo delle lacrime, tanto meno piangente come la notte precedente. Quell’evento mi aveva turbato più di quanto mi sarei mai aspettata. Edward non era mai stato il genere di persona incline a dimostrare i propri sentimenti in maniera eclatante, anzi, spesso si nascondeva dietro a maschere d’indifferenza che ero certa fossero in parte dovute anche al suo lavoro come cardiochirurgo; tuttavia, anche con me spesso cercava di nascondere le sue vere emozioni.

Non sapevo più cosa pensare: cos’era successo dopo che era uscito dalla stanza? Dove era andato? Aveva parlato con qualcuno, magari proprio con questa Lizzy? E, di nuovo, chi era questa donna, che rapporto aveva con Edward?

La parte più irrazionale di me trovava una sola risposta a quella domanda: forse era la sua nuova ragazza. Dopotutto era passato un anno da quando ci eravamo entrambi separati, e sebbene io non abbia avuto nessuna relazione di alcun genere con altri uomini dopo di lui non potevo sapere che cosa avesse fatto lui. Poteva anche essere un’infermiera o una collega di lavoro con cui aveva scelto di svagarsi dopo la nostra rottura. Quell’ipotesi mi faceva più male del previsto. Davvero si era gettato fra le braccia di un’altra non appena l’avevo lasciato?

Edward guidava tranquillo, come se nulla fosse successo, ma ogni tanto lo vedevo lanciarmi occhiate preoccupate, soprattutto quando il mio silenzio si prolungava per lunghi minuti, oppure mi risvegliavo sobbalzando.

Ci fermammo solamente a Seligman, una cittadina segnalata sull’itinerario di Edward per il famoso Delgadillo's Snow Cap Drive-In, un locale particolare in cui sostammo per pranzare: le pareti esterne erano decorate da tante insegne diverse, e davanti all’ingresso era posteggiata una vecchia Chevrolet con gli occhi sul parabrezza e il nome del locale dipinto sulle fiancate, e accanto ad essa c’era una vecchia pompa di benzina rossa. La cosa più strana però, era la porta: c’erano due pomelli, e il cartello appeso al vetro recitava “Sorry, we’re open”, una cosa che non avevo visto da nessun’altra parte prima di allora.

Quando dopo aver pranzato uscimmo dal locale, il cielo era diventato più scuro, e le prime gocce di pioggia stavano iniziando a scendere. Corremmo fino al furgoncino, giusto in tempo per ripararci dal diluvio che iniziò a imperversare sulla città. Per arrivare a Peach Springs, dove avremmo trovato la deviazione che conduceva a ridosso del canyon e al punto di partenza dell’elicottero, avremmo impiegato all’incirca una mezz’oretta, ma con la pioggia che scendeva dubitavo avrebbero continuato a fare viaggi su e giù per la riserva.

«Cosa facciamo ora?», chiesi, guardando le macchie d’acqua sul parabrezza.

Edward mise in moto il furgoncino. «Andiamo comunque al punto di partenza dell’elicottero. Se siamo fortunati nel giro di un’ora ci sarà abbastanza bello da riprendere i voli», mormorò, immettendosi nel traffico.

Appoggiai la fronte contro il vetro freddo del finestrino, e osservai il paessaggio scorrere al nostro fianco, la città sparire e venire nuovamente sostituita dal deserto. Le nuvole grigie si allungavano fino all’orizzonte, gettando sulla terra scura un’ombra buia. Il tempo sembrava riflettere il mio umore, in quel momento.

I minuti sembravano durare ore, e i dubbi non facevano altro che infittirsi. Stavo per impazzire. Non potevo più trattenermi.

«Cos’è successo questa notte?», sussurrai, osservando il suo riflesso nel vetro, senza guardarlo direttamente.

Lui rimase in silenzio per un lungo istante. Quando rispose la sua voce era priva di intonazione: «Ho avuto un crollo nervoso. Mi dispiace di averti fatto preoccupare».

Mi voltai a fissare il suo profilo. «Perché? Cos’è successo quando sei uscito dalla stanza?»

Le sue dita si strinsero intorno al volante, le labbra divennero una linea dritta. «Nulla. Sono solo andato a bere qualcosa al bar dell’hotel».

«E hai avuto un crollo nervoso perché hai bevuto?», replicai, facendogli capire dal mio tono che non gli credevo.

Edward rimase in silenzio. «Ho parlato con una persona», disse infine, con la voce bassa. «Mi ha fatto ricordare alcune cose che preferivo dimenticare».

Trattenni il fiato. Aveva parlato con Lizzy? «Ti ha telefonato qualcuno da casa?», domandai, sentendo la gola stretta in una morsa.

Edward aggrottò le sopracciglia. «No. Non mi ha chiamato nessuno. Era solo… un uomo seduto al bar come me, nessun altro».

Mi morsi il labbro. Stava dicendo la verità? Aveva davvero parlato solo con un uomo seduto al bar, oppure questa famosa Lizzy gli aveva telefonato e lui non voleva dirmelo per chissà quale motivo? Di certo non volevo dirgli di averlo sentito pronunciare quel nome nel sonno, e in quel modo non potevo accusarlo di star mentendo, né avevo un vero motivo per farlo; perché avrebbe dovuto mentirmi, oltretutto?

«Di cosa avete parlato?», tentai di chiedergli, sperando che avrebbe accettato di parlarne.

Edward scrollò le spalle. «Del nostro viaggio, di lavoro, del Grand Canyon. Cose in generale», mormorò.

«E quale di queste cose ti ha fatto avere un crollo nervoso?», insistetti.

Lui assottigliò lo sguardo, ancora puntato sulla strada. Deviò per una stradina sulla destra, allontanandoci dalla Route 66. «Niente in particolare», rispose.

Lo guardai accigliata. «Ma hai detto che quell’uomo ti ha fatto ricordare qualcosa che non volevi», ribattei, iniziando a perdere la pazienza.

Edward rimase in silenzio per diversi minuti, chiaramente intenzionato a non rispondermi. Quando parlò fu per farmi vedere lo strapiombo che costeggiava la strada priva di guardrail che stavamo percorrendo.

Non distolsi lo sguardo da lui. «Perché non mi vuoi dire cos’è successo?», gli chiesi, con un tono di voce che lasciava trasparire tutta la mia tristezza e delusione.

Mi sentivo inutile. Inutile e indesiderata. Io gli avevo raccontato i miei problemi senza riserve, gli avevo detto tutto appena lui aveva dimostrato un minimo di interesse nella faccenda, mentre lui aveva deciso di affrontare qualunque cosa stesse passando da solo, senza volere alcun aiuto da parte mia. Non aveva fiducia in me? Pensava che l’avrei giudicato? Oppure non voleva dirmelo perché c’entrava questa donna, che avrebbe potuto significare più di una semplice amica o conoscente per lui?

Edward fermò il furgoncino in un parcheggio con diverse altre auto e spense in motore. Si tenne al volante per alcuni istanti, poi mi guardò. «Perché non so come potresti reagire ad una cosa simile», rispose solamente.

Aggrottai le sopracciglia. «Intendi dire che credi che non sia in grado di gestire la cosa?»

Lui scosse il capo. «Aspettami qui, vado a chiedere se c’è la possibilità di riuscire ad arrivare alla riserva in giornata», disse, troncando il nostro discorso. Si guardò alle spalle, cercando qualcosa sui sedili posteriori. «Abbiamo un ombrello?»

«Ce l’ho dentro la valigia…», mormorai.

Lui allungò una mano per aprire la portiera e uscire, ma lo fermai, trattenendolo per un braccio.

«E allora cosa intendi dire?», insistetti.

Edward mi guardò per un istante. «Che non credo che mi guarderesti allo stesso modo se ti dicessi quello che è successo».

Non mi permise di replicare, perché uscì sotto la pioggia lasciandomi sola in auto con i miei pensieri.

Lo guardai dirigersi verso la roulotte che riportava il cartello della compagnia che dirigeva i trasporti in elicottero fino alla riserva, correndo per arrivare a ripararsi sotto la tettoia dalla pioggia scrosciante che sembrava non volersi fermare più. Un uomo corpulento apparve sulla porta, e li vidi parlare per diversi minuti.

Nel frattempo cercai di pensare a cos’altro dire una volta che sarebbe tornato, quali altre domande fargli per convincerlo in qualche modo a darmi maggiori informazioni su quanto fosse successo. Lui aveva paura che lo giudicassi in qualche modo, se avevo capito bene. Aveva paura di quello che avrei pensato una volta scoperto ciò che gli era successo. Ed ero certa che in tutta questa faccenda centrasse anche Lizzy.

Il sogno di quella notte tornò alla mia memoria, e mi chiesi se non stessi lasciando che fosse la mia gelosia a guidare i miei pensieri. Forse Edward non voleva raccontarmi cos’era successo con quella donna proprio perché temeva che la nostra relazione ne avrebbe risentito. Cos’avrei fatto se avessi saputo per certo che Edward aveva avuto una relazione con un’altra donna dopo che ci eravamo lasciati? Sicuramente mi sarei sentita tradita - anche se non avrei dovuto - perché inconsciamente speravo che Edward stesse subendo la stessa situazione di solitudine che stavo provando io. Sapevo che era sbagliato il mio ragionamento, che dopo che l’avevo lasciato Edward meritava di rifarsi una vita e di essere felice, anche se questo significava essere con qualcuno che non fossi io.

Quando vidi Edward tornare verso il furgoncino mi imposi di scacciare tutti quei pensieri, e cercai di stamparmi in viso un’espressione indifferente.

Appena richiuse la portiera si scrollò con le mani i capelli bagnati, lanciando in giro goccioline di pioggia e spettinandosi.

«Cos’hanno detto?», gli chiesi.

«Che se smette di piovere prima delle cinque ci possono portare fino alla riserva con l’ultimo volo, altrimenti dovremo aspettare domani», rispose.

Feci una smorfia, guardando il cielo scuro sopra di noi. Non sembrava intenzionato a smettere di piovere, e anche se avevamo ancora più di due ore di tempo prima che arrivassero le cinque non ero molto ottimista. «Cosa facciamo, allora?»

«Aspettiamo», disse, lasciandosi andare contro il sedile.

«Qui?»

«Dove altro potremmo andare? Piove a dirotto, e non ne vale la pena di tornare indietro per arrivare alla prima città che è a più di venti minuti da qui. È meglio se restiamo qui e riposiamo», mormorò.

Sospirai pesantemente, e sbadigliai. «Allora possiamo anche dormire».

Lui rise leggermente. «Direi di sì. Potremmo sdraiarci nel baule».

«Tu dici?», chiesi, perplessa. Guardai alle mie spalle, oltre il sedile posteriore, dove si apriva l’ampia zona del baule. In effetti c’era parecchio spazio, perfino Edward avrebbe potuto sdraiarsi senza dover piegare le gambe.

Prima che prendessi una decisione Edward si girò sul sedile, e dopo essersi inginocchiato scavalcò il suo posto, finendo sui sedili posteriori. Quando raggiunse il baule lo seguii, battendo la testa contro il tettuccio e facendolo ridere. Spostò le valigie ai lati, e recuperò il sacco a pelo da campeggio, stendendolo in mezzo per non farci restare sulla plastica fredda. Io tirai le tendine, per evitare eventuali sguardi curiosi da fuori la macchina - del resto eravamo pur sempre in un parcheggio, e non credevo che sarei riuscita a chiudere occhio sapendo che chiunque poteva vedermi passando a pochi centimetri da me.

Ci stendemmo insieme, restando vicini, spalla contro spalla. Il rumore della pioggia che sbatteva insistente contro il tettuccio era l’unico suono percepibile, e riusciva a rilassarmi.

Chiusi gli occhi, distrutta dalla notte insonne, desiderosa solo di poter riposare e porre fine al caos di domande e ipotesi che governava nella mia mente. In lontananza si sentì il rombo di un tuono.

«Mi spiace di averti tenuta sveglia stanotte», sussurrò all’improvviso Edward, strappandomi al sonno che stava per catturarmi. «Non avrei dovuto piombare nel letto in quelle condizioni e farti preoccupare. Scusami».

Sollevai le palpebre pesanti, voltando il capo per cercare il suo sguardo, puntato sul tettuccio. «Non devi scusarti», mormorai con voce assonnata.

Edward strinse le labbra, per nulla convinto dalla mia risposta. Mi girai sul fianco, avvicinandomi di più a lui, e posai una mano sul suo petto, sopra al cuore. «Tu puoi sempre venire da me, in qualsiasi condizione, okay? Non devi scusarti, né preoccuparti».

Finalmente i suoi occhi incontrarono i miei, e in essi lessi gratitudine e disperazione. Coprì la mia mano con la sua, e mi avvolse con un braccio per stringermi a lui. Poggiai il capo sul suo petto, chiudendo nuovamente gli occhi.

«Mi dirai mai cos’è successo a Chicago?», gli chiesi, mentre cercavo di resistere al bisogno di dormire, sempre più irresistibile.

Lui accarezzò i miei capelli, respirando profondamente.

Quando non rispose sussurrai ancora, già con un piede nel mondo dei sogni: «Aspetterò. Lo sai che non potrei mai giudicarti».

Mi addormentai mentre le sue labbra mormoravano un “grazie” contro i miei capelli.

 

Edward mi svegliò due ore più tardi, e quando scostai le tendine dei finestrini scoprii che in quel lasso di tempo le nuvole erano sparite, e che il cielo era limpido nonostante il sole si stesse già dirigendo verso l’orizzonte.

Mentre Edward raggiungeva nuovamente la roulotte per chiedere conferma della partenza dell’elicottero, mi occupai di estrarre un paio di cambi per passare la notte e la giornata di domani alla riserva: avevamo intenzione di pernottare presso l’unico albergo che c’era laggiù, e di portarci dietro una sola valigia per evitare carichi ingombranti.

Quando Edward tornò, dopo aver pagato il nostro viaggio ed essersi assicurato la prenotazione anche per il ritorno del giorno successivo, tirò fuori alcune cose dal suo borsone, facendo spazio per le mie e poi richiudendo il tutto, dopo aver aggiunto anche il mio ombrellino portatile per precauzione.

Aspettammo insieme ai due uomini della compagnia che gestiva i trasferimenti alla riserva, fino a quando sentimmo in lontananza il rumore dell’elicottero che risaliva dal fondo del canyon. Apparve quasi all’improvviso, e con una virata strettissima si posò quasi sul ciglio dello strapiombo, lasciando le pale in funzione. Da bordo scesero quattro persone, una famiglia in vacanza, probabilmente, e subito dopo il pilota ci fece segno di salire. Un uomo ci aiutò a sederci e allacciarci l'imbracatura di sicurezza, e assicurò il borsone sul retro, dopodiché chiuse il portellone, che aveva la finestra aperta. Infilammo le nostre cuffie anti-rumore, e per poco non urlai per lo spavento quando l’elicottero si alzò senza preavviso per gettarsi direttamente a capofitto nella spaccatura del canyon. Vidi la pietra rossa a pochi metri dal finestrino accanto a cui mi trovavo, e mi strinsi con forza alle maniglie accanto al sedile, stringendo i denti. Più in là, oltre alla distesa di boschi verdi, vidi il tratto serpeggiante del fiume Colorado, che tagliava a metà il canyon. Se non fossi stata troppo terrorizzata al pensiero di staccare le mani dalle maniglie probabilmente avrei scattato una fotografia a quel panorama mozzafiato. Il tragitto durò una decina di minuti, e quando finalmente atterrammo alla riserva ci ritrovammo circondati dalla natura e privati della luce del sole, ormai nascosto dietro le pareti rocciose che ci circondavano.

Edward prese il borsone, e insieme ci dirigemmo verso il centro del piccolo villaggio. Le strade sterrate erano circondate da alberi e panchine di legno, e in giro si potevano trovare anche animali come galline e gatti che giravano liberamente. Molti bambini si rincorrevano e giocavano a palla, mentre gli anziani li osservavano da lontano, intenti a chiacchierare fra di loro seduti all’ombra. La maggior parte delle strutture erano case di legno molto rustiche, e gli unici locali un po’ più moderni erano un piccolo bar-mensa e l’albergo, posizionati l’uno di fronte all’altro nella zona più centrale. C’era un’unica via che si divideva in due più avanti, e subito le case si facevano più rade e distanziate fra di loro. Si sentiva il rumore del fiume in lontananza, e il verso delle galline che giravano per le strade. C’erano pochissime automobili, e molte biciclette. Non c’erano pali della luce, ma solo alcuni proiettori postati sulla mensa e l’albergo, che illuminavano le facciate. Non osavo immaginare come sarebbe stato quel posto quando sarebbe calato il buio.

Andammo subito in albergo, e dopo aver lasciato giù le valigie nella nostra piccola stanza scendemmo nell’atrio, dove c’era solo un’altra coppia di turisti che si sarebbe fermata per la notte - del resto le camere disponibili in tutto erano solo tre, e dato il tempo terribile di quel pomeriggio probabilmente era normale non trovare molta gente.

Trascorremmo un’ora a girare per il piccolissimo villaggio, percorrendo i sentieri sterrati che conducevano fino alla riva del Colorado, di un colore così scuro che non mi invitava di certo a tuffarmici dentro. Quando il cielo iniziò a scurirsi e si avvicinò l’ora di cena tornammo in centro, e cenammo velocemente alla mensa, usufruendo del menù dell’albergo. Una volta terminato non avevamo molto da fare: sebbene entrambi fossimo stanchi - nonostante il riposo pomeridiano - non avevamo ancora voglia di andare a ritirarci in camera, però non c’era neanche niente da fare al villaggio. Non si poteva nemmeno passeggiare per le strade, completamente buie e illuminate solo a tratti dalle luci che filtravano dalle finestre delle case, così attraversammo la strada per tornare in albergo. Lì, sulla veranda, incontrammo tre signore anziane, sedute sui divani di vimini, intente a intessere uno strano filo intorno a cerchi di legno, e solo quando mi avvicinai di più, incuriosita, riconobbi quegli strani oggetti ancora in lavorazione come gli acchiappasogni.

L’anziana indiana mi guardò sorridendo. «Vorresti provare, cara?», mi chiese, gentilmente.

Arretrai di un passo, arrossendo. «Non credo di esserne capace», risposi, imbarazzata.

Lei sorrise ancora, appoggiando il suo lavoro incompleto sulle ginocchia. «Non dire così. Ti possiamo insegnare noi, non è difficile come sembra», disse. «Perché non vi sedete qui con noi a provare? Purtroppo qui al villaggio non abbiamo molti intrattenimenti per i turisti».

Guardai Edward, che scrollò le spalle, lasciandomi la decisione. Dopo un secondo di indecisione accettai la proposta dell’anziana, e mi sedetti su uno dei divanetti in vimini, seguita da Edward. Guardai gli strani oggetti sul tavolino di legno davanti a me, e poi le dita delle tre signore muoversi abili intorno al cerchio di legno per intessere una rete che sembrava quella di un ragno, con un perfetto buco al centro.

La signora che ci aveva invitati ci mostrò con pazienza i movimenti da svolgere per riuscire a tessere la rete, e diversi tentativi andati a vuoto e parecchie battutine di Edward sulla mia incapacità più tardi riuscii a raggiungere un risultato abbastanza accettabile. Nel frattempo le anziane signore si alternavano a raccontare la leggenda intorno all’origine degli acchiappasogni, che sarebbe stato creato da un grande maestro di saggezza di nome Iktome che apparve sotto forma di ragno ad uno stregone, a cui prese un anello di legno a cui erano attaccate perline e piume e gli tessé dentro una ragnatela; la rete avrebbe trattenuto i sogni e le visioni buone, mentre quelle cattive sarebbero state risucchiate dal buco al centro e sarebbero svanite per sempre. Ci dissero anche che secondo un’altra leggenda le piume nere rappresentavano i brutti sogni, e le perline quelli belli; ci raccontarono che ad alcuni indiani veniva regalato un acchiappasogni privo di ornamenti fin dalla loro nascita, e sarebbero stati poi loro a decorarlo in base ai loro sogni, e questo li avrebbe accompagnati per tutto il corso della loro vita.

Ascoltai le donne affascinata, e nel giro di un paio d’ore riuscii a terminare il mio acchiappasogni, con tanto di perline e piume nere.

«Hai tanti bei sogni, cara?», mi domandò la signora, quando terminai di sistemare l’ultima perlina nel cordino che pendeva dal cerchio.

Arrossii, ed evitai lo sguardo di Edward. «Ho tante speranze, non so se sono proprio sogni», mormorai.

Lei sorrise calorosamente, e mi batté una pacca leggera sulla mano, facendo oscillare l’oggetto. «Le speranze sono sogni, mia cara. Li si chiamano speranze solo perché spesso non si ha il coraggio di ammettere che sono qualcosa che si vuole con tutto se stesso, come i sogni».

Guardai il piccolo cerchio nelle mie mani, riflettendo sulle sue parole. Sapevo bene che significato davo ad ogni singola perlina, e mi chiesi se l’anziana signora avesse davvero ragione. Era davvero quello ciò che sognavo e desideravo con tutta me stessa?

«Vedo che hai anche dei brutti incubi, però», aggiunse, strappandomi ai miei pensieri.

Guardai con lei le due piume nere che pendevano solleticandomi la pelle dei polsi. Annuii leggermente, sperando che non indugiasse oltre e non chiedesse altro.

Fortunatamente, la sua attenzione venne dirottata da Edward, che aveva lasciato cadere una perlina sul tavolo, insieme alle altre.

«Oh, ragazzo, il tuo è un acchiappasogni davvero particolare», disse, con un tono di voce strano. «Sembra che gli incubi superino di gran lunga i sogni».

Seguii lo sguardo della signora, e osservai il cerchio di Edward: c’erano quattro lunghe piume nere come la notte che pendevano dal legno, e solo due piccole perline erano infilate in due laccetti.

Edward rimase in silenzio, senza incontrare lo sguardo di nessuno dei presenti. Dopo alcuni secondi alzò il viso, accennando un sorriso. «Un giorno forse potrò aggiungere qualche perlina».

Le anziane rimasero in silenzio, perplesse. Alla fine una di loro annuì e disse: «Lo spero per te, figliolo».

Poi lui si voltò verso di me. «Andiamo a dormire?», mi chiese, e capii dal suo sguardo che voleva scappare da quella situazione.

Annuii, ed entrambi ci alzammo dal divanetto, salutando calorosamente le tre signore che ci avevano tenuto compagnia per quella sera e ci avevano anche insegnato tante cose sulle tradizioni indiane. Subito dopo rientrammo in camera, restando di nuovo soli.

Edward ritirò immediatamente il suo acchiappasogni nel borsone, in una tasca laterale, quasi ansioso di volerlo nascondere.

Prima che potessi chiedergli qualcosa si chiuse in bagno. Quando uscì mi ero già preparata per andare a dormire, e avevo già tirato le coperte del letto sulle gambe. Lì sul fondo del canyon non faceva poi così caldo la notte.

Appena mi raggiunse spense la luce, facendo piombare la camera nell’oscurità totale. Non c’era alcuna luce quella notte che filtrava dalle tende delle finestre, e non c’era nemmeno la spia della televisione o la luce lampeggiante della sveglia. Eravamo completamente immersi nel buio. Se da una parte era un sollievo per i miei occhi, dall’altro quell’assenza di fonti di luce mi metteva a disagio.

Mi accoccolai sotto le coperte, cercando di avvicinarmi il più possibile ad Edward, per avvertire la sua presenza al mio fianco.

Dopo diversi minuti lo sentii muoversi, segno che poteva essere ancora sveglio.

«Edward?», lo chiamai, girandomi verso di lui.

«Sì?», rispose subito.

Ripensai alle diverse perline che avevo infilato nei nastri di pelle, ognuna per un sogno/speranza particolare che mi veniva in mente man mano che aggiungevo decorazioni all’acchiappasogni. «Davvero hai solo due sogni in questo momento?»

Lui tacque per un istante. «È così sbagliato?», sussurrò in risposta poi, e dal tono di voce sembrava quasi preoccupato.

«Non è sbagliato», mormorai, «è… strano. Pensavo che tutti avessero almeno una decina di sogni - anche irrealizzabili - nel cassetto. Per questo sono sorpresa».

Rise leggermente, ma la sua era una risata amara, che mi preoccupò. «E pensare che quelle due perline indicano già due sogni che sono irrealizzabili. Sono proprio messo male, eh?»

«Non dire così», borbottai. «Non puoi sapere se sono davvero irrealizzabili - a meno che tu stia sognando di far resuscitare Freddie Mercury, perché in quel caso devo darti ragione».

Lo sentii ridere di nuovo, e sorrisi a mia volta quando capii che la sua era una risata divertita e non più amara. Si mosse, e poi il suo respiro arrivò al mio viso, segno che si era girato verso di me. Passò un braccio sul mio fianco, arrivando a posare la mano sulla mia schiena. Mi avvicinò a sé, e mi accucciai contro di lui, inspirando il suo profumo.

«Forse hai ragione tu», sussurrò, sfiorando il mio naso con il suo.

«Ovvio che ho ragione», mormorai in risposta, facendolo ridere nuovamente.

Rimanemmo fermi così per diversi minuti, in silenzio, ad occhi chiusi e con le punte dei nasi che si sfioravano. Sarebbe bastato così poco per poterlo baciare. Mi sarebbe bastato inclinare un po’ la testa e le nostre labbra si sarebbero finalmente incontrate. Ma sapevo che non era ancora il momento. C’erano troppi dubbi e troppe domande ancora fra di noi, e non potevo rischiare di fare ancora errori con Edward. Non volevo.

Rimasi zitta a lungo, mentre cercavo di trattenermi dal dire e fare cose che sicuramente avrebbero rovinato tutto. Poi, alla fine, non resistetti più.

«Edward», sussurrai nel buio della stanza, e nel silenzio totale. «Chi è Lizzy?»

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno!! :D

Fortunatamente sono riuscita a finire il capitolo anche per oggi, e da settimana prossima in teoria non dovrei rischiare più di non arrivare puntuale per almeno un mesetto. Grazie a tutti per gli "in bocca al lupo" per l'esame! :*

Questo capitolo è più breve degli altri, anche perché è abbastanza di passaggio. Please, non mi uccidete per il finale XD

Il prossimo - se tutto va come ho in mente - sarà parecchio importante, vi consiglio di non perdervelo XD

Bon, scappo a studiare ç_ç

Alla prossima! :*

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Capitolo 13
*** Think about it, then do it ***


Route 66

And this kind of pain, only time takes away,
That’s why it’s harder to let you go.
And nothing I can do without thinking of you,
That’s why it’s harder to let you go.
But if there’s a pill to help me forget, God knows I haven’t found it yet,
But I’m dying to, God I’m trying to,

‘Cause trying not to love you, only goes so far,
Trying not to need you, is tearing me apart.

Can’t see the silver lining from down here on the floor,
And I just keep on trying, but I don’t know what for.
‘Cause trying not to love you only makes me love you more.

Nickelback - Trying Not To Love You

13. Think about it, then do it

«Edward», sussurrai nel buio della stanza, e nel silenzio totale. «Chi è Lizzy?»

Rimasi in attesa, mentre il suo respiro mi accarezzava le labbra, leggero e tranquillo. Troppo tranquillo.

Sfiorai la sua spalla, chiamandolo sottovoce. Nessuna risposta. Il suo respiro continuava ad essere regolare, pesante. Era addormentato.

Lasciai cadere la mano sul materasso, trattenendo l’istinto di scuoterlo con forza per poterlo svegliare e ricevere finalmente una risposta. Ma non volevo farlo. Non volevo svegliarlo per costringerlo a parlare; del resto gli avevo detto che avrei aspettato che fosse stato lui a parlarmene, no? Dovevo mantenere la mia parola. E la verità era che anche se mi sentivo frustrata a non aver ricevuto ancora risposta ai miei dubbi, una piccola parte di me era sollevata, al pensiero di essermi risparmiata almeno per quella sera la verità su chi fosse quella donna che popolava i suoi sogni.

Rimasi ad ascoltare il rumore suo del suo respiro, tranquillo. Dopo l’esperienza della notte precedente avevo quasi paura di non sentirlo così rilassato e profondamente addormentato.

Chiusi gli occhi, concentrandomi solo sul suo respiro per cercare la pace che mi consentisse di addormentarmi, e dopo diversi minuti finalmente caddi a mia volta in un sonno profondo.

 

Quando il mattino seguente mi svegliai, miracolosamente nella stessa posizione in cui mi addormentai, non ebbi più il coraggio di porgli la domanda che tanto mi ossessionava. Aprire gli occhi e incontrare subito quelli di Edward, a breve distanza dai miei, fece crollare ogni buon proposito di schiarire i miei dubbi, nel timore di rovinare quel momento così perfetto. Osservavo i suoi occhi verdi, illuminati dal sole che filtrava dalla finestra, e improvvisamente tutte le paure e le incertezze si cancellavano, lasciando solo me ed Edward, immersi nella natura dove non c’erano ospedali né redazioni giornalistiche ad attentare alla nostra tranquillità.

Quando sollevò una mano per spostare una ciocca di capelli che mi era caduta sul viso durante la notte indugiò con i polpastrelli sul mio zigomo, infine lasciò che anche il palmo aderisse alla mia pelle, per accarezzare dolcemente la mia guancia. Socchiusi gli occhi, lasciandomi andare al suo tocco delicato.

«Dovremmo alzarci», sussurrò, diversi minuti dopo, senza terminare la sua carezza né mostrare segno di voler fare come aveva detto, «o non torneremo in tempo dalle cascate per prendere l’ultimo volo per tornare alla macchina».

Annuii, e lui mi lasciò andare, alzandosi dal letto e iniziando ufficialmente quella giornata.

 

Dopo una veloce colazione alla mensa, lasciammo il nostro borsone alla reception dell’albergo, e ci dirigemmo con un solo zaino con una coperta e poche cose al suo interno verso le cascate. L’unico problema era che nessuno di noi due aveva la più pallida idea di dove andare. La riserva in cui ci trovavamo non era compresa nell’itinerario di Edward, e avevamo provato chiedere informazioni al proprietario dell’albergo, ricevendo un’indicazione molto vaga riguardo il fiume.

Dopo una dozzina di minuti passati a cercare un cartello che potesse indicare il percorso da seguire ci arrendemmo a chiedere altre indicazioni agli abitanti del luogo. Ci fermammo accanto alla staccionata di una casetta, dove una donna sulla quarantina stava lavorando nell’orto.

«Mi scusi?», la chiamò Edward, facendole alzare la testa. «Ci saprebbe dire da che parte sono le cascate?»

La donna si mise dritta, e si asciugò il sudore dalla fronte. Poi indicò con la mano che teneva ancora una paletta verso un sentiero. «Dovete risalire lungo l’argine del fiume. Poi troverete un ponte che conduce a una strada in mezzo al bosco. È piuttosto lunga, impiegherete almeno un’ora ad arrivare là», rispose brevemente.

Edward sorrise. «La ringrazio molto».

«È in arrivo pioggia», disse ancora la donna, quando le avevamo già voltato le spalle. Ci girammo a guardarla, e lei indicò le nuvole in parte nascoste dietro il canyon. «Non vi consiglio di incamminarvi se non volete rischiare di beccarvi una bella lavata».

Poi si chinò nuovamente e tornò al suo orto, senza prestarci più attenzione.

Guardai Edward, perplessa. «Cosa facciamo?»

Lui scrollò le spalle. «Ormai siamo quaggiù, sarebbe un peccato non andare a vederle, non credi?»

«Ma hai sentito quello che ha detto…», mormorai, seguendolo verso il fiume. «Cosa facciamo se inizia a piovere?»

«Aspettiamo sotto un albero che smetta», rispose semplicemente.

Non dissi più niente, accettando la sua decisione. Del resto anche io ero davvero curiosa di vedere quelle cascate, e la nostra gita alla riserva sarebbe stata quasi inutile se non fossimo riusciti a vederle. Dovevamo almeno provarci.

Grazie alle indicazioni della donna trovammo facilmente il sentiero che percorreva la foresta, e dopo più di mezz’ora di cammino trovammo la prima cascata. Secondo quanto avevo letto c’erano quattro cascate di dimensioni diverse lungo il percorso, ma la più bella di tutte era ovviamente quella più lontana. Il sentiero era abbastanza largo da far passare una macchina, ma non trovammo nessuno lungo il nostro percorso, circondato da alberi enormi con le radici che spuntavano dal terreno secco e cespugli di erba alta ad altezza d’uomo.

Due cascate più tardi, e più di un’ora dopo la nostra partenza dal villaggio della riserva, giungemmo ai piedi della più bella cascata che avessi mai visto. Non era solo il modo delicato e perfetto in cui l’acqua cadeva verso il basso infrangendosi sulle pietre quasi a metà della sua caduta, ma anche la particolare forma delle rocce intorno ad essa, a rendere quel posto così spettacolare. Muschi e piante rampicanti si allungavano lungo la roccia nuda macchiando di verde il rosso-arancione del canyon, fondendosi poi con il bianco e il verde acqua cristallino della cascata e del piccolo laghetto che si formava ai suoi piedi, e che a sua volta creava tante piccole cascate simili a rapide che scivolavano verso il canale che si allungava lungo il percorso che io ed Edward avevamo appena compiuto. Una lingua di sabbia chiara giungeva fino all’acqua, quasi come un invito a entrare e farsi un bagno.

Non c’era nessuno in quel luogo, gli unici rumori erano quelli dello scrosciare dell’acqua e degli uccelli nascosti nelle fronde gli alberi.

Edward lasciò cadere lo zaino accanto al tronco di un albero, e si fermò ad osservare il panorama. La cascata era in ombra, e alzando il capo scoprii che le nuvole avevano coperto buona parte del cielo. Le previsioni di quella donna erano quasi sicuramente giuste.

«Che facciamo adesso?», gli chiesi, sedendomi a terra per riposarmi un po’.

Edward sorrise. «Io direi che è il momento giusto per farsi un bagno», disse, sfilandosi la maglietta.

«Credo che stia per iniziare a piovere. Non sarebbe meglio riposare un attimo e poi tornare subito alla riserva?», mormorai, distogliendo lo sguardo dalla sua schiena nuda alle mie mani.

Lo sentii entrare in acqua e alzai gli occhi, vedendolo già per metà immerso.

«Dai, vieni anche tu. L’acqua non è fredda!», disse, mentre si spostava verso la cascata.

Alzai gli occhi al cielo. «Ma mi hai ascoltato? Sta per iniziare a piovere, dovremmo andarcene».

«Questo vuol dire che ti bagnerai in ogni caso. Tanto vale farlo in un posto come questo che sotto la pioggia», ribatté, alzando la voce per farsi sentire oltre il frastuono della cascata, dove era praticamente arrivato, ormai completamente immerso nell’acqua.

Mi morsi il labbro, e guardai un’altra volta le nuvole sopra di noi. Infine mi alzai in piedi, e in fretta e furia mi liberai della canottiera e dei pantaloncini, ritirandoli nello zaino e restando in costume. Lasciai le scarpe accanto a quelle di Edward, e provai a immergere i piedi nell’acqua verde, scoprendo con piacere che non era né troppo calda né troppo fredda. Raggiunsi Edward accanto alla cascata, quando lui riemerse da sotto il getto.

«Fa male?», gli chiesi, perplessa, provando a infilare una mano nell’acqua bianca.

Il getto era forte, ma non abbastanza da farmi ritirare il braccio.

Edward scosse il capo, e dopo un ultimo momento di esitazione passai a mia volta sotto il getto freddo, sentendo l’acqua premere contro la mia schiena con forza, tirandomi i capelli sul viso e spingendomi verso il basso. Riemersi poco distante, e spostai i capelli indietro.

Edward tornò sotto la cascata, ma io rimasi lontano, iniziando a nuotare avanti e indietro nel piccolo lago. Non era molto profondo, a parte nella zona della cascata, né ampio, ma si stava bene. Il profumo d’acqua dolce era piacevole, mischiato a quello delle piante e dei fiori selvatici che di tanto in tanto spuntavano fra il verde del fogliame.

Edward mi raggiunse, e rimanemmo in silenzio a nuotare per diversi minuti, fino a vedere le nuvole oscurare completamente il cielo. A quel punto Edward disse che era arrivato il momento di asciugarci un po’ per prepararci a tornare al villaggio.

Lo seguii fuori dall’acqua, e mi asciugai velocemente nella coperta che avevamo nello zaino, passandola poi a lui. Poi ci sedemmo sotto l’albero, aspettando che i costumi si asciugassero un po’ prima di rivestirci e rimetterci in viaggio.

Edward si passò la coperta sulle spalle, poi aprì un braccio per farmi avvicinare a lui, e coprì entrambi con essa, cercando di scaldarci. Un leggero vento stava iniziando a soffiare, e quasi subito alcune gocce di pioggia iniziarono a scendere dal cielo, andando a infrangersi sulla superficie del lago. In poco tempo si trasformò in un vero e proprio diluvio.

Posai la testa sulla sua spalla, sospirando. «Stasera fino dove arriviamo in auto?»

Edward posò la guancia contro la mia testa, respirando profondamente. «Non lo so. Immagino inizieremo dirigerci verso il confine con la California. Non manca più molto a Los Angeles».

Mi morsi il labbro inferiore. «Credi che fra una settimana saremo di nuovo a Chicago?»

«Può essere», sussurrò.

«Non ho voglia di tornare a casa», ammisi, stancamente.

«Neanch’io», disse lui, poi aggiunse, dopo una breve pausa: «Cos’altro potremmo fare, altrimenti?»

Rimasi in silenzio, pensando a una scusa che ci permettesse di ritardare ancora il ritorno verso Chicago. «Non ne ho idea», mormorai, infine.

«Troveremo qualche contrattempo, vedrai».

Alzai la testa dalla sua spalla, cercando il suo sguardo. «Non si preoccuperanno a casa vedendo che non torniamo?»

Inarcò un sopracciglio. «Hai paura che Jessica vada a denunciare la tua scomparsa alla polizia?»

Feci una smorfia. «Figurati, quella si sarà a mala pena accorta della mia scomparsa», sbottai. «Mi riferivo ad Esme, Carlisle, Rosalie ed Alice. Ed Emmett, ovviamente. Penserà che gli hai distrutto la jeep e non hai il coraggio di ripresentarti a casa. Non che le cose siano poi così diverse in realtà», aggiunsi, scherzando.

Un angolo della sua bocca si piegò verso l’alto, divertito. «Tecnicamente, l’auto ha iniziato a dare problemi da quando l’hai guidata tu. Sono sicuro che Emmett non si arrabbierà quando gli diremo che abbiamo ritardato il rientro a casa perché tu gli hai rotto un tubo dell’aria condizionata», disse, ridendo.

«Ehy, io non ho fatto niente di male! Se verrà a saperlo come minimo mi costringerà a convincere Rosalie a fare chissà cosa!», esclamai, preoccupata, ricordando quali fossero le richieste di Emmett quando perdevo una scommessa contro di lui; non volevo immaginare cosa poteva inventarsi nel caso in cui fosse venuto a conoscenza che potevo essere una delle cause della rottura di un tubo della sua automobile.

Edward fece una smorfia. «Sempre meglio di tutte le richieste che farebbe a me. Una volta mi ha costretto a fingermi gay per vedere se riuscivo ad avere il numero di un tizio perché gli avevo scheggiato una cover dell’iPhone».

Risi di gusto, immaginandomi le scenate che doveva aver fatto Emmett per far leva sul senso di colpa di Edward e convincerlo a fare una cosa simile. «Ti prego, dimmi che Emmett ha filmato tutto con il cellulare, vorrei proprio vederti», dissi fra le risate.

«Assolutamente no», rispose, stizzito. «Ci sono già Emmett e Jasper che tirano fuori questa storia ogni volta che possono. Credo che mio fratello abbia ancora quel maledetto numero di telefono nel portafogli addirittura».

Risi più forte, arrivando a sentire male alla pancia per le troppe risate. «Quindi hai pure fatto colpo con quel tipo».

Edward si passò una mano sul viso e fra i capelli, esasperato.

Cercai di calmare le mie risate, ma era difficile rimanere seria mentre nella mia mente cercavo di immaginare la scena. Emmett certe volte era davvero perfido, ma anche incredibilmente divertente - sempre che le sue “punizioni” non fossero rivolte a te, ovviamente.

La pioggia aumentò visibilmente, sospinta dal vento, che gettava le gocce fin sotto la fronda dell’albero, fino a pochi centimetri dai nostri piedi. Alcune di esse cadevano dalle foglie sopra di noi, colpendoci, ma fortunatamente non erano abbastanza da bagnarci troppo.

Mi strinsi meglio nell’abbraccio di Edward, rabbrividendo per il vento freddo che sferzava la mia pelle umida. Lui cercò di coprirmi meglio con la coperta, e scostò una ciocca dei miei capelli dietro l’orecchio. «Ti verrà la febbre di questo passo», mormorò preoccupato e contrariato.

«Non essere così pessimista. Era solo un brivido», dissi, ma raccolsi le gambe al petto, stringendole con entrambe le braccia per trattenere il calore, mentre la pelle d’oca iniziava a comparire sia sulle braccia che le gambe.

«Appena torniamo alla riserva prendi qualcosa. Solo per precauzione, nient’altro», aggiunse, vedendo l’occhiata torva che gli avevo rivolto appena udito le sue parole.

«Ti preoccupi troppo», bofonchiai. «Immagino sia colpa del DNA da medico».

I suoi occhi mi fissarono cupi. «Prevenire è meglio che curare, no?»

«Sì, ma non bisogna neanche fasciarsi la testa prima di essersela rotta», ribattei, pacata.

Sorrise, alzando un angolo della bocca. «Non ero io quello che te lo diceva sempre?»

Arrossii, ricordando quante volte proprio lui mi rimproverava di essere troppo paranoica e di preoccuparmi di cose che ancora non erano successe. Era sempre stato lui a dirmi di mantenere la calma e di restare lucida per non iniziare a pensare a mille eventualità che potevano realizzarsi in futuro, e spesso le sue parole mi avevano aiutato a non impazzire completamente. Forse avrei dovuto iniziare a ripetermele anche in quel momento, con tutta la faccenda di Lizzy in pieno caos.

«Già», mormorai.

Una goccia di pioggia scivolò dalle foglie sopra di noi sul mio viso, bagnandomi una guancia. Alzai il capo, guardando la fronda che ci copriva, scossa dal vento che regolarmente soffiava nel canyon.

«Quando credi che smetterà di piovere?», chiesi ad Edward, preoccupata. In cielo le nuvole erano ancora fitte, e sembravano non essere disposte a diradarsi per lasciar filtrare il sole.

«Non penso che pioverà ancora per molto», rispose. «In questo periodo è raro che piova per più di un’ora di seguito».

Annuii, e tornai a posare lo sguardo su Edward, che teneva gli occhi fissi su di me. Con il viso inclinato verso di lui potevo sentire il suo respiro sfiorarmi la pelle e le labbra, e rabbrividii. Sentii il suo braccio stringersi maggiormente intorno alle mie spalle, e non sapevo se avesse scambiato la mia reazione per un brivido dovuto al freddo.

Abbassai lo sguardo sulle sue labbra, rosee e carnose, e avvicinai il viso al suo, come un ferro attratto dal magnete.

Stavo già socchiudendo gli occhi, quando vidi Edward arretrare bruscamente, e voltare il capo di nuovo verso il lago. La sua mascella era serrata, e l’espressione era indecifrabile.

«Dobbiamo tornare alla riserva», disse secco, alzandosi da terra e lasciandomi la coperta sulle spalle.

Lo guardai, cercando di nascondere la delusione e lo smarrimento per quel brusco cambio d’umore e atmosfera. Eppure anche due giorni prima, al lago, ero sicura che fosse stato sul punto di baciarmi; cosa l’aveva fatto desistere? Nella mia mente fece capolino una sola risposta: Lizzy. Quella stessa notte Edward aveva sognato quella donna, e non riuscivo a fare a meno di pensare che anche in quel momento, quando stava per baciarmi, aveva pensato a lei. Il pensiero mi fece sentire quasi male. Cercai di nascondere la mia espressione e i miei sentimenti dietro una maschera d’indifferenza, senza sapere se ci fossi riuscita davvero.

Lo guardai inespressiva. «Non aspettiamo che smetta almeno un po’ di piovere?»

Lui scosse il capo, infilandosi la maglietta e passandomi la mia canotta e i miei pantaloncini di jeans. «Non abbiamo tempo. Se restiamo ancora qui rischiamo di non prendere più l’elicottero», disse, chinandosi per allacciare le scarpe da ginnastica.

Piegai la coperta, rivestendomi a mia volta. «Ma tanto se piove il volo viene cancellato», ribattei. Volevo che mi dicesse la verità, che ammettesse che la sua era stata solo una scusa per terminare quel momento fra di noi. Odiavo le sue bugie, odiavo il fatto che si fosse tirato indietro quando finalmente avevo deciso io di fare quel passo avanti.

Lui ritirò la coperta, e si sistemò lo zaino sulle spalle. «Se siamo fortunati quando arriveremo alla riserva avrà smesso di piovere. Ma se restiamo qui ad aspettare è sicuro che dovremo passare un’altra notte quaggiù, e le camere potrebbero essere tutte prenotate all’albergo».

Sbuffai, seguendolo mio malgrado sotto la pioggia scrosciante, ripercorrendo a ritroso il percorso di quella mattina. Tirai i capelli indietro con un gesto nervoso della mano, sentendo la canottiera appiccicarsi come una seconda pelle alla pancia e la schiena, infastidendomi. Edward procedeva con passo spedito, lanciando di tanto in tanto occhiate alle sue spalle per controllare che lo stessi seguendo, ma senza più dire una parola.

Rischiai di inciampare nella radice di un albero che spuntava in mezzo al sentiero, e mi infuriai. «Si può sapere cos’è tutta questa fretta?!», sbottai, alzando la voce per farmi sentire da lui diversi metri più avanti, sopra lo sciaguattare delle scarpe nelle pozzanghere e della pioggia contro il terreno.

Lui si voltò a malapena. «Non è esattamente consigliabile rimanere sotto la pioggia. A meno che tu voglia prenderti la febbre, cosa che io preferirei evitare».

«Io direi piuttosto che stai cercando di arrivare in mezzo ad altra gente. Guarda che non ho intenzione di stuprarti!», strillai, ignorando il rossore sulle guance una volta terminata la frase. Ma dopotutto era quella la verità: Edward sembrava terrorizzato che potessi provare a baciarlo di nuovo, o peggio, e stesse cercando a tutti i costi di raggiungere un luogo il più possibile frequentato pur di evitare che mi avvicinassi troppo a lui.

Finalmente si fermò, e si voltò a guardarmi. Mi fermai a qualche metro di distanza, mentre la pioggia continuava a scendere imperterrita su di noi.

«Credi che abbia paura che tu possa stuprarmi?», ribatté, perplesso.

Scrollai le spalle, stringendo le braccia intorno al busto. «Per quale altro motivo avresti iniziato a scappare quando stavo per baciarti?»

Edward respirò profondamente, aggrottando le sopracciglia. «Mi sono allontanato perché stavo per perdere il controllo e baciarti, Bella, non per qualche altro motivo», disse, forse intuendo che nella mia mente si stavano già profilando un’infinità di motivi per cui lui avesse potuto respingermi.

Feci un altro passo avanti, esasperata. «Ma perché l’hai fatto? Hai visto che sono stata io a farmi avanti. Se non avessi voluto non l’avrei fatto».

Lui strinse le labbra. «Non voglio influenzarti a fare qualcosa di cui non sei sicura. Se prima mi avessi baciato senza pensarci probabilmente adesso ti staresti chiedendo se avevi fatto la cosa giusta e ci troveremmo in una situazione insopportabile. Quindi è molto meglio così».

Si voltò, riprendendo a camminare verso la riserva, senza aggiungere nulla.

Lo seguii pochi secondi dopo, rimanendo in silenzio, riflettendo sulle sue parole. Non avevo dubbio che avesse ragione, del resto aveva agito nell’interesse di entrambi allontanandosi prima che complicassi le cose fra di noi: sicuramente a quest’ora una volta soddisfatto il desiderio prepotente di baciarlo mi sarei chiesta se avessi fatto bene a farlo, e forse avrei perfino realizzato che non ero ancora pronta a cambiare le carte in tavola con lui.

Ripensai ai giorni passati con lui, a come la nostra relazione si fosse evoluta in così poco tempo attraversando crisi e momenti di sconforto. Avevo perfino pensato di tornare a Chicago pur di non stare con lui, ma avevo resistito, ed ero giunta a sperare addirittura di non tornare più a casa per continuare a girovagare per l’America con lui. Avevamo gioito e sofferto in quei pochi giorni, avevamo rivangato vecchi ricordi e ferite e cercato di ricucirne alcune insieme. Sapevo che c’era qualcosa che non andava in Edward, che c’era qualcosa che mi teneva nascosto e non voleva o riusciva a dirmi, che anche lui aveva delle ferite ancora sanguinanti, ma in quel momento, mentre ripensavo al modo in cui mi guardava e trattava, non riuscivo a vedere le sue bugie, ma solo l’amore che per tanti anni mi aveva consolata e protetta dal resto del mondo. E fu allora che capii che tutte le mie paure e i miei tormenti erano vani: non era Lizzy ciò che mi teneva separata da Edward, ma ero io stessa; ero io con le ferite del passato ancora fresche a costringermi a stare lontana da lui e a non vedere chiaramente ciò che avevo davanti agli occhi. Da quando l’avevo incontrato al bancone del bar, Edward non aveva fatto altro che essere la stessa persona di cui ero innamorata fin dai tempi del college, mi aveva trattata con la stessa cura e amore che mi rivolgeva prima che ci lasciassimo, ma anche se l’avevo notato avevo rifiutato quell’idea con tutta me stessa, terrorizzata al pensiero di lasciarmi andare e di soffrire ancora.

Lizzy forse era importante per Edward, ma non allo stesso modo in cui lo ero io per lui. Ero importante per lui così come lui era importante per me, e questo pensiero mi bastò per iniziare a correre sotto la pioggia, verso di lui.

Sentendo il rumore dei miei passi veloci attraverso lo sciaguattare nelle pozzanghere si girò, e prima che potesse reagire arrivai fino a lui, allacciando una mano sulla sua nuca e spingendolo a chinare il capo verso di me. E finalmente lo baciai, intrecciando le dita ai suoi capelli bagnati e alzandomi sulle punte dei piedi, saggiando con tocchi lenti la morbidezza delle sue labbra. Prima di quel momento non avevo realizzato quanto mi fosse mancato non poterlo baciare.

Edward posò una mano sulla mia guancia, e mi allontanai il necessario per guardarlo negli occhi. In essi lessi indecisione e paura.

«Ci ho pensato bene, prima di farlo», gli dissi, per tranquillizzarlo. «Voglio ricominciare, Edward. Sono stanca di trattenermi e di avere paura», sussurrai. «Voglio stare con te così, e non voglio che tu ti trattenga o ti costringa ad allontanarti da me».

Edward respirò profondamente, premendo la fronte contro la mia. «Sei sicura?», mi chiese, in un soffio.

Annuii, dimenticandomi per un istante della pioggia che continuava scendere dal cielo e che scivolava lungo i nostri visi, e inzuppava i nostri vestiti. Poi lui chinò il viso, e le nostre labbra si toccarono di nuovo, questa volta incerte e lente, intente a riscoprire una morbidezza e un sapore che in realtà nessuno di noi aveva mai dimenticato.

Con la punta della lingua disegnò il mio labbro inferiore, mentre allacciava un braccio intorno alla mia vita, stringendomi a lui. Dischiusi la bocca, sentendo sulla lingua il gusto della pioggia, fuso a quello di Edward, che come una droga iniziò a circolare nelle mie vene, aumentando a dismisura il mio battito cardiaco, già elevato.

Sentii la sua lingua scivolare sulla mia, accarezzandola e lambendola. Sentivo le sue mani sulla vita, sul collo, sulle spalle, fra i capelli; le sentivo cercare, accarezzare e stringere. Il suo calore contro il mio petto mi scaldava, mentre sentivo il vento contro la schiena, freddo e impetuoso.

Rabbrividii, ed Edward si allontanò da me, con il fiato corto. Il suo respiro accelerato era eco del mio, e nei suoi occhi lessi la stessa eccitazione che c’era nei miei. Premette ancora la fronte contro la mia, cercando di riprendere un ritmo respiratorio normale.

«Dobbiamo tornare alla riserva, stai tremando», sussurrò, sfregando le mani lungo le mie braccia, cercando di scacciare la pelle d’oca che non mi ero resa conto fosse spuntata su tutto il mio corpo. Solo dopo che si fu allontanato mi resi conto di stare realmente tremando, e che quello non era affatto un effetto del bacio, ma proprio del vento gelido che soffiava nel canyon.

Edward sfilò dallo zaino la coperta, passandomela sulle spalle. Poi mi tese una mano, che afferrai prontamente, ed insieme tornammo verso la riserva, sotto la pioggia scrosciante.

 

Raggiungemmo il villaggio della riserva impiegando quasi la metà del tempo dell’andata, grazie anche al nostro passo spedito e alle brevi corse che ci concedevamo per percorrere zone per nulla riparate dagli alberi. La mia mano rimase per tutto il tempo stretta in quella di Edward, e lo rimase anche quando, dopo essere arrivati all’albergo ed esserci cambiati, salimmo a bordo dell’elicottero che ci avrebbe riportato al furgoncino.

Come aveva previsto Edward, quando arrivammo al villaggio la pioggia stava già diminuendo, e nel giro di pochi minuti svanì completamente, e le nuvole iniziarono a diradarsi, facendo spuntare finalmente il sole. Il nostro volo non fu cancellato, e potemmo tornare tranquillamente alla macchina, dove ci aspettava il nostro itinerario.

Quel giorno, però, nessuno di noi due aveva voglia di viaggiare molto. Oltre al fatto che erano già le cinque e mezza del pomeriggio, il discorso di quando eravamo alle cascate era ancora ben chiaro nella mente di entrambi. Per quel motivo dopo solo un’ora di auto ci fermammo a Kingman, dove si trovava un motel segnalato sull’itinerario come qualcosa di caratteristico della Route 66. Quando entrammo nella lobby, infatti, trovammo diversi cartelli della Strada Madre appesi ai muri, insieme alla tipica cartina da Chicago a Los Angeles. Prendemmo una stanza, e trascinammo le nostre valigie su per la collinetta in cui si trovava il motel, fino a raggiungere la nostra camera.

Non appena la porta si richiuse alle nostre spalle Edward lasciò cadere il suo borsone a terra, e prese il mio viso fra le mani, facendo aderire le nostre fronti. «Dimmi che non sono l’unico ad essere stanco morto», mormorò sulle mie labbra, chiudendo gli occhi.

Accarezzai i suoi capelli, morbidissimi. «Anch’io sono stanca», sussurrai. Sfiorai le sue labbra con le mie. «Potremmo prendere qualcosa in un take-away e mangiare in camera», proposi.

Edward prese il mio labbro inferiore fra i denti, tirandolo leggermente. «C’era un ristorante cinese sulla strada», mormorò.

«Va benissimo», dissi, prima che le sue labbra catturassero le mie.

Quando si allontanò lo lasciai andare controvoglia. «Il solito?», mi chiese, aprendo già la porta per uscire.

Annuii, sorridendo al pensiero che si ricordasse ancora cos’ero solita ordinare al ristorante cinese.

Non appena se ne andò corsi in bagno e accesi l’acqua calda della doccia, decisa a darmi una lavata prima che lui rientrasse e soprattutto a cercare di scacciare la sensazione di freddo che non mi aveva abbandonato neanche dopo che mi ero asciugata e cambiata dopo la corsa sotto la pioggia. Presi tutto il necessario dalla valigia, e proprio in quel momento sentii il rumore della vibrazione di un cellulare.

Raggiunsi la mia borsa sul letto, e trovai il cellulare nella tasca laterale. Nel frattempo aveva smesso di suonare. Era da quella mattina che non lo controllavo, e mi stupii nel constatare che c’erano ben tre chiamate perse; ero sorpresa, perché da quando ero partita non avevo ricevuto molte telefonate, e spesso ero io a chiamare Alice e Rosalie, perché entrambe non volevano rischiare di disturbarmi durante il viaggio. Ma ciò che mi sorprese ancora di più fu leggere proprio quel nome sullo schermo.

Stavo ancora osservando le lettere, cercando di trovare un significato a ciò, quando il cellulare riprese a vibrare nella mia mano, e lo stesso nome apparve sotto il segnale di chiamata in arrivo.

Ignorai l’acqua che in bagno continuava a scorrere, e accettai la chiamata.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giorno! :D

Oggi sono un po' di fretta, ma prometto che entro sera risponderò alle recensioni dello scorso capitolo!

Come avrete capitolo è un capitolo di svolta, e come qualcuno aveva immaginato (FunnyPink) non si ha una risposta alla domanda 'Chi è Lizzy?' perché Edward era già addormentato... non preoccupatevi che la risposta verrà fuori moooolto presto. Adesso un'altra domanda è quella su chi ha telefonato a Bella: qualche ipotesi? :D

Grazie per continuare a seguire questa storia, e benvenuto a tutti i nuovi lettori!

Alla prossima settimana! :***

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Capitolo 14
*** The last person you expected ***


Route 66

Step one you say we need to talk,

He walks you say “sit down it's just a talk”.

He smiles politely back at you,

You stare politely right on through.

Some sort of window to your right.

As he goes left and you stay right

Between the lines of fear and blame,

You begin to wonder why you came.

The Fray - How To Save A Life

14. The last person you expected

Quando la porta della camera si aprì cancellai dal mio viso ogni traccia di preoccupazione, e piegai le labbra in un sorriso che sperai nascondesse bene le mie emozioni. Edward entrò nella stanza con un sacchetto di plastica contenente alcune confezioni di cartone, e le appoggiò sul piccolo tavolino davanti alla finestra, che aprì per lasciar uscire l’odore di fritto.

«Scusa se ci ho messo tanto», disse, tirando fuori dal sacchetto le scatole. «Sembrava che tutta la città avesse deciso di andare al ristorante cinese proprio questa sera».

Scossi il capo. «Non fa niente. Ne ho approfittato per fare una doccia», mormorai, raccogliendo le cartine e il quaderno degli itinerari dal letto e portandoli verso la scrivania.

Edward seguì il mio sguardo. «Hai guardato anche se c’è qualcosa da vedere nei dintorni?», mi chiese, indicando con un cenno del capo la cartina.

Mi accomodai al tavolino, aspettando che si sedesse anche lui prima di aprire una delle scatole. Mi morsi il labbro inferiore, evitando il suo sguardo. «Non c’è più molto da vedere. Però potremmo fare ancora una deviazione, se non vogliamo arrivare a Santa Monica subito…»

Lui mi guardò incuriosito, mentre afferrava con le bacchette un gamberetto. «Sarebbe?»

Abbassai lo sguardo al mio riso alla cantonese. «Sei mai stato a Las Vegas dai tempi del college?»

Aggrottò le sopracciglia, perplesso. «No. Vorresti andare lì?»

Annuii, cercando di fingermi occupata a cercare di raccogliere il riso con le bacchette. «Non ci sono mai stata… pensavo sarebbe stata una buona idea. Sarebbe la nostra ultima vera tappa prima di Los Angeles».

Edward rimase in silenzio per un istante. «Va bene», disse infine. «Non vedo perché non andarci».

Sorrisi. «Sarà divertente. Potrei perfino tentare la fortuna alle slot machine».

«Vista la tua fortuna ti consiglierei di evitarle», commentò, con una risatina.

Sbuffai, mentre con le bacchette spostavo il riso da un lato all’altro della confezione di cartone. Non avevo per niente fame. Rabbrividii, e socchiusi la finestra.

«Hai freddo?», mi chiese Edward, con un sopracciglio inarcato.

Scrollai le spalle. «C’era un po’ di corrente, tutto qui».

Mi osservò ancora per un istante, poi riprese a mangiare. «Hai scelto a che hotel andare?»

Scansai definitivamente il cibo, rinunciando a mangiare qualcosa controvoglia, e presi il portatile, ringraziando mentalmente la connessione gratuita ad internet dell’albergo. «No. Adesso li guardo. Tu hai qualche preferenza?»

Lui scosse il capo. «Sono passati tanti anni da quando ci sono andato, scommetto che sarà cambiato tutto».

Mentre aspettavo che il sistema operativo si avviasse gli chiesi: «In quale hotel sei stato quando sei venuto qui?»

«L’Hard Rock Hotel», rispose, facendo una faccia strana. «Emmett aveva prenotato la camera con la pista da bowling in soggiorno, ma sinceramente non credo che sia il caso prendere una stanza simile».

Risi nervosamente. «Neanch’io». Avviai la ricerca online, trovando un sito che elencava tutti gli hotel lungo la Las Vegas Boulevard, la via più importante e con i maggiori casinò della città. Inarcai le sopracciglia, mentre davanti agli occhi scorrevano le immagini di hotel degni di un parco divertimenti: un castello che sembrava uscito dal mondo delle fiabe, la Tour Eiffel a grandezza quasi naturale, un’antica Roma con tanto di giardini e fontane, una Statua della Libertà che spiccava in mezzo alle rotaie delle montagne russe, un tendone del circo gigantesco, una piramide di vetro, un vulcano in eruzione, una piccola Venezia in miniatura e una chitarra gigante. Sembrava un piccolo mondo in miniatura, un parco divertimenti per adulti in formato città.

Edward accostò la sedia alla mia, sporgendosi per vedere le immagini insieme a me. «Sì, direi che sono cambiate parecchie cose», commentò, con una risatina divertita.

«Come facciamo a scegliere in mezzo a tutti questi posti?», gli chiesi, sorpresa. Fosse stato per me li avrei provati tutti gli hotel, una notte per ciascuno.

«Prendi quello che più ti ispira, è semplice», rispose lui, divertito. «Inizia ad andare per esclusione».

Diversi minuti dopo, una volta passati in rassegna tutti i siti degli hotel e aver controllato le immagini delle stanze, giungemmo ad avere un solo nome: il The Venetian. Era uno degli hotel più belli che avessi mai visto: il palazzo principale era circondato da una piscina in cui galleggiavano diverse gondole, due ponti in stile italiano - di cui uno era costruito come il famoso Ponte di Rialto - attraversavano l’acqua e collegavano la strada principale all’hotel, formato da un edificio basso molto simile al Palazzo Ducale di Venezia, alle cui spalle si ergeva il vero e proprio complesso con le camere. Accanto ad esso c’era il campanile di San Marco.

Mandammo online la prenotazione per una delle camere, scegliendo di restare per due notti. Poi spensi il portatile ed accompagnai Edward fuori dalla camera, per buttare i resti della cena nel cassonetto davanti all’albergo. Strinsi le braccia intorno al busto, rabbrividendo. Era calato il buio, e nonostante non ci fosse vento continuavo a rabbrividire come una foglia.

Tornammo in camera subito, senza attardarci a fare un giro per il centro città deserto, e non appena la porta si chiuse alle nostre spalle lasciai che le braccia di Edward mi stringessero da dietro, facendomi appoggiare al suo petto. Sospirai stancamente, chiudendo gli occhi. Ero stanchissima, e le palpebre sembravano diventate pesanti come macigni.

Edward baciò la mia testa. «Sei stanca?», sussurrò, scostando i capelli dal mio viso e dal collo, scendendo con le labbra a baciare la tempia.

«Un po’», mormorai, sebbene la giusta risposta sarebbe stata “da morire”; ma non volevo che si allontanasse per lasciarmi andare.

Con la bocca scese lungo il mio viso, sulla mascella e poi sul collo. Con una mano sollevò leggermente l’orlo della mia maglietta, accarezzando la pelle sensibile del fianco.

Lasciai andare un mezzo sospiro, appoggiando la testa all’indietro sulla sua spalla.

Le sue labbra tracciarono una scia di baci lungo la linea del collo, fin dove lo scollo della maglietta lasciava la pelle nuda. Poi risalì nuovamente al mio viso, e voltai il capo per andare incontro alla sua bocca, che catturò la mia dolcemente. In quel bacio non c’era niente dell’impeto di quel pomeriggio, né del desiderio di poche ore prima. Sembrava più un ritrovarsi dopo tanto tempo, uno sfiorarsi di labbra che ricordava i baci della buonanotte. La sua mano infilata sotto la mia maglietta non si mosse, rimase ferma sul fianco, e capii che aveva deciso di andare con calma, di non accelerare le cose fra di noi.

Sorrisi contro la sua bocca, allontanandomi il tanto per guardarlo negli occhi. Mi lasciò girare nel suo abbraccio, e sfiorai di nuovo le sue labbra.

«Vado a cambiarmi», sussurrai, e dopo un ultimo bacio sciolsi l’intreccio delle nostre braccia e mi chiusi in bagno.

 

Prima di infilarmi nel letto non avevo calcolato quanto sarebbe stato difficile addormentarmi ora che io ed Edward avevamo abbattuto anche il muro dell’amicizia che ci teneva fisicamente separati. Sebbene fossi fisicamente spossata, mentalmente mi sentivo più sveglia che mai, soprattutto mentre le sue mani vagavano sotto la canottiera leggera che indossavo come pigiama e le sue labbra cercavano le mie, trovandole e lambendole con baci dapprima dolci e poi sempre più intensi. Entrambi eravamo decisi a non spingere le cose troppo in là, a non andare oltre i baci e le carezze più semplici, ma non era facile tirare quel freno a mano una volta che le luci erano spente ed entrambi eravamo sotto le lenzuola. Potevo sentire la sua eccitazione premere contro la mia coscia mentre si sosteneva sui gomiti per non pesarmi addosso, il suo sforzo per non lasciar vagare le mani né troppo in basso né troppo in alto lungo il mio corpo. Con le dita cercavo, tastavo e premevo i muscoli della sua schiena, senza curarmi della sua maglietta che si alzava sempre di più mentre lo attiravo a me. Quando la sua pancia toccò la mia, entrambe scoperte, ci fermammo per un istante, riprendendo fiato. Rabbrividii, e riuscii a schiarire la mia mente, annebbiata dal desiderio e l’eccitazione. Edward appoggiò la fronte alla mia, e respirò profondamente, riprendendo il controllo di sé. Poi rotolò sul fianco, attirandomi a sé. Poggiai la testa sul suo petto, sopra il suo cuore che batteva impazzito, e diversi minuti più tardi mi addormentai.

La mattina seguente mi svegliai dopo di lui, intontita e confusa. Lo sentii scuotermi delicatamente, mentre lottavo per svegliarmi.

«Bella?»

Mugugnai, e coprii con una mano il mio viso, cercando di nascondere gli occhi ancora chiusi alla luce del sole, mentre con l’altra cercavo di attirare a me la coperta, provando un brivido di freddo.

Edward mi chiamò di nuovo, e sentii la sua mano scostarmi i capelli dal viso.

Non poteva essere già mattina. Era impossibile.

Sentivo i muscoli bruciare come se avessi corso per miglia solo poche ore prima, e mi sembrava di aver dormito poco più di qualche minuto. Ero stanca, e oltretutto non avevo ancora fatto in tempo ad aprire gli occhi che avevo già un mal di testa con i fiocchi. Di certo quello non era un buongiorno, nemmeno con Edward chino su di me che cercava di svegliarmi con la maggiore delicatezza possibile.

«Forza, dormigliona. Las Vegas ci aspetta», disse, e finalmente trovai la forza per aprire gli occhi.

Mi pentii della mia scelta quasi immediatamente, quando li richiusi di scatto sentendoli bruciare per la luce.

«Adesso mi alzo», brontolai, passandomi stancamente una mano sul viso. La fermai sulla fronte, e capii subito cosa stava succedendo al mio corpo che quel mattino sembrava reduce da una maratona: scottavo. Non ero un medico, anzi, non capivo quasi nulla di medicina, ma sapevo riconoscere i sintomi della febbre, sebbene non fossi mai stata particolarmente cagionevole, e in quel momento io l’avevo senza dubbio. E se ero riuscita a capirlo io, sicuramente Edward non ci avrebbe messo molto a giungere alla stessa diagnosi. Gli sarebbe bastato sfiorarmi la fronte o vedermi rabbrividire per fare due più due, e in pochi minuti ci saremmo ritrovati bloccati a Kingman per un altro giorno, perché ero più che certa che non mi avrebbe mai lasciato alzare dal letto prima che fossi guarita del tutto. E noi non potevamo permetterci di fermarci in quella città per altre ventiquattr’ore, dovevamo assolutamente raggiungere Las Vegas prima che fosse sera.

Mi misi a sedere nascondendo quanto quel semplice sforzo mi costasse, e prima che Edward potesse toccarmi andai verso il bagno, chiudendomi dentro. Appoggiai la fronte contro le piastrelle fredde del muro, sospirando pesantemente. Sentivo la testa pesante, le gambe dolere e le tempie pulsare. Quando incontrai il mio riflesso nello specchio sopra il lavandino capii che anche il mio aspetto non era messo meglio: i capelli erano un groviglio di nodi, la pelle del viso era pallida e due brutte occhiaie marchiavano un paio di occhi gonfi e lucidi. Era un miracolo se Edward non aveva già capito dal mio aspetto che ero influenzata.

Mi rinfrescai con acqua ghiacciata, ignorando i brividi di freddo, e subito dopo mi occupai di nascondere al meglio le occhiaie, cercando di darmi anche un po’ di colore al viso grazie ai trucchi. Non ero mai stata una fanatica di cipria, fondotinta e correttore, ma quel mattino ringraziai con tutto il cuore Alice, che il Natale prima mi aveva regalato una trousse completa di tutto il necessario per farmi recuperare un aspetto quantomeno umano. Gli occhi restavano lucidi e gonfi, ma speravo di uscire al più presto da quell’albergo per poter indossare gli occhiali da sole e risolvere anche quel problema. Dovevo solo resistere fino a sera, poi avrei anche potuto dire ad Edward che avevo bisogno di qualche medicina e di riposare; avevo anche pensato di frugare nel suo borsone alla ricerca delle pastiglie per l’influenza, ma non sapevo se ne avrei avuto l’occasione.

Quando uscii dal bagno, trovai Edward davanti a me. Cercai di mantenere un’espressione impassibile mentre i suoi occhi mi scrutavano.

«Stai bene?», mi chiese, la preoccupazione nei suoi occhi verdi.

Abbozzai un sorriso. «Certo. Perché?»

«Sei scappata in bagno prima. Pensavo ti fossi sentita male», rispose, con le sopracciglia aggrottate.

Risi nervosamente. «No, affatto».

Prendendomi alla sprovvista, posò una mano sul mio collo, e per un istante mi irrigidii, terrorizzata che potesse notare la temperatura elevata del mio corpo. Si avvicinò a me, e cercai di rilassarmi mentre mi accarezzava con la punta delle dita. «Andiamo?», sussurrò, passando il pollice sulle mie labbra.

Annuii, e lui lasciò cadere la mano, sostituendo alle sue dita le sue labbra, che mi baciarono delicatamente.

Non appena si allontanò finii di ritirare le mie cose in valigia, e subito dopo lasciammo l’albergo, salendo a bordo del furgoncino blu. Nascosi i miei occhi brucianti dietro le lenti scure degli occhiali da sole, e mi abbandonai al comodo sedile, lottando contro la spossatezza che mi spingeva a chiudere gli occhi e dormire.

Il viaggio per arrivare a Las Vegas durò poco meno di due ore, grazie alla superstrada che attraversava il confine fra Nevada ed Arizona a poche miglia da Kingman, e quando superammo il cartello colorato che segnalava l’ingresso nella città delle slot machine non era neanche ora di pranzo. Arrivammo con la macchina direttamente all’ingresso dell’hotel, e subito due addetti al valet service si apprestarono ad aprire le nostre portiere, occupandosi anche di scaricare i nostri due bagagli e sistemarli su un carrello rosso e oro. Ci condussero all’interno del palazzo, che grazie agli ampi soffitti a cupola e le colonne di marmo sembrava di gran lunga più enorme di quanto sembrasse dall’esterno. In fondo al corridoio della hall si trovava una fontana riportante un globo stilizzato, che fungeva da rotonda che separava la zona del casinò - che brulicava di persone che andavano avanti e indietro e da cui provenivano chiacchiericcio e rumori di macchine - da quella degli ascensori che conducevano alle stanze - controllata da due uomini in divisa rossa con tanto di cappellino.

Dopo aver fatto il check-in e aver ritirato le due chiavi magnetiche della nostra camera, ci dirigemmo verso gli ascensori, seguiti a breve distanza da un valletto, che spingeva il carrello con le nostre valigie e prese un ascensore diverso dal nostro. Salimmo fino all’ultimo piano, e percorremmo un lungo corridoio per arrivare davanti alla camera che riportava sulla targa il nome “Luxory suite”. Edward aprì la doppia porta, e la stanza che ci ritrovammo davanti superò di gran lunga le mie aspettative. Dopo un breve corridoio si arrivava nella stanza vera e propria, occupata da un enorme letto matrimoniale sovrastato da una decina di cuscini color panna, davanti al quale spiccava un enorme schermo piatto; accanto ad esso un parapetto di pietra bianca separava la zona notte da quella giorno, due gradini più in basso, costituita da un largo divano ad L - anch’esso bianco - e un basso tavolino di cristallo. Un’ampia vetrata occupava l’intera parete, e si affacciava sulla via principale e sul resto degli hotel; in basso potevo perfino vedere il lago azzurro con le sue gondole e i ponti che l’attraversavano. Una doppia porta in legno massiccio dall’altro lato del letto conduceva in un bagno spazioso, decorato da piastrelle azzurre con intarsi dorati, e c’erano sia una doccia dalle pareti di vetro che una vasca da bagno con tanto di idromassaggio, con davanti un piccolo televisore a schermo piatto. Sembrava di essere in un piccolo appartamento.

Mentre ancora mi stavo guardando intorno, cercando di abituarmi a tutto quello sfarzo, bussarono alla porta, ed Edward corse ad aprire. Ne approfittai per prendere il mio cellulare e digitare velocemente un messaggio:

“The Venetian. Ultimo piano. Luxory suite.”

Lo ritirai nella borsa giusto in tempo prima che Edward richiudesse la porta dietro il valletto, che ci aveva consegnato le valigie, ora nel piccolo corridoio della stanza.

«Cosa facciamo adesso?», mi chiese lui, posando il suo borsone e la mia valigia nell’armadio per non ingombrare.

Mi lasciai cadere sull’enorme letto a braccia aperte, affondando nelle coperte. «Possiamo restare qui un po’? Poi potremmo andare a fare un giro dei casinò e mangiare qualcosa…», mormorai, sebbene provassi una stanchezza tale da farmi desiderare di ritirarmi sotto le coperte per non riemergerne più. Mi sentivo sempre più debole e spossata; la testa continuava a pulsare fastidiosamente, e i muscoli bruciavano. Ero sicura che la febbre fosse aumentata. Per fortuna poche ore e avrei finalmente potuto dire ad Edward che non stavo bene, e lui avrebbe potuto darmi qualcosa per stare meglio.

Lui si sedette sul bordo del letto, osservando la stanza. «In effetti non è una brutta idea. Con quello che l’abbiamo pagata merita di essere un po’ vissuta questa camera», aggiunse, ridendo.

Gli tirai un debole schiaffo sul braccio, sorridendo. Poi strinsi la mano intorno al suo gomito, e lo tirai a me per farlo sdraiare. «Non sarebbe male vivere qui», sussurrai.

Lui sorrise. «Dovremmo essere proprietari di un hotel con casinò come questo per poter vivere per sempre così».

«Potremmo farlo. Trasferirci qui e creare il nostro albergo a cinque stelle con tanto di casinò. Non sarebbe una cattiva idea».

Edward avvicinò il viso al mio. «Ci stancheremmo di questa vita a lungo andare».

«Forse…», mormorai, avvicinandomi a mia volta. «Ma-»

Mi interruppi sentendo un leggero bussare alla porta, attutito dal legno massiccio e i muri insonorizzati. Edward si alzò immediatamente, ed io trattenni il respiro, mettendomi a sedere e seguendolo con brevi passi. Era già arrivato?

Mi fermai all’inizio del corridoio, mentre Edward apriva la porta, prima di poco e poi spalancandola completamente, lasciando ricadere la mano lungo il suo fianco. Perfino a diversi metri di distanza potei vedere il modo in cui le sue spalle si irrigidirono.

L’uomo davanti a lui rimase imperturbabile. I capelli biondi tirati indietro, pettinati come sempre in modo impeccabile, il completo scuro con la camicia azzurra stretta al collo dalla cravatta, gli occhi azzurri gentili e buoni.

Edward rimase immobile, mentre davanti alla porta della nostra camera osservava l’ultima persona che si aspettava di trovare in quel posto in quel momento: Carlisle Cullen.

 

«Ciao, Edward», disse Carlisle, con un sorriso gentile. I suoi occhi azzurri vagarono oltre le spalle del figlio, fino a me. «Ciao, Bella. È da parecchio che non ci vediamo, come stai?»

«Cosa ci fai qui?», proruppe bruscamente Edward, senza darmi il tempo di rispondere e salutare. «Come hai fatto a trovarci?»

Carlisle si schiarì la voce, senza perdere la sua aria imperturbabile. «Mi trovo a Las Vegas da ieri pomeriggio per un convegno a cui mi hanno invitato. Ho pensato che dato che è passata più di una settimana da quando sei partito avresti potuto trovarti nei paraggi, così ho contattato Bella».

La testa di Edward si voltò di scatto verso di me, e i suoi occhi mi fissarono intensamente. Non capivo che emozioni potesse provare in quel momento: tradimento, delusione?

Poi tornò a guardare il padre. «L’hai convinta a farmi venire qui senza dirmi nulla, non è vero?»

Suo padre fece un sorriso mesto. «Avresti accettato sapendo che ti stavo aspettando?»

Edward distolse lo sguardo. «Quindi? Cosa vorresti fare ora? Riportarmi a casa?»

«Niente affatto, Edward», rispose pacato Carlisle. «Vorrei solo parlarti, credi sia possibile?»

Vidi le mani di Edward stringersi in due pugni lungo i suoi fianchi. «E va bene», disse fra i denti.

Carlisle sorrise ancora. Mi guardò. «Ti dispiace, Bella, se andiamo a parlare di sotto al bar?»

Scossi il capo, rimanendo in silenzio. Carlisle mi ringraziò, e si avviò lungo il corridoio, sparendo dalla mia vista. Prima che Edward se ne andasse mi lanciò un’ultima occhiata, ma non lessi nessun sentimento che mi aspettavo, solo una grande e profonda tristezza che mi fece sentire in colpa per tutto il resto del pomeriggio.

 

Erano passate meno di due ore quando qualcuno bussò alla camera. Il suono dei colpi alla porta riuscirono a strapparmi dal sonno leggero in cui ero caduta, e raggiunsi l’ingresso a fatica, tenendomi al muro mentre la stanza girava intorno a me e le gambe minacciavano di farmi rovinare a terra ad ogni passo.

Non sapevo cosa aspettarmi da Edward, una volta che sarebbe tornato in camera: sarebbe stato arrabbiato perché l’avevo attirato qui con una bugia? In quel momento non mi importava granché: volevo solo che tornasse per potergli finalmente chiedere una medicina per quella febbre che sembrava continuare salire anziché scendere, e anche per dirgli che mi dispiaceva non avergli detto niente di Carlisle.

Tuttavia, quando aprii la porta non trovai Edward, ma suo padre. Solo in quel momento ricordai che Edward aveva una chiave della camera e che quindi era quasi impossibile fosse lui a bussare, e probabilmente la delusione sul mio viso fu evidente, perché Carlisle sorrise imbarazzato.

«Edward è rimasto di sotto», mi informò, quando vide i miei occhi cercare suo figlio oltre le sue spalle. Si schiarì la voce. «Volevo ringraziarti per quello che hai fatto oggi. So che per te non è stato facile mentirgli».

«Sei riuscito a parlargli di quello che volevi?», sussurrai, incapace anche solo di parlare a voce troppo alta, temendo che le mie tempie potessero esplodere a causa del mal di testa.

Carlisle annuì. «Sono contento che tu sia partita con lui. Per me ed Esme è stato un sollievo sapere che non era da solo. Quando è partito ci ha chiesto di non contattarlo finché non fosse tornato, e appena abbiamo saputo da Emmett e Rosalie che tu eri con lui siamo stati subito più tranquilli. Quindi grazie, per tutto», disse, stringendo una mia mano fra le sue.

Sorrisi debolmente. «Non devi ringraziarmi».

Carlisle aggrottò la fronte, e allontanò una mano dalla mia. «Permetti?», chiese, e prima ancora che potessi rispondere o capire cosa stava per fare posò il palmo contro la mia fronte. Sgranò gli occhi. «Bella, hai la febbre altissima», esclamò.

Arretrai di un passo, cercando di raddrizzarmi e ricompormi. Cosa mi aveva tradita? Con Edward ero riuscita a fingere, perché con Carlisle no?

Mi morsi il labbro inferiore con forza. «Non è niente, sto bene», mormorai, sperando che non si preoccupasse.

«Hai almeno trentanove di febbre, devi metterti subito a letto. Edward ti ha dato qualcosa da prendere?», mi chiese, circondandomi le spalle con un braccio e spingendomi delicatamente a dirigermi verso il letto, lasciando che la porta si richiudesse alle nostre spalle.

«N-No. Non sa che ho la febbre», bofonchiai, sedendomi sul bordo del letto.

Carlisle sospirò profondamente. «Avresti dovuto dirglielo. Io avrei potuto aspettare questa sera per parlare con lui e prendere l’aereo domattina se mi avessi spiegato la situazione», disse, guardandosi intorno. «Ho lasciato alla reception insieme ai bagagli la mia valigetta. Aspettami qui, vado a prenderla così posso darti qualcosa», mi ordinò, dirigendosi verso la porta.

«Edward dov’è?», gli chiesi, prima che se ne andasse.

«Credo sia rimasto al bar. Spero che stia riflettendo su quello che gli ho detto», sospirò, poi uscì dalla camera.

Aspettai dieci secondi, poi mi alzai e mi diressi a mia volta verso la porta, prendendo con me solo il cellulare e la chiave della camera. Camminare lungo i corridoi non era difficile, anche se ogni passo sembrava costarmi più energie di una scalinata.

Sapevo che avrei dovuto restare in camera ad aspettare che Carlisle venisse a curarmi e che Edward tornasse dal bar dopo aver riflettuto, ma non volevo lasciarlo da solo. Volevo che sapesse che per lui ci sarei stata, e che se voleva poteva parlarmi di tutto quello che gli era successo, perché l’avrei capito e non l’avrei giudicato. E, sinceramente, dopo quello che avevo fatto avevo paura che non l’avrei rivisto fino notte inoltrata.

Scesi con l’ascensore fino al piano del canale, dove si trovavano anche i ristoranti e i bar. Era pazzesca l’illusione che creavano il cielo dipinto sul soffitto, le luci soffuse dei lampioni e l’acqua cristallina del canale che si diramava attraverso le vie dei negozi sotterranei; sembrava di essere in una vera città notturna, sebbene fuori dal casinò il sole fosse ancora alto. Camminai facendomi largo fra la gente, fino ad arrivare alla zona dove si trovavano i locali, e cercai una testa ramata fra le persone, senza successo. Presi il cellulare, e avviai la chiamata. Rispose dopo pochi squilli.

«Edward? Edward, dove sei?», gli chiesi subito, continuando a guardarmi intorno.

Lui sospirò. «Bella… sono al bar, tra poco arrivo, va bene?»

«Aspetta, io…». Mi interruppi quando voltandomi sbattei la spalla contro un uomo, rischiando di cadere a terra. Mi portai una mano alla testa, sentendola girare vorticosamente. «Oh, mi scusi», mormorai all’uomo che aveva posato una mano sul mio braccio per fermare la mia caduta.

«Si sente bene, signorina?», mi chiese, fissandomi con apprensione.

Annuii, guardandomi intorno disorientata. «Sì, la ringrazio, sto solo…»

«Bella? Sei al casinò?», mi richiamò Edward, ancora al telefono.

Voltai le spalle all’uomo, che se ne andò. Ripresi a camminare lungo il canale, cercandolo fra la folla, sperando di vederlo comparire all’improvviso. «Nella zona dei negozi… Carlisle mi ha detto che eri rimasto giù e così…» Mi fermai per prendere fiato, appoggiandomi con i gomiti alla balaustra del Grand Canal. Una coppia stava salendo su una gondola per iniziare il loro giro. I riflessi delle luci sull’acqua non facevano altro che aumentare la nausea.

«Dove sei di preciso?», mi chiese ancora Edward, e sentii in sottofondo il rumore di voci.

Mi guardai intorno, cercando un punto di riferimento che non fosse il nome dei negozi. «Non lo so… c’è una fontana… il canale…»

«A che punto del canale sei?»

Guardai la pozza d’acqua davanti a me, con i gradini che scendevano fino ad immergersi e le gondole attraccate in quel piccolo molo. «Alla fine».

«Okay, aspettami lì, sto percorrendo il canale, ti raggiungo», disse.

Presi un profondo respiro. Le gambe sembravano sul punto di cedere. «Edward… io… non mi sento bene», ammisi.

«Che cos’hai?», mi chiese, e nella sua voce colsi subito l’allarme.

Ormai era inutile minimizzare. Sapevo che ero al limite delle forze. Maledii la mia testardaggine. «Mi sento svenire», fiatai.

«Siediti subito! Hai qualcosa di zuccherato con te? Una caramella, qualunque cosa», disse, e dal tono della sua voce capii che stava correndo.

«No», mormorai, appoggiandomi sempre di più alla balaustra per non finire in ginocchio a terra. Mi sentivo così male, ma al tempo stesso non volevo crollare in mezzo a tanta gente, da sola.

«Sono quasi arrivato cerca di resistere», disse ancora Edward. Premetti con forza il cellulare all’orecchio, sentendo la presa della mia mano diventare debole.

Ormai non sentivo più distintamente la voce di Edward, ma solo un brusio di sottofondo. Mi accorsi a malapena delle braccia che mi cinsero la vita e mi trattennero dal crollare a terra. Ripresi un minimo di coscienza quando mi ritrovai in braccio ad Edward, con la testa sulla sua spalla e senza più la fatica di reggermi sui miei piedi a prosciugare le mie ultime energie. Alzai leggermente il capo per incontrare gli occhi turbati di Edward.

«Hai la fronte che scotta quanto un bollitore, Bella», mormorò, facendosi strada fra la gente che percorreva le stradine.

Chiusi gli occhi. «Mi dispiace», sussurrai.

«Perché non mi hai detto che stavi male? Sei forse impazzita? È pericoloso non curare la febbre», mi rimproverò, allontanandosi velocemente dal caos della zona commerciale.

Mi resi conto che eravamo arrivati all’ascensore solo grazie all’improvviso silenzio che donava sollievo al mio mal di testa pulsante. «Non volevo che rimandassi l’incontro con Carlisle», risposi debolmente. «Mi dispiace», ripetei.

«Smettila di dirlo. Sono io quello che è dispiaciuto. Dannazione, sono un medico, avrei dovuto capire fin dal modo in cui rabbrividivi ieri sera che c’era qualcosa che non andava».

«Edward!», sentii esclamare da un’altra voce. Aprii leggermente gli occhi, scorgendo la figura offuscata di Carlisle, davanti alla porta della nostra camera. «Avrei dovuto immaginare che era venuta a cercarti. Ero andato a prendere la valigetta alla reception e quando sono tornato era già andata via».

Edward sospirò. Aprì la porta della stanza, lasciandola richiudere automaticamente mentre era già arrivato al letto. Mi lasciò sulle lenzuola, preoccupandosi subito di sfilarmi le scarpe e di correre a prendere il mio pigiama dalla valigia. Carlisle nel frattempo aveva già aperto la sua valigetta, e stava maneggiando un termometro al mercurio, che mi fece infilare sotto il braccio, mentre mi ritiravo sotto le coperte, ignorando il pigiama che Edward aveva appoggiato sul letto.

Passati un paio di minuti Carlisle controllò la temperatura, accertandosi che fosse di ben quaranta gradi. Sentirlo dire era ancora più spaventoso di quanto immaginassi.

Mentre padre e figlio discutevano delle cause che potevano averla generata - ovvero la lavata che ci eravamo presi io ed Edward sotto la pioggia il pomeriggio precedente -, Carlisle mi preparò uno strano composto dall’aspetto per nulla invitante, che mi costrinsi a bere in un solo sorso. Mi diede anche una pastiglia e lasciò il resto della confezione sul comodino, ricordandomi di restare al caldo e non provare ad alzarmi dal letto se non per andare in bagno. Quando avrei finalmente iniziato ad avere caldo sotto le coperte potevo considerarmi in via di guarigione, ma fino a quel momento avrei dovuto restare al caldo il più possibile.

«Mi dispiace dovervi già lasciare, ma purtroppo ho l’aereo fra tre ore. Devo correre all’aeroporto», disse Carlisle, richiudendo la valigetta.

Edward annuì, alzandosi dal letto per accompagnarlo alla porta. Carlisle mi salutò con una carezza alla testa, dicendomi che sperava di rivedermi presto e ringraziandomi ancora per averlo aiutato ad incontrare suo figlio. Poi se ne andò, lasciando me ed Edward nuovamente soli.

Lui tornò a sedersi sul letto, prendendo il mio pigiama fra le mani. «Non vuoi cambiarti? Non sembrano molto comodi i pantaloncini di jeans per stare a letto tutto il pomeriggio».

Rabbrividii. Ora che non dovevo più fingere non riuscivo neanche a trattenere i brividi di freddo che continuavano a scuotermi. Annuii leggermente, e mi feci aiutare da Edward per tirarmi a sedere.

Lasciai che mi sfilasse la maglietta, e mi aiutasse a infilare quella del pigiama. Prima di passare ai pantaloni si alzò nuovamente, e tornò verso le valigie, sparendo nel corridoio. Quando riapparve teneva in mano una felpa e un paio di pantaloni da ginnastica. «Questi tengono di sicuro più caldo di quelli», disse, riferendosi ai pantaloncini corti che usavo come pigiama. Annuii stancamente, e dopo aver infilato la felpa mi sdraiai sul materasso, slacciando i jeans e sollevandomi il tanto per permettere ad Edward di sfilarmeli e infilarmi quelli della tuta. Sia i pantaloni che la felpa erano enormi, ma incredibilmente morbidi e spaziosi. Sul tessuto mi sembrava quasi di sentire il profumo di Edward, e dopo essermi accoccolata sotto le coperte premetti la manica contro il viso, aspirando profondamente.

Edward mi accarezzò i capelli, restando seduto al mio fianco.

«Mi dispiace di non averti detto di Carlisle», sussurrai, già mezza addormentata.

«Non fa niente. L’hai fatto in buona fede», rispose semplicemente.

«Di cosa voleva parlarti?», domandai, sperando di restare abbastanza sveglia da poterlo ascoltare nel caso volesse parlarmene.

Edward sospirò. «Di quello che mi è successo a Chicago lo scorso inverno», sussurrò.

«Cosa ti è successo?», insistetti, ma perfino io riuscivo a capire dalla mia voce che ero sul punto di addormentarmi.

Lui rimase in silenzio per un istante. «Te lo racconterò appena ti sentirai meglio, d’accordo? Ora devi riposare».

«Promesso?», sussurrai, in un ultimo lampo di lucidità.

«Promesso», rispose Edward.

L’ultima cosa che sentii prima di addormentarmi fu il suo bacio sulla fronte, poi più nulla.

***************************************************

Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiornooo! :)

Come avete letto non ci è voluto molto per scoprire chi aveva telefonato a Bella, e questa volta Edward sembra anche deciso  a dire cosa gli è successo a Bella, quindi presto potreste sapere anche la sua storia ;)

Anche in questo capitolo non ci troviamo più sulla Route 66, ma ci torneremo presto :D

Grazie mille a chi continua a recensire, e grazie anche ai lettori silenziosi :*****

Alla prossima settimana! :D

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Capitolo 15
*** Burns of the past ***


Route 66

Please let me take you

Out of the darkness and into the light,

‘Cause I have faith in you

That you're gonna make it through another night.

Stop thinking about

The easy way out

There's no need to go and blow the candle out.

Because you're not done,

You're far too young,

And the best is yet to come.

Nickelback - Lullaby

15. Burns of the past

Non ricordavo molto di quel primo pomeriggio passato a Las Vegas. Oscillavo continuamente fra veglia e sonno, cogliendo attraverso le palpebre socchiuse solo qualche scorcio della camera che diventava di volta in volta sempre più buia; vedevo Edward sdraiato al mio fianco con un libro fra le mani e mi riaddormentavo per diverse ore di seguito, risvegliandomi solo per bere o cambiare posizione. Verso sera finalmente iniziai a sentirmi decisamente meglio, e ringraziai mentalmente le medicine di Carlisle quando sentii di avere perfino caldo a restare sotto le coperte. Gli occhi non bruciavano più, e il mal di testa era scomparso.

«Edward?», gracchiai, con la voce impastata dal sonno e le palpebre socchiuse.

Lo vidi voltare il capo verso di me, e appoggiare il libro sulle sue gambe. «Ehi, ti sei svegliata», disse, sorridendo. Posò la mano sulla mia fronte, controllando la temperatura. «Per fortuna la febbre è scesa. Stavo iniziando a preoccuparmi».

«Mi dispiace», biascicai, richiudendo gli occhi.

Lo sentii alzarsi dal letto, e dopo pochi secondi sedersi di nuovo accanto a me. Riaprii gli occhi, trovando un bicchiere d’acqua fredda ed una pastiglietta bianca tesi verso di me. Bevvi tutto d’un fiato, ingoiando la medicina e tornando ad appoggiarmi ai cuscini, dopo aver infilato il termometro a mercurio sotto il braccio. Edward intanto mi chiedeva se mi andava di mangiare del riso in bianco, e dopo il mio cenno affermativo si spostò verso la zona soggiorno per telefonare alla reception per ordinare la cena in camera. Ricordavo vagamente di non aver pranzato quel pomeriggio, ma non avevo molta fame; tuttavia sapevo che se volevo guarire in fretta completamente dovevo anche provvedere a nutrirmi, quindi non feci molte storie quando Edward appoggiò davanti a me un vassoio da letto con sopra un piatto enorme di risotto in bianco, accompagnato da una bottiglia d’acqua naturale. Mangiai più che potei, fino a sentirmi sazia, mentre Edward cenava seduto al tavolo davanti alla finestra. Gli unici rumori nella stanza erano quelli provenienti dal televisore acceso su un canale che trasmetteva un telequiz. Edward guardava fuori dalla vetrata, restando in silenzio; sembrava perso nei suoi pensieri, ed ero quasi certa che tutti ruotassero intorno all’incontro avuto con suo padre quel pomeriggio. Avevo paura di aver sbagliato assecondando Carlisle in questa impresa, e sebbene Edward avesse detto di non avercela affatto con me per la mia decisione temevo potesse avere dei ripensamenti. Del resto chi ero io per spingerlo ad affrontare qualcosa da cui stava evidentemente scappando? Se aveva deciso di evitare i suoi genitori doveva esserci un buon motivo, e il fatto che io non conoscessi nulla della situazione mi dava ancora meno diritto ad interferire. Ma le parole di Carlisle, il suo tono accorato e la preoccupazione che riuscivo a cogliere anche attraverso il ricevitore del telefono erano stati troppo convincenti, e non ero riuscita a negargli la possibilità di incontrare il figlio, anche se quello significava mentirgli. Se Edward fosse stato arrabbiato con me non avrei potuto lamentarmi, anzi, avrei meritato che mi rimproverasse per aver agito a sua insaputa per qualcosa che non mi riguardava.

Finito di mangiare andai in bagno a rinfrescarmi, riuscendo fortunatamente a tenermi in piedi senza che la testa girasse e le gambe dolessero, e quando tornai in camera vidi Edward ancora seduto al tavolo, il piatto davanti a lui vuoto. Mi avvicinai scendendo con cautela i due gradini che portavano al soggiorno, e arrotolai meglio le lunghe maniche della sua felpa fino ai gomiti. Vedevo il suo riflesso nel vetro, mentre osservava la via principale, illuminata da migliaia di luci colorate; i marciapiedi e le carreggiate erano colme di gente e automobili, le insegne pulsavano al ritmo della musica che sicuramente risuonava da hotel, casinò e ristoranti, e poco più in là il vulcano del Mirage stava eruttando, sprigionando una luce rosso-arancione incandescente che spiccava in mezzo a tutte le altre. I nostri sguardi si incontrarono sulla parete di vetro, e lui voltò il capo verso di me, con un cipiglio contrariato in viso.

«Dovresti riposarti», mi rimproverò.

«Davvero non sei neanche un po’ arrabbiato perché ti ho fatto venire qui da Carlisle?», proruppi, ignorando le sue parole.

Edward dischiuse le labbra, ma non disse niente.

Abbassai lo sguardo. «Adesso sto meglio, quindi se vuoi urlarmi contro o insultarmi per averti mentito puoi farlo», mormorai.

Inaspettatamente, la sua mano afferrò la mia, stringendola delicatamente. Alzai lo sguardo, incrociando il suo. I suoi occhi erano tranquilli. «Avrei preferito che me lo dicessi, è vero. All’inizio mi sono arrabbiato, ma poi ho cambiato idea».

«Perché?», gli chiesi, perplessa.

«Carlisle mi ha fatto capire alcune cose. Se non mi avessi in un certo senso costretto tu a parlargli, probabilmente a quest’ora starei ancora rimuginando su certe cose».

Rimasi in silenzio mordendomi la lingua per frenare le mie domande. Avrei voluto chiedergli cos’era successo a Chicago lo scorso inverno, forte anche della sua promessa di raccontarmi presto tutto, ma non volevo forzarlo, non dopo averlo perfino costretto ad affrontare suo padre così all’improvviso.

Le dita di Edward scivolavano sulle mie lentamente, accarezzando le nocche. «Prima mi avevi chiesto cos’era successo quest’inverno», disse dopo diversi secondi di silenzio, cogliendomi alla sprovvista. I suoi occhi cercarono i miei. «Vuoi ancora saperlo?»

Scossi il capo in segno affermativo, incapace di parlare. Non mi aspettavo si offrisse spontaneamente, non dopo tutte le volte in cui aveva cercato in ogni modo di far cadere il discorso e nascondere la verità.

Si alzò in piedi, e mi condusse fino al divano color panna, sedendosi accanto alla vetrata. Mi misi in ginocchio accanto a lui, pronta ad ascoltare.

Si passò una mano fra i capelli, vagando con lo sguardo per la stanza, fermandolo infine sul tavolino da caffè davanti a noi.

«Dopo che ci siamo lasciati le cose non sono andate proprio bene in ospedale», disse, senza incontrare il mio sguardo. «Ho iniziato a passare le mie giornate in sala operatoria, accettando sempre più casi, anche di più al giorno, per cercare di tenermi impegnato. Dopo qualche mese il dottor Denali - il caporeparto - mi costrinse a rallentare, costringendomi a prendere al massimo tre casi a settimana. Così nei giorni in cui non avevo visite né operazioni giravo per l’ospedale, oppure passavo le giornate seduto nelle gallerie delle sale operatorie». Prese un profondo respiro. «Un giorno mi ritrovai a vagare nel reparto di pediatria, quando all’improvviso sentii qualcosa sbattere contro le mie gambe. Quando mi voltai vidi una bambina di poco meno di otto anni caduta a terra, e sembrava terrorizzata da tutte le persone con indosso un camice bianco. Era scappata da una stanza prima che l’infermiera riuscisse a cambiarla e metterle il camice. Ci volle un po’ per convincerla, ma alla fine riuscii a riportarla all’infermiera, che mi spiegò che Elizabeth era stata ricoverata in attesa di trovare un donatore per il trapianto di cuore».

Trattenni il fiato, mordendomi con forza il labbro inferiore per tacere. Che fosse quella bambina la Lizzy di cui parlava nel sonno?

Edward riprese a parlare, con lo sguardo perso nei ricordi. «Scoprire che quella bambina di soli sette anni si trovava in una situazione simile fece scattare qualcosa in me. Forse anche perché ero l’unico medico che non la spaventava mi aveva spinto ad interessarmi ancora di più al suo caso, e in poco tempo riuscii grazie al dottor Denali a diventare il cardiologo di Elizabeth. I suoi genitori lavoravano tutto il giorno, e spesso la lasciavano da sola, così iniziai a passare le giornate nella sua camera, rinunciando a diversi casi per farle compagnia. Era incredibilmente intelligente, e anche se aveva paura di quello che le stava succedendo riusciva a mantenere la calma quando arrivava il momento delle analisi e i test. Credo sia stata l’unica persona con cui abbia davvero parlato in quel periodo».

Edward rimase in silenzio a lungo, con i pugni stretti sulle ginocchia. Nei suoi occhi e nel suo sorriso mentre parlava di Elizabeth potevo leggere un affetto profondo, una tenerezza che mi faceva sorridere a mia volta.

«Poi cos’è successo?», gli chiesi dopo diversi minuti di silenzio.

Edward chiuse gli occhi. Quando li riaprì il verde delle iridi sembrava essersi incupito. «Passarono i mesi, e non c’era ancora traccia di un donatore compatibile. Le condizioni di Lizzy peggioravano giorno dopo giorno, e il suo cuore non avrebbe retto ancora a lungo. Quando finalmente arrivò la conferma di un donatore la feci preparare per andare subito in sala operatoria, e a quel punto Lizzy iniziò a urlare, implorandomi di aspettare a iniziare affinché i suoi genitori potessero tornare in ospedale e lei potesse salutarli. Non avrei dovuto farlo, ma aspettai per qualche minuto, sperando che i genitori arrivassero, ma Lizzy perse conoscenza e il suo cuore cedette. Iniziai subito l’operazione, sostituendo il cuore con quello del donatore, ma non ci fu più nulla da fare». Sentii la gola stringersi in un nodo, mentre le parole di Edward scivolavano atone su di me. «Alle quattro e trentaquattro del pomeriggio del 24 Marzo 2012 dichiarai il suo decesso».

Il silenzio scese nuovamente nella stanza. Mi umettai le labbra con la punta della lingua, sentendo la gola secca stretta dolorosamente. «Edward», sussurrai, «non è stata colpa tua».

«Ah no?», ribatté, con la stessa voce atona di prima.

«No», risposi, sporgendomi verso di lui. Posai la mano sul suo braccio, cercando il suo sguardo ma non trovandolo. «Hai detto anche tu che le sue condizioni erano peggiorate. Non puoi darti una colpa per una cosa simile. Non sei stato tu a decidere che quel donatore arrivasse così tardi».

«Tu non capisci», sussurrò Edward, e questa volta la sua voce tremò. «Se non avessi aspettato quei cinque minuti… se non fossi stato così coinvolto da Lizzy probabilmente lei sarebbe ancora viva. Se non avessi chiesto a Denali di farmi diventare il suo cardiologo ora quella bambina avrebbe otto anni e quei genitori non avrebbero perso la propria figlia».

Strinsi il suo braccio con più forza, e infine presi il suo volto fra le mie mani, costringendolo a guardarmi. «Non puoi saperlo», dissi con forza, cercando di mantenere un tono di voce asciutto, per non cedere alle lacrime. «Non sei responsabile per la sua scomparsa, Edward. Tu hai solo cercato di fare la cosa migliore, di esaudire quello che poteva essere il suo ultimo desiderio e di salvarle la vita come meglio potevi. Non sei Dio, hai fatto tutto quello che potevi per lei».

«Ma non è bastato», disse fra i denti lui. Potevo vedere i suoi occhi divenire lucidi davanti ai miei.

«Tu ci hai provato con tutte le tue forze. Non potevi sapere come sarebbe finita. Nessuno lo sa mai. L’importante è che hai tentato di salvarla, e sono sicura che anche lei te lo direbbe se potesse», sussurrai.

Edward mi attirò a sé, facendomi sedere sulle sue gambe e appoggiando la testa sulla mia spalla. Accarezzai i suoi capelli lentamente, sentendolo inquieto. «Sareste andate d’accordo voi due», sussurrò dopo alcuni secondi di silenzio. «A volte quando le parlavo mi sembrava di avere una versione bambinesca di te davanti agli occhi, anche se lei aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Diceva sempre che le sarebbe piaciuto conoscerti».

Aggrottai le sopracciglia. «Le hai parlato di me?»

«Ti ho detto che è la persona con cui ho parlato di più in quel periodo. Le piaceva ascoltare, e spesso mi chiedeva della mia vita fuori dall’ospedale per distrarsi. Era molto curiosa», disse.

«Mi sarebbe piaciuto conoscerla», mormorai, «sembra una bambina stupenda».

Sentii la sua presa stringersi leggermente. «Lo era».

Ora che conoscevo la verità mi sentivo in colpa per quella curiosità quasi morbosa che mi aveva assillato intorno al nome di Lizzy. Riuscivo a capire il dolore muto che di tanto in tanto traspariva dagli occhi di Edward, capivo le sue frasi lasciate in sospeso e le sue lacrime di quella notte al Grand Canyon. Mi sentivo anche in colpa per averlo costretto a rivivere quell’esperienza traumatica per due volte nello stesso giorno, dato che Carlisle con ogni probabilità era venuto a parlargli proprio di quello.

«Come mai Carlisle voleva parlarti?»

«Voleva convincermi a tornare a lavoro», rispose dopo un breve sospiro.

«Quindi non sei in ferie adesso», sussurrai.

«No. Mi sono licenziato».

Trattenni il respiro.

«O almeno ci ho provato», aggiunse immediatamente. «Il dottor Denali mi ha sospeso dal mio incarico a tempo indeterminato. Vuole che superi il test psicologico per tornare a lavorare, ma non ne ho alcuna intenzione».

«Non vuoi più fare il cardiologo?», gli domandai, spaventata.

«Non lo so. Non credo», rispose, sottovoce. «Guarda dove sono arrivato seguendo questa strada. Una bambina di sette anni ha perso la vita, e ho perso te. Forse dovrei cercare un altro lavoro».

«Tu sei un medico, Edward. Hai studiato tutta la vita per esserlo, non puoi voler mandare tutto all’aria così».

«Non sono nemmeno riuscito a capire che avevi l’influenza questa mattina. Questo la dice lunga su che razza di medico sono. Sarebbe meglio per tutti se mi ritirassi, credimi», bofonchiò seccamente contro la mia spalla.

«Tutti facciamo degli errori, Edward. Questo non significa che appena li commettiamo dobbiamo cambiare rotta, però», dissi, preoccupata.

Questa volta Edward non ribatté.

«Vuoi andare a dormire?», mi chiese qualche minuto dopo, sollevando il capo dalla mia spalla. La sua voce era spezzata.

Annuii, e scivolai giù dalle sue gambe, alzandomi in piedi. Edward raggiunse il tavolo, sistemò i piatti della cena sul carrello del servizio in camera e si diresse verso la porta per lasciare il tutto nel corridoio. Mentre si allontanava andai verso il letto, sfilandomi la felpa, ormai troppo pesante e calda per i miei gusti. E lì, sulla spalla, dove Edward aveva nascosto il viso solo pochi minuti prima, scorsi le macchie scure lasciate dalle sue lacrime silenziose, che spiccavano sul tessuto grigio come gocce di sangue.

Cacciai indietro l’istinto di piangere e mi ritirai sotto le coperte, aspettando Edward. Quando mi raggiunse lasciai che le sue braccia mi circondassero, premendomi contro di lui e intrecciando le gambe alle sue. Avrei voluto dirgli tante cose in quel momento: che io ero lì con lui e non l’avrei lasciato, che doveva smetterla di torturarsi con la convinzione errata di aver ucciso Lizzy, e che ero certa che lei - se davvero era simile a me - l’aveva perdonato e non lo accusava di nulla. Ma non dissi nulla di tutto ciò, incapace di trovare le parole giuste per non turbarlo ulteriormente. Ricambiai la sua stretta più forte che potevo, sperando che in essa Edward cogliesse parte di ciò che provavo, e capisse che per lui c’ero e ci sarei sempre stata.

 

Ci risvegliammo il mattino dopo nella posizione in cui ci eravamo addormentati, con una fioca luce che filtrava dalle tende tirate bene davanti alla vetrata che avvolgeva la stanza in una semioscurità piacevole. Non c’erano rumori intorno a noi, solo silenzio e pace. Ruotai nell’abbraccio di Edward, fino a ritrovarmi con il viso davanti al suo. I suoi occhi erano spalancati, e mi osservavano indecifrabili. Con la punta delle dita sfiorai le ombre scure sotto i suoi occhi, chiedendomi se avesse dormito o fosse rimasto a pensare a Lizzy e a quello che era successo.

«Stai bene?», gli chiesi, con la voce ridotta a un sussurro.

Un angolo delle sue labbra si piegò verso l’alto. «Dovrei essere io a chiedertelo», mormorò divertito. Avvicinò il viso al mio, posando le labbra sulla mia fronte, testando la mia temperatura. «Non hai più la febbre per fortuna».

«Sto bene, infatti», gli assicurai, stringendo un braccio intorno al suo busto. «E tu?»

«Sto bene», disse a sua volta, chinando il capo per incontrare il mio sguardo. Sfiorai le sue labbra con le mie, stringendomi a lui. Le sue mani trovarono il mio viso e i miei capelli, intrecciandosi ad essi e tenendomi ferma mentre si spingeva contro di me, fino a farmi rotolare con la schiena sul materasso. Allacciai le gambe intorno al suo bacino, premendo le dita nella sua schiena, fino a quando i nostri corpi non furono l’uno contro l’altro, mentre la sua lingua scivolava sulla mia e reprimeva un gemito nella mia bocca. Si staccò lentamente, passando una mano fra i miei capelli, tirando indietro le ciocche dalla mia fronte. Sospirò contro le mie labbra. «Andiamo a fare un giro dei casinò?», sussurrò, scivolando con la bocca attraverso la mia guancia, risalendo verso la tempia.

«Adesso?», fiatai, infilando la punta delle dita sotto l’orlo della sua maglietta, sfiorando la pelle della sua schiena.

Lo sentii trattenere una risata. «Oppure possiamo rimanere qui ancora un po’», mormorò, e contro la tempia avvertii il suo sorriso malizioso, mentre con una mano accarezzava la pelle del fianco da sotto la mia maglietta, spostandosi sempre di più verso l’altro. Trattenni il fiato quando sentii le sue dita passare sopra le costole, e piegai il capo per incontrare le sue labbra. Facendo leva sulle sue spalle lo spinsi a rotolare sul fianco, fino a invertire le nostre posizioni e a trovarmi stesa sul suo petto, con le gambe intrecciate alle sue.

Prima che la situazione mi sfuggisse di mano mi allontanai, e con un balzo scesi dal letto, dirigendomi verso il bagno. Lanciai un’occhiata ad Edward, che mi osservava con un sopracciglio inarcato e l’espressione interdetta. Feci un sorrisino. «Non volevi andare a vedere i casinò? Las Vegas ci aspetta», dissi, ripetendo le stesse parole che solo il mattino prima aveva detto lui, quando non volevo alzarmi dal letto.

Mi chiusi in bagno, mentre Edward si lasciava andare contro i cuscini sospirando.

 

Il sole di Las Vegas era bollente. Anche con cappellino e occhiali da sole potevo sentire i raggi battere con forza sulla testa, e l’afa desertica che assediava la via principale non permetteva di respirare. Venditori ambulanti erano appostati ad ogni angolo sotto un ombrellone, con casse di ghiaccio colme di bottiglie d’acqua e bibite, che in pochi minuti venivano esaurite. Iniziammo il nostro giro dei casinò a partire dal Circus Circus, un complesso più piccolo di quelli degli altri hotel più centrali, costruito come un vero tendone da circo, dentro al quale si trovava un piccolo lunapark al chiuso: c’erano bancarelle a premi, trapezisti che saltavano da una parte all’altra appesi a funi e ganci nel soffitto, un roller coaster che si intrecciava in aria e un enorme palcoscenico dove clown di ogni tipo si esibivano circondati dai tavoli d’azzardo e le slot-machine. Il soffitto era buio, illuminato dalle luci delle bancarelle e dai proiettori del palco, e la musica era quella tipica dei lunapark, accompagnata dalle risate sguaiate dei clown e quelle divertite degli spettatori. Sebbene fosse un posto quasi infantile, c’erano pochissimi bambini.

Edward cercò di insegnarmi a sparare con il fucile ad aria compressa di una bancarella, il cui scopo era quello di abbattere quante più lattine disposte possibili per vincere un peluche. Quando terminammo il giro del casinò avevamo collezionato quattro diversi peluche piccoli, ed un Topolino gigante che Edward aveva vinto nel gioco della pesca dei cigni, riuscendo a raggiungere il livello massimo. In una qualsiasi altra città sarebbe stato strano e buffo vedere un uomo di trent’anni girare per le strade con un topo gigante sulla schiena, ma a Las Vegas tutto ciò che era curioso o insolito sembrava essere la norma.

Ci fermammo davanti al Treasure Island, dove si trovava una passerella di legno con parapetti di corda che si affacciavano su una piscina ampia, in cui galleggiava un’enorme nave dei pirati, con dietro la ricostruzione di una cittadina in cui si muovevano alcune donne in vestiti d’epoca. Lo spettacolo durò poco più di un quarto d’ora, con finti colpi di cannone e schizzi d’acqua che arrivavano a bagnare anche il pubblico, e piratesse in abiti succinti che ballavano sui parapetti delle navi tenendosi alle corde.

Subito dopo tornammo all’hotel per lasciare alla reception i pupazzi, e riprendemmo il nostro giro dei casinò, saltando il Mirage - l’hotel che aveva come attrazione principale il vulcano - per poter tornare a vedere lo spettacolo dell’eruzione una volta tramontato il sole. Attraversammo la strada e ci avventurammo per i giardini del Caesars Palace, che intervallava zone verdi con fontane che riproducevano quelle d’epoca a zone di pietra grigia e bianca, che ricostruivano i fori romani e i templi antichi; dopo aver attraversato anche un teatro in pietra entrammo nell’hotel, dalla zona dei negozi che si allungava fino alla Flamingo Avenue al piano terra. Sostanzialmente era distribuita come l’area commerciale del The Venetian, senza il canale che percorreva le vie principali e con molte più fontane in stile rinascimentale sistemate al centro delle piazze situate all’incrocio delle varie vie. Ci fermammo a pranzare proprio in una di queste piazze, al centro della quale una fontana di bronzo rappresentante il dio romano del mare - Nettuno -, avvolta da un leggero fumo bianco che fuoriusciva dalle bocche da cui fluiva anche l’acqua a cascate nelle vasche sottostanti. Intorno alla piazza le pareti erano costituite da un enorme acquario che andava dal pavimento al soffitto, e pullulava di pesci di ogni forma, colore e dimensioni; bambini e adulti si accalcavano contro le pareti per osservare i piccoli animaletti nuotare nell’acqua, e di tanto in tanto c’era il bagliore dei flash fotografici.

Una volta pranzato andammo al Bellagio, fermandoci a bere qualcosa nel piccolo giardino dell’hotel, racchiuso fra quattro pareti ed una cupola di vetro e ferro. All’interno c’era anche una piccola ruota panoramica gialla e arancione, e nelle aiuole c’erano innaffiatoi enormi appesi per aria che spruzzavano acqua sulle piante, mentre alcune gabbie di pappagalli erano posizionate agli angoli della serra. Le piante e i fiori erano sistemati in composizioni coloratissime, e anche in giro per l’hotel si potevano vedere aiuole decorate da mongolfiere, fontane e ombrelli colorati. Nel lago davanti all’ingresso le fontane erano costantemente in funzione, e sulle balaustre si accalcavano frotte di turisti con macchinette fotografiche alla mano.

Successivamente andammo al New York-New York, e convinsi Edward a fare un giro sulle montagne russe che si intrecciavano intorno alle ricostruzioni di grattacieli fino all’aria aperta, per poi tornare all’interno sopra alle slot-machine del casinò. Finito il breve giro di negozi andammo anche a vedere velocemente i due hotel più lontani degli altri, ovvero l’Excalibur e il Luxor, che osservammo dall’esterno senza però entrare, decidendo di andare direttamente agli MGM, dove si trovava una sala con pareti di vetro dentro al quale erano tenuti due leoni in carne ed ossa. Arrivammo proprio nel momento in cui un addetto si recava all’interno della gabbia per portargli da mangiare, e mi stupii nel vedere quanto fossero docili ma al tempo stesso pericolosi con le loro zanne bianchissime in bella vista. Subito dopo ci mettemmo anche in fila per fare la foto con il leoncino, sdraiato su una piattaforma grigia. Ritirammo la nostra fotografia al bancone, e poi entrammo al Paris, dove restammo più a lungo a girare per le stradine mentre la musica delle fisarmoniche risuonava dai locali. Ci fermammo a mangiare qualcosa e a riposarci, scoprendo con grande sorpresa che era già sera. Quando uscimmo il cielo era già buio, e le strade brillavano di mille insegne diverse. Un autobus con luci al neon e tende rosse passò con la musica a tutto volume accanto a noi, e attraverso le vetrine che aveva al posto delle fiancate vidi diverse ragazze fare la strip-dance attaccate ai pali. Ai lati della strada, oltre ai consueti venditori di bibite, erano apparse altre persone, che tendevano biglietti riportanti donne mezze nude e insegne di locali a luci rosse. Quando Edward se ne ritrovò uno fra le mani lesse lo slogan riportato sotto il nome del locale, divertito. Gli strappai il foglietto di mano, accartocciandolo e gettandolo nel primo bidone che trovai con un gesto stizzito. Lui rise.

Tornammo al The Venetian, portammo i nostri acquisti della giornata in camera e poi scendemmo alla zona dei locali del resort per andare a cena. Quando terminammo decidemmo di fare un giro per il casinò, affollato giorno e notte.

Passammo accanto a un tavolo d’azzardo dietro al quale si trovava un’automobile su un piedistallo. Era una spider di quelle di lusso, che costava un occhio della testa. Non era la prima che vedevo messa in gioco quel giorno.

Ci fermammo vicino a delle slot-machine, ma dopo un paio di giocate andate in fumo rinunciai a perdere altri soldi con quelle macchinette infernali. Invece, seguii Edward fino ai tavoli da gioco, dove diversi uomini stavano giocando a black jack, alcuni affiancati da donne in abiti succinti che non ero proprio sicura conoscessero veramente. Mi strinsi al fianco di Edward, vedendo gli sguardi delle ragazze vagare dagli uomini di mezza età che accompagnavano al mio ragazzo.

«Che ne dici?», mi chiese Edward, strappandomi ai miei pensieri. «Proviamo?»

Guardai la mazzetta di fishes che teneva in mano, e annuii lievemente, dicendomi che non c’era niente di male a provare per una volta. Una cameriera del bar si avvicinò al banco, chiedendo se qualcuno voleva qualcosa. Dato che mi sembrava ridicolo ordinare qualcosa di analcolico in quella situazione optai per la prima cosa che mi venne in mente e che avevo sentito ordinare da Edward, ovvero un Manhattan.

Quattro partite dopo, Edward aveva vinto tutti i soldi degli altri giocatori, che si erano ritirati e avevano lasciato il posto ad altre persone, che continuavano ad aggiungere soldi in palio, sperando di fare il colpaccio e guadagnarsi il gruzzoletto che Edward aveva messo su in poche partite. Vidi i suoi occhi scrutare quelli degli altri uomini, poi tornare alle carte che teneva in mano e a quelle che erano disposte sul banco. Era il suo turno. Mandai giù un altro sorso di quello che era un bicchiere di cui ormai avevo perso il conto, chiedendone un altro alla cameriera. Non potevo fare molto per Edward in quella situazione, così restavo al suo fianco soffocando l’ansia nei bicchieri.

Gli altri tre uomini mostrarono le loro carte, e uno di loro scoppiò a ridere, mostrando una combinazione vincente. Edward aspettò qualche secondo, poi scoprì la sua mano, e l’altro smise di ridere, mentre il banchiere annunciava la sua vittoria, iniziando a spostare le fishes da lui a quelle di Edward, che ormai aveva collezionato una piccola montagna. Lasciai andare un piccolo grido di sorpresa, attaccandomi al suo braccio.

«Non posso crederci!», continuavo a dire, ogni volta che il banco annunciava Edward come vincitore. Lui sorrideva, fermandosi solo per bere un bicchiere di whisky.

Gli uomini intorno a lui continuavano a cambiare tranne uno, che rimase seduto lì, ad un posto da Edward, mentre le cameriere facevano avanti e indietro con i bicchieri colmi di cocktail. Dopo un’altra partita l’uomo che era rimasto per tutto il tempo a giocare era ormai senza fishes. Ero certa che si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato infuriato, ma con mia enorme sorpresa mise in gioco una piccola scatoletta di raso, che aprì per mostrare a tutti i partecipanti quale fosse la sua posta in gioco. Credevo che Edward se ne sarebbe andato, ma decise di restare, e quando vidi che alla fine della partita parte delle sue fishes tornarono nelle mani di quell’altro uomo pensai che fosse arrivato il momento di andarsene, prima che Edward perdesse tutto quello che aveva guadagnato.

«Aspetta», mi disse, prima che mi alzassi. «Solo un’altra partita. Fidati di me».

Non potei fare altro che restare al suo fianco, e quando lo vidi mettere tutto quello che aveva sul banco in palio sperai di affogare nell’alcol del mio bicchiere.

 

Mi risvegliai a causa della luce del sole, che filtrava attraverso la finestra, le cui tende erano rimaste spalancate. Grugnii, coprendomi gli occhi, provando una scarica di dolore alle tempie. Quando provai a spalancare le palpebre pochi minuti dopo, capii di avere indosso ancora gli abiti della sera precedente, e sentii la bocca e la gola secca. Accanto a me scorsi il profilo di Edward, sdraiato a pancia in giù e con una mano ancorata al mio fianco, a tenerci vicini. Era ancora addormentato e anche lui non si era cambiato prima di addormentarsi.

Passai una mano piacevolmente fredda sulla fronte, sperando di scacciare il pulsare doloroso del mal di testa, inutilmente. Il mio sguardo si soffermò su di essa, la mia mano sinistra, e su un piccolo cerchio di metallo sovrastato da un diamante che fino a ieri ero certa non ci fosse, posizionato sull’anulare.

I miei occhi si sgranarono, e un urlo lasciò le mie labbra prima di riuscire a fermarlo.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salveee!

Chiedo scusa per il ritardo di questa settimana, ma lo scorso weekend sono stata fuori città e non ho avuto il tempo di scrivere nulla.

Spero che finalmente tutti i dubbi su Lizzy siano stati cancellati. Ovviamente la situazione di Edward non è ancora sistemata, ma già il fatto di aver raccontato tutto a Bella è un bel passo avanti. Ora cosa sarà successo durante la notte al casinò? :D A voi le ipotesi!

Grazie mille come sempre a tutti coloro che continuano a seguire e anche ai nuovi lettori :*****

Alla prossima settimana :D

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Capitolo 16
*** What happened last night ***


Route 66

Why are these lights so bright?

Oh, did we get hitched last night dressed up like Elvis?

Why am I wearing your class ring?

Don't call your mother

'cause now we're partners in crime

Katy Perry - Waking Up In Vegas

16. What happened last night

Portai una mano a coprire la bocca, ma ormai il danno era fatto. Edward balzò a sedere con uno scatto, guardandosi intorno confuso e con gli occhi socchiusi che cercavano di abituarsi alla luce del mattino. I capelli erano un groviglio rossiccio disordinato, così come i suoi vestiti stropicciati.

Il mio sguardo si concentrò atterrito su uno strano pezzo di tulle bianco che giaceva a terra a pochi metri dal letto, tenuto insieme da una tiara che sembrava d’argento. Poco più in là, sul tavolo nella zona soggiorno, c’era una bottiglia di spumante aperta all’interno di un secchiello, con due bicchieri mezzi pieni accanto. Non riuscii a muovermi, immobilizzata dal terrore. Fu solo il mormorio confuso di Edward a riportarmi al presente, mentre si passava le mani sul viso e imprecava sottovoce per il mal di testa e quel risveglio così brusco. Un anello d’oro giallo brillò alla luce del sole intorno al suo anulare sinistro.

Sentii la testa girare e mi rannicchiai su me stessa, chiudendo gli occhi e sperando di svegliarmi all’improvviso da quello che non poteva essere altro che un sogno.

«Bella, vuoi dirmi che succede?», borbottò Edward, con le mani ancora sul viso.

Rimasi con il volto nascosto fra le braccia incrociate sulle ginocchia, la mano sinistra incastrata nel gomito del braccio destro per non vedere ciò che c’era sul mio dito. «Dammi un pizzicotto», bofonchiai.

«Cosa? Perché dovrei farlo?»

Cercai di prendere fiato. «Perché c’è un problema».

«Che genere di problema?», sospirò lui.

Presi un profondo respiro. «Cosa ti ricordi della notte scorsa?»

Edward inarcò un sopracciglio, e vidi la sua fronte aggrottarsi mentre si concentrava. Rimase in silenzio, l’espressione crucciata.

«Appunto», sospirai pesantemente. Eravamo nella stessa situazione, nessuno di noi ricordava cosa fosse successo.

«Vuoi dirmi perché sei così preoccupata?», insistette, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

Allungai una mano fino ad afferrare la sua sinistra e la portai all’altezza dei nostri visi, in modo che l’anello al suo anulare brillasse alla luce. La sua espressione divenne ancora più confusa. Quando poi affiancai la mia mano alla sua e l’anello con il diamante rifletté la luce in tutte le sue sfaccettature capii dai suoi occhi sgranati che avesse compreso.

Edward afferrò la mia mano, avvicinandola per guardare meglio l’anello, toccando la gemma con un dito, come per assicurarsi che fosse tutto vero. «Non può essere», sussurrò.

«E invece credo proprio che lo sia», mormorai.

Lasciò andare la mia mano e si alzò in piedi, iniziando a girare per la stanza. Raccolse la tiara con il velo, restando ad osservarlo per alcuni secondi, in silenzio.

«Cosa c’è?», gli chiesi, speranzosa. «Hai ricordato qualcosa?»

Edward scosse il capo, cancellando le mie speranze. «Mi chiedevo solo com’è possibile che non ricordiamo nulla di quello che è successo», disse, prima di passarmi il velo e riprendere a cercare nella stanza. «Ci devono pur aver dato qualcosa per questo matrimonio», sbottò, iniziando ad aprire i cassetti degli armadi e richiudendoli con forza quando li scopriva vuoti. Sentii il respiro bloccarsi mentre pronunciava la parola matrimonio, ma non dissi niente. «Un certificato, un biglietto, qualunque cosa dannazione!»

«Pensi che non ci siamo sposati?», gli domandai, alzandomi per aiutarlo nella ricerca.

«In questo momento non riesco a ricordare niente di quello che è successo dopo che ho vinto quell’anello e tutti i soldi. Potremmo anche aver fatto tutto noi due senza essere andati in cappella, chi lo sa», rispose, con la testa sul pavimento mentre guardava sotto il letto.

Si alzò in piedi con un sospiro pesante. «Qui non c’è niente».

«Alla cappella avranno un registro… no?», tentai. «Potremmo andare a chiedere lì».

Edward si passò una mano sul viso. «Non abbiamo altra scelta. Prima però devo farmi una doccia», disse, recuperando la sua valigia dall’armadio.

Annuii leggermente, sedendomi sul bordo del letto. Lo vidi sfilarsi la fede dal dito e appoggiarla sul comodino, poi chiudersi in bagno.

Passai fra le mani la tiara con il velo bianco, cercando di concentrarmi per ricordare qualsiasi cosa riguardante la notte precedente, ma tutto quello che mi veniva in mente era Edward mentre metteva in palio tutti i soldi sul banco e il mio bicchiere di cocktail arrivare al tavolo. Poi più nulla. Mi alzai dal letto e cercai qualcosa da indossare di pulito, sperando che una doccia fredda mi aiutasse a schiarire le idee, confuse oltre ogni limite.

Guardai l’anello al mio dito, e sospirai pesantemente. Faceva uno strano effetto vedere un gioiello simile - per nulla del mio genere, fra l’altro - al dito, e la sensazione era stata ancora più strana quando avevo accostato la mia mano sinistra a quella di Edward. Se quei due anelli avevano davvero il significato che temevo quello significava che io ed Edward eravamo sposati. Eravamo diventati marito e moglie. Un brivido corse lungo la mia schiena e scacciai il pensiero fastidiosamente, sentendo la paura stringermi lo stomaco in una morsa. Le cose fra me ed Edward stavano finalmente procedendo per il verso giusto, ma non eravamo ancora pronti per un passo simile. Io non ero ancora pronta. Non avevo mai avuto una buona considerazione del matrimonio - da una figlia di genitori divorziati cosa ci si potrebbe aspettare? - ed Edward l’aveva sempre saputo. Cosa mi era saltato in testa di accettare la proposta - sicuramente uscita dalla bocca di un’altra persona ubriaca? Avevamo combinato un gran caos e dovevamo trovare una risposta al più presto a quell’interrogativo per decidere cosa fare.

Appena sentii l’acqua della doccia chiudersi portai le dita intorno all’anello, pronta a sfilarlo. Il sangue mi si ghiacciò nelle vene quando scoprii che non si muoveva di un solo millimetro. Era incastrato.

Iniziai a sudare freddo e tirai con tutte le mie forze, fino a sentire le tempie riprendere a pulsare dolorosamente per il mal di testa. Mi guardai intorno, terrorizzata, e corsi fino al secchiello contenente la bottiglia di spumante, all’interno del quale il ghiaccio si era completamente sciolto. Infilai la mano nell’acqua, sperando di riuscire a far scivolare l’anello, ma dopo un paio di tentativi capii che non c’era niente da fare.

La porta del bagno si aprì e corsi con la mano gocciolante fino al lavandino, rischiando di travolgere Edward che stava uscendo vestito di tutto punto e con i capelli umidi. Afferrai con disperazione la saponetta accanto al rubinetto e iniziai a insaponare tutta la mano, tirando l’anello fino a farmi male al dito.

Edward mi raggiunse, guardandomi preoccupato e confuso. «Che stai facendo?»

«Non riesco a togliere l’anello», dissi fra i denti.

Lui afferrò le mie mani, riponendo la saponetta al suo posto e passandole sotto il getto d’acqua fredda, senza toccare l’anello.

«Cosa fai?», gli chiesi, ansiosa, mentre mi passava un asciugamano.

«Lascialo dov’è. Adesso hai fatto gonfiare il dito a furia di tirare, quindi è impossibile che esca. Tra un’ora potremo riprovare», disse con calma, lasciando andare la mia mano.

Guardai il dito, rosso e gonfio rispetto agli altri. «Ed io dovrei andare in giro con questo addosso adesso?», domandai, terrorizzata al pensiero.

«A meno che vuoi che ti amputi il dito, allora sì», rispose accigliato.

Mi appoggiai al lavandino, sospirando.

Edward mi sfiorò un braccio. «Non è così grave, non preoccuparti. Se non riuscirai a sfilarlo anche quando il dito sarà sgonfio conosco un vecchio trucco che ho imparato al pronto soccorso», disse incoraggiante.

Annuii distrattamente. «Non è quello. Mi stavo solo chiedendo come abbiamo fatto a finire in questa situazione», mormorai.

«Eravamo entrambi ubriachi. Sarebbe potuta finire peggio, per come la vedo io», disse, appoggiandosi al lavandino, con la mano accanto alla mia, su cui spiccava l’anello.

«Del tipo?»

«Del tipo che avresti potuto svegliarti e scoprire di esserti sposata con un estraneo», rispose con una smorfia.

Aggrottai le sopracciglia, incrociando il suo sguardo attraverso lo specchio davanti a noi. «Dici che sarebbe stato possibile?», domandai, accigliata.

Edward scrollò le spalle, senza rispondere chiaramente.

Sospirai, staccandomi dal lavandino. «Faccio una doccia e poi possiamo andare», dissi, andando verso di essa per aprire l’acqua.

Lui si diresse verso la porta, fermandosi poco prima di uscire. «Bella?», mi richiamò, facendomi voltare per guardarlo. «Cosa succederà se scopriremo di essere davvero sposati?»

Mi irrigidii.

«Voglio dire», continuò, schiarendosi la voce, «sarebbe così terribile?»

Rimasi in silenzio, riflettendo sulle sue parole, mentre davanti agli occhi prendeva vita lo scenario che Edward aveva appena ipotizzato: avremmo terminato il nostro viaggio lungo la Route 66 e saremmo tornati a casa, andando a vivere insieme e ufficializzando alle nostre famiglie di esserci sposati a Las Vegas? E poi, cosa sarebbe successo? Avremmo iniziato a litigare come i miei genitori e ci saremmo pentiti nel giro di pochi mesi dell’insana e inconsapevole decisione di sposarci e avremmo divorziato, tagliando i ponti l’uno con l’altra per sempre?

La mia espressione dovette tradire i miei stessi pensieri negativi, perché l’espressione di Edward si incupì, e si voltò per lasciare il bagno, con un “Lascia stare, ci penseremo se arriverà il momento”.

Lo raggiunsi di corsa, fermandolo per un braccio. «Sarebbe terribile, perché un giorno arriveremo a pentirci di aver preso una decisione tanto importante senza essere lucidi», gli spiegai, agitata e terrorizzata di poter ferire i suoi sentimenti. «Se mai dovrà esserci un matrimonio vorrei davvero ricordare ogni momento, e non solo il risveglio senza sapere che cos’è successo».

Edward rimase in silenzio per un lungo istante, poi appoggiò la fronte contro la mia, ed un sorriso divertito spuntò sulle sue labbra. «Se è quello il problema potremo sempre sposarci un’altra volta. In una di quelle chiese enormi con abiti eleganti, e soprattutto con un vestito da sposa. Il velo ce l’hai già», scherzò, riferendosi alla tiara abbandonata sul letto.

Mi morsi il labbro per trattenere un sorriso, e gli pizzicai il fianco con la punta delle dita. Lui rise sulle mie labbra, scendendo a baciarmi. Allacciai le braccia intorno al suo collo, alzandomi sulle punte dei piedi.

Sentii la porta sbattere alle nostre spalle, mentre la bocca di Edward soffocava le mie risate e il suo sorriso divertito. Arretrai fino a sentire il muro contro la schiena e strinsi le braccia intorno al suo collo, sollevandomi sulle punte e spingendolo ad avvicinarsi ancora di più. Le sue mani scorrevano lungo il mio corpo, stringendo la carne che trovava e infilandosi sotto il tessuto della camicetta, fino ad arrivare ai gancetti del reggiseno. Con la bocca scese sul mio collo, scostando i lembi di tessuto alla ricerca di pelle, premendo il bacino contro il mio. Con le dita cercai di slacciare i bottoni della sua camicia, venendo interrotta dal bussare alla porta, a pochi passi da noi. Edward continuò a baciarmi la spalla, ignorando il rumore.

«Lo spumante…», sospirai, frustrata da quell’interruzione.

La sua bocca tornò sulla mia. «Se lo ignoriamo se ne andrà», mormorò, deciso a non smettere.

Bussarono nuovamente, più a lungo. Alla fine Edward si allontanò da me, facendo solo pochi passi per aprire la porta. Oltre la sua spalla scorsi un ragazzo con in mano un secchiello contenente una bottiglia di spumante. Edward prese il secchio, porgendogli una banconota di mancia, e rifiutò il suo invito ad aprire la bottiglia per noi. Andammo al tavolo nella zona soggiorno e trovai due bicchieri da spumante nell’armadietto del frigobar. Edward riempì i calici, rimettendo la bottiglia nel ghiaccio. Alzò il suo all’altezza dei nostri visi, un sorriso a piegargli le labbra. «A noi», disse, facendo tintinnare i nostri bicchieri insieme.

Brindammo al nostro matrimonio, crollando pochi minuti dopo sul letto senza nemmeno la forza di svestirci e infilarci sotto le coperte.

Aumentai la presa intorno al collo di Edward, sorridendo mentre quel piccolo ricordo della notte precedente tornava a galla. Non era una risposta chiara a ciò che era successo, ma almeno sapevo com’era finita la serata.

Solo il rumore dell’acqua che ancora scendeva dalla doccia mi costrinse ad allontanarmi da Edward e a darmi una calmata.

«Vado a farmi la doccia. Torno subito», mormorai contro la sua bocca, faticando a staccarmi.

«Se me lo dicevi prima potevamo farla assieme. Dato che siamo sposati…», ghignò, lasciandomi andare sull’uscio del bagno.

Risi, leggermente imbarazzata. «Avresti potuto propormelo prima, maritino», ribattei, afferrando il pomello della porta. Un attimo prima di chiuderla scorsi la sua espressione divertita e stupita, e pensai che forse se davvero eravamo sposati le cose non sarebbero andate così male.

 

Il caos nella hall quel mattino non riuscivo a sopportarlo. Non solo a causa dello stato confusionale in cui versavo a causa dei sintomi del post-sbornia, ma anche perché in mezzo a tutto quel rumore e viavai di gente non riuscivo a mettere ordine ai miei pensieri e a concentrarmi per ricordare i dettagli della notte precedente.

Andammo diretti al bancone della reception, dove una donna sedeva dietro al punto informazioni.

Edward strinse un braccio intorno alle mie spalle, avvicinandomi a lui. La donna dall’altra parte del bancone non fece una piega, probabilmente abituata a scene simili. «Ci può far portare una bottiglia di spumante alla Luxory Suite?», le chiese, tendendole con due dita la chiave della camera su cui far accreditare la bottiglia.

Lei annuì, passando la carta in una fessura sulla tastiera del computer davanti a lei. Poi alzò una cornetta del telefono. «Il suo nome, prego?»

«Edward Cullen», rispose, prima di di allontanarci dal bancone.

Ci dirigemmo verso gli ascensori, ridendo come due idioti.

Edward si accostò titubante al bancone, e mi chiesi se anche lui stava ricordando come me la sera precedente. «Mi scusi. Ci potrebbe dire dove si trova la cappella?»

«Certamente», rispose cordialmente lei. Prese una cartina della zona pubblica del resort, sporgendosi sul bancone per mostrarla ad Edward. Con una penna segnò un cerchio rosso intorno al simbolo della croce, al primo piano. «Questa è la cappella dell’hotel, dove celebriamo i matrimoni prenotati dai clienti con banchetto incluso». Girò la cartina, arrivando al piano dei ristoranti e negozi, e segnò una zona colorata di rosa, priva di simboli. «Questa invece è quella per i matrimoni last-minute, senza cerimonia ufficiale».

Edward incrociò il mio sguardo, eloquente. Ringraziò la donna, allontanandosi dal bancone.

«Immagino sia la seconda quella che ci interessa», mormorò, seguendo le indicazioni sulla cartina.

Annuii leggermente, in difficoltà. «Credi che sia una di quelle cappelle che si vedono nei film e le serie tv? Con un prete vestito da Elvis che canta?», gli chiesi, preoccupata.

A vederlo in tv mi era sempre sembrata una scena divertente, ma il pensiero di essermi effettivamente sposata con un uomo conciato in quel modo al mio fianco mi faceva drizzare i peli sulle braccia. Sebbene non fossi mai stata un’amante dei matrimoni avevo sempre immaginato il mio - se mai fossi stata tanto coraggiosa da fare quel passo - celebrato in una piccola chiesa, con i miei familiari accanto e un prete in tunica a celebrare la messa. Io avrei indossato un vestito bianco da sposa, e avrei ricevuto un anello d’oro della misura perfetta del mio dito, che sarei stata in grado di sfilare senza bisogno di ricorrere a metodi imparati al pronto soccorso.

La cappella “per i matrimoni last-minute”, come l’aveva definita la donna al punto informazioni, si distingueva dal resto dei negozi che si trovavano lungo il Grand Canal del resort del The Venetian per il semplice fatto che mancasse di vetrine e illuminazioni spiccate. C’era un portone in legno laccato di bianco - chiuso -, e due finestre in stile gotico con vetri colorati non permettevano di scorgere l’interno, le cui luci erano spente. Una piccola targa dorata era appesa accanto all’ingresso e riferiva gli orari di apertura, che andavano dalle nove di sera fino a tarda notte. Guardai Edward, lasciando andare un profondo respiro. Per tutto il tragitto dalla hall avevo trattenuto il fiato senza nemmeno rendermene conto, e anche se in quel momento non avevo ancora ricevuto una risposta a quell’interrogativo pressante da una parte mi sentivo sollevata al pensiero di non dover ricevere immediatamente una risposta che avrebbe cambiato tutto. «Temo che dovremo aspettare questa sera per scoprire se siamo sposati o meno», dissi, sedendomi su una delle due panchine sotto le finestre della cappella.

Lui infilò le mani in tasca, poi si sedette accanto a me. «Facciamo in tempo a ricordare quello che è successo di questo passo», borbottò, guardando le gondole scivolare sul canale davanti a noi, oltre la ringhiera in ferro battuto.

Aggrottai le sopracciglia, provando una strana sensazione di familiarità. Mi alzai in piedi, guardando prima il portone bianco della chiesa, poi raggiunsi la ringhiera, guardando l’acqua sotto di me. Edward mi affiancò, con un la fronte aggrottata. «Che stai facendo?»

«Credo che siamo passati di qui ieri sera», dissi, cercando di concentrarmi.

Arretrai nuovamente fino al portone, dandogli le spalle, e guardai le gondole da quella prospettiva.

Spalancai un’anta del portone bianco con la mano libera, stringendo nell’altra quella di Edward, mentre ridevo. Le sue braccia mi circondarono, fermandomi poco prima che finissi contro il gruppo di persone che percorreva il viale accanto al canale, e davanti alle loro espressioni curiose, sorprese e di disapprovazione risi divertita. In quel momento di euforia tutto sembrava incredibilmente divertente. Tirai indietro con una mano il velo bianco finitomi sul viso, e il mio sguardo si fermò sulle gondole che galleggiavano nell’acqua della piscina-canale.

Tirai Edward con me, arrivando ad appoggiarmi alla ringhiera di ferro. Mi sporsi a guardare le barche, entusiasta. «Andiamo a fare un giro in gondola?», chiesi ad Edward, aggrappandomi al suo braccio.

Lui sorrise, chinandosi per baciarmi. «Quello che vuoi», sussurrò contro le mie labbra, «signora Cullen».

«Oh», sussurrai, mordendomi il labbro inferiore, rimanendo a guardare le gondole.

Edward alzò il capo, ancora seduto. «Oh, cosa?»

«Credo che ci siamo davvero sposati», sussurrai, incontrando il suo sguardo.

Lui aggrottò le sopracciglia. «Ti ricordi di ieri notte?»

Scossi il capo. «Però mi è venuto in mente il momento in cui abbiamo lasciato questa cappella». Distolsi lo sguardo, sentendo le guance arrossarsi. «Mi hai chiamata ‘signora Cullen’… immagino ci sia solo una spiegazione a questo».

Edward non mi sembrò convinto. «Non ricordi altro?»

Scossi nuovamente la testa. «Credo che poi siamo andati a fare un giro in gondola, ma non ne sono sicura…»

«Di quello ne sono abbastanza certo», intervenne lui, alzandosi in piedi. «Prima mi è venuto in mente un uomo che si è messo a cantare qualcosa in italiano mentre eravamo su una gondola, dubito sia stato un sogno».

Lo guardai con un sopracciglio inarcato, senza commentare.

Davanti al mio sguardo si accigliò. «Che c’è?»

«Di tutta la serata tu ricordi solamente un tipo in gondola che canta in italiano?», gli chiesi, scettica.

Edward scrollò le spalle, annuendo.

«Wow», mormorai, «deve averti colpito molto per esserti rimasto in mente. Sicuro di non essertene innamorato?», gli chiesi, prendendolo in giro.

Lui alzò gli occhi al cielo, prendendo la mia mano e iniziando a incamminarsi verso il fondo del canale. «Oppure, più semplicemente, ne sono rimasto talmente traumatizzato che nemmeno la sbornia è riuscita a farmelo dimenticare».

Risi, divertita dalla sua espressione. «È stato così terribile?»

«Più che terribile», rispose. «Ti prego, se quello di adesso si mette a cantare fermiamolo, altrimenti rischio di buttarlo in acqua».

«Stiamo andando a fare un giro in gondola?», gli chiesi, sorpresa. «Perché?»

«Perché magari ci torna in mente qualcosa in più su ieri sera. O almeno possiamo goderci appieno il viaggio questa volta», disse, fermandosi davanti al punto di attracco delle gondole in fondo al canale.

Un uomo sulla quarantina si avvicinò a noi, vestito con una divisa a righe, un foulard rosso intorno al collo e alla vita e un capello di paglia in testa. Si presentò, chiedendoci se fossimo lì per un giro in gondola. Poi, una volta pagato, ci condusse su un piccolo molo, a cui erano attraccate tre gondole laccate di un nero luccicante.

Mi tese una mano per aiutarmi a salire a bordo e accettai la sua offerta con la sinistra, su cui svettava l’anello con il diamante, che attirò subito la sua attenzione.

«Ah, siete fidanzati, ora capisco», esclamò, lanciando occhiate di approvazione ad Edward.

«Veramente», intervenne lui, afferrando l’altra mia mano con la sinistra, mostrando l’anulare intorno a cui era legata la sua fede d’oro, «siamo sposati. Da ieri sera per la precisione».

Lo guardai perplessa e confusa, ma il suo sguardo restò puntato sul gondoliere, che alla notizia iniziò a farci mille complimenti e congratulazioni. Quando fummo tutti saliti e l’uomo spostò lo sguardo sul canale per fare manovra e allontanarci dal molo, Edward si voltò verso di me, sorridendo divertito.

«Da quando hai l’anello? Pensavo l’avessi lasciato in camera», mormorai, perplessa.

«L’ho portato per scoprire dove l’ho preso. Di certo non l’avevo in valigia fino a ieri», disse. «E poi non mi sembrava giusto lasciarti girare con l’anello da sola. Del resto è colpa mia se te lo ritrovi al dito».

Aprii la bocca per dire qualcosa ma mi interruppi, quando mi resi conto che sapevo benissimo come facevo a ritrovarmi con un anello al dito.

Scattai in piedi come una molla, mentre l’uomo dietro il banco spingeva il gruzzolo di soldi in direzione di Edward, sotto lo sguardo infuriato degli altri uomini seduti al tavolo. Tutti loro si alzarono, abbandonando il gioco, rimasti senza fishes o semplicemente stanchi di vederle finire nelle tasche di un altro. Edward accettò la busta dal banco per ritirare il suo guadagno, e si alzò dal tavolo con il sacchetto pieno. Lo guardai con un sorriso entusiasta e incredulo, e afferrai la mano che mi tese, lasciando che mi trascinasse verso i divanetti della zona bar, dove ci sedemmo, io ancora incapace di parlare. Ordinò al cameriere due drink, poi si alzò in piedi, chiedendomi di aspettarlo mentre andava a cambiare le fishes al bancone del casinò. Quando tornò il sacchetto era sparito, ma in mano gli era rimasta una scatoletta di raso scuro. La guardai senza capire. «Che cos’è?», gli chiesi, avvicinandomi.

Edward la rigirò fra le mani, poi la aprì, rivelando un anello con un enorme diamante in cima. «L’ha messa in palio un tizio seduto al tavolo. Non ricordavo di averla vinta», disse, allungandola verso di me.

Presi l’anello dal suo scomparto, squadrandolo da ogni angolazione. «Doveva essere un tizio molto ricco», mormorai, biasciando la parola ‘molto’ e allungandola sulle vocali.

Edward scrollò le spalle.

«Posso provarlo?», gli chiesi, mordendomi il labbro.

Lui aggrottò le sopracciglia, e annuì.

Provai a infilare l’anello nelle dita della mano sinistra, riuscendo a incastrarlo senza troppe forzature solo all’anulare, dove si fermò perfettamente poco sotto la nocca. Allontanai la mano, per guardare l’effetto che faceva proprio su quel dito.

«Non è così male», dissi, e prima che potessi aggiungere altro il cameriere arrivò con le nostre ordinazioni, e vedendomi ammirare l’anello, con la scatoletta nelle mani di Edward, interpretò la situazione nel modo più comune possibile.

«Oh mio Dio! Le ha fatto la proposta? Congratulazioni!», esclamò, a voce talmente alta che anche gli altri seduti ai tavoli accanto lo sentirono. Partì un coro di fischi e applausi, e non ebbi il coraggio di dire niente, sorrisi solo imbarazzata, mentre Edward si guardava intorno spaesato, come se fosse appena cascato dalle nuvole. Il bar ci offrì perfino da bere e aprì una bottiglia di champagne per festeggiare la lieta notizia, tutto a carico della casa, e in breve tempo mi ritrovai a non capire più cosa stesse succedendo.

Mi sedetti più vicina ad Edward, e lui passò un braccio intorno alle mie spalle.

«Ci siamo cacciati in un bel pasticcio», sussurrò al mio orecchio, divertito. «Se dovessero scoprire la verità ci caccerebbero dall’hotel a calci».

Risi nervosamente, stringendomi a lui. «Non hanno motivo di sospettare che sia un malinteso».

Edward sorrise, baciandomi e generando altri fischi dai più vicini. Chiese il conto al cameriere, che gli assicurò nuovamente che tutto quanto avevamo bevuto era felicemente offerto dal bar, e che si congratulava nuovamente con noi. Mentre uscivamo dal bar un uomo vestito da Elvis Presley che prima non avevo notato ci fermò, invitandoci ad andare a “coronare il nostro sogno d’amore alla bellissima cappella degli innamorati di Venezia”, che si affacciava sul canale. Ci tese pure i volantini, che afferrammo ridendo, soffermandoci a guardarli solo per pochi secondi. Prima di buttarlo però lo guardai con più attenzione, voltandolo dalla parte della cartina per raggiungere la cappella.

«Andiamo a dargli un’occhiata?», proposi ad Edward, curiosa di vedere quel luogo “da sogno”, come l’aveva definito il finto Elvis.

Edward rise, annuendo. Raggiungemmo la cappella lungo il canale, trovando le porte spalancate e la breve navata con il tappeto rosso - cosparso di finti petali di rose rosse -steso fino ad un traliccio ricoperto da piante di rose bianche rampicanti di plastica. Cinque file di sedie erano disposte ai lati del tappeto, ma nella saletta non c’era nessuno.

La guardai con sguardo sognante, poi mi voltai verso Edward. «Edward», lo chiamai, con le guance rosse e gli occhi lucidi, «vuoi sposarmi?»

Richiusi la bocca, con gli occhi sgranati. Abbassai lo sguardo alle mie mani incrociate sul grembo, ignorando il panorama dei viali di negozi che scorrevano accanto al canale.

Edward strinse il braccio intorno alle mie spalle, avvicinandosi. «Che c’è?»

Non riuscivo a incontrare il suo sguardo, imbarazzata, mentre un’altra sensazione ben peggiore prendeva presto piede dentro di me. Era il senso di colpa, unito ad un’ingiustificata delusione alla scoperta di essere stata io a chiedere ad Edward di sposarmi e non il contrario, come di convenzione e come avrei sperato che fosse se mai quel momento fosse arrivato.

Edward posò due dita sotto il mio mento, costringendomi ad alzare lo sguardo. «Cos’hai ricordato?», mi chiese, capendo che il mio improvviso cambio d’umore era dovuto a qualcosa successo la sera precedente.

Mi morsi con forza il labbro, non potendo più evitare il suo sguardo. «Sono stata io a chiederti di sposarmi», mormorai, sentendo le guance diventare incandescenti.

Le sue sopracciglia si inarcarono verso l’alto, e sul suo viso lessi sorpresa. «Sei sicura?»

Annuii, e lui si accigliò.

«Mi dispiace. È successo tutto per colpa mia», sussurrai, sentendo gli occhi inumidirsi. Temevo che la sua reazione a quella scoperta sarebbe stata terribile, che si sarebbe arrabbiato e la nostra relazione si sarebbe incrinata inevitabilmente, ma lui sembrò rimanere calmo come sempre.

«Io ho accettato, però. Se ci troviamo in questa situazione la colpa è di entrambi», disse semplicemente.

Socchiusi gli occhi per abituarmi alla luce del sole, mentre la gondola usciva all’aperto e ci ritrovavamo davanti all’ingresso dell’hotel, con gli occhi dei passati per la Las Vegas Boulevard puntati su di noi e le altre gondole.

«Cosa facciamo adesso?», gli chiesi, sospirando.

Edward rimase in silenzio per un lungo istante. «Godiamoci questa giornata», disse infine, rilassandosi contro il sedile della gondola. «Questa sera andremo a ritirare il certificato di matrimonio alla cappella, e poi decideremo il da farsi».

Non capivo come potesse essere così tranquillo con tutto quello che stava succedendo, ma non dissi niente, abbandonandomi contro di lui, nonostante gli anelli che brillavano al sole intorno ai nostri anulari non fecero altro che tormentarmi per il resto della giornata.

 

Quel pomeriggio passato a Las Vegas fu surreale. Le ore sembravano passare al tempo stesso lente e veloci, e i brevi sonnellini a cui mi lasciavo andare sul lettino non facevano altro che aumentare il senso di confusione che provavo.

L’hotel disponeva di due enormi piscine in comune con un altro albergo, intorno alle quali erano posizionati diversi lettini e alcuni bungalow in mezzo al giardino, dove si ritirava solo una piccola parte degli ospiti degli alberghi.

Dato che sia io che Edward risentivamo ancora dei postumi della sbornia della sera precedente e avevamo già passato il giorno precedente a girare per i resort, decidemmo di passare il pomeriggio in piscina, in attesa di andare alla cappella per le nove di sera, non appena fosse stata aperta.

Il sole era alto e cocente, quindi decidemmo di ritirarci in uno dei bungalow del giardino, a qualche metro dalla piscina. Era un piccolo traliccio di legno intorno a cui erano tirate delle tende bianche di tessuti leggerissimi, che concedevano una semitrasparenza dell’esterno. All’interno era posizionato un unico lettino delle dimensioni di un letto matrimoniale, con al posto della tela un materassino sottile ma morbido.

Lasciammo i vestiti appesi ai tralicci e andammo a tuffarci nell’acqua piacevolmente fresca della piscina, in cui erano immerse poche persone. La maggior parte era sdraiata sui lettini a prendere il sole, oppure era seduta al bancone del bar.

Era piacevole restare a galleggiare nell’acqua senza doversi curare delle altre persone, anche se nessuna piscina sarebbe mai stata paragonabile alle oasi di pace del parco nazionale e della riserva indiana dove eravamo stati solo pochi giorni prima.

Edward spuntò fuori dall’acqua con la testa accanto alla mia, e mi aggrappai a lui.

«Mi sono appena ricordato di quando abbiamo preso l’anello e il velo per il matrimonio», disse, passando un braccio dietro la mia schiena e tenendosi con l’altro al bordo della piscina.

«Sì? Dov’è stato?», gli chiesi, curiosa.

«Dentro la cappella c’è anche un banchetto che vende queste cose per i matrimoni organizzati all’ultimo momento. Li abbiamo presi pochi minuti prima della cerimonia, credo», spiegò brevemente.

Allacciai un braccio intorno al suo collo, appoggiandomi al suo fianco. «Siamo pazzi, lo sai, vero?»

Lui rise leggermente. «Quello più pazzo sono io che non ho pensato neanche per un momento a quello che mi farà Charlie quando verrà a sapere cosa abbiamo combinato alle sue spalle».

Sorrisi, divertita ma al tempo stesso preoccupata. «Fossi in te chiederei protezione alla polizia e cercherei subito un giubbotto antiproiettile. Potrebbe arrivare a Chicago con la pistola di servizio per farci fuori entrambi».

«Tu saresti al sicuro, perché penserebbe che ti ho fatta ubriacare per poi convincerti a sposarmi», scherzò.

«Immaginati la sua faccia quando scoprirà che sono stata io a fare la proposta», risi.

«Non ci crederà mai, lo sai anche tu. Oppure la userà come prova per dimostrare che ti ho fatta ubriacare», mormorò, avvicinando il viso al mio.

Andai incontro alla sua bocca, mordendo il suo labbro inferiore con delicatezza. «Potremmo sempre non dirglielo», mormorai, ad occhi chiusi.

Sentii Edward respirare profondamente, mentre le sue mani si stringevano intorno alla mia vita. «Lo scoprirà comunque. Charlie scopre sempre tutto, lo sai».

«Chiederò a mia madre di tenerlo a bada, allora», dissi, sorridendo.

Edward ricambiò il sorriso, poi si allontanò. «Usciamo?», mi chiese, trascinandoci dopo la mia risposta affermativa verso la scaletta della piscina.

Tornammo al nostro bungalow, e dopo esserci asciugati ci stendemmo sul lettino per riposare. Appoggiai il capo sul petto di Edward, chiudendo gli occhi, e dopo pochi minuti mi addormentai, lasciando finalmente che le preoccupazioni svanissero per qualche ora.

 

Il momento della verità arrivò prima che me ne rendessi conto. Sembravano passate solo un paio d’ore da quando io ed Edward ci eravamo stesi sul lettino della piscina, eppure in quel momento ci trovavamo davanti alle porte spalancate della cappella, le cui luci erano accese e l’interno sembrava deserto.

Edward aumentò la presa intorno alla mia mano. «Andiamo?», mi chiese.

Annuii, ed entrammo nella cappella. Sulla sinistra sentimmo delle voci e ci voltammo, trovandoci davanti un uomo con indosso soltanto un paio di mutande bianche che sembravano un pannolone per quanto erano spesse ed una chitarra alla spalla. Sugli occhi portava un paio di occhiali da sole neri e aveva la barba castana che gli scendeva disordinata verso il collo. Dietro di lui, seduto ad un banchetto con esposti anelli, tiare, bouquet di fiori finti e altro, c’era un uomo vestito da Elvis Presley.

Prima ancora che l’uomo con la chitarra parlasse lo riconobbi, grazie ad un altro ricordo della notte precedente.

«Allora, siete pronti?», urlò una voce dall’ingresso della cappella, seguita dal suono di una chitarra acustica. Edward ed io ci voltammo insieme, vedendo un uomo in mutande, chitarra, occhiali da sole, calzini neri con infradito e nient’altro addosso venire nella nostra direzione.

Lo guardai perplessa. «E lei chi sarebbe?», gli chiesi.

Il tizio mi lanciò un’occhiataccia attraverso gli occhiali. «Io, dolcezza, sono l’officiante. Se non ti sto bene al piano di sopra c’è un’altra cappella», disse con nonchalance, salendo i due gradini per arrivare sotto il traliccio, davanti a me ed Edward.

Guardai Edward, che rise divertito.

Nell’angolo l’uomo vestito da Elvis iniziò a cantare, mentre l’officiante suonava la chitarra. Quando finì, l’officiante davanti a noi iniziò a recitare cantando e quasi urlando la formula del matrimonio, accompagnato dal suono della sua chitarra e dal finto Elvis, che come un’eco ripeteva le sue parole. La formula fu decisamente più breve di quella tradizionale.

«Cari amici e amiche», disse con una strimpellata, sebbene ci fossimo solo noi quattro presenti in quella cappella. «Siamo qui stanotte riuniti per unire in matrimonio…»

Si interruppe, e mentre ero intenta a guardare Edward non mi accorsi che l’officiante stesse guardando me, in attesa che dicessi il mio nome.

«Isabella Marie Swan», dissi, impacciata, arrossendo.

Attraverso gli occhiali da sole mi sembrò che alzasse gli occhi al cielo, poi si voltò verso Edward. «E…»

«Edward Anthony Cullen», concluse lui.

«… Nel sacro vincolo del matrimonio. Con questo atto, entrambi i presenti si impegnano a…»

Smisi di ascoltare e distolsi lo sguardo da Edward per soffermarlo sulla figura dell’officiante, che continuava a parlare e suonare a pochi passi da me. Quando cercai nuovamente lo sguardo di Edward vidi che anche lui stava osservando l’uomo. I nostri occhi si incrociarono, e sorridemmo al tempo stesso.

«Vuoi tu Isabella Marie Swan prendere quest’uomo come tuo legittimo sposo?», chiese l’officiante, riportandomi al presente. Guardai Edward, e sorrisi.

«Oh, Dio», sussurrai, inchiodandomi sul posto.

Edward si voltò a guardarmi, incuriosito, ma l’officiante si alzò in piedi e venne verso di noi a braccia spalancate. «Salve! Siete qui per sposarvi?», chiese.

Edward aggrottò le sopracciglia, non sapendo bene cosa dire. «Veramente… credo che noi siamo già sposati. Siamo venuti qui ieri notte».

L’uomo assunse un’aria pensierosa, poi alzò leggermente gli occhiali da sole per guardarci. Li lasciò ricadere. «Ah, sì, siete voi. Siete qui per terminare l’opera?»

«Vorremmo una copia del certificato di matrimonio, ieri non credo ce l’abbiate data», rispose Edward.

«Certo che non ve l’abbiamo data siete scappati come due indemoniati senza che darci una spiegazione», ribatté l’uomo, lanciando un’occhiata che non riuscii a interpretare ad Elvis.

Edward si accigliò. «Sì, beh… ci siamo fatti prendere dall’euforia, mi dispiace. Non è che potreste darcela adesso?»

L’uomo sbuffò. «Ma mi ascolti, tesoro? Ti ho detto che non ve l’abbiamo data perché ve ne siete andati. A meno che vogliate terminare la cerimonia adesso non sono autorizzato a darvi proprio un bel niente di certificato».

«Aspetti», lo interruppe Edward, sbattendo le palpebre più volte. «Non abbiamo terminato la cerimonia ieri sera?»

L’officiante guardò il tizio vestito da Elvis. «Potresti andare a prendere la lavagnetta per fargli un disegno? Credo non l’abbia ancora capito». L’altro rise.

Mi aggrappai al braccio di Edward, prima che potesse rispondere all’uomo. «È la verità, Edward! Me ne sono appena ricordata!»

Lui mi guardò, gli occhi confusi e sorpresi. «Non siamo sposati, quindi?»

Scossi il capo, e prima che me ne rendessi conto le sue labbra furono sulle mie, e le sue mani sulle mie guance, a tenermi vicina. Sentii l’officiante borbottare qualcosa, ma non me ne curai.

Quando Edward si staccò posò la fronte contro la mia, e rilasciò un sospiro di sollievo. «Grazie al cielo», sussurrò.

Coprii le sue mani con le mie, sorridendo. «Siamo scappati al momento del sì, dopo esserci infilati gli anelli. Avevamo capito che non era il momento di sposarsi».

«E per fortuna, aggiungerei», intervenne l’officiante, seccato. «Altrimenti a quest’ora avremmo un altro divorzio da affrontare a quanto pare».

Edward si voltò verso di lui, intrecciando la mano alla mia. «Scusate per il disturbo, e grazie», disse, con un sorriso enorme stampato sul viso.

Uscimmo dalla cappella senza guardarci indietro, con gli anelli ancora alle dita ma la testa finalmente libera di pensieri preoccupanti.

 

«Sei sicuro che questo metodo funzioni?», gli chiesi, perplessa, mentre lo osservavo annodare un filo da cucito stretto intorno al dito, attaccato all’anello.

Avevamo provato a sfilarlo nuovamente, ma senza successo. Quindi decidemmo di ricorrere alla nostra ultima possibilità: il trucco che Edward aveva imparato al pronto soccorso anni addietro. A quanto pareva il problema degli anelli che si incastrano assillava molte donne, e questo mi faceva sentire meno imbarazzata.

Eravamo corsi a comprare un filo da cucito in uno degli shop del resort, poi eravamo andati in camera, e in quel momento ci trovavamo seduti sul letto, con Edward che cercava di salvare il mio dito e l’anello dal taglio con le tenaglie.

«Se la smetti di agitarti vedrai che funzionerà», ribatté lui, continuando il suo lavoro con una calma impressionante.

Diversi minuti dopo, finalmente, l’anello si sfilò dal mio dito, tirato da un pezzo di filo incastrato sotto di esso e facilitato dal mio dito stretto come un salsicciotto. Edward lo appoggiò sul comodino, accanto al suo. Ora che sapevo che nessuno di quei due anelli indicava il legame del matrimonio, essi acquisivano un significato tutto diverso e particolare. Erano il ricordo di una giornata che non avrei probabilmente mai dimenticato.

Guardai la mia mano nuda da ogni gioiello, osservando con curiosità l’effetto che faceva ritrovarla come era sempre stata. Era bastato solo un giorno per cambiare completamente la mia prospettiva?

Edward intrecciò le sue dita con le mie, pensieroso. «Va meglio?», mi chiese, con lo sguardo perso ad osservare le nostre mani.

«Non lo so», ammisi sottovoce. «È strano scoprire di non essere sposati. Credo che… mi stessi quasi abituando all’idea».

Edward inarcò un sopracciglio, sorpreso. «Davvero?»

Annuii leggermente. «Tu no?»

Lui aggrottò la fronte. «Io credo di essermi abituato fin da subito, anche se alla fine avevo capito quanto sarebbe stato sbagliato tutto questo. Ma non mi aspettavo che anche tu l’avresti fatto».

Distolsi lo sguardo, sentendo il sangue affluire alle guance. «All’inizio ero terrorizzata», ammisi. «Ma poi ho iniziato ad abituarmi all’idea. In fondo non credo sia stato un male vivere quest’esperienza, mi ha aiutato a cambiare idea su alcune cose».

Edward cercò il mio sguardo. «Fra queste cose rientra anche la tua opinione sul matrimonio?»

Mi morsi il labbro, trattenendo un sorriso. «Può darsi», risposi solo, prima di sporgermi in avanti per baciarlo, mettendo a tacere le altre sue domande.

Le sue mani mi strinsero la vita, trattenendomi a lui mentre si lasciava andare all’indietro sul letto, sul copriletto color panna.

Con le dita raggiunsi i bottoni della sua camicia, iniziando a sbottonarla lentamente, accarezzando di volta in volta la pelle che scoprivo, fino a farla cadere sul pavimento. Con un colpo di reni ribaltò le nostre posizioni, e le sue mani scivolarono sotto la mia maglietta, sollevandola fin sopra all’ombelico.

«Anche se non siamo marito e moglie nulla ci vieta di intrattenerci in altri modi, giusto?», mormorò Edward, contro la mia bocca.

Sorrisi, e lasciai che le sue mani vagassero sotto i miei vestiti, sfilandoli e lanciandoli a terra, mentre i nostri anelli rimanevano sul comodino, illuminati solo dalle luci della città che brillavano dalla finestra.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno! :D

Spero che questo capitolo abbia fugato ogni dubbi sulla questione dell'anello. All'inizio avevo pensato di tagliare il capitolo e lasciarvi con il dubbio ancora una settimana, ma alla fine ho cambiato idea XD Ovviamente le parti in corsivo sono i ricordi della notte precedente.

Un piccolissimo avviso: settimana prossima l'aggiornamento potrebbe slittare a martedì/mercoledì causa esame universitario, spero comunque di riuscire ad organizzarmi bene per riuscire a finire il capitolo per tempo.

Poi una precisazione: ho letto che molti di voi hanno ancora dubbi su Lizzy, soprattutto per una "telefonata" a cui Bella aveva risposto nel capitolo 12, dove una donna parlava ad Edward dicendogli di aspettarlo ancora: era tutto un sogno/incubo di Bella, in realtà quella telefonata non c'è mai stata e non c'è nessuna donna che aspetta Edward a Chicago. Speravo si fosse capito da come era evoluto il capitolo ma precisare è meglio.

Tornando al capitolo: non ci sarà l'aggiornamento del Diario di viaggio, in quanto non ho trovato le foto della cappella in questione e degli strani tipi che celebravano il matrimonio, ma sono sicura che grazie a film/telefilm e quant'altro potete immaginare benissimo la scena ;)

Bon, credo di avere detto tutto :D non mi resta che ringraziarvi infinitamente per le bellissime recensioni allo scorso capitolo (non mi aspettavo di trovarne così tante, GRAZIE *___*) e anche i lettori silenziosi. :********

Alla prossima! :D

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Capitolo 17
*** What should I do? ***


Route 66

You make me feel like I'm living a teenage dream
The way you turn me on, I can't sleep
Let's runaway and don't ever look back
Don't ever look back

My heart stops when you look at me
Just one touch, now baby I believe
This is real, so take a chance
And don't ever look back, don't ever look back

Katy Perry - Teenage Dream

17. What should I do?

Fino a pochi giorni prima non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata nuovamente in quella situazione con Edward. Credevo che sì, stavamo facendo progressi come amici, ma fino a quando non l’avevo baciato alle cascate Havasupai non avevo realizzato quanto detestassi quel termine per definire la nostra relazione. Noi non eravamo mai stati amici, come avremmo fatto ad iniziare ad esserlo proprio allora, con tutto il bagaglio di esperienze di coppia che ci portavamo sulle spalle? Conoscevamo un solo modo per stare insieme, e avevamo pienamente dimostrato di non essere in grado di concepirne altri. L’unica soluzione sarebbe stata dividerci come era successo l’anno prima, ma entrambi avevamo provato sulla nostra pelle ciò che esso comportava. Meritavamo un’altra occasione per far funzionare le cose, sia io che Edward; eravamo cambiati, e forse questa volta saremmo riusciti a non rovinare tutto - o almeno speravo che le cose sarebbero andate per il meglio anche una volta tornati a Chicago, dove il lavoro, la famiglia e gli amici ci aspettavano.

Sebbene fossi contenta di come le cose stessero lentamente tornando alla normalità fra di noi, non mi ero per niente aspettata la piega che assunsero la sera precedente, una volta tornati in camera. Sul momento non avevo avuto modo di riflettere razionalmente su ciò che stava accadendo, non con le mani di Edward che si muovevano così abilmente sotto i miei vestiti, sfilandoli e accarezzando sempre più pelle; ma quando aprii gli occhi il mattino seguente, trovandomi coperta solo dal lenzuolo e dalle braccia di Edward, con lui ancora profondamente addormentato alle mie spalle e i ricordi della notte ancora ben impressi nella mia mente, potei riflettere più chiaramente su ciò che avevamo appena fatto e ciò che poteva comportare.

Non avevo rimpianti della notte precedente, ma al tempo stesso non ero nemmeno certa che lasciarsi trasportare dopo appena tre giorni che ci eravamo ritrovati fosse stata la scelta più saggia per la nostra relazione.

Mi girai nell’abbraccio di Edward, muovendomi piano per non svegliarlo, fino a ritrovarmi con il viso a una spanna dal suo e il suo respiro che mi accarezzava gentilmente. Il volto era rilassato, ancora completamente immerso nel sonno, le rughe di apprensione e concentrazione che gli piegavano la fronte durante la veglia erano scomparse, e sembrava più di giovane di quasi dieci anni. Un’ombra di barba chiara gli copriva le guance e il mento, mentre i capelli erano spettinati e ricadevano in ciocche sulla fronte. Passai una mano sul suo viso, sfiorando con i polpastrelli le ombre leggermente scure sotto i suoi occhi e la morbidezza delle sue labbra, che si schiusero appena, lasciando passare un lieve sospiro.

Un sorriso spuntò sul mio viso, mentre i dubbi che mi avevano assillata appena sveglia svanivano solo guardando l’espressione rilassata di Edward, che iniziava a risvegliarsi.

Le palpebre si sollevarono, e i suoi occhi verdi, ancora offuscati dal sonno, incontrarono i miei.

«Ehy», sussurrai, sorridendo.

Piegò la testa in avanti, poggiando la fronte contro la mia. «Ehy», ripeté, con un sorriso rilassato. Le sue labbra sfiorarono le mie, senza fretta.

Sentii le sue mani scivolare su e giù per la mia schiena, pigre e delicate. Con le dita accarezzai il suo collo, scendendo fino alle spalle ampie e muscolose; il suo corpo era familiare ma al tempo stesso diverso, grazie alla box che aveva reso i muscoli delle braccia e del busto più sodi e tonici.

Con un braccio mi attirò a sé, facendomi aderire contro di lui. Sentii il suo bacino premere contro il mio, e la sua erezione crescere contro la coscia. Gemetti contro la sua bocca, e con una leggera spinta da parte sua mi rotolai sulla schiena, stringendo le braccia intorno al suo torace e intrecciando le gambe alle sue.

Vidi il suo sorriso malizioso prima che scendesse a baciarmi il collo, e risi leggermente. «Non dovremmo ripartire?», gli chiesi, non ricordando a che ora bisognava lasciare la stanza, ed essendo preoccupata che qualche cameriera potesse venire a bussare alla camera da un momento all’altro, essendo già le dieci di mattina. Quel giorno avremmo ripreso il viaggio lungo la Route 66, lasciandoci Las Vegas e le sue stranezze alle spalle.

«Abbiamo tempo fino all’una per liberare la stanza», mormorò Edward contro il mio collo, sorridendo. Alzò il capo, scacciando dal mio viso una ciocca di capelli. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo».

Ripresi a baciarlo, fidandomi delle sue parole. Dopo pochi secondi, però, fu lui ad allontanarsi leggermente, con la fronte aggrotta. «Però dovremo attraversare il deserto per arrivare in California», ragionò, facendomi sprofondare nuovamente con testa nel cuscino. «Forse è meglio se partiamo prima di pranzo».

«Okay», dissi, confusa da quell’improvviso cambio di programma. «Quindi ci prepariamo?»

La sua mano scivolò lungo il mio braccio, lentamente, su e giù, accarezzando la pelle con i polpastrelli. «Mmm», mugugnò, scostando con l’altra mano altre ciocche di capelli dal mio viso e facendole ricadere sul cuscino con le altre. «Nella tua preparazione è compresa anche la doccia?»

Mi morsi il labbro per trattenere il sorriso divertito che apparve sul mio viso quando colsi l’occhiata maliziosa di Edward. «È possibile», risposi semplicemente, stringendo le braccia intorno al suo collo.

«Allora immagino che dovremo trovare una soluzione per riuscire a farla tutti e due prima di partire», continuò, con quel sorriso tentatore che ben ricordavo stampato in viso, «perché non credo che avremo tutto quel tempo».

«Potresti farmi compagnia sotto la doccia. Credi che riusciremmo a stare nei tempi così?», sussurrai con tono fintamente innocente.

Il suo sorriso sghembo mi fece rabbrividire. «Tentar non nuoce», mormorò maliziosamente, prima di stringere le braccia intorno alla mia vita e portarmi in braccio in bagno.

 

Se da una parte lasciare Las Vegas fu un sollievo - non ne potevo più del caldo asfissiante del deserto del Nevada, ed ero sicura che un altro giorno passato per i casinò sarebbe risultato abbastanza noioso - dall’altra provai un vago senso di dispiacere, per tutti i ricordi che quella città avrebbe sempre racchiuso nel suo nome. In quel luogo io ed Edward ci eravamo quasi sposati ed avevamo portato la nostra relazione a un altro livello, avvicinandoci ancora di più. Ma soprattutto lì Edward si era aperto con me, confidandomi i fatti del periodo dopo che ci eravamo lasciati, parlandomi di Lizzy.

Rimettere piede a bordo del furgoncino di Jacob fu come fare un salto nel passato. Non sembravano passati solo tre giorni da quando eravamo giunti a Las Vegas, ma quasi una settimana.

Il viaggio di ritorno a Kingman, dove avevamo abbandonato la Route 66, durò due ore, e raggiungemmo la città mentre il sole picchiava nel cielo di mezzogiorno. Ci fermammo per pranzare al locale dove ci eravamo fermati all’andata, poi ci rimettemmo in marcia attraverso le città fantasma del confine dell’Arizona, fino ad arrivare al ponte che attraversava il fiume Colorado, trasportandoci dritti in California.

Edward ed io non parlammo molto, per lo meno non a voce. Ci scambiavamo continue occhiate che dicevano molto di più di tutte le parole non dette, e quasi tutte urlavano una cosa sola: sesso. Il caldo non aiutava a calmare i bollenti spiriti che sembravano essersi impossessati di noi, e dovetti ringraziare ancora mentalmente Jacob e l’aria condizionata del furgoncino, che in quel momento sembravano l’unica cosa dal trattenermi dallo scivolare sul sedile accanto ad Edward per fargli fermare immediatamente la macchina al bordo strada. Soprattutto, non era facile mantenere il sangue freddo mentre i suoi pantaloni facevano poco e niente per nascondere l’erezione che nel giro di poco tempo era tornata a fare capolino nel suo bassoventre. Mentre imprecava ridacchiai leggermente, pensando che era come se fossimo tornati all’improvviso degli adolescenti in preda agli ormoni, con un unico tarlo in mente.

Arrivammo a Gaggett alle quattro del pomeriggio, con il sole che picchiava forte dal cielo azzurrissimo e il deserto che ancora ci circondava. In quella zona le uniche forme di vita che si incontravano erano i saguari che spiccavano come uomini dalla terra arida, e - se si era fortunati - qualche benzinaio ogni centinaio di miglia. Se non avessimo fatto il pieno di benzina prima di lasciare Kingman mi sarei fatta prendere dal panico per la sporadicità dei distributori che c’erano lungo la strada. Svoltammo a destra, prendendo una breve deviazione per raggiungere la città di Calico, a soli cinque minuti di distanza, dove finalmente avremmo fatto una sosta turistica.

Calico era una delle più famose Ghost Town della California: era una piccola cittadina risalente alla seconda metà dell’Ottocento, messa in piedi da un ristretto gruppo di persone dopo la scoperta di una miniera di argento sotto le colline sabbiose. Le strutture dell’unica via principale che attraversava la città erano in legno, con patii e vecchi bastoni conficcati nel terreno dove legare i cavalli. C’erano un saloon, una scuola, l’ufficio dello sceriffo con annessa prigione e caserma dei pompieri. I turisti erano tanti, e girando per le strade incontrammo diverse persone - attori - vestiti in costumi d’epoca, fino a ritrovarci nel bel mezzo di una finta sparatoria fra uno sceriffo e un ladro al centro della strada. Prima che chiudesse, andammo a fare un giro della miniera, seguito da quello a bordo di un piccolo trenino aperto che passava sulle colline dietro la città, mostrando il panorama desolato che circondava Calico. L’aria fresca che soffiava fu un toccasana dopo tutta l’afa californiana, e lasciai andare la testa sulla spalla di Edward, tenendo gli occhi socchiusi. Il suo braccio mi circondò le spalle, tenendomi stretta a lui.

«Penso che domani arriveremo a Santa Monica», lo sentii sussurrare, mentre con le dita giocava con i miei capelli.

Mi irrigidii leggermente, riflettendo su ciò che le sue parole volevano dire: il nostro viaggio stava per giungere al termine. Non ero sicura che fosse quello che volevo veramente. Se da una parte non vedevo l’ora di tornare a casa per riabbracciare Rosalie ed Alice - che sebbene cercassi di non pensarci mi mancavano da morire - dall’altra avevo paura che ritornare a casa significasse anche tornare alla mia vita di appena due settimane fa. Io avrei dovuto tornare alla ricerca di un lavoro che mi consentisse di pagare ancora l’affitto, parlare con Jessica e discutere con lei di Mike, ed Edward avrebbe dovuto affrontare i fantasmi del suo passato all’ospedale e decidere cosa fare del suo lavoro. Quanto avrebbe inciso tutto il fardello di compiti che ci aspettavano sulla nostra relazione? Sapevo che sarebbe cambiato tutto, che non potevamo pretendere di essere una coppietta in luna di miele anche a Chicago; avremmo dovuto ritornare alle nostre vite lavorative oltre che sentimentali. Un conto era stare insieme tutto il giorno, con come unico problema come dividerci le spese, un altro era quello di lasciare a ognuno il proprio spazio per riniziare la vita di coppia adulta.

Edward colse la mia improvvisa tensione, perché la sua stretta intorno alle mie spalle aumentò. «Non è ancora finito il viaggio, Bella», mi rassicurò, con la bocca vicino al mio orecchio per sovrastare il rumore del treno che proseguiva il suo giro senza farsi sentire dal resto della gente nei sedili davanti e dietro di noi. «Dobbiamo ancora tornare indietro».

«Lo so», mormorai. «Ma prima o poi dovremo tornare a casa».

Lui sospirò e non disse niente. Cosa avrebbe potuto dire, d’altronde? Sapeva che quella era la verità, e addolcire la pillola non sarebbe servito a nulla, se non a rendere il ritorno ancora più traumatico quando sarebbe arrivato. E il fatto che non commentasse ulteriormente mi dava la conferma che anche lui sapeva bene che tornare a casa significava abbandonare l’idillio in cui stavamo vivendo, oppure non voleva iniziare un discorso simile in mezzo a tutta quella gente.

Finito il giro con il treno tornammo in centro città, entrando nell’unico pub per bere qualcosa prima di ripartire. Era un saloon dei vecchi tempi, evidentemente ristrutturato ma con ancora vecchie decorazioni e arredi da pub sistemati su patii di legno vecchio e cigolante, lontani dalla zona affollata solitamente dai clienti. C’erano boa di struzzo e cappotti di feltro che pendevano dai ganci vicino alle ante dell’ingresso, animali imbalsamati fissati sulle pareti, quasi completamente ricoperte da diversi tipi di cappelli da cowboy dall’aria vecchia e consumata. In un angolo c’erano chitarre, tamburi indiani e altri strumenti musicali tra cui un piano da muro. Il pavimento era costellato di bucce di arachidi, che i clienti gettavano a terra man mano che mangiavano, e mi ricordò un locale in stile far-west che c’era a Chicago. Quello del bancone era l’unica zona che spiccava per la sua modernità, con le macchine per le bibite alla spina e la collezione di bottiglie di alcolici disposte sulle mensole contro il muro. Le cameriere erano vestite con abitini pieni di fronzoli e calze a rete, un rossetto rosso acceso a colorarle le labbra e una forte passata di ombretto e mascara ad annerirle gli occhi. L’unico uomo nel saloon era vestito da sceriffo, e qualcosa, dal modo in cui si muoveva fra i tavoli colloquiando con i clienti, mi diceva che oltre ad essere un intrattenitore era anche il proprietario del locale.

Edward ed io ci accomodammo accanto ad un patio rialzato, su cui era disposto un tavolo di legno su cui c’erano dei soldi finti, un mazzo di carte da gioco e una bottiglia di Jack Daniel’s vuota. Pensai fosse un arredo scenico per mostrare quale dovesse essere lo spettacolo più comune da trovare in un saloon verso la fine dell’Ottocento ma quello che non mi aspettavo era di venire trascinata con Edward ad esso dallo sceriffo. Dapprima non avevamo capito cosa voleva da noi quell’uomo. Era arrivato al nostro tavolo con un’aria severa che mi fece venire il dubbio di aver fatto qualcosa di inappropriato per quel luogo e la mia paura aumentò ancora di più quando ci convinse ad alzarci per seguirlo. Ci portò al tavolo sul patio, e mi avvolse intorno al collo un boa di struzzo rosa fluo, mentre fece indossare ad Edward un cappotto di feltro con tanto di cappello da cowboy; poi gli diede in mano fucile - che dall’aspetto sia luccicante che arrugginito dubitavo fosse un semplice giocattolo. Ci fece accomodare sulle sedie e ci passò quattro carte da gioco a testa, aperte a ventaglio. Non capii cosa aveva in mente fino a quando non mi chiese di passargli la mia macchina fotografica, che avevo appesa al collo.

Edward rise più rilassato, mentre lo sceriffo si allontanava per scattare la foto. «Per un momento ho pensato che stesse per cacciarci fuori», mormorò, attento a non farsi sentire dall’uomo.

«Non dirlo a me», risi, sollevata. «Credevo di aver infranto qualche regola di buona educazione dei cowboy».

Scattammo una foto anche con lo sceriffo, poi ci aiutò a disfarci dei costumi. Quando tornammo al tavolo guardammo le foto, scoppiando a ridere davanti alle nostre facce confuse e divertite dalla situazione. Scattai una foto con il cellulare allo schermo della macchina fotografica che ritraeva me ed Edward vestiti da cowboy e lady del far west e la inviai ad Alice e Rosalie, con un piccolo commento per chiedere la loro opinione. Era raro che inviassi fotografie alle mie amiche, ma vista l’occasione particolare non vedevo l’ora di leggere le loro reazioni e commenti a quell’immagine particolare. Lasciai il cellulare sul tavolo, in attesa di un loro messaggio, e intanto andai in bagno, tornando dopo pochi minuti e trovando Edward con il mio cellulare in mano.

«Hanno risposto?», gli chiesi, correndo a sedermi accanto a lui.

Edward fece un piccolo sorriso, e mi passò il telefono. C’era un messaggio da parte di Alice, che commentava dicendo che il colore del boa di struzzo non si intonava per niente alla canotta che indossavo, e che anche con la risoluzione orribile della fotografia del cellulare riusciva a vedere benissimo che sia io che Edward avevamo le occhiaie dovute alle ore piccole della notte precedente. Sbuffai imbarazzata, mormorando un “sempre la solita” e richiudendo il cellulare, ripromettendomi di risponderle più tardi.

«Andiamo?», mi chiese Edward, che aveva già pagato il conto.

Annuii, alzandomi in piedi e seguendolo fuori dal saloon, nuovamente nel caldo torrido del deserto. I turisti iniziavano a diminuire, e la città si avvicinava all’orario di chiusura. Lasciammo alle nostre spalle Calico, riprendendo il viaggio a velocità sostenuta, il che mi ricordò i primi giorni dopo la nostra partenza da Chicago, quando Edward - senza che io lo sapessi chiaramente - stava cercando di mettere più spazio possibile fra lui e l’ospedale e tutti coloro che conosceva - a parte me.

«Edward», lo chiamai dopo qualche minuto, vedendo che non rallentava, «perché stiamo correndo?»

Vidi la lancetta del contatore scendere di qualche miglia, ma non abbastanza. «Pensavo di attraversare la zona desertica in fretta. Non c’è nulla da vedere qui, o sbaglio?», chiese, con un tono di voce incurante.

«No», risposi, confusa da quel ragionamento, «però…»

«Però, cosa?», mi spronò, vedendo che non continuavo. Sembrava nervoso, agitato, e non capivo perché.

«Quando avevi detto che pensavi di arrivare domani a Los Angeles non avevo capito che intendevi questa notte», commentai, cercando di usare un tono volutamente scherzoso. «Come mai hai tutta questa fretta?»

«Non ho nessuna fretta», ribatté, lanciandomi un’occhiata accigliata.

«Allora mi spieghi perché dopo aver fatto più di trecento miglia in mezzo al deserto con calma hai deciso all’improvviso di voler attraversare l’ultimo pezzo in fretta?», gli chiesi, iniziando a sentirmi irritata dal suo comportamento. Stava nascondendo qualcosa, potevo sentirlo.

Edward respirò profondamente, imponendosi di mantenere la calma. Non diminuì la velocità. «Te l’ho spiegato, Bella, e ti sei data la risposta da sola. Dopo più di trecento miglia mi sono stancato del deserto. Vorrei rivedere la civiltà prima di fermarmi per la notte».

«Come se la civiltà fosse un requisito indispensabile per te. Sei stato disposto a dormire in mezzo a un bosco una notte piuttosto che dormire in auto, dubito che sia questo il motivo per cui stai praticamente correndo in braccio a Los Angeles», rimbeccai, con un sopracciglio inarcato, sentendo che stavo per alterarmi.

Lui non rispose, ma diversi minuti dopo, all’improvviso, sterzò all’ultimo momento in una stradina sterrata che conduceva in una proprietà circondata da un recinto di legno e filo spinato, che riportava su un cartello logoro il nome di un motel, talmente scolorito che non riuscii nemmeno a leggerlo.

«E adesso cosa stai facendo?», gli chiesi, allarmata da ciò che poteva essergli saltato in mente.

«Ci fermiamo», rispose, asciutto.

«Cosa? Qui?», domandai, guardando l’edificio che si ergeva su un piano davanti a noi. Era abbastanza distante dalla Route 66, e nel parcheggio c’era solamente un pick-up vecchio e mal ridotto. Tutto sembrava ricoperto da un dito di polvere di terra, e dovevo dire che quello non era affatto un aspetto invitante. Fra l’altro non c’era nessuna città nel giro di poche miglia da lì: se non ricordavo male la più vicina era a più di trenta minuti di distanza; se ci saremmo fermati lì non ci saremmo mossi fino al mattino seguente, nemmeno per cenare.

«Eri preoccupata che stessi andando troppo di fretta, no? Adesso ci fermiamo, così sei sicura che non arriveremo a Los Angeles in nottata», sbottò, lasciando finalmente trapelare rabbia dal suo tono, non più calmo e pacato.

«Lo sai che non è questo il mio problema», dissi, sconcertata. Non capivo cosa avesse in testa, e perché all’improvviso fosse così arrabbiato con me. Avevo detto o fatto qualcosa che l’aveva offeso senza me ne rendessi conto?

Edward inchiodò nel parcheggio, davanti a quella che doveva essere la lobby del motel. «No, certo. Il tuo problema è che non sai quello che vuoi!», borbottò lui, spegnendo il motore.

Mi ammutolì, e sentii il cuore perdere un battito. «Cosa vorresti dire?»

Lui respirò profondamente, cercando di calmarsi. «Voglio dire che so perfettamente a cosa stai pensando. Vorresti restare ancora in vacanza, ma al tempo stesso preferiresti tornare a casa subito perché credi che una volta tornati a Chicago torneremo alla situazione di un anno fa. E preferiresti chiudere subito qui la vacanza piuttosto che avere altri ricordi a cui pensare una volta che sarà tutto finito».

Mi morsi il labbro con forza, abbassando lo sguardo, colpevole. Era quello che l’aveva offeso? «Sto cercando di non pensare a quello che succederà quando saremo tornati a casa, ma non è semplice», ammisi, questa volta con più calma. «Io voglio fidarmi, Edward. Voglio credere che non sarà tutto come l’anno scorso quando torneremo a casa, e so che non posso chiederti di promettermi niente, e non lo voglio nemmeno».

«Perché no? Se è questo che può farti sentire meglio perché non me ne hai parlato?», mi chiese stancamente.

«Se poi dovessi non mantenere le tue promesse non credo che ce la farò a perdonarti questa volta», sussurrai, rivelandogli finalmente la mia vera paura. «E non voglio che ci lasciamo adesso che ci siamo ritrovati. Sarebbe troppo per me».

Edward rimase in silenzio per diversi secondi, riflettendo sulle mie parole. Alla fine sentii la sua mano prendere la mia, e stringerla delicatamente. «Permettimi almeno di farti una promessa», disse, e prima che potessi replicare mi fermò, alzando una mano e parlando per primo: «Non voglio prometterti che sarà tutto perfetto quando torneremo a casa, perché sappiamo che saranno giorni difficili per entrambi; ma voglio prometterti che farò di tutto per renderti felice e non ripetere gli stessi errori dell’anno scorso. Però tu non cercare di allontanarti da me per paura».

Feci un piccolo sorriso, sentendo la rabbia svanire completamente così com’era arrivata. Annuii. «E tu dovresti smetterla di agire così d’impulso», gli dissi, sperando che non prendesse il mio consiglio come una lamentela. «Lo so che avrei dovuto parlarti dei miei dubbi, ma tu non avresti dovuto prendere la decisione di arrivare a Los Angeles di punto in bianco senza parlarmi».

Lui sospirò pesantemente, e lo vidi irrigidirsi. «In realtà non è stato questo l’unico motivo per cui volevo arrivare a Los Angeles in nottata», ammise.

Lo guardai confusa, aspettando che continuasse, senza trovare nessun altro motivo per cui avrebbe potuto decidere di accorciare il nostro viaggio così repentinamente.

«Mentre eri in bagno ti ha telefonato un uomo del Chicago Tribune. Ho risposto solo perché pensavo fossero Alice o Rosalie che ti chiamavano per rispondere al tuo messaggio, credimi», aggiunse, vedendo la mia occhiata strana. «Ti ha offerto un posto di lavoro presso la redazione del giornale».

«Sul serio? Il Chicago Tribune?», ripetei, lasciando perdere il fatto che Edward avesse risposto al mio cellulare senza il mio permesso. Non era la prima volta che succedeva, e dal suo sguardo sapevo che l’aveva fatto in buona fede, pensando fossero le nostre amiche.

Lui annuì. «Hanno ricevuto il tuo curriculum e sono interessati per un colloquio questo venerdì».

«Venerdì? Ma è fra tre giorni!», boccheggiai.

«Per questo volevo arrivare a Los Angeles in nottata. Domani avresti potuto prendere un aereo e tornare a casa in tempo per prepararti al colloquio», spiegò, con lo sguardo puntato oltre il parabrezza.

«E quando avevi pensato di dirmi che mi stavi praticamente spedendo a casa? Prima o dopo aver comprato il biglietto aereo?», borbottai, ripetendomi mentalmente di stare calma. Se avessimo iniziato a litigare non saremmo arrivati da nessuna parte.

«Te l’avrei detto in aeroporto, mi sembra ovvio», rispose, accigliato. «Avevo paura che dicendoti del colloquio subito avresti rinunciato a questa opportunità per restare qui, e so quanto hai bisogno di un lavoro».

«Avresti comunque dovuto dirmelo», sbottai, cercando di sfilare la mano dalla sua, ma lui aumentò la presa, tenendomi stretta.

«Lo so, e mi dispiace. Ma credevo davvero di fare la cosa migliore per te. Non è forse quello che hai pensato anche tu quando mi hai fatto arrivare a Las Vegas senza dirmi che c’era mio padre ad aspettarmi?»

Mi zittii, capendo che mi aveva messo in una condizione in cui non mi era possibile replicare. Riflettei sulle sue parole, e per quanto mi sentissi delusa sapevo che aveva ragione e l’aveva fatto nel mio interesse. Avevo mandato il mio curriculum a quasi tutte le testate giornalistiche di Chicago prima di partire, ma finora nessuno mi aveva ancora contattata; scoprire che il giornale più importante della città avesse preso in considerazione proprio me - sebbene dopo due settimane, ma del resto potevo solo immaginare quanti curriculum ricevessero ogni giorno - mi aveva lasciato a bocca aperta. Mi sentivo eccitata e al tempo stesso terrorizzata. Il primo pensiero che attraversò la mia mente fu: Non potevano chiamarmi tra un paio di giorni? Dovevano proprio farlo quando il viaggio volgeva ormai al termine?

Edward strinse leggermente la mia mano. «Che cosa pensi?»

«Non lo so. Non so proprio che cosa pensare», ammisi.

«Vuoi che ci fermiamo qui per la notte?», mi chiese allora, sperando che almeno a questa domanda avessi una risposta chiara. Fortunatamente era così.

Scossi il capo, guardando distrattamente il motel deserto davanti a noi. «Raggiungiamo una città. Anche solo il pensiero di restare in mezzo al deserto la notte mi mette l’ansia».

Edward fece un piccolo sorriso, lasciando la mia mano per rimettere in moto il furgoncino. Fece retromarcia e riprese la strada sterrata per ritornare sulla Route 66, ancora deserta.

Per la successiva mezz’ora non parlammo molto. La conversazione più lunga che avevamo poteva riassumersi in lui che mi chiedeva se un determinato motel che incontravamo per strada andava bene per fermarci, ed io che ogni volta rispondevo negativamente, preferendo proseguire. Quando arrivammo a Victorville, però, decisi di fermare il nostro viaggio. Il città c’era un museo dedicato alla Route 66, ed essendo chiuso - in quanto erano le sette di sera passate da un pezzo - preferii restare per poterlo visitare il mattino seguente, sperando che la notte mi portasse consiglio e schiarisse le mie idee. Eravamo distanti da Los Angeles di poco più di un’ora e mezza, e anche se il giorno dopo avessi deciso di prendere l’aereo avrei fatto in tempo ad arrivare all’aeroporto entro sera ed essere a Chicago per giovedì e avere tutto il tempo per prepararmi al colloquio. Edward aveva ragione, non avevo idea di quello che volevo; sapevo di voler restare ancora in viaggio con lui, di non volerlo abbandonare proprio ora che eravamo alla fine di quella avventura, ma al tempo stesso desideravo quel lavoro come non mai: era un’occasione più unica che rara, e se ci avessi rinunciato era quasi impossibile che si ripresentasse. Fra l’altro, nel giro di una settimana mi sarei ritrovata in ogni caso a Chicago, e quel colloquio avrebbe potuto incidere sulla mia situazione economica e lavorativa nel caso in cui fossi stata assunta. Però, c’era anche la possibilità che il colloquio si sarebbe rivelato un fiasco, e mi sarei ritrovata a Chicago con il rimpianto di aver mandato all’aria giorni preziosi da condividere con Edward per un fallimento su tutta la linea. E dall’altra parte, invece, c’era il possibile rimorso per non aver colto l’occasione di mettermi in gioco per il lavoro dei miei sogni. Non sarebbe stata una scelta facile, e non potevo nemmeno chiedere ad Edward di prendere la decisione al mio posto, perché sapevo che un giorno avrei potuto arrivare a incolparlo per quella scelta.

Prendemmo una camera in un piccolo bed&breakfast in centro città, e mi sedetti sul letto mentre Edward si chiudeva in bagno per rinfrescarsi prima di uscire per cenare.

Strinsi le mani in grembo, provando una morsa dolorosa al petto che mi fece venire gli occhi lucidi. Solo ventiquattr’ore prima ci comportavamo come una coppietta in luna di miele, mentre adesso ci trovavamo di nuovo in una situazione di stallo. Non sapevo più come comportarmi con lui, e non sapevo che decisione dovessi prendere. Avevo il terrore che scegliere il lavoro anziché Edward avrebbe avuto conseguenze più gravi di quelle che potevano sembrare, e in particolare temevo che lasciarlo solo a Los Angeles avrebbe potuto cambiare la sua decisione di tornare a Chicago; del resto mi aveva confidato già all’inizio del viaggio che aveva accarezzato più volte l’idea di trasferirsi definitivamente sulla costa occidentale senza fare più ritorno a casa, e anche se mi aveva detto che non se ne sarebbe andato se gli avessi chiesto di restare avevo paura che potesse sparire da un momento all’altro. Era una paura irrazionale, perché sapevo che Edward non mi avrebbe lasciato se gli avessi chiesto di non farlo, e mi sentivo stupida a sentirmi tanto combattuta quando la risposta più ovvia al mio dubbio era davanti ai miei occhi. Io volevo andare a Chicago, ed Edward aveva persino cercato di portarmi direttamente in aeroporto appena aveva saputo del colloquio, quindi cosa c’era che mi tratteneva ancora lì?

Quando Edward uscì dal bagno mi alzai in piedi, cercando di assumere un’espressione tranquilla che non tradisse la confusione e la paura che provavo. Mi chiusi in bagno per cambiarmi e prepararmi a quella che avrebbe potuto essere l’ultima cena che avremmo avuto insieme prima della mia partenza, e mentre l’acqua del lavandino scorreva non riuscii a trattenere alcune lacrime che sfuggirono al mio controllo, che stava cadendo a pezzi. Bagnai gli occhi con l’acqua fredda, sperando non risultassero gonfi e lucidi come temevo, e dopo essermi cambiata tornai in camera, dove Edward mi aspettava per uscire.

Andammo in un piccolo ristorante poco distante, dove i tavoli erano addobbati da gruppi di tre candele sistemate a diverse altezze su una struttura di ferro. L’atmosfera era intima e piacevole, ed erano pochi i tavoli occupati, la maggioranza da coppie di una certa età. Nell’aria c’era profumo di cibo e fiori, le luci erano basse e il chiacchiericcio sussurrato dei clienti e camerieri era accompagnato dalle note di un pianoforte nell’angolo vicino alla finestra, suonato da un pianista sulla trentina. Ci fecero accomodare ad un tavolo posizionato in un angolo della sala, vicino ad un acquario all’interno del quale diversi pesci tropicali nuotavano indisturbati. Eravamo l’uno davanti all’altra, ma nessuno di noi tentò di incontrare lo sguardo dell’altro, preferendo soffermarlo sul menù del ristorante. Eravamo a disagio come solo nei primi giorni lo eravamo, e anche se Edward cercava di sciogliere la tensione con commenti e domande sul cibo da ordinare non riuscivo a sentirmi più rilassata.

Una volta ordinato i primi il silenzio tornò a regnare sovrano.

Mi decisi ad alzare lo sguardo, e trovai Edward intento a muovere leggermente il bicchiere sul tavolo, facendo ondeggiare il vino rosso al suo interno. Le fiamme delle candele rendevano i suoi occhi ancora più profondi e scuri, creando ombre fra i suoi capelli ramati. Era bellissimo. «Dovresti tornare a Chicago», disse di punto in bianco, dopo lunghi minuti di silenzio.

Lo guardai, cascando dalle nuvole. «Come?»

Edward bevve un lungo sorso di vino, prendendosi del tempo. «Dovresti tornare a Chicago», ripeté. «Quel lavoro lo aspetti da tutta una vita. Non dovresti lasciartelo sfuggire per un paio di giorni in California».

Abbassai lo sguardo. «Non sono solo un paio di giorni in California, lo sai anche tu».

Edward sorrise mestamente. Allungò una mano sul tavolo, posandola sulla mia. «Bella, potrai venire a Los Angeles quando vorrai dopo che avrai avuto il lavoro», mi ricordò.

«Lo so», mormorai. «Ma non è la stessa cosa».

Lui sospirò. Intrecciò le dita alle mie, lo sguardo perso. «C’è un motivo particolare per cui sei così restia a lasciarmi qui da solo?»

Mi irrigidii. «No», risposi, troppo in fretta. Lui mi guardò attentamente, aspettando che sputassi il rospo. «Stai ancora pensando di trasferirti a Los Angeles?», gli chiesi infine, capendo che non mi avrebbe lasciato andare.

Sentii la presa intorno alla mia mano irrigidirsi, e la scossi leggermente quando vidi che non mi rispondeva. Respirò profondamente. «Non molto», rispose. «L’idea non mi alletta più come una volta». La sua risposta mi rincuorò solo in parte. «È per questo che hai paura di andartene da sola? Pensi che mentre sarò a Los Angeles potrei decidere di trasferirmi senza prima parlarne con te?»

Mi strinsi nelle spalle, distogliendo lo sguardo. «Non potrebbe accadere?»

Lui sospirò, sfilando la mano dalla mia. «Certo che no. Pensi che dopo tutto quello che è successo potrei trasferirmi dall’altra parte del continente senza prima prendere una decisione insieme a te?»

«Lo so, è una paura stupida», mormorai, vergognandomi di aver anche solo pensato a una cosa simile.

«Non è stupida», disse lui, giocando con la punta della forchetta, «è infondata, tutto qui».

«Non voglio lasciarti finire il viaggio da solo», aggiunsi qualche secondo dopo. «Abbiamo fatto tutte quelle miglia insieme, non mi sembra giusto farti arrivare a Santa Monica da solo alla fine».

Edward fece un piccolo sorriso. «Arrivare in fondo alla Route 66 era il mio sogno, non il tuo. Dovresti sentirti in colpa solo se non mi permettessi di arrivare fino ala fine», disse. Vedendo che non mi aveva convinto continuò: «Tu hai fatto molto di più di quello che avrei mai avuto il coraggio di chiederti. Se non fosse stato per te avrei viaggiato da solo per tutto questo tempo, arrivando a Los Angeles di filato senza godermi davvero il viaggio. Non devi sentirti obbligata ad arrivare fino in fondo».

Lo guardai. «Quindi… ci rivedremo a Chicago?»

Lui annuì, e un sorriso piegò le sue labbra, senza riuscire ad arrivare ai suoi occhi, che nascondevano un’ombra di tristezza. «Dopo aver raggiunto Santa Monica riporterò il furgoncino a Jacob, poi tornerò a casa, d’accordo?»

Scossi il capo in segno affermativo, non riuscendo a fidarmi della mia voce, che ero certa avrebbe tremato.

I piatti con le nostre ordinazioni arrivarono subito, mettendo fine al nostro discorso. Niente nella mia testa, però, riuscì a cancellare la sensazione che quella fosse l’ultima cena che io ed Edward condividevamo. Il giorno dopo sarei andata all’aeroporto, sarei tornata a Chicago da sola, e non potevo fare altro che sperare che davvero nulla sarebbe cambiato quando Edward sarebbe tornato a casa.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giorno! :D

Chiedo perdono per il mancato aggiornamento della settimana scorsa, ma oltre ad aver avuto un esame ho pure avuto un calo di ispirazione e non sono riuscita a finire il capitolo prima di sabato :/ a quel punto ho deciso di aspettare direttamente lunedì per cercare di riprendere l'aggiornamento settimanale... purtroppo anche lunedì prossimo avrò un esame, quindi c'è ancora la possibilità che l'aggiornamento slitti (questa volta spero solo a martedì/mercoledì).

Tornando a questo capitolo, sembra che il viaggio di Bella sia arrivato alla fine. Secondo voi fa bene ad andarsene o dovrebbe rimanere con Edward? Aspetto le vostre opinioni :D

Grazie infinite a chi ha recensito lo scorso capitolo e anche a tutti i lettori silenziosi :******

A presto! :D

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Capitolo 18
*** What I was looking for ***


Route 66

No looking back when I am gone,

Follow your heart it's never wrong,

No looking back when I am gone,

Don't second guess the note you're on.

Out of time, all out of fight,

You are the only thing in life that I got right.

Yellowcard - Sing For Me

18. What I was looking for

Fortunatamente, essendo il nostro un viaggio on the road che consisteva nello spostarsi quasi ogni sera, avevo tutte le mie cose già ritirate in valigia, quindi non appena tornammo in hotel dal ristorante non ebbi molto da fare, oltre a ritirare i vestiti che mi ero tolta prima di uscire per andare a cena. Lasciai fuori solo il prendisole che avrei indossato il giorno dopo e un cambio di intimo, poi chiusi la valigia, accantonandola in un angolo della stanza, accanto alla porta.

Edward mi osservava seduto sul bordo del letto, lo sguardo che mi seguiva in ogni minimo movimento e l’espressione illeggibile. Non avevamo detto nulla. Del resto cos’altro c’era da dire ancora? Ormai le decisioni erano state prese, e potevamo solo accettare quello che sarebbe stato il nostro domani.

Quando terminai il mio lavoro di sistemazione sospirai pesantemente, guardandomi attorno un’ultima volta per essere sicura che non avessi dimenticato nulla.

«Okay, penso di avere preso tutto…», mormorai, pensierosa.

Edward tese una mano verso di me, e mi avvicinai fino a stringergliela. Mi fece sedere sulle sue gambe, e appoggiai il capo sulla sua spalla, alla ricerca di quella sicurezza che né io né lui sembravamo possedere in quel momento.

Sentivo le sue dita giocare con i miei capelli sulla schiena, e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi.

«Vedrai che andrà tutto bene», disse. «Devi solo restare tranquilla, okay?»

«Ci proverò», risposi.

«Andiamo a dormire?», mi chiese dopo diversi minuti di silenzio, accarezzandomi la schiena.

Annuii, alzandomi dalle sue gambe per fare il giro del letto e infilarmi sotto il lenzuolo, troppo infreddolita dall’aria condizionata per restare scoperta. Edward mi seguì subito dopo, e cercai riparo fra le sue braccia, calde e accoglienti. Mi accoccolai sul suo petto, e chiusi gli occhi, nonostante sapessi che non sarei riuscita a prendere sonno molto presto.

Con una mano disegnavo ghirigori immaginari sul petto nudo di Edward, cercando di addormentarmi, ma ottenendo invece l’effetto opposto di svegliarmi ancor di più.

«Sei tesa», sussurrò a un certo punto, nell’oscurità.

Fermai il movimento della mia mano, credendo di averlo infastidito. «Scusami», mormorai.

Con la punta delle dita scivolò dalla mia nuca fino al bordo dei pantaloncini, provocandomi una cascata di brividi nonostante il tessuto della canottiera avesse ridotto il contatto.

«Forse posso fare qualcosa per cercare di rilassarti un po’», disse, e nella sua voce lessi una nota maliziosa.

Premetti le labbra contro il suo collo, inarcando la schiena e sorridendo sulla sua pelle. «Sarà un’impresa difficile».

«Allora dovrò impegnarmi sul serio», rispose, divertito.

Non sapevo se quella fosse la scelta più saggia, perché il giorno dopo sarebbe stato ancora più difficile lasciarlo, se anche quella notte avremmo fatto sesso.

Ma ormai ero già in gioco. Sarebbe stato comunque difficile lasciarlo, e non volevo farlo con il rimorso di aver sprecato la nostra ultima notte insieme.

Perciò mi lasciai andare, lasciando che Edward riuscisse a rilassarmi, e alla fine caddi addormentata fra le sue braccia, senza più pensieri in mente.

 

Il museo dedicato alla Route 66 di Victorsville era come tutti gli altri musei. O almeno così mi era parso. A dire la verità, non avevo prestato molta attenzione a ciò che mi circondava mentre camminavo lungo le sale d’esposizione. Ero troppo concentrata su Edward e sul pensiero che subito dopo saremmo partiti per raggiungere l’aeroporto per soffermarmi sulle fotografie e le auto d’epoca immobili da chissà quanti anni.

Quando uscimmo non ricordavo nemmeno di aver scattato delle fotografie, talmente ero distratta.

Il viaggio in furgoncino fino all’aeroporto LAX sembrò durare un attimo. Era passata più di un’ora e mezza da quando avevamo lasciato Victorsville, eppure all’improvviso mi ero ritrovata davanti alle porte automatiche dell’aeroporto, con il trolley accanto ed Edward che mi faceva strada. Comprai il biglietto aereo al bancone del last minute accanto all’ingresso, poi ci dirigemmo verso la dogana.

Era arrivato il momento. Ci saremmo dovuti separare; forse solo per qualche giorno, forse per qualche settimana, ma sapevo che anche se si fosse trattato di poche ore avrei comunque trovato quel momento uno dei più difficili che potessi affrontare.

Edward fermò il mio trolley accanto a noi, a metà, come a voler porre già una barriera fra i nostri corpi, come se non bastassero tutte le miglia che nel giro di un paio d’ore ci avrebbero separato. Infilò le mani in tasca, e fece vagare lo sguardo da me alla dogana alle mie spalle.

«Ci sentiamo più tardi?», gli chiesi, non sapendo cos’altro dire. C’erano tante cose che avrei voluto dirgli, ma nessuna sembrava adatta alla situazione né riuscivo a trovare il coraggio per farlo.

Lui annuì. «Cerca di non dormire troppo in aereo, o stanotte a Chicago non chiuderai occhio», mi ricordò.

Scossi il capo in segno affermativo, provando a cingere le braccia intorno al busto, ma incontrando l’ostacolo della mia macchina fotografica. La feci dondolare, poi la sfilai dal collo.

«Potresti fare delle fotografie per me a Los Angeles?», gli chiesi. Tesi le braccia, porgendogli la mia macchina.

«Lo sai che sono negato nella fotografia», borbottò lui, allungando comunque le mani per afferrarla. Le sue dita sfiorarono le mie, e indugiai sulla macchina fotografia, godendomi la sensazione della sua pelle a contatto con la mia.

«Non sei così male», sussurrai, anche se quella non era proprio la verità. «E poi una foto mal riuscita è sempre meglio di niente, no? Così quando le vedrò potrò fingere di essere stata lì anch’io, anche c’era solo la mia macchina».

Edward non disse niente, e sfilò la macchina fotografica dalle mie mani, mettendosela al collo tramite la cinghia.

«E così sarai obbligato a tornare a Chicago presto per ridarmela», mormorai, cercando di imprimere una nota allegra e scherzosa alla mia voce, ma senza riuscire a conferire al mio viso le stesse emozioni che stavo fingendo così malamente.

Le braccia di Edward mi circondarono prima ancora che me ne rendessi conto, e affondai il viso nella sua spalla, con la macchina fotografica premuta contro il seno, fra di noi; non avevo mai odiato la mia macchina fotografica, ma in quel momento avrei volentieri accettato di lasciarla cadere a terra pur di rimanere il più vicino possibile ad Edward per quegli ultimi momenti senza intralci. Strinsi le braccia intorno alla sua vita, chiudendo gli occhi e intimandomi mentalmente di non piangere. Ci stavamo separando per soli pochi giorni del resto; non c’era da farne un dramma; le mie sensazioni negative non dovevano diventare una paranoia, o quella settimana sarebbe durata un’eternità.

Edward mi carezzò la schiena, su e giù, cercando di mantenere un ritmo lento e costante che mi riuscì a rilassare - anche se di poco, rispetto a come sarebbe riuscito normalmente - quel tanto che bastava a farmi allentare la presa intorno a noi. Fu lui a fare il mezzo passo indietro che ci consentì di guardarci di nuovo negli occhi. Con il dorso delle dita accarezzò la mia guancia, facendo un mezzo sorriso.

«Ci rivediamo tra qualche giorno, okay? Chiamami quando arrivi a casa», aggiunse, ed io non potei fare altro che annuire lievemente, scuotendo il capo come un automa.

Poi chinò il capo, e mi baciò. Sfiorò le mie labbra lentamente, con tocchi leggeri e delicati, quasi incerto. Prima che si allontanasse, però, allacciai le braccia intorno al suo collo, e alzandomi in punta di piedi premetti con più forza la bocca contro la sua, cancellando tutte le sue incertezze. Sentii le sue braccia intorno alla vita, e il suo bacio farsi più intenso, quasi disperato. Le sue labbra cercavano le mie, e la sua lingua si legava alla mia come a non volermi più lasciare. Non mi importava di essere nel bel mezzo di un aeroporto con la gente intorno a guardarci, non mi interessava di star dando spettacolo, sapevo solo che quello era l’ultimo momento in cui avrei potuto stare con Edward per chissà quanto tempo, e non volevo che l’ultimo ricordo di lui fosse quello di un bacio incerto e triste.

Con la mano accarezzò la mia guancia un’ultima volta, poi si staccò, e nei suoi occhi lessi la stessa malinconia che provavo io.

Lo guardai allontanarsi, e strinsi la maniglia del trolley fino a far sbiancare le nocche. Poi voltai le spalle, e mi misi in fila alla dogana, imponendomi di non voltarmi, perché sapevo che se l’avessi visto ancora fermo ad aspettarmi non avrei trovato la forza per andare avanti e sarei tornata indietro da lui.

Varcai il confine della dogana, resistendo alla tentazione di voltarmi, e in fretta e furia scesi le scale mobili che conducevano ai gates; quando mi girai, trovando solo un muro di scale davanti a me, e non più la barriera della dogana, rilasciai un sospiro a metà sollevato e metà arreso.

Arrivai davanti all’imbarco per Chicago, dove diverse persone erano già sedute in attesa. Mi accomodai su una poltroncina di pelle nera poco lontana dalla porta del gate, e aspettai.

Cercavo di distrarmi osservando le altre persone, tirando a indovinare i motivi della loro partenza. Molti erano uomini d’affari, intenti a ticchettare le dita sui tasti dei portatili, incuranti della gente intorno a loro, altri erano concentrati su un’enigmistica, mentre le poche famiglie con bambini presenti nella sala attendevano pigramente la chiamata del loro volo, intimando i più piccoli di fare silenzio. Alcuni cartelloni pubblicitari erano posizionati nelle aiuole di piante finte, che come delle isole erano posizionate ai lati del lunghissimo corridoio di quel terminal, creando zone chiuse in cui erano posizionati tavolini e panchine dei diversi locali di ristorazione. Su uno di quei cartelloni pubblicitari vidi la fotografia di una delle tante magnifiche spiagge di Los Angeles, ripresa al momento del tramonto e con una coppia vista di schiena, seduta a fare un picnic a pochi passi dall’oceano. Mi chiesi se anche Edward sarebbe andato in riva all’oceano quella sera, a vedere il tramonto, e se si sarebbe sentito solo come mi stavo sentendo io in quel momento.

Scacciai quel pensiero, tornando a concentrarmi sulla gente intorno a me. Il suono di un cellulare che squillava attirò la mia attenzione, e mi concentrai sull’uomo d’affari davanti a me, che stava rispondendo alla chiamata. Parlò a voce abbastanza alta, commentando con quello che pensavo fosse un suo collega di un’importante transizione per la società per cui lavorava. Poi aggiunse che stava tornando a Chicago solo per consegnare il rapporto e poi sarebbe tornato a Los Angeles per altri cinque giorni per prendersi qualche giorno di riposo. Quel commento fece scattare nella mia mente un’idea, e non prestai più attenzione alla chiamata. Avrei potuto fare anch’io come quell’uomo: avrei potuto tornare a Chicago per il colloquio e poi sarei potuta ripartire in serata per tornare qui a Los Angeles con Edward. Sapevo che sarebbe stata un’impresa dispendiosa e sfiancante - dodici ore di aereo nel giro di sole ventiquattr’ore non erano una passeggiata - ma ne valeva la pena. Stavo già cercando il cellulare per informare Edward di quell’idea, quando un altro pensiero sopraggiunse: cosa avrei fatto se mi avessero chiesto di iniziare a lavorare fin dal giorno dopo, ovvero sabato? Avrei potuto cercare di convincere il redattore del giornale a farmi iniziare solo da lunedì, ma sapevo che era una mossa rischiosa per un nuovo dipendente: farlo avrebbe rischiato di mettermi in cattiva luce fin dall’inizio, e se non volevo mandare in fumo il sacrificio di lasciare Edward in California da solo avrei dovuto lasciar perdere quella proposta. Smisi di cercare il cellulare, tornando ad affondare nello schienale della poltroncina. Coprii con una mano uno sbadiglio, e presi in considerazione la possibilità di andare a bere un caffè al piccolo bar lì vicino, prima che iniziassero l’imbarco.

Proprio quando mi alzai, sentii la voce dell’altoparlante che annunciava il codice del mio volo, e mi voltai immediatamente in direzione del gate, sentendomi nuovamente sulle spine. Era il momento.

Ma quel momento non arrivò. Infatti, subito dopo aver snocciolato il codice del volo per Chicago, la voce femminile annunciò un ritardo di ben tre ore, a causa di problemi tecnici al velivolo. Un coro di lamentele si alzò dai passeggeri in attesa, e il banco dell’imbarco fu preso d’assalto da un gruppo di persone infuriate, mentre le più scocciate si avvicinavano solo per riuscire a capire quali fossero i motivi del ritardo.

Rinunciai a prendere il caffè, decidendo di approfittare di quelle ore per provare a riposare. Andai verso una fila di sedili posizionata di fronte all’immensa vetrata che si affacciava sulle piste di decollo e atterraggio, sedendomi sulla poltroncina accanto alla colonna di cemento, a cui mi appoggiai con la spalla, cercando una posizione comoda per addormentarmi. Guardai un aereo prendere il volo, poi mi addormentai.

 

Non ricordavo granché del volo. A dire il vero non ricordavo nemmeno di essere salita a bordo. Ma in qualche modo dovevo essere salita sull’aereo, perché in quel momento mi ritrovavo a passare il mio documento d’identità ad un poliziotto alla dogana, e mi stavo dirigendo verso l’area degli arrivi dell’aeroporto di Chicago.

Mi sembrava di essere un automa. I piedi si muovevano per conto proprio, trascinandomi verso casa mia, verso il mio nuovo lavoro. Non mi guardavo intorno, perché sapevo di essere sola. Nonostante tutta la gente che si muoveva velocemente intorno a me l’unica persona che avrei davvero voluto vedere era a miglia di distanza, ed ero stata io a scegliere di lasciarla lì.

Quando varcai le porte automatiche che conducevano all’atrio degli arrivi, però, venni richiamata da due voci. Due voci squillanti e familiari, che solo in quel momento realizzai quanto mi fosse mancato sentirle dal vivo in quelle settimane. Appena superai la barriera venni travolta da Rosalie ed Alice, che mi stritolarono in uno degli abbracci di gruppo che tanto adoravamo. Lasciai andare il trolley accanto a me, stringendole a mia volta.

Le avevo chiamate solo poche ore prima di prendere l’aereo, ed ero felice che avessero rinunciato ai loro piani della serata per venire a prendermi all’aeroporto, risparmiandomi il viaggio in autobus da sola. Mi riaccompagnarono a casa a bordo della decappottabile rossa fiammante di Rose, iniziando quello che aveva tutta l’aria di essere un interrogatorio. Alice insisteva affinché le riferissi un racconto dettagliatissimo di tutto quello che era successo con Edward, mentre Rosalie si limitava ad intervenire di tanto in tanto con commenti e domande affini. Riuscii a cavarmela con un breve riassunto di come stavano andando le cose, promettendole che appena avrei avuto io stessa le idee più chiare sarebbero state le prime a saperlo. Perché effettivamente era quella la verità: non sapevo cosa stava succedendo davvero fra me ed Edward. Ero convinta che entrambi provassimo ancora qualcosa, ma come facevamo a sapere se quello che stavamo attraversando fosse qualcosa di nuovo che poteva avere un futuro e non una reminiscenza del passato?

Perciò rimasi in silenzio, preferendo non condividere quei pensieri con le mie amiche. Sapevo che entrambe mi avrebbero detto solo la pura verità, e anche per questo non volevo dirle nulla. Avevo paura di quello che avrebbero detto, paura di aprire gli occhi e di scoprire che quei giorni insieme ad Edward passati in una bolla di felicità erano destinati a scomparire con il suo ritorno. In quel momento avevo solo bisogno di cacciare dalla testa quei pensieri negativi e concentrarmi piuttosto sul colloquio che l’indomani avrei dovuto affrontare.

 

Ero seduta nell’immenso studio del capo redattore del Chicago Tribune da più di un quarto d’ora ormai. L’uomo davanti a me era grassottello, con un paio di occhiali rettagolari da vista che teneva quasi sulla punta del naso; i capelli grigi erano talmente radi che era già stempiato. Assomigliava in maniera impressionante al mio ex capo - quello che mi aveva licenziata per un paio di gambe snelle e dai principi a dir poco discutibili - e la cosa mi aveva reso nervosa fin dall’inizio del colloquio. Pure lo studio mi sembrava familiare, anche se nella vecchia redazione di certo non avevamo locali privati così spaziosi.

Dopo avermi fatto qualche domanda sulla mia carriera e i miei studi si concentrò sul mio stile di scrittura, indagando quali fossero le mie idee a proposito della politica, l’economia e cose molto in generale, soffermandosi soprattutto sui primi due argomenti.

Alla fine, dopo una lunga pausa di riflessione, durante la quale scrutò un’ultima volta il mio curriculum e alcuni articoli, alzò il capo verso di me.

«Molto bene, signorina Swan», disse, ed io mi preparai già a sentire la fatidica frase “Le faremo sapere al più presto”, che in quei casi significava sempre che non eri stata assunta e non ci avrebbero ripensato due volte. «Può iniziare lunedì».

Lo guardai, cercando di mascherare malamente la mia sorpresa. Sii professionale, Bella.

Il capo redattore si alzò in piedi, tendendomi la mano attraverso la scrivania imbandita. Lo imitai, sperando che non notasse il tremolio di emozione nella mia mano.

Ringraziai con voce - fortunatamente - ferma, e dopo un breve saluto uscii dalla redazione, tornando all’aria aperta. Faceva più caldo rispetto allo studio - l’afa di Chicago sembrava addirittura quadruplicata dopo aver passato mezz’ora in un locale climatizzato -, e corsi a ripararmi all’ombra degli alberi del lungofiume di Chicago. Mi sedetti su una panchina nascosta dal sole e presi il mio cellulare, componendo velocemente il numero di Edward.

Impiegò un paio di secondi a rispondere, e non appena sentii la sua voce un’ondata di malinconia mi travolse. Il pensiero che ci fossero quasi duemila miglia a dividerci in quel momento mi faceva più male che mai, ed anche se cercavo di non pensarci era difficile non farlo mentre gli parlavo.

«Com’è andato il colloquio?», mi chiese subito, e avvertii in sottofondo il verso dei gabbiani. Era vicino all’oceano, quasi sicuramente. Un’ondata di invidia mi sommerse; avrei voluto essere lì con lui a godermi quella spiaggia anziché essere in centro città, con solo il fiume Chicago come fonte di freschezza a pochi passi.

«Mi hanno assunta», risposi in un sussurro, ancora incredula. Non mi aspettavo che fosse così semplice, che mi prendessero subito, una volta finito il colloquio; mi aspettavo di attendere qualche giorno, dopo che avessero ricevuto anche altri potenziali dipendenti.

Edward si complimentò vivacemente, e nella sua voce colsi tutta la sua felicità per me. «Hai visto che ne è valsa la pena tornare a casa prima?», aggiunse, con tono scherzoso.

Sorrisi mestamente, e non commentai. «Com’è Los Angeles? Ti piace?»

«Non è male…», mormorò, e lo immaginai mentre infilava una mano in tasca e guardava verso l’orizzonte segnato dall’oceano. «Però in centro città c’è un’afa che ti uccide».

Risi appena. «Fa più caldo che in centro a Chicago in pieno luglio?»

«No. Per battere quel caldo dovremmo andare nel Sahara probabilmente».

Mi morsi il labbro inferiore. Avrei voluto chiedergli quando sarebbe tornato a casa, ma mi trattenni. «Stai facendo delle foto?»

«Ci sto provando. Questo affare è più complicato di quello che sembra. Se lo schermo rimane nero significa che devo guardare nello spioncino?»

Trattenni una risata. Mi aveva fatto la stessa identica domanda quando avevo provato a spiegargli il funzionamento della macchina fotografica durante il viaggio. «No. Significa che hai dimenticato di togliere il coperchio all’obiettivo».

Lo sentii borbottare qualcosa, e lasciar cadere il discorso. I successivi minuti li trascorremmo parlando di Los Angeles, o meglio, lui mi parlava di LA, mentre io lo ascoltavo in silenzio, senza sapere cosa dire. Da quello che avevo capito si stava divertendo parecchio a girare per le varie spiagge, aveva perfino pensato di prendere qualche lezione di surf nei giorni seguenti. Intanto io, dentro di me, reprimevo continuamente la vocina che mi urlava di chiedergli quando sarebbe tornato a casa. Sarebbero stati giorni infernali a causa di quelle telefonate che erano sia la causa della mia tristezza che il motivo per cui affrontavo i giorni senza lasciarmi scoraggiare.

 

I giorni passavano veloci, senza che nemmeno me ne rendessi conto. Avevo iniziato a lavorare al giornale, occupandomi ancora di articoli minori, giusto per iniziare. Tutto sembrava procedere bene, ma non riuscivo a cancellare la strana sensazione che provavo. Le telefonate con Edward erano diventate più rare e più brevi; c’era qualcosa nel suo tono che non mi convinceva. Sembrava stanco e distratto mentre gli parlavo. Morivo dalla voglia di chiedergli quando avrebbe deciso di iniziare il viaggio di ritorno a Chicago, ma non volevo costringerlo a partire contro la sua volontà. Se voleva rimanere ancora qualche giorno a Los Angeles del resto non era la fine del mondo, potevo cavarmela bene anche da sola. Ma anche se continuavo a ripetermi queste parole non riuscivo comunque a cancellare la sensazione di abbandono e mancanza che provavo. Era questo uno dei motivi per cui inizialmente ero stata così restia ad accettare di riavvicinarmi ad Edward. Non volevo riprovare questa sensazione di necessità e bisogno nei suoi confronti. Volevo essere indipendente non solo economicamente, ma anche sentimentalmente. Non volevo sentirmi triste e sola in quel modo. Tuttavia, non ci riuscivo. Non riuscivo a fare altro che chiedermi quando sarebbe tornato a Chicago, e perché ci stesse mettendo così tanto. Ormai era passata una settimana intera da quando ci eravamo lasciati, ma Edward non aveva ancora parlato di rientrare; forse aveva bisogno di altro tempo per stare lontano da casa e affrontare gli ultimi fantasmi del suo passato. Tornare a Chicago per lui avrebbe significato anche tornare a pensare a Lizzy, e avrei voluto essergli accanto in quel momento, per fargli capire che io per lui c’ero. Non volevo parlargli di queste cose per telefono, e non potevo nemmeno insistere perché tornasse a casa prima che si sentisse pronto a farlo. Dovevo concedergli il suo tempo, e resistere.

Il secondo weekend che passai a Chicago sembrava destinato ad essere come lo scorso: pigro e privo di novità. Uscii con Alice e Rose, andando come al solito a passeggiare sul lungolago. Stavamo parlando degli ultimi acquisti di Alice, quando il cellulare di Rosalie prese a suonare. Rispose subito, allontanandosi dopo averci mimato un “È Emmett”.

Quando raggiunse nuovamente me ed Alice sbuffò. «Quell’orso è matto da legare», commentò, riferendosi al suo ragazzo. Quello di “orso” era il soprannome che noi ragazze usavamo rivolgendoci a lui, in quanto la sua stazza era proprio quella. «Mi ha chiamato solo per lamentarsi di Edward. Non ci avevi detto che si era rotto un tubo dell’aria condizionata durante il viaggio», disse, rivolgendosi infine a me.

Scrollai le spalle. «Non mi sono ricordata», mentii. In realtà Edward ed io avevamo deciso di far finta di nulla con Emmett, per evitare che si infuriasse. Mi stupiva che Edward avesse deciso di dirglielo alla fine.

Rose fece un gesto con la mano che lasciava intendere che non importava. «Comunque adesso Em sta progettando qualcosa che possa fargliela pagare ad Edward. Spero non ricada anche su di te questa punizione».

Mi rabbuiai. «Ha un sacco di tempo per pensarci. Chissà quand’è che Edward tornerà in città».

Alice e Rosalie rimasero in silenzio. Quando mi voltai a guardarle entrambe avevano un’espressione strana e crucciata.

«Che c’è?», chiesi. Avevo detto qualcosa di strano?

Si lanciarono un’occhiata a vicenda, poi Alice si schiarì la voce. «Bella… Edward è già tornato in città».

Sgranai gli occhi. «Cosa? Da quando?»

Lei aggrottò le sopracciglia. «Non lo sapevi?», mi chiese, ignorando la mia domanda.

Scossi il capo, gli occhi ancora sbarrati. «Perché non me l’avete detto prima?»

Rosalie si avvicinò. «Non hai mai parlato di Edward in questi giorni, pensavamo che lo sapessi e vi foste già visti. Pensavamo stessi aspettando di sentirti pronta per parlarcene».

Aggrottai le sopracciglia, cercando furiosamente il cellulare nella borsa, senza aggiungere niente.

Alice posò una mano sul mio braccio, cercando di rassicurarmi. «Magari ti sta organizzando una sorpresa. Lo sai com’è lui».

Mi morsi il labbro inferiore, estraendo il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Non mi aveva cercata per avvisarmi, e in questi due giorni non ha fatto altro che fingere di essere ancora a Los Angeles quando invece era già in città.

«Devo andare», dissi alle ragazze, voltandomi per raggiungere la strada, dove avrei potuto trovare un taxi.

Alice e Rosalie annuirono semplicemente, intuendo al volo dove stavo andando e rinunciando a fermarmi, sapendo che non ci sarebbero riuscite.

Diedi l’indirizzo di casa di Edward al primo taxi che riuscii a fermare sul ciglio della strada, e tamburellai nervosamente le dita sul cellulare, aspettandomi che da un momento all’altro si mettesse a squillare. Pensai ai mille motivi per cui avrebbe dovuto tenermi all’oscuro del suo ritorno, e l’ipotesi di Alice - secondo cui stava organizzando una sorpresa per me - non mi sembrò neanche lontanamente credibile e accettabile; non mi servivano sorprese in grande stile, mi bastava solo che lui tornasse a casa da me, maledizione. Mi bastava rivederlo e capire che tutto era a posto, e che avremmo iniziato una nuova vita insieme, questa volta senza più errori.

Quando il taxi mi scaricò davanti a casa di Edward trovai le ante delle finestre aperte, ma le tende tirate non mi consentivano di vedere all’interno. Non c’era la sua Volvo nel vialetto, né la Jeep di Emmett, ma poteva benissimo essere ritirata nel garage.

Decisi di concedergli un’altra chance. Avviai la chiamata al suo cellulare, e lui rispose dopo quasi un minuto.

«Pronto?»

«Edward? Sono Bella», dissi, cercando di mantenere un tono di voce indifferente e di nascondere la tensione.

«Ehy», rispose, e non mi parve di avvertire alcune tensione nella sua voce. «Va tutto bene?»

Deglutii. «Non lo so», ammisi. «Dove sei adesso?»

Impiegò alcuni secondi a rispondermi. «Ancora a Los Angeles. Che succede?»

Sembrava sincero. Maledettamente sincero. Mi morsi il labbro inferiore. «Niente. Solo… mi manchi».

Lo sentii sospirare leggermente. «Lo so. Mi dispiace. Vedrò di tornare presto, okay?»

Annuii, e dopo un breve saluto riagganciai la chiamata. Guardai la porta di casa sua, chiusa, e le voltai le spalle, decisa a tornare in centro. Forse Rosalie ed Alice si erano sbagliate. Perché avrebbe dovuto mentirmi così sfacciatamente? Sapeva cosa provavo, non l’avrebbe mai fatto.

Mi stavo già incamminando lungo la strada, decisa a tornare verso il centro in attesa che un taxi passasse da quelle parti, ma mi fermai. Tornai indietro rapidamente, attraversando il ciottolato che conduceva dritto alla porta d’ingresso di casa di Edward, e suonai il campanello con furia per tre volte di seguito. Prima che premessi nuovamente il pulsante la porta si aprì, ed Edward apparve sull’uscio.

Sentii il mio cuore perdere un battito, e non riuscii a respirare per qualche secondo. Lui sgranò gli occhi, e la bocca si schiuse senza rilasciare alcun suono.

«Lo sai che questa non è Los Angeles, vero? Non so se l’hai notato ma la polvere che vedi per strada non è sabbia. E di certo il lago Michigan non è uno sconfinato oceano», sputai, con i pugni stretti lungo i fianchi, ricacciando indietro la tristezza e le lacrime e lasciando che fosse solo la rabbia a dominarmi.

«Bella…», cominciò Edward, abbassando gli occhi.

«No, Edward. Spiegami per quale motivo non mi hai detto la verità. Sei tornato da due giorni, dannazione. Due giorni, e non hai fatto altro che dirmi bugie al telefono!»

«Mi dispiace».

«Ti dispiace?», ripetei, esterrefatta. «È l’unica cosa che hai da dire?»

Lui rimase immobile, le braccia lungo i fianchi.

Lanciai un’occhiata alle sue spalle, scorgendo uno scatolone colmo di libri ancora aperto. Feci un passo dentro casa, passando fra Edward e lo stipite della porta. Oltre a quello c’erano molti altri scatoloni nel salotto, alcuni chiusi, altri aperti e colmi di oggetti. Le mensole della libreria erano state svuotate, e la televisione era staccata.

«Cosa stai facendo?», sussurrai, fermandomi, impietrita.

Mi voltai a guardarlo, trovandolo con una mano sulla nuca, segno che era nervoso. Non disse nulla.

«Ti stai trasferendo?», riuscii a chiedergli, e nella mia voce non c’era alcun segno di accusa, solo sorpresa.

Edward annuì cautamente. «Mi hanno offerto un posto al Ronald Reagan. È uno dei migliori ospedali della costa occidentale, non potevo rifiutare».

Socchiusi gli occhi. «Non volevi», precisai. «Quindi nei giorni scorsi sei andato a cercare un lavoro a Los Angeles? Tutti i giri per la città e le colline che dicevi di fare erano solo bugie?»

«Tu sei andata ad un colloquio. Non ho anch’io il diritto di cercare un lavoro?», ribatté, come se fosse un fatto ovvio.

«Non sto dicendo questo. Semplicemente non capisco perché non mi hai detto nulla».

«Perché sapevo che ti saresti preoccupata e non ti saresti concentrata sul tuo nuovo lavoro. Volevo dirtelo, ma quando mi hai chiamato per dirmi che ti avevano assunta ho deciso di non farlo. Questo è il lavoro dei tuoi sogni, non volevo rovinarti la tua prima settimana di lavoro».

Strinsi le braccia intorno al busto. «Beh, l’hai appena fatto. Avevi almeno intenzione di dirmi che ti stai trasferendo oppure avresti aspettato che tornassi io a Los Angeles di persona a cercarti per dirmelo?»

«Te ne avrei parlato prima di trasferirmi», rispose semplicemente, con una calma che mi irritava.

Mi morsi le labbra, sentendo che la rabbia stava lentamente cedendo il passo alla disperazione. «E non credi che avresti dovuto parlarmene prima di prendere questa decisione? Insomma noi…», mi interruppi. Non avevamo discusso prima della mia partenza di quale fosse la nostra relazione. Potevamo considerarci una coppia a tutti gli effetti? «… con quello che è successo credo che avessi il diritto di saperlo».

Edward distolse lo sguardo. «Noi non siamo una coppia, Bella, quindi non ero obbligato a riferirti tutto quello che stavo pensando di fare», disse seccamente.

Sentii chiaramente il mio cuore perdere un battito, e mi immobilizzai, senza riuscire a respirare.

Lui sospirò. «Sono state delle settimane fantastiche, non lo metto in dubbio. Ma quello che c’è stato fra di noi non era reale, Bella. Ci siamo fatti trascinare dalla situazione ed i ricordi, tutto qui. Niente di quello che provavamo era il presente».

Non dissi niente. Non reagii nemmeno. Probabilmente era così che ci si sentiva quando si era sotto shock.

«In fondo è stato un bene che te ne sia andata da Los Angeles», continuò, incurante. «Ho finalmente capito che non è cambiato niente da un anno fa. Tu hai scelto il lavoro piuttosto che la nostra relazione, proprio come avevo fatto io. Questa volta però i ruoli si sono invertiti».

La realtà mi crollò addosso come un macigno. Presi un respiro spezzato, realizzando che fino a quel momento avevo trattenuto il fiato. Gli occhi si inumidirono.

«È meglio così per entrambi. Abbiamo capito che non siamo destinati a stare insieme. Il lavoro è troppo importante per entrambi, e non riusciremo mai a convivere in questo modo».

Mi voltai verso la porta, incapace di ascoltare oltre. Perché non me ne ero andata subito? Perché ero rimasta ad ascoltare quelle crudeltà?

Mi fermai sull’uscio della porta, sentendo le parole sulla punta della lingua.

«Per me non era il passato», dissi, con la voce malferma e le lacrime che ormai imperlavano le ciglia. «Questo è reale. Io…»

 

«Signorina?»

Tenni gli occhi serrati con forza, sentendo le lacrime scivolare lungo le guance. Mi sembrava di vedere ancora il volto impassibile di Edward anche attraverso le palpebre chiuse.

«Signorina, si sente bene?»

Aprii gli occhi lentamente, in attesa di vedere Edward fermo davanti a me, ma al suo posto trovai una donna alta e bionda. La guardai stralunata, chiedendomi cosa ci facesse a casa di Edward. Poi il mio sguardo scivolò sulla sua figura, avvolta da una divisa blu con una targhetta che riportava quello che presumevo fosse il suo nome; lo stemma di una compagnia aerea era ricamato sopra il taschino della giacca. Un’hostess.

Guardai alle sue spalle, e i miei occhi si puntarono sulla pista di decollo di un aeroporto, oltre la vetrata a parete. E lo scenario non era di sicuro quello del Chicago O’Hare International Airport, ma quello del LAX.

Guardai nuovamente la donna davanti a me, che mi osservava preoccupata. «Si sente bene?», ripeté, e solo allora notai la sua mano posata sulla mia spalla.

Scossi i capo in maniera affermativa. «Mi scusi. Credo di aver avuto un incubo», disse solamente, sentendomi ridicola. Asciugai velocemente le lacrime.

Lei sorrise. «Non si preoccupi. Sono venuta a svegliarla perché stiamo imbarcando per Chicago. È il suo volo, giusto?»

Mi drizzai a sedere. Allora non ero mai partita. Non ero mai stata a Chicago, Edward non mi aveva mai lasciata con parole così fredde e crudeli.

«Sì», risposi, senza fiato. «Mi può dare solo un minuto?»

Lei annuì, dirigendosi verso la fila di persone all’imbarco. Erano le ultime, probabilmente, e dovevo ringraziare quella donna per avermi vista nonostante tutta la gente. Sistemai la borsa sulla spalla, tirando fuori il biglietto aereo.

“Ho finalmente capito che non è cambiato niente da un anno fa. Tu hai scelto il lavoro piuttosto che la nostra relazione, proprio come avevo fatto io. Questa volta però i ruoli si sono invertiti.”

Rabbrividii nonostante il caldo soffocante. Sapevo che quelle parole erano solo frutto della mia mente preoccupata, ma non riuscivo a cancellarle dalla memoria. In cuor mio sapevo che stavo facendo un errore madornale ad andarmene, allora perché mi ero ostinata a fingere che fosse la cosa giusta da fare? Non mi importava di avere il lavoro che avevo sempre sognato se non potevo condividere quel successo con Edward, non mi interessava avere i soldi e una carriera invidiabile se quando tornavo a casa la sera trovavo solo un appartamento vuoto. Se avessi lasciato Edward a Los Angeles forse le cose non sarebbero andate come nel mio incubo, ma di sicuro mi sarei rimproverata per il resto dei miei giorni di non aver seguito il mio cuore ed essere rimasta con lui. Stavamo ricostruendo una storia, e non volevo né potevo commettere gli stessi errori del passato. Sapevo cosa voleva dire sentirsi lasciati in disparte a causa del lavoro, e non volevo che Edward provasse la stessa sensazione.

Avrei avuto altre occasioni di lavoro una volta tornata a casa. Non importanti né paragonabili a quelle del Chicago Tribune, probabilmente, ma sapevo che se ci fosse stato Edward al mio fianco avrei affrontato ciò che mi attendeva con maggiore serenità e gioia.

Mi alzai in piedi con nuova forza. Mi diressi verso il banco dell’imbarco, dove c’erano più sole poche persone. Una volta giunta davanti alla donna che mi aveva svegliata - per fortuna, perché non credo avrei resistito alto tempo in quell’incubo - mi schiarii la voce. Lei sorrise gentilmente.

«Non voglio imbarcarmi», dissi. «Mi può dire dove devo andare per uscire dall’aeroporto?»

La hostess parve sorpresa. Annuì leggermente. «Se aspetta un paio di minuti finiamo l’imbarco e la posso accompagnare. Mi può dare la sua carta d’imbarco? Devo annullare la sua prenotazione».

Mentre ticchettava le dita sul computer davanti a lei, cancellando il mio nome dalla lista dei passeggeri, mi informò che il biglietto purtroppo non era rimborsabile - in quanto avevo dato la disdetta solo al momento dell’imbarco, mentre per ottenere un rimborso per lo meno parziale avrei dovuto disdire almeno tre ore prima. Accettai comunque, senza sentire alcun dispiacere nei confronti di quei soldi buttati al vento.

Aspettai trepidante accanto al bancone fino a quando non chiusero le porte del gate, e l’hostess si avvicinò a me con un sorriso, chiedendomi di seguirla. Mi fece percorrere a ritroso la strada che avevo fatto per raggiungere il luogo dell’imbarco, conducendomi oltre alla dogana attraverso delle porte che solo il personale dell’aeroporto poteva superare grazie ad un apposito badge. Mi lasciò davanti all’ingresso delle partenze, e la salutai ringraziandola.

A quel punto mi guardai intorno, chiedendomi se avrei trovato ancora Edward fermo lì ad aspettarmi, ma subito capii che era impossibile. Il mio volo sarebbe dovuto partire ben tre ore prima, quindi lui era sicuramente già lontano, probabilmente lungo la costa. Avessi saputo dove cercarlo mi sarei fatta portare da un taxi da lui per fargli una sorpresa, ma non sapevo dove sarebbe potuto andare una volta rimasto solo. Mi morsi il labbro, scegliendo di andare comunque verso Santa Monica. Di sicuro Edward era in quei dintorni, e anche se morivo dalla voglia di vederlo non volevo restare ancora in quel maledetto aeroporto.

Uscii dalle porte scorrevoli, ed entrai nel primo taxi che si fermò per far scendere altra gente alle partenze. Quando il tassista mi chiese “dove di preciso a Santa Monica?”, riuscii a cavarmela con l’indirizzo dell’incrocio presso cui la Route 66 terminava, ovvero fra la Lincoln Boulevard e la Olympic Boulevard - ascoltare Edward per tutti quegli anni parlare del suo sogno di giungere alla fine della strada ne era valsa la pena-

Mentre il taxi si infilava nel traffico accesi il cellulare, che avevo spento appena giunta accanto al gate per evitare di dimenticarmene una volta salita sull’aereo, e trovai un messaggio di Rose, che mi chiedeva di farle uno squillo una volta atterrata così lei ed Alice avrebbero saputo quando iniziare a cercarmi nella sala d’arrivo dell’aeroporto. Avevo dimenticato perfino di informarla del ritardo del volo, quindi decisi di chiamarla, prima che iniziasse a prepararsi per raggiungere l’aeroporto, dove non avrebbe trovato nessuno.

«Quindi sei rimasta lì?», mi chiese dopo il mio breve riassunto - evitando la parte riguardante l’incubo -, come se non avesse capito bene.

«Sì», risposi. «Ci saranno altre occasioni di lavoro. Non serve preoccuparsi», aggiunsi, sperando che non lo facesse.

«Lo spero. Hai già chiamato Edward per farti venire a prendere?»

«No… sto andando a Santa Monica. Gli chiederò di trovarci lì. Non mi sembra il caso di farlo tornare indietro fino all’aeroporto. Di sicuro sarà già in spiaggia».

«Se lo dici te. Mi raccomando non girovagare per la città da sola. Senza cartina ti perderai in un battibaleno, e la zona della spiaggia non è esattamente la più sicura», mi ammonì.

«Rose, sto andando a Santa Monica, non in chissà quale sobborgo di Chicago all’una di notte», risi leggermente. Mi faceva piacere che Rosalie si preoccupasse per me, ma spesso aveva la tendenza ad esagerare.

«E non accettare le loro erbe come medicinali se ti fai male. Lo sai che lì ci sono i pronto soccorso che usano la marijuana, vero? Vai piuttosto fino in ospedale, ma non accettare niente da loro», continuò, come se non avessi neanche parlato.

«D’accordo, Rosalie», accondiscesi. Come se potessi mai accettare della droga come medicinale. «E comunque non è detto che mi debba per forza fare male. Mi stai forse portando sfortuna?»

«No, tesoro. Semplicemente ti conosco e so che non riesci a restare almeno una settimana senza farti male», disse semplicemente. «Adesso ti lascio. Ci penso io a informare Alice, tu vedi di trovare Edward. Chiamami quando l’hai trovato, altrimenti mi fai stare in pensiero».

«Va bene», risposi. «Grazie, Rose. A più tardi».

Chiusi la chiamata, e riposi il cellulare nuovamente nella borsa. Lasciai vagare lo sguardo fuori dal finestrino, lungo le strade assolate e afose di Los Angeles. Mi aspettavo di vedere l’oceano da un momento all’altro, e rimasi delusa quando il taxi si fermò ad un incrocio in pieno centro città. Al lato della strada scorsi il cartello bianco che segnalava la fine della Route 66, ma di Edward non c’era traccia. Pagai comunque il tassista, scendendo a quell’incrocio. Memorizzai il cartello, sperando che Edward avesse scattato la fotografia, e poi chiesi indicazioni ad alcuni passanti per raggiungere la spiaggia.

Dopo un quarto d’ora di ricerca, passata a chiedere informazioni continuamente - perché non riuscivo ad avere nessun punto di riferimento che mi consentisse di trovare la strada da sola in mezzo a quel reticolato di vie e viali - riuscii a giungere davanti ad un assolato parco oltre il quale si vedeva l’oceano. Proseguii verso il Santa Monica Pier, da cui vedevo spiccare una ruota panoramica che da quel punto sembrava ergersi sopra all’oceano.

Percorsi il ponte in pietra che si allungava sopra l’acqua, giungendo accanto al lunapark. A quel punto decisi di telefonare ad Edward. Gli avrei chiesto di raggiungermi in quel posto, così da essere sicura che ci saremmo trovati nonostante il caos di persone intorno. Se eravamo fortunati anche lui era nei paraggi, quindi mi avrebbe raggiunto in fretta.

Avviai la chiamata, e quando finalmente sentii la sua voce trattenni il fiato. «Edward?»

«Bella?», chiese, perplesso, dato che a quell’ora avrei ancora dovuto essere in volo. «È tutto a posto? Sei già arrivata a Chicago?»

«No. Io… dove ti trovi adesso?», gli domandai, inceppando nelle mie stesse parole.

«A Los Angeles», rispose, come se fosse un fatto ovvio.

«Okay, ma dove di preciso?», insistetti.

«Sulla spiaggia di Santa Monica. Mi stai forse cercando con qualche programma di visione satellitare?», aggiunse, ridendo.

«Vai subito sul molo, davanti al lunapark», dissi tutto d’un fiato, sporgendomi dalla balaustra e osservando la spiaggia poco distante. Lui era lì, da qualche parte. Non era lontano.

«Perché? Dove ti trovi?»

Mi morsi le labbra. Aveva sicuramente capito che mi trovavo lì, soprattutto perché in sottofondo poteva sentire i versi dei gabbiani in cielo, il chiacchiericcio della gente e le urla e la musica provenienti dal lunapark. Ma non volevo che avesse la certezza fino alla fine. «Tu vai e basta».

Rimasi in ascolto, mentre parlava chiedendomi cosa avessi in mente, e mi sembrava quasi di sentire il suo fiato farsi più pesante, come se stesse correndo o camminando molto velocemente.

«Non dirmi che Emmett è venuto a trovarmi fino a Los Angeles per vendicarsi del danno alla sua jeep», scherzò dopo un paio di minuti. Ormai doveva essere quasi arrivato.

Feci alcuni passi verso l’inizio del molo, cercandolo in mezzo alle gente.

Quando lo vidi sorrisi. Vedendolo vestito nello stesso modo in cui ci eravamo lasciati ricordai che erano passate solo poche ore da quando ci eravamo separati, eppure mi sentivo emozionata come se fossero passate settimane.

«Ti sembro Emmett?», gli chiesi, sentendo la mia stessa voce tremare.

Lo vidi guardarsi intorno, e quando i suoi occhi incrociarono i miei chiusi la telefonata, gettando il telefono nella borsa. Gli corsi incontro, e quando finalmente le sue braccia furono intorno alla mia vita e i miei piedi staccati da terra capii che avevo fatto la scelta giusta.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giorno! :D

AVVISO: risponderò alle recensioni e aggiornerò il diario di Bella in serata.

Ancora una volta sono stata costretta a saltare l'aggiornamento per una settimana, come avete visto. Purtroppo con l'ultimo esame dell'anno alle porte non ho potuto fare altrimenti. Fortunatamente giovedì è l'ultimissimo quindi fino alla fine della fanfic non dovrei avere ritardi di questo genere :D

Spero che nessuno si fosse allarmato troppo durante l'incubo di Bella, e che la sua scelta sia stata quella che volevate. Il problema del lavoro verrà affrontato nel prossimo capitolo.

Grazie a tutti coloro che continuano a seguire la storia nonostante i ritardi!

A presto! :***

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Capitolo 19
*** Midnight confessions ***


Route 66

Now my heartbeat is sinking, hope's shrinking,

When I try to speak no words, lip-syncing.

Hope this is not just wishful thinking.

Tell me that you care, and I'll be there in a heartbeat.

Someday I will find my way back

To where your name is written in the sand.

Simple Plan ft. Sean Paul - Summer Paradise

19. Midnight confessions

«Che cosa ci fai ancora qui? Non dovresti essere su un aereo?», furono le sue prime parole dopo lunghi minuti di silenzio. Non mi aveva ancora lasciato andare, anche se mi aveva rimesso a terra. Tenevo il viso affondato nel suo petto, ascoltando il suo respiro accelerato e in sottofondo i rumori del molo e del lunapark.

«Non voglio tornare a Chicago. Voglio restare con te», dissi semplicemente, arrossendo.

«E il colloquio? Cosa-»

Allontanai il capo dal suo petto, alzando il viso per incontrare i suoi occhi, e posai l’indice sulla sua bocca, zittendolo. «Domattina chiamerò la redazione per avvisarla. Ma per questa sera non voglio pensare al lavoro, d’accordo?»

Fece un piccolo sorriso, e lasciai cadere la mano. «Va bene», acconsentì.

Intrecciò le dita intorno alle mie. «Andiamo a fare un giro sulla spiaggia?»

 

La spiaggia di Santa Monica avvolta dai colori caldi del tramonto era uno spettacolo da mozzare il fiato. Le luci della ruota panoramica brillavano a festa, riflettendosi sull’acqua calma dell’oceano, che a ritmo rilassante si infrangeva sul bagnasciuga, dove la gente era seduta a terra ad osservare il sole che completava la sua discesa verso l’orizzonte. Alcune persone erano ancora in acqua, e molti surfisti facevano avanti e indietro accanto al molo alla ricerca dell’onda giusta da cavalcare.

Edward ed io compiemmo a ritroso il percorso del pier, scendendo in spiaggia insieme all’altra gente. Trascinare un trolley sulla sabbia non sembrava essere una cosa fuori dal comune in quel posto, ma le ruote continuavano a incepparsi nei granelli, così Edward dovette trasportarla a mano.

Il sole era sempre più basso. In quel momento desiderai con tutta me stessa avere la mia macchina fotografica a portata di mano per immortalare quel momento, ma Edward mi disse di averla lasciata nel furgoncino perché aveva pensato di fare un bagno, e non voleva lasciarla incustodita sulla spiaggia.

Ci sedemmo sulla sabbia, vicini, con i volti rivolti all’oceano e l’orizzonte. Il cielo si stava dipingendo di giallo, arancione e rosso, rispecchiando i colori nell’acqua blu.

Scostai i capelli su un lato, accaldata; non tirava un alito di vento, e l’afa era insostenibile; iniziavo ad invidiare quelle persone in acqua. Edward seguì il mio movimento con gli occhi, e sentii le sue dita scivolare sulla pelle del mio braccio, lasciato interamente scoperto dal vestito leggero.

«Facciamo il bagno?», propose d’un tratto.

Lo guardai accigliata. «Non ho il costume…»

«Beh, hai il vestito», ribatté, come se quello fosse un sostituto perfetto di un costume da bagno.

Inarcai un sopracciglio. «E tu come faresti il bagno? Con jeans e camicia?»

Lui rise. «I jeans sono più che sufficienti».

Alzai gli occhi al cielo e tornai a guardare l’oceano, pensando che il discorso sarebbe finito lì, dato che mi sembrava non fattibile la cosa. Ma Edward si alzò in piedi, e si sfilò la camicia, infilando subito dopo le mani sotto la maglietta per sfilare anche quella.

Lo guardai allarmata, e gli strinsi il polpaccio sperando di fermarlo attirando la sua attenzione. «Che stai facendo?»

«Jeans. Bagno. Ne abbiamo appena parlato, ricordi?», ghignò, sfilandosi anche la maglietta. La lasciò cadere insieme alla camicia sulla sabbia, dove era seduto poco prima.

Lo osservai dal basso, accigliata. «Vuoi davvero farti il bagno adesso? E senza costume?»

«Il momento del tramonto è il migliore. Guarda che calma c’è», disse, voltandosi a guardare l’oceano, che a differenza della spiaggia era poco affollato.

Aggrottai le sopracciglia. «Non posso lasciare la borsa e la valigia incustoditi, Edward», borbottai. «Però tu puoi andare, se vuoi», aggiunsi.

Si risedette al mio fianco, infilandosi solo la camicia e allacciandola lasciando i primi bottoni aperti. «Non ci sarebbe gusto a farsi il bagno da solo», disse solamente, piegandosi all’indietro sui gomiti.

«Dove andiamo a dormire stanotte?», gli chiesi, distogliendo lo sguardo dal tramonto.

Edward ci pensò per qualche secondo. «Uno di questi alberghi sulla spiaggia?», propose. «Anche se non mi dispiacerebbe passare la notte in tenda sulla spiaggia».

Feci una smorfia. «Potremmo ritrovarci un granchio nel sacco a pelo con la fortuna che abbiamo. E la tenda allagata per l’alta marea».

«Non mi accamperei proprio in riva all’oceano, Bella», rise Edward.

Il sole finalmente toccò la linea dell’orizzonte, dipingendo il cielo di rosso.

«Sei sicura di aver fatto la scelta giusta restando qui?», domandò dopo pochi secondi di silenzio.

«Inizio a pensare che non vedessi l’ora che me ne andassi», scherzai, anche se non ne ero più molto sicura.

Edward fece una smorfia. «Certo che no. È solo che non vorrei ti ritrovassi a rimpiangere di non aver colto l’occasione di questo colloquio una volta tornati a casa».

«Non avrò rimpianti. Ne sono sicura», dissi con assoluta certezza. Ed era la verità. Sapevo che mi sarei rimproverata per il resto dei giorni se avessi deciso di prendere quell’aereo e avessi abbandonato Edward e il nostro viaggio. Mi trovavo esattamente dove dovevo essere, ma soprattutto dove volevo.

Lui sorrise e passò un braccio sopra le mie spalle, attirandomi contro il suo fianco. Premette le labbra sulla mia tempia, e subito dopo appoggiai il capo sulla sua spalla, con gli occhi fissi sul tramonto.

 

Dopo che il sole fu tramontato e il cielo iniziò a tingersi di scuro, decidemmo di trovare un posto in cui passare la notte. Prendemmo il furgoncino, parcheggiato poco distante dal pier, e percorremmo Ocean Avenue, costeggiando la spiaggia e il parco verde punteggiato da palme altissime; ci fermammo davanti ad uno dei primi hotel che incrociammo, accettando di fermarci lì per almeno una notte e prendendo una camera con vista sull’oceano; lasciammo le nostre valigie accanto alla porta della camera e uscimmo subito dopo esserci cambiati, fermando al volo un taxi che passava davanti all’ingresso, rinunciando a prendere il furgoncino ormai posteggiato nel garage privato dell’hotel. Edward diede al tassista il nome del Fisherman’s Village, e osservai dal finestrino la spiaggia che scorreva accanto a noi. Attraversammo Venice e Marina del Rey, poi ci allontanammo dall’oceano per ritrovarci in quello che aveva l’aria di essere un porto enorme ricavato in una rientranza della costa.

Il taxi passò attraverso le sbarre che conducevano ad un parcheggio a pagamento, e poco dopo si fermò davanti ad una piccola via circondata da un lato da un complesso di edifici, e dall’altro da un piccolo ristorante italiano con alle spalle, affacciato sull’acqua, un piccolo faro bianco e blu; davanti a noi si presentò l’oceano, dipinto di una strana colorazione violacea, e sopra di esso il cielo, che partiva da un forte color rossiccia per tendere ad un viola intenso che affogava nel blu scuro - quasi nero - della notte; a segnare l’orizzonte c’era solo una sottile striscia di terra nera, punteggiata qua e là dalle luci giallastre delle case e dei locali, da cui spiccavano gli alberi delle barche ormeggiate sui moli dall’altra parte dell’insenatura. Prima che i colori cambiassero scattai una foto, contenta di aver ripreso possesso della mia macchina fotografica.

Passeggiammo lungo il porticciolo del villaggio dei pescatori, dove si trovavano negozi di souvenir e moltissimi ristoranti e tavole calde che servivano pasti unicamente a base di pesce fresco, pescato in giornata. Solo dopo aver raggiunto l’estremità settentrionale del villaggio ed essere tornati indietro decidemmo di fermarci a cenare in un locale con il patio sull’oceano, dove erano posizionati diversi tavolini accanto alle balaustre in legno. Nell’aria c’era odore di mare, pesce e frittura, e si sentivano le più diverse lingue. C’era tanta gente che girava per quel posto, soprattutto turisti come noi, e l’atmosfera era rilassata e vacanziera.

«Sarà strano tornare a casa dopo queste settimane di libertà», disse ad un certo punto Edward, dopo che avevamo parlato degli scorsi giorni, ricordando alcuni dei posti che avevamo visitato, chiedendoci anche cosa stesse facendo Jacob in quel momento e se la jeep di Emmett fosse ormai a posto e lui stesse solo aspettando che noi tornassimo indietro per restituirgli il furgoncino della Volkswagen.

«Già», dissi solamente, sperando che il discorso cadesse lì. Gli avevo detto che per quella sera non volevo parlare di lavoro, ma nemmeno tutto il resto che ci aspettava a Chicago quel giorno aveva una grande attrattiva per me. A quanto pareva non ero l’unica che non aveva molta voglia di tornare a casa.

«Hai più sentito Jessica da quando sei partita?», mi chiese poi.

Altro tasto dolente. «No. Spero solo che abbia fatto quello che le ho detto. Non ho nessuna voglia di trovare Mike in quella casa come prima cosa che rivedrò una volta tornata a Chicago», borbottai, con una smorfia.

Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma dopo un attimo di indecisione la richiuse. Inarcai un sopracciglio con fare interrogativo, e lui scosse il capo. «Niente», rispose. «Lo sai cosa penso di quel tizio».

Era vero. Lo considerava un essere viscido, approfittatore ed egoista; lui e Jessica avrebbero formato la coppia perfetta sotto questo punto di vista, se non fosse stato che sotto tutti gli altri aspetti facevano acqua da tutte le parti; lui era un donnaiolo - con poco successo, ma pur sempre un donnaiolo - e lei non si faceva mancare qualche flirt con qualche cliente del ristorante presso cui lavorava; si lasciavano e riprendevano quando gli faceva più comodo, ma Jessica era più che convinta che un giorno si sarebbero sposati. Per la mia sanità mentale, dato che dovevo sorbirmeli entrambi da due anni a quella parte - da quando la mia ex coinquilina Angela si era trasferita dal suo fidanzato -, speravo che ciò accedesse al più presto, così che se ne andassero a vivere in un appartamento tutto loro ed io avrei potuto finalmente trovare qualcun altro con cui condividere l’appartamento - possibilmente qualcuno con una considerazione delle altre persone pari quasi a quella che aveva di se stesso.

«Dopo potremmo tornare a piedi in albergo», proseguì lui dopo qualche minuto di silenzio. «Non è molto lontano».

Annuii, sorridendo e ringraziandolo mentalmente per aver cambiato discorso.

 

La spiaggia di Los Angeles di notte era pressoché tranquilla. C’erano i tipici gruppi di ragazzi che passeggiavano facendo un po’ di confusione, e ogni tanto si sentivano le sirene delle ambulanze e delle volanti della polizia provenire dalle strade, ma nel complesso non si stava male. Nemmeno il buio mi metteva particolarmente a disagio, grazie ai fari che illuminavano parte della spiaggia fino a qualche metro oltre la riva, dove l’oceano era nero come la pece. Camminavamo a pochissimi metri dall’acqua, dove la sabbia era umida e compatta, e rinunciai a togliermi le infradito solo per evitare di incappare in qualche pezzo di vetro o conchiglia rotta.

Parlammo di poche cose, godendoci per lo più il rumore dell’oceano e della città. Il vento soffiava leggero, gettandomi i capelli negli occhi, e a nulla valevano i miei tentativi di bloccarli dietro alle orecchie; alla fine rinunciai, lasciando che mi pizzicassero il viso e gli occhi fastidiosamente.

Passammo accanto ad un gruppo di ragazzi intorno ad un falò, e pensai che cose di quel genere me le sarei aspettate solo nelle serie tv e nei film, non nella realtà. Poi un paio di ragazzi si alzarono all’improvviso e afferrarono per i piedi e le braccia un loro compagno, arrivando a gettarlo a peso morto nell’acqua bassa dell’oceano. Scoppiarono a ridere, ed io ricordai quando Edward mi aveva lanciato nel lago del Red Rock State Park allo stesso modo.

Edward rimase silenzioso per alcuni istanti. «Ricordi la proposta di oggi pomeriggio?»

«Sarebbe…?», chiesi, non sapendo se volevo davvero saperlo. Quando iniziava un discorso in quel modo c’era da aspettarsi di tutto.

«Quella di fare il bagno. Hai detto che l’avremmo fatto».

«Beh, sì», ammisi, confusa. «Domattina potremmo andare in spiaggia».

Un sorrisetto furbo spuntò sulle sue labbra. «Che ne diresti di farlo adesso?»

«Adesso?», ripetei, frastornata. «Al buio?»

«Il bagno di mezzanotte non è una cosa così strana», disse lui, divertito. Non capivo se fosse serio o mi stesse solo prendendo in giro dopo aver visto la mia espressione davanti allo scherzo di quei ragazzi. «Sarebbe divertente».

Mi fermai. Eravamo ormai lontani dal gruppo di ragazzi intorno al falò, e le uniche luci erano quelle provenienti dalla passeggiata in fondo alla spiaggia, Ocean Avenue e il molo di Santa Monica. Avevamo camminato così tanto che eravamo ormai giunti quasi al nostro albergo. Non c’era nessuno in giro, a parte qualche coppia che passeggiava e qualcuno seduto sulla sabbia a fissare l’oceano illuminato dalla luce della luna e delle stelle, ma ogni tanto il fuoristrada della polizia passava a controllare, facendo avanti e indietro nel bel mezzo della spiaggia semideserta.

«Ma non abbiamo il costume», mormorai, cercando una scappatoia. «Non c’è qualche legge che vieta i bagni a quest’ora? Se ci succedesse qualcosa non ci sarebbe nessuno nei dintorni che ci vedrebbe».

Edward alzò gli occhi al cielo, ridendo. «Non ti sto proponendo di fare il bagno nudi, né di fare una traversata oceanica. Resteremmo vicini alla riva».

«E come torniamo in albergo? Non abbiamo né cambi né asciugamani. Ci sbatterebbero fuori».

Inarcò un sopracciglio. «È un hotel sulla spiaggia. Sono abituati a vedere la gente entrare bagnata fradicia e piena di sabbia».

Rimanemmo in silenzio per un minuto. Edward aspettando che mi decidessi ad accettare la sua proposta, ed io aspettando di vedere spuntare un venditore ambulante di costumi o asciugamani che mi permettesse di accettare senza remora la sua offerta.

Poi lui sospirò. Si sfilò la camicia e la arrotolò, nascondendoci dentro portafogli, cellulare e chiave della camera; la appoggiò sulla sabbia, e si sfilò anche le scarpe e le calze. «Bene, io vado», disse, impassibile. Mi voltò le spalle e fece quei pochi passi che lo portarono dritto in acqua. Sentii i suoi piedi sciaguattare contro le onde dell’oceano e sbuffai, sfilando in fretta le infradito e lasciando cadere la borsa accanto alla sua camicia. Probabilmente quando sarei uscita dall’acqua bagnata fradicia me ne sarei pentita, ma tanto valeva provare, ora che non c’era nessuno in giro.

Edward si voltò a guardarmi, con l’acqua già alle ginocchia che quasi gli bagnava le bermuda che indossava. Era facile per lui, era come se fosse praticamente in costume!

Appena misi piede nell’acqua rabbrividii. Non era fredda, ma neanche calda come me la sarei aspettata nel bel mezzo della notte.

Tese una mano verso di me, e la stretti mentre sentivo una specie di strapiombo sotto i piedi, che mi portò ad avere l’acqua alla vita. Feci un sibilo, impiegando qualche secondo ad abituarmi alla temperatura.

«Perché c’è questo gradino?», gli chiesi, mentre mi seguiva. L’acqua gli arrivava solo al cavallo dei pantaloni. Era ingiusto che io fossi così bassa.

«Colpa dell’erosione dell’oceano. È normale, non preoccuparti», ghignò, divertito dalla mia preoccupazione.

Edward lasciò la mia mano, e lo guardai mentre tranquillamente si immergeva fino al collo nell’acqua, come se non ci fosse neanche un’onda a sospingerlo avanti e indietro; io, al contrario, sentivo la corrente sbattere sulle mie gambe, e dovetti piantare per bene i piedi nella sabbia per riuscire a resistere alla spinta che mi faceva quasi cadere all’indietro. Provai a fare un passo verso di lui, e non riuscii a resistere all’onda. Caddi all’indietro, finendo per bagnarmi anche i capelli. Riemersi con un salto dall’acqua, annaspando. Edward mi strinse il polso, di nuovo in piedi davanti a me. «Tutto bene?», mi chiese, scostando all’indietro i capelli bagnati dal mio viso.

Annuii imbarazzata, e mi sistemai una bretella del vestito caduta, avvertendo subito il peso di tutto quel tessuto impregnato d’acqua; avrei avuto un bel po’ d’acqua da strizzare via una volta uscita dall’oceano. «Non credevo fosse così forte la corrente», mi giustificai, imbarazzata.

Lui mi prese per mano. «Vieni», disse solamente, e mi stupii che non si fosse messo a ridere per quella mia caduta; forse si era davvero spaventato come me; con quella corrente così forte probabilmente nemmeno lui riusciva a prendere alla leggera anche una semplice caduta.

Mi fece avanzare di appena due metri, fino a quando l’acqua mi arrivava ormai al collo. Il dislivello era notevole; non eravamo molto distanti dalla riva, eppure ero già immersa nell’acqua completamente. Le spalle di Edward erano ancora una spanna fuori dall’acqua, e cercai di opporre una lieve resistenza quando provò a spingermi a proseguire.

Mi venne accanto. «Aggrappati alle mie spalle», cercò di convincermi. «Vedrai che più avanti la corrente è meno forte».

Sebbene sapessi nuotare, feci come mi aveva detto. Mi tenni con entrambe le mani sulle sue spalle, mentre le sue mi stringevano gentilmente la vita, e fece qualche altro passo verso l’oceano, fino ad avere anche lui l’acqua fino al collo. E scoprii che aveva ragione: più lontani dalla riva la corrente e la forza d’urto delle onde era meno forte. Rimasi comunque aggrappata a lui, e provai ad allungarmi sulle punte dei piedi per cercare di toccare il fondo, senza successo.

«Sei troppo alto», borbottai con un sorriso, anche se non avevo mai trovato la sua altezza fastidiosa. Piuttosto era la mia ad irritarmi in certi momenti.

«Oppure tu sei troppo bassa», ghignò.

«Io non sono troppo bassa», ribattei orgogliosamente, anche se solo pochi secondi prima stavo maledicendo la mia altezza. «Alice è troppo bassa. Io sono di altezza media».

«Giusto», concordò stranamente Edward. «Tu sei perfetta così».

Strinsi le braccia intorno al suo collo, lasciando che i miei piedi restassero staccati da terra. Sapevo di non essere pesante grazie all’acqua, e quello mi faceva stare più tranquilla. «Edward…», iniziai, ma mi interruppi. Cosa avrei voluto dirgli? Credo di amarti ancora? Non volevo che quelle parole uscissero in quel modo così indeciso. Del resto il mio incubo di poche ore prima era stato piuttosto illuminante. Quando stavo per andarmene da casa sua sapevo cosa stavo per dirgli: stavo per rivelargli di essere ancora innamorata di lui, e che quel sentimento non era un riflesso del passato, ma ciò che provavo in quell’esatto momento. Era ciò avevo ripreso a sentire con addirittura maggiore intensità da quando avevamo intrapreso quel viaggio insieme; non era solo qualcosa legato agli eventi passati, sentivo di essermi innamorata di nuovo di lui, di questo nuovo e al tempo stesso familiare Edward, che era cambiato nel corso di questo anno in cui eravamo stati separati. Ma non avevo il coraggio di dirglielo. Ero sempre stata una totale imbranata quando si trattava di parlare di sentimenti, e lo facevo quasi sempre solo se mi trovavo messa alle strette, come aveva dimostrato Edward nel corso di quelle settimane insieme. Odiavo questo lato di me, ma non riuscivo a cambiarlo, per quanto mi sforzassi. Fra l’altro, non volevo affrettare le cose fra di noi. Solo scuse, Bella, sibilò la vocina della mia coscienza. La verità è che sei una fifona.

Edward mi guardava incuriosito, aspettando che continuassi.

«Non è che ci sono gli squali?», proruppi alla fine, nervosamente, sapendo che stava ancora aspettando che dicessi qualcosa. Fifona.

Lui fece un sorriso storto, e anche se aveva capito che non era quello ciò che volevo dirgli, non lo diede a vedere. «Non penso osino avvicinarsi così tanto alla riva», disse semplicemente. «E ricordati che anche se ti morsicassero avresti pur sempre un dottore a due passi».

Sorrisi, più rilassata ora che il discorso era tornato su toni leggeri. «Spero per te che tu non sia uno di quei medici da spiaggia che somministra marijuana ai pazienti, perché se Rose lo venisse a sapere saresti nei guai fino al collo», lo informai, ripensando divertita alla chiamata avuta quel pomeriggio con la mia amica. 

Edward storse la bocca. «Preferirei utilizzare l’alcol piuttosto che la droga», disse. «Almeno so che effetto potrei ottenere, visto come sono andati i tuoi ultimi approcci con l’alcol», aggiunse, con un’occhiata maliziosa. I ricordi offuscati della notte passata a Canoncito presero il sopravvento, ricordandomi quanto fossi stata sfacciata nei suoi confronti tentando di sedurlo e imbronciandomi quando mi aveva rifiutato; e subito dopo anche quelli della notte di perdizione a Las Vegas, a ricordarmi che eravamo quasi giunti perfino a sposarci.

Cercai di scalciare in risposta, ma Edward intercettò il mio movimento e bloccò la mia gamba fra le sue. Rise divertito, aumentando la stretta intorno a me per evitare che tentassi altri attacchi improvvisi.

«Sarei curiosa di scoprire quali effetti potrebbe avere su di te una dose massiccia di alcol», ammisi.

«Dovrei berne un’enorme quantitativo», disse, con una risatina nervosa. «E ho smesso di abusarne da qualche giorno».

Inarcai le sopracciglia. «Esserti quasi sposato da ubriaco ti ha terrorizzato così tanto da convincerti a fare un voto di astensione dall’alcol?»

Lui fece una smorfia. «Non è stato quello. Almeno, non solo», rispose, e vedendo che mi aspettavo una spiegazione soddisfacente continuò: «Quando Lizzy se n’è andata e mi sono ritirato dal lavoro ho iniziato a bere. Molto, troppo. Avevo le mani che tremavano e il più delle volte mi svegliavo senza capire come avevo fatto a tornare a casa sano e salvo. Probabilmente era così che sarebbero finite la maggior parte delle serate durante questo viaggio, se non ci fossi stata tu. Ma quello che hai detto l’altra sera - riguardo il senso di colpa - mi ha fatto capire che non serviva a niente affogare i dispiacere nell’alcol. Perciò ho deciso di smettere».

Avevo trattenuto il fiato per quasi tutto il tempo della spiegazione, e quando terminò vidi i suoi occhi scrutarmi, preoccupati, alla ricerca di chissà cosa dipinto sul mio viso. Pensava che avessi cambiato idea su di lui, su di noi, per ciò che aveva fatto di se stesso durante quei mesi di totale sconforto?

«Mi dispiace», iniziò a dire, agitato, vedendo che non dicevo nulla. «So che non…», si interruppe, alla ricerca delle parole che considerava più giuste per giustificarsi di qualcosa di cui non aveva nessuno bisogno di farlo.

Avvicinai il viso al suo, sfiorando con la punta del naso la sua. «Va tutto bene», gli assicurai, certa delle mie parole.

Poi sfiorai le mie labbra con le sue, sentendo sulla lingua il gusto acre dell’acqua salata, che piano piano venne sostituito da quello di Edward.

Restammo in acqua diversi minuti, in silenzio, senza muoverci troppo dalla nostra posizione, attenti a non allontanarci dalla riva. Quando entrambi iniziammo ad avere i polpastrelli raggrinziti decidemmo di uscire per tornare in albergo.

Edward mi tenne la vita mentre facevo lo scalino dello strapiombo, uscendo dall’acqua fino al ginocchio. L’aria mi sferzò la pelle bagnata, facendomi tremare fino alla punta dei capelli. Edward mi venne accanto e uscimmo di corsa dall’acqua.

Cercai di strizzare la gonna del vestito per sgocciolare più acqua possibile, senza molto successo. Edward invece strinse la mia borsa in una mano e la camicia con le sue cose nell’altra, facendomi segno di andare.

Presi la borsa in una mano, tenendola ben lontana da me per evitare che la bagnassi, e l’altra la strinsi intorno a quella di Edward, e mi lasciai trascinare di corsa verso l’albergo.

 

Entrammo nella hall dell’albergo come due fuggiaschi, in punta di piedi - come se servisse a qualcosa: avevamo già insabbiato e sgocciolato tutto l’ingresso, lasciando una traccia che partiva dalla spiaggia e giungeva dritta davanti alle porte scorrevoli - e cercando di trattenere le risatine divertite. Nonostante tutto era una situazione divertente. La donna dietro la reception ci lanciò occhiate omicide, e la sentii alzarsi dalla sedia scocciata, probabilmente diretta a prendere acqua e spazzolone per pulire il disastro che avevamo fatto. Salimmo sull’ascensore e appena giungemmo al nostro piano sgattaiolammo fino in camera, accendendo tutte le luci e ridendo finalmente senza controllo.

La faccia della receptionist era stata impagabile. In fondo l’idea del bagno di mezzanotte non era stata affatto malvagia.

Tentai di sdraiarmi sul letto, ma Edward mi trattenne per il braccio. «No. Sei fradicia e piena di sabbia. Non ci provare nemmeno», disse, cercando di restare serio - senza molto successo.

Alzai gli occhi al cielo e mi avvicinai a lui, stringendo entrambi i lembi della sua camicia, che non appena aveva indossato si era bagnata. «Giusto», concordai, iniziando a slacciargliela. «Immagino che quello che ci voglia ora sia una lunga e rilassante doccia», sussurrai, alzando solo alla fine gli occhi su di lui.

Le sue labbra si piegarono in un sorriso storto, e infilò le dita sotto le spalline del mio vestito, attirandomi a lui. «Posso intuire che alla fine non ti è dispiaciuto il bagno di mezzanotte», mormorò.

Sorrisi, premendo le mani sul suo petto, spingendolo ad arretrare verso la porta del bagno. «Lo apprezzerei di più se potessimo liberarci di tutta questa sabbia e di questo sale appiccicoso», commentai, guidandolo dritto fin dentro la doccia.

Edward sorrise, abbassando le spalline del vestito e del reggiseno insieme, mentre gli facevo cadere la camicia giù per le braccia. «Agli ordini», ghignò, e con una mano girò il pomello della doccia, aprendo il getto d’acqua che finì sui nostri vestiti già bagnati.

 

Quelli erano stati giorni incredibili. Per questo motivo non riuscivo proprio a pensare a come sarebbe stato tornare a casa. Edward ed io stavamo ricominciando la nostra storia a gonfie vele, e almeno quello riusciva a darmi un po’ di sollievo.

Sentivo che sarebbe andato tutto bene se le cose avessero continuato ad andare per quel verso. Forse in quel modo tornare a casa non sarebbe stato così traumatico e pauroso.

Sdraiata in quel letto, fra le braccia di Edward e con il battito del suo cuore a cullarmi, tutto sembrava perfetto, giusto. Ma nel cuore della notte, una volta che il desiderio venne placato, mentre entrambi eravamo ancora svegli, altre paure, inaspettate, presero il sopravvento, risvegliate da ciò che Edward aveva appena detto. Erano le stesse paure che mi avevano perseguitato fino all’anno prima, e che credevo di non dover nuovamente affrontare; credevo che questa volta tutto sarebbe stato diverso, che io fossi cambiata e avrei affrontato quel momento in maniera diversa, ma forse mi stavo solo illudendo che avrei avuto più tempo per prepararmici. Invece Edward l’aveva tirato fuori così, all’improvviso, nel bel mezzo della notte, mentre mi accarezzava i capelli dopo aver fatto l’amore.

Ed io non seppi cosa fare, e mentre le sue parole rimbombavano ancora nella mia mente sapevo che questa volta non avrei potuto scappare. Non avrei potuto fingere di essere addormentata - ero fra le sue braccia, aveva avvertito perfettamente che mi ero irrigidita come un pezzo di legno non appena aveva finito di parlare - né potevo cambiare discorso.

Dovevo dirgli qualcosa.

Cosa?

Non ne avevo la più pallida idea.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno! :D

Per fortuna questa settimana sono riuscita ad essere puntuale! Ora che gli esami sono finiti spero di poter continuare così fino alla fine :D

A proposito della fine, dato che molti di voi me l'hanno chiesto, sì, stiamo per arrivarci. Non so dirvi quanti capitoli esattamente manchino, perché non mi piace fare degli schemi dei capitoli futuri, ma ad occhio e croce penso che ne manchino 3-5. Appena avrò un'idea più chiava vi avviserò.

Tornando a questo capitolo so che è un po' corto, ma finisce proprio dove volevo finisse quella giornata, quindi dovrete aspettare settimana prossima per scoprire cosa ha detto Edward e come si risolverà il problema del lavoro. Qualche idea? :D

Grazie infinite a chi ha recensito lo scorso capitolo e anche a tutti i lettori silenziosi! :*****

Alla prossima! :***

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Capitolo 20
*** Faraway horizon ***


Route 66

And you are such a fool to worry like you do.

I know it's tough, and you can never get enough

Of what you don't really need now.

My, oh my.

You've got to get yourself together,

You've got stuck in a moment

And you can't get out of it.

U2 - Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of

20. Faraway horizon

Ero rimasta in silenzio, senza sapere che cosa dire, che cosa fare.

Il movimento delle sue dita sui miei capelli si fermò. «Di’ qualcosa, ti prego», esalò dopo diversi minuti di silenzio.

«Cosa?», sussurrai, con la voce che tremava.

«Ad esempio che non stai per alzarti e scappare da Los Angeles per quello che ti ho chiesto».

«Non sto scappando… sto riflettendo», mi difesi.

Edward rimase in silenzio ancora per qualche istante, poi intervenne di nuovo: «Di cos’è che hai paura? Ci sono state delle volte che sei rimasta diverse settimane da me, e mi sembrava che le cose funzionassero».

Mi morsi il labbro.

«Potresti finalmente lasciare l’appartamento e Jessica e Mike. Pensavo fossi stanca di loro», aggiunse.

Tacqui, e riflettei su ciò che comportava accettare la sua proposta, ovvero trasferirmi a casa sua non appena saremmo tornati a Chicago.

Se fossi andata a vivere da Edward non avrei più avuto il mio appartamento. Avrei dovuto lasciare quello che potevo considerare il mio porto sicuro e allora non avrei più avuto nessun nascondiglio. Cosa avrei fatto se Edward ed io avessimo litigato? Dove sarei potuta andare? E se le cose fossero precipitate e ci fossimo nuovamente lasciati? Mi sarei ritrovata senza un tetto e sicurezze. Erano le stesse paure che mi avevano bloccata e impedito di fare quel passo gli anni precedenti. Non era la prima volta che Edward mi faceva quella domanda ma fino all’anno prima avevo sempre rifiutato e lui aveva accettato di buon grado perché il mio appartamento si trovava ad appena un isolato dalla redazione del giornale presso cui lavoravo, e quando capitava che restassi a lavoro fino tardi era comodo avere la casa a due passi. E quando Edward ed io litigavamo mi rifugiavo spesso lì per rimettere in ordine le idee. Ma per il resto del tempo restavo da lui, e mi ero sempre sentita a casa, più che in quell’appartamento condiviso con Jessica.

«Non stiamo correndo un po’ troppo?», gli chiesi in un sussurro, cercando nei suoi occhi il minimo segno di indecisione.

Edward si mise a sedere, e strinsi il lenzuolo intorno al busto. «Non ha senso aspettare. Abbiamo aspettato tutti questi anni, e guarda cos’è successo. Voglio ricominciare da capo e questa volta senza saltare nessuna tappa per paura di accelerare troppo le cose».

Aspettai che continuasse.

«Potrai tenere ancora il tuo appartamento finché non ti sentirai sicura di poter restare da me anche quando le cose si mettono male», aggiunse, con un sorriso rassicurante.

Ripensai a quei giorni passati insieme, a quando in passato restavo anche settimane a casa sua senza sentire il minimo bisogno di tornare al mio appartamento. Avevo accarezzato più volte l’idea di trasferirmi definitivamente, ma non l’avevo mai fatto per paura. Ed io ero stanca di avere paura.

«Va bene», dissi alla fine, buttandomi. Negli ultimi tempi avevo preso diverse decisioni di getto, seguendo il mio istinto, e fino a quel momento non mi aveva delusa. Speravo di poter continuare a fidarmi.

Gli occhi di Edward si allargarono nella poca luce della camera. Vedevo un sorriso nascere sulle sue labbra ma che tentava di reprimere, incerto. «Davvero?»

Annuii lentamente, sorridendo per mostrargli che ero certa. Sorrise anche lui, e portò una mano sul mio viso, scostando indietro i capelli che si erano asciugati da soli e ora sembravano un cespuglio di rovi. Fermò la mano sulla mia nuca, e avvicinò il viso per baciarmi delicatamente.

Mi allontanai poco dopo. «Se per te va bene lascerei subito l’appartamento», gli dissi.

Ridacchiò. «A Jessica verrà un colpo quando lo saprà. Dovrà trovarsi una nuova coinquilina».

Feci una smorfia. «Sinceramente non mi importa di come la prenderà».

Si sdraiò nuovamente sui cuscini, e mi accoccolai al suo fianco.

«Ti pregherà di aspettare e di non andartene. Sarà difficile per lei trovare qualcun altro disposto a pagare le bollette al suo posto ogni due mesi», mormorò, con una punta di disapprovazione tutta per me. Fortunatamente non sapeva che nell’ultimo anno quel fatto era successo quasi ogni mese, e visto il suo odio già piccato per Jessica non mi sembrava il caso di informarlo.

«Quindi lo facciamo sul serio», sussurrai senza fiato diversi minuti di silenzio dopo.

«Penso che l’abbiamo già fatto», ghignò Edward, divertito. «Cinque volte, credo. Forse di più, ho perso il conto».

Gli schiaffeggiai leggermente il petto, avvampando e ridendo con lui.

«Credo di sì», disse poi lui, quando le risate si spensero. «Se ne sei sicura».

«Lo sono», risposi immediatamente.

Lo vidi sorridere ancora. Era la scelta giusta. Non l’avevo mai visto così felice, e sapere che era tutto merito della mia decisione mi fece capire che non dovevo più avere paura.

 

Los Angeles fin dalle prime luci del mattino era affollatissima. La spiaggia prese vita molto presto, e dalla finestra vedevo l’oceano tempestato di surfisti e nuotatori mattinieri.

Io ed Edward uscimmo dall’albergo con le valigie, decisi a trovare un altro posto in cui passare la notte per allontanarci da Santa Monica. Potevamo trascorrere tutto il tempo che volevamo a Los Angeles, a girare per le spiagge e a visitare le diverse mete turistiche.

Per quel giorno avevamo in programma di visitare Beverly Hills e Hollywood, e in serata ritornare verso la costa.

Attraverso il finestrino osservai il paesaggio cambiare, e le abitazioni trasformarsi da condominii e prefabbricati a villette di svariate dimensioni, dalle più minuscole alle più grandi e spaziose, circondate da siepi e cancellate con telecamere di sicurezza e auto lussuosissime parcheggiate al loro interno. I vialetti erano ombreggiati da alberi alti, palme e decorati da aiuole verde smeraldo. Procedendo verso le colline le ville si facevano sempre più ricche e isolate, e le strade strette e rampanti. Oltre i tetti e le fronde degli alberi ogni tanto riuscivo a scorgere la scritta ‘Hollywood’ a lettere cubitali che spiccava sulla collina arida. Sapevo che non si poteva arrivare ai piedi dei cartelli, ma che da qualche parte su quelle stradine ripide c’era un punto di osservazione, che avremmo cercato nel pomeriggio.

Attraversammo Beverly Hills accontentandoci di osservare i negozi dall’auto, e proseguimmo fino a giungere ad uno dei tanti parcheggi coperti sulle strade laterali della Hollywood Boulevard. Non appena misi piede fuori dall’ambiente climatizzato del furgoncino annaspai. C’era un caldo torrido, e l’afa era la cosa peggiore in assoluto. Nemmeno una volta all’aperto, in mezzo alla strada principale di Hollywood, riuscii a trovare un po’ di sollievo.

La prima cosa che notai furono le stelle che tempestavano i marciapiedi della via, che riportavano nomi e piccoli stemmi in base al settore in cui suddette persone avevano brillato nel corso della loro carriera. La gente si ammassava intorno a quelle più famose, si inginocchiava a terra e sorrideva agli obiettivi delle macchine fotografiche, come in un museo di Madame Tussauds, con la posto delle statue di cera delle mattonelle. C’erano dipendenti del posto vestiti da protagonisti di film e cartoni animati che giravano per fare le foto con i turisti, e i negozi di souvenir erano presi d’assalto. Entrammo in uno di questi ultimi, per comprare una cartina che indicava in base ai nomi delle star i punti esatti in cui trovare le stelle lungo la strada, e rimanemmo lì dentro per almeno mezz’ora, incuriositi dall’enorme varietà di oggetti che si potevano trovare. Edward sparì con la cartina verso la cassa, lasciandomi a curiosare ancora in giro, e quando lo ritrovai aveva in mano un sacchetto che conteneva due cartine e un giornale patinato.

Aggrottai le sopracciglia, chiedendogli cosa fosse, e lui rispose che si trattava di una cartina delle ville delle star sulle colline hollywoodiane e un giornale che spiegava come raggiungere i punti di osservazione della scritta e le vie con le ville dei più famosi.

Quando arrivammo davanti al Kodak Theater rimasi per qualche secondo ad osservare la sua struttura, pensando a quanto fosse strano ritrovarsi di persona davanti a qualcosa che di solito si vedeva solo per televisione e dove passavano durante le cerimonie e le prime dei film delle star internazionali. Accanto a me una giornalista stava parlando davanti ad una telecamera di un film di cui si sarebbe tenuta a breve la première, e ciò mi ricordò del mio lavoro, e per poco non mi venne un colpo. Non avevo ancora telefonato alla redazione. Mi ero completamente dimenticata del fatto che quel pomeriggio avrei dovuto trovarmi a Chicago per fare un colloquio con il redattore del Chicago Tribune, e soprattutto avevo dimenticato di non averlo ancora avvisato che non ci sarei stata.

Non avrei voluto farlo. Detestavo fare quelle cose: telefonare per disdire un appuntamento. Ma non avevo altra scelta, avrei fatto una figuraccia a non telefonare al redattore per avvisarlo che non ci saremmo incontrati quel pomeriggio, e soprattutto sarebbe stato poco professionale. Avrei telefonato già la sera precedente, ma quando avevo preso la decisione di restare a Los Angeles a Chicago era già sera, quindi era possibile che non avrei trovato nessuno in redazione. E poi il pensiero mi aveva completamente abbandonato.

«Devo telefonare alla redazione», dissi ad Edward, prima che attraversasse la strada per arrivare ai piedi del teatro, dove il pavimento era costellato dalle impronte di mani e piedi di attori famosi.

Lui annuì. «Vieni, andiamo là dietro. Qui c’è troppo rumore».

Mi condusse in una via laterale, il più lontano possibile dalla bolgia di turisti rumorosi. Trovai il numero della redazione nella lista delle chiamate ricevute, e dopo un respiro profondo premetti il tasto verde. La telefonata partì all’istante, e una professionale voce femminile rispose al primo squillo.

«Ufficio del signor Nomadi, Chicago Tribune. Posso aiutarla?»

«Sono Isabella Swan, ho un appuntamento con il signor Nomadi fissato per questo pomeriggio-»

«Certo, signorina Swan. Le passo subito il redattore», tagliò corto la donna, senza nemmeno lasciarmi il tempo per terminare la mia frase.

Sgranai gli occhi. «Veramente-», iniziai, per interromperla, ma sentii un click, poi un altro tu-tu e qualcun altro rispose al telefono qualche secondo dopo, questa volta un uomo.

Edward mi osservava con un sopracciglio inarcato.

«Buongiorno signorina Swan, sono il signor Nomadi», rispose la voce all’altro capo. «C’è qualche problema?»

«Buongiorno», risposi subito, cercando di mantenere un tono professionale. «Sì, vorrei informarla che questo pomeriggio non potrò venire al colloquio. Mi trovo a Los Angeles e non posso tornare a Chicago in settimana».

L’uomo fece uno strano verso. Sembrava un mmm pensieroso. «Capisco», disse infine. «È comunque interessata al posto che le stiamo offrendo?»

«Sì. Sì, certo», dissi, confusa. Nessuna persona sana di mente non sarebbe interessata, possibile che non lo capissero? «È solo un problema di tempistica», aggiunsi. Non volevo che pensassero snobbassi la loro offerta; se fosse ricapitata un’occasione simile - poco probabile, ma sperare non faceva male - era meglio che sapessero che ero interessata. «Se fossi stata a Chicago sarei venuta sicuramente al colloquio».

«Mi fa piacere saperlo. Purtroppo non possiamo assumerla regolarmente senza un colloquio regolamentare», disse, ed io mi preparai mentalmente ad essere scartata definitivamente. «Ma possiamo offrirle un posto come freelance finché non sarà tornata a Chicago e potrà fare il colloquio».

Rimasi in silenzio alcuni secondi, gli occhi sgranati. Edward mi guardava preoccupato. Mi fece segno per chiedermi se era tutto a posto.

«Questo significa che dovrà lavorare ad un articolo questo weekend. Cosa ne pensa?», insistette la voce all’altro capo del telefono quando non risposi.

Mi schiarii la voce. «Sarebbe fantastico», risposi, e ringraziai il fatto che la mia voce era ferma e secca.

«Perfetto», disse il signor Nomadi. «Ha detto di essere a Los Angeles, è esatto?»

«Sì», risposi, e nella foga annuii pure con il capo. Edward era perplesso. Gli sorrisi per tranquillizzarlo e gli feci segno che era tutto okay.

«Ci sarà una conferenza domani mattina dei maggiori vertici degli Stati Uniti. Forse ne avrà sentito parlare al telegiornale o sui giornali».

Annuii, snocciolando qualche dettaglio che avevo letto e sentito alla CNN per fargli capire che ero ferrata sull’argomento e non fargli avere qualche ripensamento. Alla fine sembrò compiaciuto. Mi diede l’indirizzo del Convention Center e l’orario di ingresso. Avrei trovato il mio badge alla reception e le indicazioni sull’articolo - che doveva assolutamente essere terminato e spedito in serata - nella mia casella di posta elettronica. Ringraziai il signor Nomadi, facendogli capire quanto apprezzassi il suo gesto, e alla fine chiusi la chiamata.

Edward mi guardò. «Com’è andata?»

«Ho un lavoro», gli dissi, ancora incredula.

Lui sorrise. «Perfetto. Cosa devi fare? Se ho capito bene devi scrivere un articolo per domani».

Annuii. «Devo andare ad una conferenza. Ti dispiace?», gli chiesi poi, sperando che quella mia improvvisata non rovinasse la nostra vacanza. Avevo deciso di restare a Los Angeles per lui, e aver appena ricevuto un lavoro da finire durante il viaggio mi sembrava quasi un passo indietro.

Edward scosse il capo, sorridendo. «Non dire sciocchezze. Sono contento che ti abbiano dato questa possibilità».

Iniziammo a tornare verso il Kodak Theater. «Domani non avrò molto tempo per girare Los Angeles con te», lo avvisai, delusa.

«Rimanderemo i giri a domenica, allora. Io starò un po’ in spiaggia, e quando avrai finito l’articolo andremo a festeggiare il tuo primo giorno da giornalista del Chicago Tribune».

«Non sono ancora una vera giornalista. Sono una freelance», specificai. Non lo ero mai stata prima di allora. Mi dava sia una sensazione di piena libertà - non avrei dovuto stilare un articolo a giorno, quindi potevo dedicarmi anche ad altre faccende - che di instabilità - non avrei avuto uno stipendio fisso e articoli assicurati. Però era la soluzione migliore mentre ero lontana da casa. Finché ero a Los Angeles io guadagnavo il mio posto di freelance, e il giornale si risparmiava il costo dei voli per i propri giornalisti.

«Allora festeggeremo il tuo primo giorno da freelance», disse Edward, ridendo. Sembrava di buon umore. Era sinceramente felice che avessi ottenuto un lavoro. Del resto avrei dovuto aspettarmelo, dato che mi aveva quasi caricata di peso su un aereo per andare a quel colloquio a Chicago.

Ci facemmo largo fra la folla per raggiungere le lastre di pietra incisa, su cui spiccavano le impronte delle mani e dei piedi delle star del cinema. Scattai alcune foto a quelle più famose e recenti, poi ci allontanammo. Edward aprì la cartina della via per individuare alcune delle stelle che volevamo vedere, e mentre le guardavamo entravamo e uscivamo dai negozi di souvenir. Prima di andarcene entrò nuovamente in un negozio, chiedendomi di aspettarlo fuori, e quando ne uscì aveva un nuovo sacchetto in mano. Quando gli chiesi cosa avesse preso non rispose, e si limitò a raggiungere il furgoncino.

Mi passò la cartina delle ville, e ci avventurammo per le colline. Le strade erano strette e in alcuni punti occupate da auto lussuose parcheggiate attaccate ai muretti delle case, e più salivamo più il percorso si faceva contorto. Iniziai perfino a pensare che in qualche curva il furgoncino si sarebbe incastrato, ma per fortuna Edward riuscì a scortarlo fino al punto di osservazione più famoso senza fare danni.

Parcheggiammo l’auto in salita, accanto a diverse altre e vicino ad una villa. Un grosso cancello dalle sbarre nere e appuntite riportava un cartello con il nome del punto di osservazione, e vietava severamente l’accesso con qualsiasi tipo di veicolo. Un piccolo sentiero ciottolato risaliva la cima della collina su cui ci trovavamo, fino a portarci sulla punta piana, dove il terreno era sabbioso e secco. E la scritta di Hollywood apparve lì, così vicina che sembrava di poterla toccare solo allungando la mano o facendo un salto in avanti. Un’auto della polizia faceva avanti e indietro per la collina dai cancelli fino a lì, sollevando la polvere. Dopo aver scattato diverse foto Edward mi tese il sacchetto che aveva preso nell’ultimo negozio.

Lo aprii incuriosita, e sorrisi non appena chiusi la mano intorno a ciò che c’era dentro. Lo estrassi con una risata, facendolo risplendere alla luce del sole. Era un’imitazione di una statuetta degli Oscar, con la targhetta del piedistallo che riportava in caratteri dorati “Miglior Giornalista”.

«Avrei dovuto dartela domani sera, ma almeno possiamo iniziare a festeggiare», disse Edward, prendendomi la macchina fotografica. «Una foto per i giornali», rise.

Finsi una posa da star alla cerimonia degli Oscar, mentre continuavo a osservare quella statuetta. Quando mi ridiede la macchina lo abbracciai, ringraziandolo. Non solo per il regalo in sé, ma perché sapevo che lui era dalla mia parte, ed approvava che avessi scelto di accettare quel lavoro nonostante fossimo ancora in vacanza.

Quando tornammo in auto era quasi pomeriggio, e dovevamo ancora pranzare. Seguimmo le indicazioni stradali che ci condussero dritti all’ingresso degli Universal Studios, dove lasciammo l’auto e scendemmo a girare per la strada pedonale che circondava il parco divertimenti. C’erano diversi negozi e una zona era dedicata completamente alla ristorazione. Ci fermammo in un piccolo locale vicino ad una piazza disseminata di zampilli d’acqua, che a intervalli irregolari sorprendevano con i loro schizzi la gente che passava. Ovviamente con la mia fortuna ero finita per bagnarmi.

«Potremmo andare a Disneyland», propose Edward, mentre mangiavamo.

«Siamo agli Universal Studios e tu proponi di andare a Disneyland?», gli chiesi divertita.

Lui scrollò le spalle. «Secondo me è più divertente».

«Ma se non sei mai stato in nessuno dei due», risi ancora.

«Non è vero. Quando eravamo piccoli Esme e Carlisle avevano portato me ed Emmett a Disney World», mi rivelò.

«Disney World è dieci volte più grande di Disneyland, se non sbaglio».

«È pur sempre un parco della Disney», ribatté.

Inarcai un sopracciglio. «Non ti facevo il tipo da parco divertimenti».

Scrollò le spalle. «Perché da noi non ce ne sono di questo tipo».

Riflettei per un istante. «Non sarebbe una cattiva idea», dissi infine. «Anche se Disney World sarebbe più carino secondo me».

«Disney World è dall’altra parte degli States», disse lui, sorridendo soddisfatto.

Scrollai le spalle.

«Potremmo andarci domenica per un paio di giorni», propose. «A meno che ti chiedano qualche altro articolo».

Annuii. «Per ma va bene».

Dopo pranzo riprendemmo il furgoncino e tornammo in direzione della costa.

«Potremmo andare a dormire in campeggio stanotte», proposi di mia iniziativa quando iniziammo a parlare su dove dormire.

Edward mi guardò come se mi fosse spuntato un occhio sulla fronte. «Ma se quando l’ho proposto ieri hai subito bocciato l’idea».

«Ho cambiato idea», mi difesi. «Basta che mi assicuri che non corriamo rischi di allagamento o pinzate da granchi».

Alzò gli occhi al cielo, ma fortunatamente me lo assicurò. Ci fermammo in un supermercato a prendere qualcosa per la cena in campeggio, e alla fine trovammo un campeggio lontano dalle spiagge pubbliche, dove gli alberi spuntavano dalla sabbia e arrivavano fino all’oceano. Lasciammo il furgoncino nel parcheggio sterrato, lontano dalla strada, e ci inoltrammo nel bosco poco fitto per arrivare a pochi metri dall’acqua, dove montammo la tenda e stendemmo le coperte e i sacchi a pelo. Quel giorno soffiava un vento gelido che faceva accapponare la pelle, e se non fosse stato per gli alberi che almeno riparavano in parte la tenda probabilmente avrei cambiato idea sulla sistemazione di quella notte. Presi una giacca a vento di Emmett dal baule del furgoncino, e la indossai mentre finivamo di sistemare la tenda. Quando terminammo di sistemare era quasi ora del tramonto.

Edward stese un asciugamano sulla sabbia, a un metro dall’acqua, e ci sedemmo l’uno di fianco all’altra a guardare il sole tramontare, proprio come la sera precedente.

Dopo pochi minuti, però, lo vidi rabbrividire per il vento che continuava a soffiare impetuoso.

«Apri le gambe», gli ordinai, abbassando velocemente la zip della giacca che indossavo.

Lui inarcò un sopracciglio, con il suo sorriso sghembo stampato sulle labbra. «È una proposta indecente?», ghignò.

Alzai gli occhi al cielo, sentendo le guance diventare rosse comunque. «Edward», lo rimproverai, sorridendo.

Rise, ma obbedì immediatamente, divaricando le gambe per permettermi di avvicinarmi di più a lui in ginocchio. Poi sfilai la giacca e gliela porsi.

Scosse il capo, serio. «Non serve, tienila tu».

Alzai ancora gli occhi al cielo. «Edward, mettiti questa cavolo di giacca, poi ti faccio vedere come fare».

Con un cipiglio contrariato mi obbedì. Non appena la indossò mi accoccolai con la schiena contro il suo petto, prendendo entrambi i lembi aperti della giacca e tirandoli davanti a me per coprirmi. Come avevo immaginato era talmente grande da contenere perfettamente sia me che Edward.

«Aspetta», sussurrò al mio orecchio Edward, sfilandomi i lembi dalle mani per chiudere la zip, racchiudendo entrambi dentro.

Così il freddo era solo un lontano ricordo. Il fiato caldo di Edward soffiava dolcemente sul mio collo, procurandomi alcuni brividi e riscaldandomi più di quanto facesse la giacca stessa.

«Va meglio?», sussurrai piano.

Lo sentii muoversi piano alle mie spalle, e vidi le sue mani sparire nella felpa. Le sentii poco dopo infilarsi vicino al mio corpo, e poi stringermi la vita dolcemente.

«Adesso sì», rispose, carezzevole. «Molto meglio».

Arrossii, ma non dissi niente. Mi appoggiai meglio contro di lui, rilassando il capo contro la sua spalla.

«Credo che dopo Disneyland dovremmo tornare a casa», disse Edward ad un certo punto. 

Non mi aspettavo che dicesse una cosa simile, ma questa volta non mi colse il panico che mi aspettavo. Era normale che dovessimo rientrare. E adesso sapevo che sarebbe andato tutto bene.

Annuii. «Anche perché abbiamo ancora tutto il viaggio di ritorno da fare», mormorai.

«Già. E dobbiamo restituire l’auto a Jacob o inizierà a pensare che gliel’abbiamo rubata o distrutta».

«Tornerai in ospedale quando saremo a casa?», gli chiesi.

«Penso di sì. Non posso continuare a non fare niente e piangermi addosso», disse lentamente.

Gli strinsi il braccio sotto la giacca. «Andrà tutto bene».

Scosse il capo in segno affermativo, sfregando le labbra sulla mia tempia.

In quel momento ero sicura che tutto sarebbe andato bene, e mai come allora l’orizzonte lontano mi sembrò roseo.

 

Il mattino seguente mi risvegliai a causa della sveglia del mio cellulare. Ciò mi ricordò subito i miei giorni lavorativi - che mi sembravano ormai così lontani - e soprattutto mi fece presente che quella mattina avrei dovuto raggiungere il Convention Center a nome del Chicago Tribune.

Avevo un braccio di Edward stretto sullo stomaco, e non sembrava essersi svegliato, dato che non si muoveva di un centimetro. Aprii gli occhi e mi guardai attorno, rendendomi conto di trovarmi sdraiata nel retro del furgoncino. Ricordai confusamente che verso mezzanotte avevamo raccattato qualche coperta e cuscino e ci eravamo chiusi in macchina a dormire, dato che il vento che continuava a soffiare impetuoso scuoteva la tenda e produceva dei sibili troppo fastidiosi per riuscire a chiudere occhio.

Mi girai nell’abbraccio di Edward, e cercai di svegliarlo il più delicatamente possibile. Aprì gli occhi solo dopo diversi tentativi.

Dopo esserci rinfrescati nei bagni pubblici del parcheggio smontammo la tenda in fretta e furia, gettando tutto alla rinfusa nel baule e preparandoci a tornare verso il centro di Los Angeles, dove si trovava il centro di conferenze.

Edward mi lasciò davanti all’ingresso principale, dicendomi che fra quattro ore sarebbe tornato a prendermi. Nel frattempo lui sarebbe andato in spiaggia.

Entrai nel Convention Center e ritirai il mio badge, appuntandomelo sulla camicetta. Il nome Chicago Tribune spiccava sulla plastica bianca della targhetta, ed entrai a testa alta nel salone delle conferenze, di nuovo in mezzo ai miei colleghi.

 

“Arrivo fra cinque minuti. Scusa.”

Guardai ancora una volta l’orario in cui mi era arrivato il messaggio. Erano passati già dieci minuti. Va bene, mi dissi, non fa niente. Può capitare che sia in ritardo, visto il traffico di Los Angeles.

Ne avevo approfittato per iniziare a stilare il mio articolo, e anche se non potevo dire di essere a buon punto per lo meno non ero nemmeno all’inizio. In un paio d’ore avrei dovuto finire.

Il centro si era velocemente svuotato non appena la conferenza era terminata, e le persone erano sparite a bordo di taxi o auto private. Pochi giornalisti erano rimasti a girare per le sale e l’esterno.

«Ti dispiace se mi siedo?», mi chiese a un certo punto una voce maschile gentile, che mi fece distogliere l’attenzione dai miei appunti.

Alzai il capo e incontrai due occhi scuri e un viso giovane, incorniciato da folti capelli neri. Attaccato al taschino della camicia aveva la targhetta con il suo nome - Eric Yorkie - e l’intestazione di un’importante testata giornalistica di New York.

«Prego», gli dissi, accennando al resto della panchina su cui mi trovavo.

Lui sorrise e si accomodò. Lanciò un’occhiata al mio badge. «Chicago Tribune, eh? Niente male, complimenti».

Sorrisi e lo ringraziai, ricambiando il complimento.

Pensai che la nostra conversazione sarebbe finita lì, ma al contrario riprese a parlare. «Stai aspettando l’autista?», mi chiese.

Scossi il capo. «No. Il mio ragazzo», ammisi, arrossendo. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce da quando ci eravamo rimessi assieme e farlo mi faceva sentire come se migliaia di farfalle stessero svolazzando allegramente nel mio stomaco. «Tu sei qui con un autista?»

Annuì. «Purtroppo mi sono ricordato di inviargli un messaggio per farmi venire a prendere solo quando è finita la conferenza. Spero non sia andato troppo lontano».

Non sapevo cosa dirgli.

«Viaggi spesso con il tuo ragazzo quando devi muoverti per lavoro?», continuò lui, deciso a fare conversazione.

Scossi il capo. «Di solito non viaggio per il giornale. Sono qui in vacanza, ma il redattore mi ha chiesto di fare un articolo, dato che sono ancora una freelance».

«Ah, capisco», disse.

Prima che dicesse altro - perché ero sicura che avrebbe detto qualcos’altro - il furgoncino blu della Volkswagen inchiodò davanti all’ingresso del centro conferenze, ormai quasi deserto.

Edward scese dal posto di guida e mi corse incontro, un’espressione colpevole in viso. «Scusami, c’era un traffico infernale in autostrada», disse senza fiato.

Mi alzai dalla panchina, avvicinandomi a lui. «Non fa niente», lo rassicurai, sorridendo.

Guardai alle mie spalle, dove Eric era ancora seduto sulla panchina. «Grazie per la compagnia. Spero che il tuo autista arrivi presto», gli dissi, per gentilezza.

Lui sorrise, rimanendo dov’era. «Grazie. Allora buona continuazione per la vostra vacanza».

Gli feci un cenno di saluto con la mano, mentre Edward lanciava occhiate perplesse fra me e l’altro giornalista. Lo trascinai di nuovo verso il furgoncino.

«Chi è?», mi chiese, non appena chiudemmo le portiere.

«Un giornalista di New York», risposi. «Continuava a cercare di fare conversazione».

Si accigliò, mettendo in moto. «Appena ti lascio provano subito a saltarti addosso».

Alzai gli occhi al cielo. «Esagerato. Gli ho detto subito che avevo il ragazzo ma ha continuato lo stesso, quindi voleva solo fare conversazione. Si annoiava probabilmente».

Tirai fuori il mio blocco di appunti, sperando di riuscire a concentrarmi durante il viaggio per non sprecare le ore del pomeriggio sulla spiaggia.

«Non hanno un minimo di dignità certi tizi. Ci provano pure con le donne impegnate», borbottò, ignorando completamente le mie parole.

Scossi il capo, divertita. Edward era sempre stato geloso e possessivo, ma non mi aveva mai dato fastidio questo suo atteggiamento, tranne quando esagerava e diventava intrattabile, ovviamente.

Mentre ci dirigevamo verso la costa mi dedicai al mio articolo, approfittando soprattutto della lunga coda che c’era sulla superstrada. Quando finalmente giungemmo sulla costa avevo già trascritto l’articolo sul portatile, e aspettavo solo di trovare una rete wifi non protetta per collegarmi alla rete e inviare il tutto al redattore. Ci fermammo davanti ad un hotel che aveva la linea e inviai l’e-mail.

Andammo verso sud, in direzione di Disneyland, costeggiando l’oceano. Il mio cellulare prese a squillare dopo appena un’ora che avevo mandato il messaggio di posta elettronica, e capii subito dal numero sconosciuto che doveva essere il signor Nomadi, il redattore del Chicago Tribune.

Edward accostò il furgoncino ed io risposi.

«Signorina Swan? Sono il signor Nomadi», disse. «Volevo dirle che ho ricevuto il suo articolo, e sono decisamente soddisfatto».

Sorrisi. «La ringrazio».

Mi trattenne ancora qualche minuto per chiarire la faccenda del pagamento, che sarebbe stato versato sul mio conto bancario. Alla fine mi chiese se volevo un altro articolo, riguardo un’altra conferenza che si sarebbe tenuta lunedì mattina. Gli chiesi di richiamarmi nel giro di qualche minuto, così avrei potuto pensarci.

Edward mi guardò perplesso. «Che succede?»

«Mi ha offerto un altro articolo», gli dissi, delusa. «Ma è su una conferenza che si terrà lunedì mattina».

Rimase in silenzio alcuni secondi. «Va bene».

«No, non va bene», borbottai. «Lunedì dovremmo essere a Disneyland».

«Ci andremo un’altra volta», mi assicurò.

«Ma-»

«No, niente ma», mi interruppe Edward, sorridendo rassicurante. «Lunedì andrai a quella conferenza, e nel pomeriggio inizieremo il viaggio di ritorno. Che ne dici?»

«Sei sicuro? Avremo solo più domani da passare a Los Angeles», gli ricordai, preoccupata.

Lui annuì. «Lo sapevamo che c’era la possibilità che ti chiedessero un altro articolo. Quella di Disneyland era una solo proposta per passare dell’altro tempo nei dintorni».

Quell’ultima affermazione non ero certa fosse vera, perché guardò fuori dal finestrino e contrasse la mascella. Non dissi nulla.

«D’accordo», sussurrai alla fine, affondando la schiena contro il sedile. Nomadi richiamò esattamente cinque minuti dopo, e accettai l’incarico.

Arrivammo a Long Beach in pieno pomeriggio. I lunghi moli si estendevano verso l’oceano, tempestati di pescatori e turisti. Edward ed io ne imboccammo uno, passeggiando lentamente.

Ci fermammo quasi alla fine, dove un uomo sulla quarantina stava urlando ad altri pescatori di aiutarlo a sollevare una canna da pesca che aveva probabilmente colto all’amo un pesce molto pesante o molto combattivo. Tre altri uomini lo aiutarono, mentre una donna li osservava incitandoli alle loro spalle. Un capannello di persone si era radunato insieme a noi ad osservare la scena.

Un minuto dopo riuscirono a sollevare il pesce. Era enorme. Non ne avevo mai visto uno così grosso se non al supermercato già morto stecchito; questo invece continuava a dibattersi anche quando lo lasciarono cadere in una bacinella.

Uno dei pescatori esultò e urlò a un altro di portare lì la bilancia. Pesarono il pesce, e sentii un’esclamazione da parte di tutti i pescatori che si erano radunati. Era uno dei più grandi che avessero pescato da settimane, da quanto avevo capito. La donna gettò le braccia al collo dell’uomo, congratulandosi. Poi lui si staccò, e si inginocchiò davanti a lei. Si pulì le mani sui pantaloni ed estrasse una scatoletta dalla tasca della giacca, e tutto intorno si fece silenzio.

«Come ti avevo promesso», disse, e non capivo a cosa si riferisse, se alla proposta che stava per farle o a qualcos’altro. «Vuoi sposarmi?»

Lei sorrise e annuì vigorosamente, lasciando che le infilasse l’anello al dito. Applaudii insieme al resto del pubblico, e sentii i pescatori lì vicini dire che quell’uomo aveva promesso alla donna di sposarla solo quando avrebbe pescato con la sua canna da pesca un pesce che pesasse più di venti chilogrammi.

Edward fissava la coppia con le sopracciglia inarcate, perplesso. «E io che volevo chiederti la mano davanti al castello di Disneyland», commentò semplicemente, quasi soprappensiero. «Devo trovare qualcosa di più originale».

Mi irrigidii, e sentii l’aria mancarmi dai polmoni. Lo guardai con gli occhi sgranati, ma lui aveva già ripreso a camminare lungo il molo, lasciando alle sue spalle il capannello di persone.

Gli corsi dietro, sentendo la testa girare. Stava scherzando? O no?

Gli strinsi la mano, camminando al suo fianco.

«Secondo me è un’idea originale», dissi qualche minuto dopo, con il cuore ancora in gola.

Sapevo che aveva capito quello che volevo dire, perché lo vidi sorridere in maniera particolare. E in quel momento seppi che la sua non era stata una semplice battuta, ma la verità.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salveee! :D

Credo di aver finalmente capito quanto manchi alla fine. Se tutto va come ho in mente il prossimo sarà l'ultimo capitolo, e poi ci sarà l'epilogo. Il viaggio ormai è finito, ed Edward e Bella hanno risolto quasi tutti i loro problemi.

So che è un preavviso molto limitato, ma davvero prima di finire questo capitolo non sapevo ancora quanto mancasse alla fine :/

La scena della proposta di matrimonio dopo aver pescato un pesce enorme è vera! :)

Grazie infinite a chi continua a recensire e anche ai lettori silenziosi!

A presto! :***

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Capitolo 21
*** Coming back ***


Route 66

You're on the road, but you've got no destination.

You're in the mud, in the maze of her imagination.

You love this town, even if that doesn't ring true;

You've been all over, and it's been all over you.

It's a beautiful day, don't let it get away.

It's a beautiful day.

U2 - Beautiful Day

21. Coming back

Dire arrivederci alla costa per rientrare - per chissà quanto tempo - nell’entroterra non fu semplice. Mi sarebbe mancata Los Angeles. C’eravamo stati solo pochi giorni, ma quel breve lasso di tempo mi era bastato per farmi innamorare di quella bellissima città. Era come uno Stato in miniatura: si trovava di tutto, dall’oceano alle colline, e bastava fare qualche isolato per ritrovarsi in un quartiere completamente diverso da quello precedente, sia per aspetto che tradizioni e negozi.

Edward ed io festeggiammo la nostra ultima giornata di vera e propria vacanza in riva all’oceano, restando in spiaggia dal mattino presto fino alla sera tardi, quando il sole era già tramontato e le stelle e la luna avevano preso il suo posto nel cielo. Preparammo un piccolo fuoco, e abbrustolimmo salsicce e marshmallow per cena, brindando con una bottiglia di vino rosso comprata nel negozio di alimentari più vicino. Quella notte non provammo più a dormire in tenda - grazie al cielo Edward aveva capito che con tutto il vento che soffiava sarebbe stata un’impresa impossibile -, quindi ci rintanammo in un piccolo motel poco lontano dall’oceano, e non appena si fece giorno ci mettemmo in marcia verso Chicago.

Non avremmo più ripercorso la Route 66 - tranne che per quei pochi tratti dove il suo percorso coincideva con la freeway -, ma avremmo usato la superstrada, per impiegare meno tempo. Sarebbe stato bello ripetere il nostro percorso dell’andata, ma dovevo riconoscere che sarebbe stato dispendioso e ci avrebbe portato via molte ore, quindi dovemmo abbandonare l’idea.

La superstrada era più affollata della Route 66, ma nonostante tutto era decisamente più veloce. Superammo le colline hollywoodiane, tornando ad attraversare le secche valli californiane, punteggiate di saguari, tralicci e in lontananza le masse rocciose che avevano una forma tutta loro. Tuttavia, non avevo più lo stesso entusiasmo che mi animava all’andata. Non avevo voglia di arrivare a casa in fretta, né desideravo rimandare il momento in cui saremmo rientrati in Illinois; ma mi sarebbe mancata la sensazione di piena libertà che avevamo avuto fino a quel momento. All’andata non avevamo alcuna meta precisa, solo il nome di Santa Monica impresso nella mente per ricordarci che c’era un percorso da rispettare, e che presto o tardi era lì che saremmo giunti; potevamo fare tutte le soste e le deviazioni che volevamo, rimandare l’arrivo sulla costa quanto desideravamo. Questa volta invece avevamo un obiettivo: casa. Avevamo visitato tutto ciò che volevamo vedere durante l’andata, quindi non avremmo più avuto motivo di fermarci lungo la strada, anche perché ciò avrebbe significato lasciare la superstrada per seguire le stradine che conducevano dentro i vari paesi, e ciò ci avrebbe fatto perdere tempo prezioso.

Comunque, nonostante avessimo deciso di non fermarci se non per delle brevi soste nelle aree di servizio, il nostro viaggio di ritorno iniziò con molta calma. Non c’era granché da vedere dai finestrini lungo la freeway - sempre se non si era interessati ai paesaggi deserti confinati da transenne con tanto di filo spinato e a qualche fattoria apparentemente disabitata - ma Edward prese la strada lentamente, occupando solo ed esclusivamente la corsia a destra, lasciando i finestrini abbassati e la radio accesa per tutto il tempo.

Attraversammo interamente la California e l’Arizona, arrivando a poche miglia di distanza da Albuquerque a sera inoltrata.

«Secondo te Jacob è tornato ad Amarillo? O è ancora alla riserva indiana da suo padre?», chiesi ad Edward, soprappensiero, mentre cenavamo in un piccolo ristorante di Grants, dove ci eravamo fermati per la notte. Erano passate quasi due settimane da quando avevamo lasciato Jacob ad Albuquerque dopo che gli avevamo dato un passaggio da Amarillo, e non sapevo se una volta giunti all’officina avremmo trovato lui o suo cugino Seth, che aveva preso il suo posto mentre lui era in vacanza da suo padre.

«Domattina gli telefoneremo», rispose semplicemente Edward, lasciando cadere il discorso.

E così facemmo. Lo chiamammo al numero che ci aveva dato appena ci eravamo conosciuti, e lui rispose con l’entusiasmo per cui avevo imparato a riconoscerlo. Ci disse di essere tornato ad Amarillo il giorno precedente, e che la nostra jeep era pronta per affrontare il viaggio di ritorno. Restammo al telefono per pochi minuti, il tempo necessario per metterci d’accordo per incontrarci il giorno seguente all’ora di pranzo dove ci eravamo fermati a mangiare quando ci eravamo conosciuti e lui era riuscito a terminare una bistecca da ben 72 oz. - il Big Texan Steak House.

Durante il viaggio di ritorno il tempo sembrava trascorrere in modo differente rispetto all’andata. I secondi e i minuti sembravano susseguirsi con maggiore velocità, le miglia si accorciavano senza che me ne accorgessi. I confini fra gli Stati sembravano vicinissimi l’uno all’altro, e senza che me ne rendessi conto nel giro della mattinata seguente attraversammo il resto del New Mexico e arrivammo nel bel mezzo del Texas, ad Amarillo.

Riabbracciai Jacob, e per le due ore in cui restammo in sua compagnia gli raccontammo del nostro viaggio da Albuquerque a Santa Monica, decidendo di dirgli anche di quella strana notte passata a Las Vegas, durante la quale ci eravamo quasi sposati. Jacob rise come un matto, e quando il nostro racconto terminò ci descrisse la sua riserva, parlando brevemente dei giorni passati con suo padre e quella ragazza che era venuta a prenderlo ad Albuquerque - Leah -, per la quale ammise di avere una cotta ma di non avere il coraggio di dirglielo perché era certo che lei fosse ancora innamorata del suo ex ragazzo. Purtroppo non era una bella situazione per Jake.

Quando tornammo all’officina ci aiutò a spostare i nostri bagagli da un baule all’altro, e mi sorpresi nel constatare che mentre nel furgoncino di Jacob occupavano solo un piccolo angolo in fondo all’immenso bagagliaio, il retro dell’auto di Emmett era pieno zeppo - non solo dalle nostre valigie - una mia ed un borsone di Edward - ma dalle confezioni e i sacchetti dei souvenir che - soprattutto io - avevo insistito di comprare per noi e i nostri amici e parenti. Le cose più ingombranti erano i miei barattoli di sciroppo d’acero - ancora ben confezionati, perché in viaggio avevo sfruttato solo le bustine monouso - e una tavola da surf - grande la metà di una normale, per fortuna - che Edward aveva intenzione di regalare ad Emmett, in parte come ringraziamento per avergli prestato l’auto.

Quando arrivò il momento dei saluti mi resi conto che non avremmo più rivisto Jacob. Forse non per sempre, ma di certo non era neanche sicuro che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo. Abitavamo così distanti che era quasi impossibile che ci saremmo rivisti.

«A inizio ottobre ci sarà l’Albuquerque International Balloon Fiesta. Potreste farci un salto, prendervi una piccola vacanza», ci disse, stringendo la mano di Edward e battendogli una pacca sulla spalla.

«È una buona idea», convenne Edward, ricambiando quello strano abbraccio tipico degli uomini.

«Perfetto», disse Jacob, sorridendo. Guardò entrambi, prima di avvicinarsi a me per salutarmi. «Ci sentiremo, comunque. Una telefonata ogni tanto non guasta».

Annuii, e ricambiai il suo abbraccio.

Io ed Edward salimmo a bordo della jeep di Emmett, sistemando le ultime cose prima di ripartire.

«Ricordatevi di tornare a trovarmi se mai passerete da queste parti», ci disse, appoggiato al mio finestrino completamente abbassato. «Ah, e mi piacerebbe venire al vostro matrimonio - quello vero, questa volta. Non sono mai stato a Chicago, sarebbe divertente», aggiunse, ridacchiando e allontanandosi dalla jeep.

Lo guardai stranita, con le sopracciglia inarcate e le guance rosse, mentre Edward metteva in moto l’auto, che prese vita in un secondo. Jacob ci salutò con la mano mentre ci inserivamo nel traffico di Amarillo, un sorriso divertito e al tempo stesso sornione dipinto in viso. L’avremmo rivisto un giorno, su quello non avevo dubbi. E ci saremmo sentiti ogni tanto per telefono, restando sempre in contatto. Jacob era un bravo ragazzo, una delle tante belle cose che avevamo incontrato durante quel viaggio meraviglioso, e nessuno di noi l’avrebbe mai dimenticato.

 

Ritornare a bordo della jeep di Emmett fu strano. Non ero più abituata a viaggiare in un ambiente così ristretto rispetto a quello ampio del furgoncino di Jacob, e i sedili dietro ora non erano più colmi di coperte e giubbotti del fratello di Edward, ma erano nascosti sotto una valanga di sacchetti e scatole. La tavola da surf era posizionata diagonalmente contro i sedili anteriori, in modo tale da non ostacolare la vista del lunotto ad Edward.

Essendo rimasti diverso tempo ad Amarillo quel pomeriggio, quella notte dovemmo fermarci a Tulsa, ancora nei confini dell’Oklahoma. Eravamo ancora nel bel mezzo del continente americano, e la notte risultò difficile e afosa. Avevo sempre pensato che Chicago fosse un vero inferno durante l’estate, ma dopo quel viaggio avevo compreso quanto mi sbagliassi: era sì una città afosa, ma di notte, soprattutto lungo la costa del lago Michigan, si poteva respirare un’aria più fresca e rilassante. Lì, invece, negli Stati centrali, si annaspava alla ricerca di un filo d’aria sia di giorno che di notte. Per quel motivo iniziavo a sperare che il giorno dopo riuscissimo ad arrivare a casa di Edward per passare la notte. Non sarei tornata al mio appartamento per dormire, non ne avevo assolutamente voglia.

Fortunatamente, il giorno dopo il traffico sulla freeway era quasi inesistente - e quel poco che c’era era diretto nella direzione opposta alla nostra - così riuscimmo a viaggiare senza intoppi. Le miglia che ci separavano dall’Illinois filarono lisce come l’olio, soprattutto perché non prendemmo la deviazione che ci avrebbe portati in Kansas - un altro Stato attraversato dalla Route 66, ma che per velocizzare il rientro avevamo deciso a malincuore di saltare. Il Missouri fu l’ultimo Stato che ci lasciammo alle spalle, e quando finalmente apparve il cartello che ci dava il benvenuto in Illinois iniziai a sentire la stanchezza di tutto quel viaggio prendere il sopravvento. Avevamo corso come dei pazzi da un lato all’altro degli Stati Uniti in soli tre giorni, e se ero io così stanca da reggermi a malapena in piedi non potevo neanche immaginare quanto lo fosse Edward, che aveva guidato per più di duemila miglia filate. Tuttavia, a parte i cerchi scuri sotto i suoi occhi, null’altro di lui sembrava dare l’impressione che fosse stanco. I suoi occhi vagavano vispi sulla strada, e le sue labbra erano piegate in un piccolo sorriso rilassato. Ogni tanto la sua mano cercava la mia, che lasciavo tenesse stretta alla sua sul cambio dell’auto. Non parlavamo molto, e lasciavamo che fosse la musica ad accompagnare quel silenzio rilassato in cui ci trovavamo.

A sera inoltrata, dopo cena, il paesaggio iniziò a diventare più familiare, conosciuto. Riconoscevo le insegne dell’hotel e i nomi delle cittadine a cui passavamo di fianco, e i cartelli iniziavano ad annunciare le diverse uscite della freeway che conducevano a quartieri e angoli diversi di Chicago. Edward si inserì nel traffico cittadino quando ci trovavamo già nel bel mezzo della città, a pochi isolati da dove si trovava il mio appartamento.

«Vuoi passare dall’appartamento?», mi chiese Edward, una volta fermo ad un semaforo rosso.

Annuii lentamente. «Vorrei andare a prendere qualche vestito pulito…»

«Va bene», disse, e all’incrocio tirò dritto, in direzione di quella che fino a poche settimane prima era la mia casa ma molto presto non lo sarebbe più stata.

Arrivammo in pochi minuti. Edward fermò l’auto davanti al portone che conduceva al mio appartamento, dall’altra parte della strada. Le luci del terzo piano - il mio - erano accese. Jessica doveva essere in casa. Speravo non ci fosse anche Mike, ma ne dubitavo, purtroppo.

Frugai nel vano portaoggetti davanti a me, dove appena partiti avevo ritirato le mie chiavi di casa, trovandole quasi subito. Presto non ne avrei più avuto bisogno, per fortuna.

«Vuoi che venga a darti una mano?», mi chiese Edward, spezzando il silenzio.

Annuii. «Però, parlo io con Jess, d’accordo?»

Sospirò. «Speriamo che abbia messo un po’ di sale in quella testa ossigenata», borbottò, aprendo la portiera e scendendo.

Sorrisi amaramente, imitandolo. Attraversammo la strada fianco a fianco, e dopo aver aperto il portone salimmo con l’ascensore fino al terzo piano. Il mio appartamento era il secondo sulla sinistra. La porta si aprì dopo una sola mandata alla serratura, e la prima cosa che avvertii appena misi piede dentro fu la puzza irritante di fumo di sigaretta. Non ero sorpresa: ero certa che Jessica avrebbe ripreso a fumare in casa invece che sul balcone non appena me ne sarei andata.

Non feci in tempo a fare un solo passo nel piccolo ingresso che Jessica apparve sulla porta della cucina, un’espressione sorpresa dipinta in volto. I capelli biondi erano raccolti in una coda ordinata e gli occhi erano come sempre una maschera di trucco.

«Bells!», esclamò, correndo ad abbracciarmi sulla punta dei tacchi. Non avevo mai capito la sua mania di indossare scarpe simili perfino in casa, nemmeno quando il suo ragazzo non era presente, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine.

Ricambiai brevemente la sua stretta, che si allentò subito. Il suo sguardo era puntato alle mie spalle.

«Edward!», cinguettò, sbattendo le palpebre. Si avvicinò a lui. «Che sorpresa», continuò. Il suo tono, ogni volta che si rivolgeva a lui o a qualsiasi ragazzo le interessasse, era viscido e mi faceva saltare i nervi. Calma, Bella, questa è l’ultima volta che assisterai a scene simili, mi ricordai, per mantenere i nervi saldi.

«Jessica», disse solamente Edward, a mo’ di saluto. Mi passò accanto, sfiorandomi la vita. «Inizio a prepararti una borsa, okay?», mi chiese, dirigendosi verso la mia camera.

Annuii, guardandolo mentre si chiudeva in camera mia.

Chiusi la porta dell’ingresso alle mie spalle e andai in cucina, trovandola stranamente vuota. Di Mike non c’era traccia, a meno che fosse chiuso in camera di Jess o in bagno.

«Niente Mike stasera?», le chiesi, appoggiando la borsa sul tavolo della cucina. Aprii il frigorifero, trovandolo vuoto, se non per qualche scatola di cibo take-away lì da chissà quanto tempo. Richiusi l’anta cercando di nascondere la smorfia di disgusto e fastidio. Avrei bevuto qualcosa quando sarei arrivata a casa di Edward, ormai.

«È andato a prendere le birre», disse lei, muovendosi in cucina per andare a sedersi ad una sedia del tavolo. Accavallò le gambe, e mi guardò con interesse.

«Dunque, com’è andato il viaggio?»

Sembrava davvero interessata.

«Bene… molto bene, anzi», risposi, decidendo di non aggiungere altro.

«Quando l’hai incontrato Edward? Mentre tornavi a casa? Sembra cambiato, non trovi? Erano mesi che non lo vedevo! Che sorpresa trovarselo davanti così all’improvviso! Magari potremmo andare a bere qualcosa tutti insieme appena Mike ritorna! Anzi, perché non andiamo subito? Gli lasciamo un biglietto». Aveva preso la tangenziale. Si stava già alzando quando decisi di mettere fine al suo fiume di domande e speranze vane. La conoscevo e sapevo cos’aveva in mente, ma non sarebbe riuscita nel suo intento di uscire con Edward proprio come non c’era mai riuscita.

«A dire il vero, il viaggio l’ho fatto con lui. Siamo tornati insieme. In questo momento sta prendendo alcune mie cose da portare a casa sua, e in settimana tornerò a prendere il resto. Mi trasferisco da lui», dissi tutto d’un fiato, guardandola dritta negli occhi azzurri. 

Jessica rimase a bocca aperta per alcuni secondi.

La porta d’ingresso sbatté con violenza, e Mike fece il suo ingresso in cucina, con la testa bassa mentre cercava di tenere fra le braccia mezza dozzina di bottiglie di birra.

«Te ne vai?», chiese poi lei, incredula.

Annuii.

«Chi se ne va?», intervenne Mike, appoggiando le bottiglie sul tavolo, riuscendo a tenerle tutte in piedi. Alzò il capo, vedendomi per la prima volta. «Oh. Bells», disse, sorridendo. «Ti unisci a noi stanotte?»

Strinsi le labbra.

«No», rispose al mio posto Jessica. «Isabella ha deciso di andarsene, Mike».

L’espressione di Mike divenne buia. «Te ne vai dove? Hai deciso di lasciare una volta per tutte Jess senza neanche avvisare? Bel comportamento, davvero».

«La sto avvisando ora», ribattei. «E sei pregato di non immischiarti, dato che questa non è casa tua, quindi questa non è una discussione che ti interessa».

«Mi interessa eccome», sbraitò, venendo avanti. «L’hai già lasciata per tre settimane per andartene chissà dove, fregandotene del casino in cui si trovava, e adesso le dici che te ne vai per sempre? E chi dovrebbe pagare il tuo affitto d’ora in poi?»

«Metterà degli annunci online e sui giornali, e troverà sicuramente in un attimo una nuova coinquilina. Chicago è piena di studenti in cerca di un posto dove stare», dissi, cercando di mantenere la calma.

«Non se ne parla!», ribatté, avvicinandosi ancora. «Ora mi stai bene a sentire…»

«Fai un altro passo e ti butto giù dal balcone, Newton», sibilò Edward, entrando in cucina alle sue spalle.

Mike si girò, guardandolo in cagnesco. «Fatti i cazzi tuoi, Cullen», sbottò.

«Ti consiglio di fare lo stesso».

Feci una smorfia. Questo era proprio ciò che avrei voluto evitare: uno scontro fra Edward e Mike.

«Tacete!», strillò Jessica, impettita. Appena i due ragazzi tacquero mi guardò con gli occhi azzurri pieni di panico. «Non puoi restare un altro po’? So che mi sono comportata male prima che partissi, ma possiamo parlarne e cercherò di fare meglio da adesso in poi».

Abbassai lo sguardo. Vederla così in panico in parte mi faceva sentire in colpa: la stavo abbandonando senza preavviso, nonostante sapessi che Jessica non fosse in grado di prendersi la responsabilità di un appartamento a carico interamente suo. Ma dall’altra parte ero stufa di dover essere io a prendermi cura di lei e Mike, e soprattutto odiavo che lui se ne approfittasse di noi. Doveva imparare a prendersi le sue responsabilità, e non l’avrebbe mai fatto se fossi rimasta con lei.

«Non voglio andarmene solo per colpa tua», le dissi, e quella era la verità. «Avrei dovuto andarmene già da tempo, prima ancora che tu arrivassi in questo appartamento, ma non ne ho mai avuto il coraggio. Mentre ero in viaggio ho capito che ho sbagliato, e non voglio più perdere tempo prezioso».

Mi avvicinai a lei, posando una mano sul suo braccio, cercando di rassicurarla. «Andrà tutto bene, vedrai. Nel giro di una settimana avrai una nuova coinquilina. Non sarai sola».

Jessica incrociò le braccia sotto al seno e girò sui tacchi, sparendo dalla cucina, senza dire nulla. Mi lanciò un’occhiata avvelenata, e nient’altro.

Sospirai pesantemente.

«Complimenti, Bella, proprio un comportamento da amica, il tuo», sibilò Mike.

«Taci», gli intimò Edward. «Jessica deve imparare a prendersi le sue responsabilità, non è una bambina. E tu dovresti smetterla di approfittarti di lei come una sanguisuga e cercare di fare qualcosa per aiutarla invece di attaccare Bella. Lei ha il diritto di vivere la sua vita senza avere sulla coscienza persone come voi che non fanno altro che approfittarsene».

Gli strinsi il braccio, pregandolo di fermarsi. Edward mi guardò combattuto. Avrebbe voluto dire altro, lo sentivo. Ma non volevo che lui e Mike si mettessero a litigare. Volevo solo andarmene da quella casa e quelle due persone.

«Andiamocene», gli dissi, pregandolo con gli occhi di darmi ascolto.

Edward annuì e ci chiudemmo nella mia camera, dove aveva aperto una valigia che tenevo sopra l’armadio e l’aveva riempita dei primi vestiti che aveva trovato nei cassetti. Infilai al suo interno anche l’intero contenuto dei cassetti dell’intimo e del bagno, ringraziando di avere già parecchie cose di prima necessità nella valigia ancora in macchina. Chiusi la zip del trolley ed Edward lo trascinò lungo il piccolo corridoio fino all’ingresso. Chiusi la porta della mia camera a chiave, ripromettendomi di tornare già il giorno successivo a terminare di portare via le mie cose.

Jessica si era chiusa in camera sua - da cui proveniva il rumore dello stereo a tutto volume - e neanche quando la chiamai per salutarla diede segno di voler uscire o anche solo rispondermi. Le sarebbe passata prima o poi. Forse.

Mike era seduto sul divano in cucina, e guardava con aria annoiata un quiz televisivo. In mano aveva una bottiglia di birra.

«Noi ce ne andiamo. Di’ a Jessica che domani passerò a finire di prendere le mie cose, per favore», gli dissi.

Lui non alzò neanche il viso per guardarci. Ci lasciammo così, senza salutarci. Non lo sapevo, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui ci saremmo parlati. Non avrei sentito la sua mancanza, fortunatamente.

Edward mi strinse la mano mentre chiudevo la porta dell’appartamento, e insieme ci lasciammo alle spalle quel luogo.

 

La villa di Edward era avvolta dall’oscurità. Lasciammo l’auto nel vialetto davanti al garage, scendendo e dirigendoci verso i gradini della porta d’ingresso. Nell’aria c’era profumo di notte, fiori e acqua dolce di lago. Faceva caldo, ma un’arietta fresca soffiava regolarmente, rendendo il clima perfetto.

Edward infilò le chiavi nella toppa della porta, aprendola lentamente. Il segnale dell’antifurto si attivò con il conto alla rovescia non appena dischiuse l’uscio, e lui allungò una mano verso il centralino alla sua sinistra per disinstallarlo. Tornò il silenzio.

La casa non odorava di chiuso come mi aspettavo, e tutto sembrava pulitissimo; qualcuno - Esme, sicuramente - era passato da non molto - probabilmente in giornata - a dare una ripulita dalla polvere in visione del nostro arrivo. In fondo al salone si vedeva oltre le due portafinestre il giardino, illuminato dalla luce della luna e da pochi faretti accesi, e più in là il lago.

Edward mi prese una mano, e facemmo pochi passi nell’ingresso. Mi guardai attorno. Da quel momento quella sarebbe stata la mia casa. La nostra casa.

Mi sentii attirare contro di lui, e strinsi le braccia intorno alla sua vita.

Le sue mani si chiusero sulle mie guance e avvicinò il mio viso al suo, fino a far sfiorare le punte dei nostri nasi.

Sorrisi, sentendo il suo fiato confondersi con il mio.

Il suo sussurro arrivò delicato alle mie orecchie.

«Benvenuta a casa».

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno!

Sono in super-ritardo-che-più-ritardo-non-si-può, me ne rendo conto :( ho avuto un calo di ispirazione durante il quale non riuscivo a scrivere proprio nulla, almeno fino a ieri sera. Il capitolo è molto riassuntivo, ma del resto non aveva senso raccontare nei minimi dettagli il ritorno, che sarebbe risultato noioso dato che Edward e Bella non hanno praticamente visitato nulla. Mi è sembrato giusto però dare il dovuto saluto a Jacob e risolvere la questione Jessica/Mike/appartamento, e mostrare l'arrivo a casa dei nostri viaggiatori.

L'epilogo è già pronto da settimane ormai, e lo posterò lunedì.

Ringrazio già tutti coloro che leggeranno questo capitolo e decideranno di lasciare una recensione nonostante il mio immenso ritardo!

A lunedì! :*

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Capitolo 22
*** Epilogue: Life is a Journey ***


Route 66

So I sit here divided, just talking to myself:
Was it something that I did? Was there somebody else?
When a voice from behind me, that was fighting back tears
Sat right down beside me, and whispered right in my ear:
Tonight I’m dying to tell you

That trying not to love you, only went so far,
Trying not to need you, was tearing me apart.
Now I see the silver lining, from what we’re fighting for,
And if we just keep on trying, we could be much more.
‘Cause trying not to love you,
Oh, yeah, trying not to love you
Only makes me love you more,
Only makes me love you more.

Nickelback - Trying Not To Love You

22. Epilogue: Life is a Journey

La casa di Edward era immersa nel silenzio totale. Era quella una delle cose che più amavo di quel posto. Essendo isolata, situata nella zona unicamente residenziale di Chicago, lungo il lago Michigan, nel verde, i rumori della strada erano limitati all’essenziale. Non era come stare nel mio vecchio appartamento, in pieno centro città, dove giorno e notte si sentivano le auto e le moto passare a tutta velocità e le sirene dell’ambulanza e della polizia suonare a tutte le ore. Lì era come stare in paradiso.

Avevo lasciato il mio appartamento in fretta e furia appena giunti a Chicago, per non permettermi altri ripensamenti. Avevo riempito decine di scatoloni e borsoni con le mie cose, caricandole su un furgone a noleggio, e nel giro di due giorni avevo detto addio a Jessica, Mike e quel posto, diretta verso la mia nuova vita. Jessica aveva preso male il mio trasferimento, proprio come Edward aveva previsto. Cercò di convincermi a restare, ma niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea.

Edward mi aveva aiutato con piacere, chiudendo la porta della mia vecchia casa alle mie spalle e aprendomi quella della sua villetta, che da quel momento sarebbe diventata anche mia.

Il giorno dopo ero subito andata alla redazione del Chicago Tribune per fare il colloquio, e avevo ottenuto una scrivania ed uno spazio fisso sul giornale. I miei orari erano estenuanti, ma sapevo che era solo questione di tempo e impegno prima che le cose migliorassero.

Edward era tornato all’ospedale, aveva parlato con il dottor Denali - il primario - e aveva riottenuto il posto, anche se nei primi tempi aveva dovuto essere accompagnato da un altro chirurgo durante le operazioni. Dopo una mese di prova, poté finalmente tornare ad operare individualmente, senza più supporti. Ci stavamo rimettendo in carreggiata, e questa volta nessuno di noi aveva intenzione di fare errori.

Io tornavo a casa per l’ora di cena, e preparavo da mangiare. Edward rientrava quando mettevo i piatti in tavola. Avevamo acquisito una nostra routine, e avevamo trovato il modo di far coincidere i nostri giorni liberi. Nessuno di noi lavorava più di quanto fosse richiesto e necessario, evitando così di togliere il tempo dedicato a noi. Tutto procedeva come avremmo dovuto fare anche gli anni precedenti. Perché avevamo perso tutto quel tempo? Avevamo davvero bisogno di passare attraverso tutta quella sofferenza per capire dove stavamo sbagliando?

A causa dei lavori in casa avevo preferito lasciare la maggior parte delle mie cose chiuse negli scatoloni nello sgabuzzino, in attesa che tutto tornasse tranquillo e avessi un po’ di tempo per poterli aprire e sistemare le mie ultime cose negli armadi e sugli scaffali.

Avevamo rimodernato la casa, cambiando i colori delle pareti e la sistemazione dei mobili nelle varie stanze. L’unica cosa rimasta così com’era fu il giardino, regolarmente sottoposto alle cure amorevoli di Esme, che passava di lì per sistemarlo nel caso in cui Edward o io non ce ne prendessimo cura a dovere. Era un po’ il suo piccolo regalo al figlio, e le piaceva tenerlo in ordine. Appesa ai due alberi c’era ancora l’amaca, con il tavolino e le sedie in ferro battuto, e oltre la siepe di cespugli si vedeva il lago Michigan. Adoravo quel posto, ed ero contenta che rimanesse uguale a come l’avevo sempre trovato.

Nel salotto avevamo cambiato i quadri, sostituendoli con i souvenir della Route 66. C’erano le targhe degli Stati che essa attraversava a partire dall’Illinois fino ad arrivare in California. Avevamo aggiunto anche il Nevada, a parte, per ricordare quella notte di follia a Las Vegas. Una cartina mostrava la strada in lungo e in largo, e su una parete accanto alla libreria Edward aveva fatto pitturare da Alice - che aveva una calligrafia magnifica ed era una maga con i pennelli e la tempera - una frase tratta da On the Road di Jack Kerouac:

“The only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at the same time, the ones who never yawn or say a commonplace thing, but burn, burn, burn, like fabulous yellow roman candles exploding like spiders across the stars.”

Non avevo capito il suo amore per quel libro fino a quando non l’avevo letto in un paio di giorni dopo che eravamo tornati a casa. Era un libro che esprimeva la metafora della vita come viaggio, ed era quello che avevamo intrapreso noi poco più di un mese prima. Forse se l’avessi letto prima avrei avuto meno dubbi sulle scelte da compiere mentre eravamo via.

 

Edward rientrò in casa quando stavo aprendo il terzultimo scatolone.

Mi voltai a salutarlo con un sorriso, e dopo un veloce bacio lo vidi ritirarsi in camera per cambiarsi. Quando uscì tornò da me, e le sue braccia mi strinsero la vita, premendo la mia schiena contro il suo petto. «Vuoi una mano?», mi chiese, guardando gli ultimi scatoloni.

Scossi il capo. «Ho quasi finito».

Ci dondolò per alcuni istanti. «Quando hai detto di avere le ferie?»

«Le prime due settimane di agosto», gli ricordai. Non avevo diritto a molti giorni di vacanza rispetto ai miei colleghi, in quanto avevo iniziato da nemmeno un mese. Avevo dovuto impegnarmi molto in quelle settimane per racimolare qualche giorno di ferie, ma era sempre meglio di passare l’intero mese di agosto chiusa in redazione a lavorare.

«Perché? Ti hanno concesso delle ferie?», gli chiesi, sorpresa. Era strano che gli avessero permesso di andare in vacanza quando aveva ripreso da poco a lavorare a tempo pieno.

«Tutti i dottori hanno diritto a delle ferie», mi rispose semplicemente.

Aggrottai le sopracciglia, piegando la testa per cercare di leggere la sua espressione, ma Edward aveva la guancia premuta contro il mio capo, così non riuscii a vederlo.

«Vado a prendere del gelato», disse poi di punto in bianco, sciogliendo l’abbraccio e facendo qualche passo indietro. Lo guardai perplessa. «Che gusti vuoi?»

«Menta», risposi, presa di sprovvista. «E vaniglia».

Lui annuì, dirigendosi verso la porta. «Torno presto», disse, quando era ormai all’ingresso. Mi salutò con un cenno della mano e sparì fuori di casa.

Guardai lo spazio vuoto che aveva lasciato, ancora perplessa, poi tornai ai miei scatoloni. Quando avrei finito avrei finalmente potuto dire di abitare lì, e ormai mancava poco.

 

Venni risvegliata dal movimento dell’amaca, che affondò da un lato facendomi quasi rotolare sull’altro fianco. Mugugnai infastidita, e scostai dal viso il libro che mi era finito addosso quando mi ero addormentata mentre leggevo. Stropicciai gli occhi, e quando li aprii trovai Edward seduto al mio fianco.

«Dove sei stato?», gli chiesi, con la voce ancora impastata dal sonno. Mi drizzai a sedere come potevo, lasciando cadere il libro nell’erba.

Edward sorrise. «Scusa, ci ho messo un po’ più del previsto».

Aggrottai le sopracciglia. Avevo finito di svuotare gli scatoloni e alla fine ero andata a stendermi sull’amaca in giardino a leggere, in attesa che tornasse a casa con il gelato, finendo per addormentarmi. Era stato via quasi due ore, se non di più. Avevo perso la cognizione del tempo.

«Tutta Chicago ha preso d’assalto la gelateria?», gli chiesi, perplessa.

«Non la gelateria. Ma sì», rispose, enigmatico. Sollevò una mano, e solo allora mi accorsi della busta bianca che teneva. Me la porse, e mi sembrò preoccupato.

«Cos’è?»

«Aprila», disse.

Lo feci, e al suo interno trovai un foglio piegato in tre. Lo aprii, e sul mio grembo scivolarono due tessere plastificate. Ne presi una, e la osservai senza sapere cosa dire.

Guardai Edward, che mi osservava preoccupato.

«Li hai fatti adesso?», gli chiesi, a bocca aperta.

Annuì. «Ho preso solo i biglietti d’ingresso. Mancano ancora l’hotel e i voli, ma pensavo che sarebbe stato meglio sceglierli insieme», disse. «Sempre se ci vuoi andare», aggiunse, ancora preoccupato.

«Certo che ci voglio andare», esclamai, sentendo gli occhi diventare lucidi per la commozione. Mi gettai in avanti, stringendo le braccia intorno al suo collo e rischiando di farci finire entrambi a terra quando l’amaca ondeggiò pericolosamente. Edward ci tenne in equilibrio puntando i piedi a terra.

Tenevo ancora fra le mani le tessere plastificate e il foglio di carta. La busta era finita a terra. La tessera celeste spuntava dal mio palmo e il disegno del castello spiccava sopra le parole “Disney World”. Erano gli ingressi per Orlando, in Florida, e comprendevano tutti i parchi della Disney, da Disneyland a Epcot ed Animal Kingdom. Era il parco di cui Edward ed io avevamo parlato quando stavamo pensando di andare a Disneyland a Los Angeles, il parco in cui aveva promesso che un giorno saremmo andati.

«Grazie», mormorai contro il suo collo, stringendolo.

Lui sorrise, e mi accarezzò i capelli. «Avevo paura che non avresti voluto andarci», ammise.

Mi staccai il tanto che bastava per guardarlo negli occhi. «Scherzi? È il regalo più bello che potessi farmi. Ora potremo in un certo senso finire il nostro viaggio di giugno».

«Dalla parte opposta a dove si trova la fine della Route 66?», ghignò, divertito.

«Lo sai cosa intendo», risposi, sorridendo.

Edward salì sull’amaca con le gambe e mi sistemai davanti a lui, tenendo le mani sulle sue spalle.

«Come hai fatto ad ottenere le ferie?», gli chiesi, appoggiandomi al suo petto.

«Avevo ancora tutte le ferie arretrate dagli anni precedenti. A quanto pare quelle settimane in giro per l’America non le hanno consumate tutte», rispose.

Sorrisi. «Per fortuna. Anche se ne sarebbe valsa la pena».

«Per la Route 66 questo e altro», disse Edward, con un sorriso, stringendomi.

La Route 66 avrebbe sempre significato molto per noi. Ogni volta che avremmo attraversato Jackson Drive avremmo sorriso, pensando a ciò che quella strada aveva dato inizio: non solo alla Strada Madre, la più famosa degli Stati Uniti e forse del mondo intero, ma aveva segnato la rinascita della nostra storia.

Guardando quei biglietti per Disney World sapevo che per noi stava per iniziare un nuovo viaggio, ma sapevo anche che quello più importante non si era ancora concluso. E il fatto che sapessi cosa mi attendeva ai piedi del castello delle fiabe non faceva altro che aumentare la mia emozione. No, il nostro viaggio non si sarebbe concluso con un altro viaggio, ma sarebbe durato ancora a lungo. E sapevo che quello che sarebbe successo ad Orlando avrebbe cambiato le nostre vite, e sarebbe solo stato l’inizio di un altro viaggio nel viaggio della vita.

The End

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

[Traduzione della frase di Kerouac : “Le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle.” ]


'Giorno! :D

Dunque... siamo arrivati alla fine. Ho deciso di lasciare un finale un po' aperto ma di dare comunque una risposta generale alle domande che potevano esserci in sospeso. Se avete dei dubbi chiedete pure, e vi risponderò :)

La canzone di questo epilogo è la stessa del capitolo 13 (Think about it, then do it), e l'ho sempre considerata un po' la colonna sonora di questa storia, quindi ho deciso di inserirla di nuovo.

Giungere alla fine di una storia è sempre un bel traguardo (soprattutto visto che ne ho ancora due da completare... shame on me) ma di questa ne sono particolarmente soddisfatta, sia perché era un esperimento (per me più che riuscito, fortunatamente :D) e perché ho finalmente potuto condividere con qualcuno ciò che ho visto durante i miei viaggi :D

 

Grazie a MARIKA, senza la quale questa storia sarebbe ancora ferma al primo capitolo e non sarebbe mai stata pubblicata su EFP. Grazie per i mille consigli :*****


E grazie a tutti voi che avete seguito questa storia. In particolare a chi ha sempre lasciato una recensione ad ogni capitolo facendomi sapere che continuavano ad esserci, ma anche a tutti i recensori occasionali e i tanti lettori silenziosi. Grazie davvero :**


Bene, credo di aver detto tutto! Non mi resta che augurarvi buone vacanze (o buona continuazione se lo siete già) o buon lavoro (se siete già rientrati a casa)! Alla prossima! :*

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